La vita ai tempi di Boko Haram

La vita ai tempi di Boko Haram

La Nigeria affronta nuove elezioni stretta nella morsa tra la follia degli jihadisti e le violenze tra opposte fazioni politiche. I rifugiati in Italia raccontano cosa significa convivere con il fanatismo di un'organizzazione che ha conquistato larghe fette degli stati del nord del paese. "Soffrono sia i cristiani sia i musulmani", spiega il sacerdote Peter Akinkunmi, studioso dell'islam: "Le responsabilità maggiori ricadono sui valori ereditati dal colonialismo britannico che qui la gente identifica con l'immoralità e la corruzione dilagante"

Alle urne tra violenza e corruzione
"E' una guerra ideologica, non religiosa"
Una ascesa tra protezioni, amicizie e segreti
I rifugiati: "Se sbagli accento sei morto"
La città liberata che aspetta i soldati
Diecimila vittime in 13 anni di terrore

Alle urne tra violenza e corruzione
di VINCENZO NIGRO
Dove non c'è lo Stato, dove i popoli non riescono a dare una forma alle loro organizzazioni, lì c'è il terrore, lì c'è la sfida dell'Islamic State. In Nigeria dal 2009 la setta islamica di Boko Haram ha iniziato a spingere, ad allargarsi, a uccidere e conquistare. Adesso la setta guidata da Abubakr Shekau si è associata allo Stato Islamico, ma il suo successo sanguinario ha un solo vero motivo, ed è anche per questo che ha scelto di collegarsi all'Isis del califfo Al Baghdadi. Boko Haram vince dove lo Stato è debole, e in Nigeria ormai da anni la corruzione, il settarismo, l'inefficienza hanno creato le condizioni ideali per la vittoria del terrorismo.

Il 28 marzo, dopo settimane di rinvii e di cruenta campagna elettorale, la Nigeria va al voto. E' il gigante d'Africa, 177 milioni di anime, una volta era lo stato petrolifero più promettente del continente: adesso la sfida di Boko Haram e il malgoverno dei suoi capi l'hanno destabilizzata anche sul piano economico, oltre a farne una nazione di scontri, attentati e rifugiati.

Dal 2009, quando l'insorgenza di Boko Haram è diventata progressivamente più aggressiva, i morti sono stati oltre 10.000. Ce ne saranno altri in questi giorni, perché di sicuro gli islamisti vorranno approfittare del momento delle elezioni, ma anche perché gli scontri fra partiti politici ed etnie nigeriane inonderanno di fuoco il paese. Sabato 28 si vota per il nuovo presidente e per il parlamento, poi l'11 aprile si tornerà alle urne per i governatori dei 36 stati e per i parlamenti locali, uomini che hanno notevoli poteri in uno stato che ha struttura federale. I candidati alla presidenza sono 14, ma i favoriti sono due: il presidente uscente Goodluck Jonathan, un cristiano del Sud del paese e l'ex generale golpista Muhammadu Buhari, un islamico delle regioni settentrionali, un uomo che aveva già guidato uno dei governi militari negli Anni Ottanta e che oggi pilota l'opposizione al partito di Goodluck.

Quando il capo della Commissione elettorale Jega decise di rinviare il voto che era già stato fissato per il 14 febbraio, l'opposizione insorse, accusando il governo di aver voluto soltanto guadagnare tempo per continuare a comprare il consenso di capitribù e politici locali. Ma il governo di Jonathan ha adoperato queste settimane per provare a scrollarsi di dosso l'accusa più pesante: quella di essere stato incapace di fermare l'offensiva terroristica e militare di Boko Haram degli ultimi mesi.

Nata a Maiduguri, la capitale dello stato settentrionale del Borno, l'organizazzione fu fondata da un predicatore, Mohamed Yusuf, che dal 2002 mise in piedi una moschea e una madrassa per allevare giovani combattenti da lanciare in nome dell'Islam contro le autorità federali nigeriane. Nel 2009 i primi scontri massicci fra polizia e Boko Haram provocarono un intervento dell'esercito che fece 700 morti. Yusuf fu catturato e giustiziato sommariamente. Da quel momento il gruppo è entrato in clandestinità, incattivendosi, e si è dato un nuovo capo che oggi è difficile non classificare come il peggior paranoico fra i leader jihadisti, dedito ad ogni forma di violenza sistematica: Abubakr Shekau.

L'obiettivo iniziale di Boko Haram era quello di consolidare la legge islamica, la sharia, nel Nord della Nigeria. Shekau, come il califfo dell'Is, ha una visione più globale, imporre l'Islam in tutto lo stato nigeriano, ricorrendo e utilizzando la violenza per sterminare gli infedeli, ovvero tutti (cristiani e musulmani) quelli che non seguono il suo insegnamento. Da allora migliaia di morti, in attacchi a chiese, scuole, mercati, con bombardamenti di ogni tipo, arrivando ad adoperare come kamikaze ragazzine di 16, 15 e anche 10 anni.

A metà aprile del 2014 il rapimento delle 200 ragazze del liceo di Chibok, nell'Est dello stato del Borno. Quando anche Michelle, la moglie di Barack Obama, si fece ritrarre con un cartello della campagna "bring back our girls", Boko Haram non poté che festeggiare: la sua violenza paranoica e brutale lo aveva portato a un livello di notorietà stellare.

Da febbraio l'esercito della Nigeria con il sostegno del Ciad e del Niger ha lanciato alcune offensive per riconquistare terreno a Boko Haram. Per ora ci sono riusciti, ma è certo che in questi giorni di frenesia elettorale da qualche parte, perfino nella capitale Abuja, i kamikaze torneranno a colpire pesantemente.

La Nigeria fra l'altro ha sempre vissuto la sua vita pubblica con un livello di violenza inaudito. Tutti si aspettano che fra gli uomini di Goodluck Jonathan e quelli dell'ex generale Muhammadu Buhari scoppieranno violenze di ogni tipo. I capi della polizia hanno chiuso le frontiere terrestri e marittime, la polizia è stata mobilitata ovunque, e se non sarà Boko Haram saranno le milizie dei candidati locali a infiammare il paese. Chi perderà accuserà l'avversario di brogli, di sicuro il governo ha rimesso in movimento la sua macchina di corruzione e acquisto di voti. Il governo è stato messo in difficoltà anche dal crollo del prezzo del petrolio. Oltre al petrolio, il paese è ricchissimo di mille risorse, ma l'oro nero è diventato quasi la monocoltura di un gigante malato. Jonathan ha fatto investimenti per rilanciare l'agricoltura, ma l'obiettivo dei rapaci funzionari che infestano lo stato nigeriano è quello di arricchirsi, non di aiutare gli agricoltori a rendersi autosufficienti. Il voto in Nigeria sarà un inferno di violenza. La democrazia ha un prezzo, ma in Africa tutto costa molto di più: in Nigeria il prezzo del voto potrebbe essere davvero assai pesante.

“In Nigeria è in corso una guerra ideologica, non religiosa”


Una ascesa tra protezioni, amicizie e segreti di NICOLA GRIGION
ROMA - Le guerre non sono tutte uguali, ma hanno sempre una cosa in comune: insieme a migliaia di vittime mortificano anche la verità. È così anche nel conflitto di Boko Haram. Dall'inizio dell'anno il gruppo ha già insanguinato la Nigeria con 2.500 vittime e chi si imbatte nella sua storia deve fare i conti con informazioni opache, smentite spiazzanti ed ipotesi mai confermate. L'incubo jihadista porta sempre con sé la ricerca morbosa di retroscena e una certa dose di enfasi nel raccontarli. Sugli eventi di questo decennio si sono così allungate molte ombre che hanno finito per confondere la realtà con la leggenda. Una cosa però è certa: i crimini di Boko Haram, così come gli accesi dibattiti sull'Islam, non bastano da soli a spiegarne l'ascesa.

Uno degli eventi più controversi di questo decennio è la morte del leader storico del gruppo, Mohammed Yusuf, che ha segnato indelebilmente la storia di Boko Haram e di tutta la Nigeria. Il 30 luglio 2009 la polizia dichiarò di averlo ucciso in uno scontro a fuoco nella città di Maiduguri, ma fu subito smentita da un ufficiale dell'esercito. Poche ore dopo, mentre si trovava nelle stanze del commissariato, Yusuf fu giustiziato dagli agenti che lo avevano in custodia ed insieme a lui se ne andarono anche le informazioni preziose che poteva fornire. La vicenda, oltre a profonde lacerazioni, ha lasciato in eredità anche molte congetture.

Verità imbarazzanti. Se Yusuf fu freddato per un eccesso di trionfalismo o per le verità imbarazzanti che poteva rivelare, poco importa. Ciò che conta, come ci racconta Ryan Cummings, capo analista della Tony Blair Faith Foundation, è che "l'esecuzione extragiudiziale del leader storico del gruppo ha avuto l'effetto di scatenare un senso di rivalsa contro il governo, che, insieme agli abusi dell'esercito, è la ragione principale dello sviluppo e della crescita di Boko Haram". A volte la realtà è molto più scomoda di quanto non lo siano i misteri che pretendono di celarla.

Lo sa bene Ahmed Salkida, l'unico giornalista ad aver mai intervistato i vertici di Boko Haram. A settembre, quando il governo ha annunciato per la terza volta la morte del successore di Yusuf, l'ombroso Abubakar Shakeau che minaccia il mondo con i suoi video, è stato un suo tweet a smentire la notizia. Lo stesso è successo a novembre con l'identità di un impostore che negoziava con l'esercito la liberazione delle 276 ragazze rapite dai miliziani a Chibok nell'aprile 2014. La sua, è la storia di un ragazzo cresciuto nelle strade di Maiduguri dove ha visto gli amici d'infanzia sposare l'islamismo radicale e unirsi agli jihadisti.

Gli articoli di Salkida raccontavano le atrocità dell'esercito e la corruzione delle istituzioni locali, per questo sono diventati anche il suo capo di imputazione. Nel 2009, quando è iniziata l'insurrezione, era diventato una presenza ingombrante e le sue informazioni, anziché preziose, cominciavano a risultare scomode. Accusato di essere un membro di Boko Haram e di umanizzare il volto dei miliziani, è stato arrestato, picchiato e poi liberato. Nel 2013 ha lasciato la Nigeria per rifugiarsi a Dubai da dove, attraverso i socialnetwork, continua a punzecchiare il governo di Goodluck Jonathan. Oggi non rilascia interviste: quanto la Nigeria abbia paura della verità, Salkida, lo ha vissuto sulla sua pelle.

Le accuse Usa. I veri misteri nella storia di Boko Haram riguardano invece gli intrecci del gruppo con gli apparati dello stato. Le ultime accuse sono arrivate dagli Stati Uniti a fine febbraio. Due ufficiali americani hanno infatti denunciato un'azione di sabotaggio da parte degli alti ranghi dell'esercito guidato dal Capo di Stato Maggiore Ibrahim Babangida. Secondo gli statunitensi, i suoi uomini avrebbero rivelato a Boko Haram i particolari del piano preparato da Washington per liberare le 276 ragazze, poco dopo il rapimento di Chibok.

La missione, di cui era stato informato solo il comando di Abuja, prevedeva l'uso di gas soporiferi contro gli jihadisti, ma quando gli elicotteri delle forze speciali Usa hanno sorvolato il luogo di prigionia, individuato nella foresta di Sambisa, hanno trovato ad attenderli i miliziani con il volto coperto da maschere anti-gas. Così il blitz è fallito. Finora il presidente Jonathan Goodluck non ha smentito, alimentando lo spettro delle infiltrazioni.

Se c'è invece un'innegabile verità che questa coltre di fumo non può coprire, sono i pesanti abusi commessi dalle truppe governative contro la popolazione civile. Un video diffuso da Amnesty International riprende i militari mentre decapitano un gruppo di sospetti Boko Haram con le stesse modalità usate dagli jihadisti. Per questo la popolazione teme le incursioni dei miliziani tanto quanto quelle dell'esercito, responsabile di esecuzioni sommarie, torture e violenze sui civili, che sono diventati linfa vitale per la crescita della setta.

La religione come strumento sociale. Queste sono solo alcune delle controverse vicende che, insieme all'ascesa di Boko Haram, hanno segnato anche la storia della Nigeria, attraversata dalle stesse miserie umane di sempre. Tra la gente più povera del Pianeta e le istituzioni più corrotte del West Africa, dove la popolazione ha conosciuto lo Stato solo per i suoi abusi, "Boko Haram ha offerto ai giovani la possibilità di usare la religione come strumento di trasformazione sociale e politica, lavorando sulle crepe di una società che hanno radici molto profonde", ci ricorda Kyari Mohammed, membro del Nigeria Security Network e direttore del Centro Studi per la Pace e la Sicurezza della Modibbo Adama University di Yola, una delle zone controllate dagli jihadisti.
 
Sabato 28 marzo il paese affronterà le elezioni per eleggere il nuovo presidente. Qualsiasi sia il risultato delle urne, il nuovo governo dovrà fare i conti con la realtà di questa guerra e i tanti promemoria che ne ricordano i fallimenti. Dopo cent'anni, l'eredità del dominio coloniale ed i suoi errori sembrano tornati a chiedere il conto.

I sopravvissuti a Boko Haram: "Se non sai il Corano sei morto"


I rifugiati: "Se sbagli accento sei morto" di NICOLA GRIGION
"La Commissione decide di non riconoscere la protezione". Nonostante tutto il mondo guardi con timore Boko Haram, si conclude così la maggior parte delle decisioni sulle domande d'asilo presentate in Italia dai cittadini nigeriani. Solo lo scorso anno sono state più di 10.000. Dal 2008 ad oggi ne sono arrivate in tutto 35.000 e quella nigeriana è sempre stata tra le prime tre nazionalità per numero di richiedenti. Eppure, tra i dati di chi ha ottenuto una qualsiasi forma di protezione, i cittadini della Nigeria scompaiono, come se anche tra le statistiche fossero destinati alla clandestinità.

Non è andata diversamente a Peter, un uomo di 35 anni dall'aria pacata che incontriamo insieme al suo legale, l'avvocato Giovanna Vascellari. È  un cristiano originario del Kano State, nell'estremo Nord del paese. In Nigeria faceva il tipografo e, per lavoro, si muoveva in tutta l'area settentrionale, dove Boko Haram si mischia alla gente e controlla tutto e tutti. Conosce la lingua hausa e le sue due sorelle, convertite all'Islam, gli hanno insegnato molto del Corano. Grazie a loro, durante un viaggio di lavoro nel Kaduna State, è scampato ad un'esecuzione. "Ti fermano per strada - dice - vogliono sentire come parli, devi recitare parti del Corano, vogliono capire se le tue parole tradiscono la fede cristiana e, se lo fanno, ti uccidono". Anche per questo, dopo la morte del cugino, fatto a pezzi durante un attacco dei miliziani in un villaggio del Katsina State, al confine con il Niger, ha capito che la Nigeria non era più il suo posto.

Tra le mani stringe una borsa in cui protegge i documenti di una vita. Pochi giorni fa è andato a ritirare il suo permesso di soggiorno, ma quel pezzo di plastica gli è costato un'attesa lunga tre anni. Ironia della sorte, anche in Italia hanno esaminato attentamente le sue parole per decidere il suo destino. Nel 2012, la Commissione gli ha negato la protezione internazionale perché dimostrava una conoscenza del cristianesimo limitata agli aspetti rituali. Così si è dovuto rivolgere ad un Tribunale per ottenere giustizia. Ma non è l'unico.

Le decisioni delle commissioni. Anche se i dati forniti dal Viminale non permettono un confronto preciso, dai documenti emerge la dimensione di questa curiosa "discriminazione". Delle oltre 24.000 domande d'asilo presentate da cittadini nigeriani ed esaminate tra il 2008 ed il 2013, quelle che si sono concluse con il riconoscimento di una forma di protezione sono meno di 9.000 e superano il 30% solo grazie ai 4.000 permessi di soggiorno umanitari concessi "d'ufficio" dal Ministero dell'Interno nel novembre 2012. Le ragioni dei rigetti sono principalmente due: l'incapacità dei ricorrenti di fornire prove credibili e la possibilità di spostarsi in altre zone più sicure all'interno della Nigeria. Entrambe, però, faticano a reggere di fronte ai rapporti stilati da decine di organizzazioni internazionali che, oltre alla violenza indiscriminata di Boko Haram, documentano gli abusi contro le donne, la pena di morte inflitta alle coppie dello stesso sesso, le torture e le atrocità commesse dall'esercito, che si estendono a tutto il paese, considerato tra i  più pericolosi al mondo. Così, spesso, i giudici cancellano le decisioni delle Commissioni. Non tutti però possono permettersi un ricorso e la situazione dei richiedenti asilo nigeriani, anche di fronte alla giustizia, rimane un problema.

È forse perché ormai conosce le impervie della nostra burocrazia che Chinedu, 27 anni, anche lui di Kano, non ostenta la stessa tranquillità di Peter. È arrivato in Italia seguendo la rotta balcanica, nascosto in un container carico di sementi. E' qui da un anno, ma ancora non ha potuto raccontare la sua storia alla Commissione. Ha la pelle dura come la corteccia di un albero e due occhi che ti sfidano ma, quando parla della Nigeria, la voce lo tradisce. Alle spalle si è lasciato il ricordo di un pomeriggio in cui, con una scusa, si è allontanato dal negozio della madre, nella stazione di Sabon Gari, il quartiere cristiano di Kano. Poi, mentre giocava a calcio con gli amici, ha visto una colonna di fumo alzarsi sopra la sua testa: 60 morti. Era il 18 marzo 2013 e da quel giorno non ha più visto sua madre. Oltre a lei, i miliziani gli hanno portato via una lunga lista di amici. Due in particolare li ricorda mentre, dopo l'ennesimo attentato, correvano tra la folla senza una direzione precisa. Senza saperlo si stavano dirigendo verso gli jihadisti camuffati da soldati: fu una strage. Poi, dopo le incursioni dei miliziani, iniziarono altri problemi, perché l'esercito imponeva il coprifuoco. "Ho visto un signore che trasportava della merce cercare di aggirare un blocco per non perdere i suoi soldi. È stato freddato dai militari con una raffica di colpi" - racconta Chinedu.

Quando gli chiediamo chi sono quelli di Boko Haram è lapidario: "Sono dappertutto. Vivi in mezzo a loro ma non puoi sapere chi sono". Per questo adesso la sua preoccupazione è tutta per l'audizione in Commissione. Con un diniego rischierebbe il rimpatrio. Chi lo proteggerebbe da Boko Haram?

La città liberata che aspetta i soldati
(d. m.) Ci sono voluti i soldati del Ciad e del Niger per liberare la città di Damasak, il feudo incontrastato di Boko Haram nel profondo nord est della Nigeria. Trasformata nella capitale del nuovo Califfato degli jihadisti, questa città fiorente di 200 mila abitanti è rimasta per mesi in balia dei terroristi di Abubakar Sheka, adesso appare desolata e piena di macerie. La maggior parte della gente era fuggita ma chi non aveva i mezzi e i soldi per farlo ha dovuto sottostare alla dura legge della sharia e all'arroganza dei miliziani. L'esercito nigeriano è scomparso da tempo e nonostante gli impegni del presidente Goodluck Jonathan a ripristinare la legalità e a difendere le popolazioni cristiane dello Stato, è stato grazie all'intervento dei due paesi confinanti se la città ha potuto di nuovo riprendere a vivere. Per il momento.

Adam Nossiter, del New York Times, ha avuto occasione di girare per Damasak e raccogliere le testimonianze dei soldati chadiani e nigeriani ancora in attesa di passare la mano. "Il nostro lavoro", afferma il comandante di un drappello di soldati del Ciad, il tenente Hassan, " è finito. Siamo pronti a rientrare a casa, dietro i nostri confini. Abbiamo chiesto ai soldati nigeriani di venire ma non sono ancora arrivati". Il tenente racconta anche della battaglia decisiva combattuta nella notte tra il 14 e il 15 marzo scorso. "Non è stato facile ma alla fine siamo riusciti a respingere gli uomini di Boko Haram verso la boscaglia a nord. Ora la città è libera. Ma non possiamo continuare ad occuparla noi. Deve essere restituita ai soldati nigeriani. Li abbiamo chiamati il 16 mattina, appena finiti gli scontri e abbiamo chiesto di raggiungerci. Sono rimasti di sasso. Non ci credevano. Per loro Damasak era persa, impossibile da strappare a Boko Haram. Avevano paura e ne hanno ancora", aggiunge con tono beffardo.

La stessa paura che devono aver avuto i miliziani salafiti sbaragliati. Uno tra quelli fatti prigionieri lo conferma al cronista del quotidiano Usa. Con gli occhi sgranati ammette di non aver mai visto armi così sofisticate e una tale forza di combattimento. Attorno, i soldati ciadiani ascoltano fieri e divertiti. Poi al termine del breve racconto alzano gli Ak-47 al cielo e lanciano un ululato: il suono con cui accolgono ogni vittoria.



Diecimila vittime in 13 anni di terrore di NICOLA GRIGION
Sono conosciuti come Boko Haram - in lingua hausa siginifica "l'educazione occidentale è proibita" - ma il loro vero nome è Ahl al-Sunna li'l-Da'wa wa'l-Jihad, "persone impegnate nella diffusione degli insegnamenti del Profeta e nella Jihad". Il gruppo mosse i suoi primi passi nel 2002 quando un ristretto nucleo di militanti si riunì nell'accampamento di Kanama, in una zona rurale dello Yobe State, nel Nordest della Nigeria. Nei primi anni però non riscosse molto successo.

Uccidere i miscredenti. Solo nel 2005, quando l'ardente studioso di letteratura jihadista, Mohamed Yusuf, tornò da un periodo di studi coranici in Arabia Saudita e affermò la sua leadership, Boko Haram iniziò a crescere, dando il via ad una lunga fase di proselitismo, sposando le posizioni più intransigenti dell'Islam radicale e affermando la legittimità dell'omicidio contro i miscredenti. Dopo la morte di Yusuf, nel 2009, la guida passò ad Abubakar Shakeau, l'attuale capo del gruppo, che diede il via ad una feroce stagione di violenze.

Ora, secondo i rapporti dell'Intelligence, Boko Haram può contare su 6.000 o forse 9.000 uomini che controllano un'area grande quanto il Belgio dove sono radicati nei villaggi delle zone rurali. La loro minaccia però si estende a tutte le città del centro-nord, a maggioranza musulmana. L'incursione più sanguinaria di Boko Haram è avvenuto tra il 3 ed il 7 gennaio di quest'anno a Baga, dove i miliziani hanno provocato un numero imprecisato di vittime. Il Ministero della Difesa parla di 150 morti, le popolazioni residenti invece ne ipotizzano circa 2.000.

La nascita del Califfato. Nel 2013 il Dipartimento di Stato americano ha inserito Boko Haram nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali e sempre nel 2013 il governo Nigeriano ha dichiarato lo stato di emergenza negli Stati dello Yobe, del Borno e dell'Adamawa. Loro, invece, su quello stesso territorio, nel giugno
2014, hanno proclamato la nascita di un Califfato. Di recente Abubakar Shakeau, l'attuale capo del gruppo, ha giurato fedeltà al "Califfo di tutti i musulmani",  Abu Bakr Al-Baghdadi, il leader dello Stato Islamico, che ha poi confermato l'alleanza. Ma sulla possibilità che questo legame abbia ripercussioni reali, gli analisti sono molto cauti. Di concreto ci sono invece le 10.000 vittime ed il milione e mezzo di sfollati provocati dal conflitto nigeriano.
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