Era un caldo pomeriggio di metà Luglio, quando un fulmine a ciel sereno colpì Vinovo e squarciò, in modo inatteso, i cuori di milioni di tifosi juventini: Antonio Conte, il tecnico della rinascita bianconera, dei tre scudetti consecutivi, dei record inanellati, si separò consensualmente dalla Vecchia Signora. Nuovi stimoli e la consapevolezza di non poter far meglio di quanto già fatto a Torino portarono l'allenatore leccese verso altri lidi. Inizialmente si pensò a una panchina di prestigio tra le big europee, ma poi con l'elezione di Carlo Tavecchio alla guida della FIGC arrivò la chiamata e il fascino della Nazionale italiana. Inizia, così, la storia tra Conte e la maglia azzurra, in modo molto simile a quello del primo anno sulla panchina della Juventus: allora, come adesso, vi era una squadra finita ai margini, da ricostruire e risollevare dopo risultati sportivi deludenti; vi era un ambiente e tifosi da riconquistare; vi era una mentalità andata perduta e da far riaffiorare e imporre. Anche la materia prima, i giocatori a disposizione, non erano considerati dai più all'altezza di vincere un campionato: molti gregari, qualche scommessa e vecchie glorie ormai sul viale del tramonto. Con questi ingredienti, la ricetta poteva essere una sola: lavoro, abnegazione, grinta, ritrovare fame e cattiveria sportiva per compensare il divario tecnico con le altre formazioni maggiormente accreditate. Una ricetta che Antonio Conte, allievo di gente come Fascetti, Mazzone, Trapattoni, Lippi e Sacchi, conosce benissimo perchè l'ha sperimentata su di sè nella sua lunga carriera da calciatore e ha applicato prima nelle sue esperienze ad Arezzo, Bari, Siena e Atalanta e poi a ogni aspetto della sua avventura sulla panchina juventina, dimostrando anche un certo acume ed eclettismo tattico che hanno permesso alla Juventus di tornare ai vertici del calcio italiano dopo lo scandalo di Calciopoli. Tanta gavetta, due promozioni in Serie A e l'opportunità di allenare la squadra di cui era stato fiero capitano e condottiero. I risultati di quell'anno e dei successivi due sono storia di record abbattuti e di trofei conquistati, ottenuti con la stessa formula che calza a pennello anche con quello che dovrà essere il nuovo corso della Nazionale. L'Italia di Cesare Prandelli è, infatti, uscita a pezzi dal Mondiale brasiliano. Illusa dalla vittoria sull'Inghilterra alla prima del girone e dagli appellativi lusinghieri attribuitigli dopo di essa, la Nazionale è dovuta tornare sulla terra ed è stata sbattuta fuori dalla competizione nei successivi incontri da squadre tutta grinta come Costarica e Uruguay che hanno avuto la meglio sul palleggio per lo più sterile degli azzurri. La Tiqui-Italia, come fu allora definita, abbandonò la scena, forse condannata anche da uno stile di gioco che poco si sposava con la mentalità calcistica del Bel Paese, storicamente fatta di ottima difesa e ripartenze veloci e letali in contropiede, caratteristiche che hanno permesso alla Nazionale di conquistare il mondiale tedesco del 2006 e raggiungere la finale nell'Europeo del 2012. Tralasciando le scusanti che sono state trovate per giustificare tale debacle - caldo ed espulsione di Marchisio con l'Uruguay in primis -, dalla spedizione in Brasile si è potuta trarre anche una conclusione ovvia per molti, meno ovvia per altri, compresi parecchi addetti ai lavori: il movimento calcistico italiano, nella sua interezza, è in crisi nera da tempo. Il fumo negli occhi gettato dalla bellissima vittoria in Germania e dalla cavalcata in Ucraina-Polonia, stoppata sul più bello da una Spagna fuori portata, ha solo celato e fatto dimenticare per qualche mese i problemi profondi e l'immobilismo del nostro sistema, già venuti fuori in modo evidente nel Lippi-bis in Sudafrica. Il calcio è sempre lo specchio di un paese e sconcertante è il paragone tra l'Italia e, ad esempio, la Germania neo campione del mondo, programmatica, applicata, che punta sui giovani e sui vivai, che costruisce stadi da favola, che ha un campionato fra i migliori al mondo. Un movimento che ha saputo evolversi e migliorarsi anno dopo anno, investire in modo proficuo le risorse a disposizione ed ergersi a modello di assoluta efficienza e modernità. Italia, purtroppo, allo sbando in molti degli aspetti sopra citati, ferma al Mondiale del 1990 per quanto riguarda le strutture, con una mentalità retrograda che contrappone tifosi come fossero bande rivali, con una Serie A ormai ai margini del calcio europeo d'elite e piena zeppa di stranieri mediocri che si preferiscono ai giovani talenti nostrani, costretti a marcire in panchina, nelle serie minori o a preferire l'estero. Differenze evidenti tra uno stato - la Germania - all'avanguardia in ogni settore della società, della vita e delle aspettative umane, e un altro - l'Italia - che arranca tra promesse per lo più disattese e false speranze. Gli scenari attuali sembrano riproporre sempre lo stesso copione: l'elezione del 71enne Carlo Tavecchio a presidente della Federcalcio nonostante le sue frasi a sfondo razzista - per le quali è stato anche sospeso dall'UEFA per 6 mesi - e le polemiche sull'onnipresenza nelle spedizioni azzurre di Claudio Lotito, patron della Lazio e contemporaneamente consigliere federale sono solo gli ultimi esempi di un calcio italiano che sembra non aver voglia di rinnovarsi e puntare su figure più fresche e giovani a tutti i livelli e che continua a far parlare di sè per proteste, scandali e fatti negativi. A questo si aggiungono le solite diatribe, anche molto pesanti, fra tifosi di squadre avversarie, alimentate da dichiarazioni fuori luogo di calciatori e dirigenti e dai commenti spesso di parte di molti presunti opinionisti sportivi. In questo marasma generale, la missione di Antonio Conte quale nuovo Commissario tecnico della Nazionale è molto ardua. Scelto dai nuovi vertici della Federazione e con uno stipendio record per un CT, grazie anche ai soldi della Puma, ha messo d'accordo per doti e competenza anche i critici e gli ex avversari e detrattori. Ma dovrà lavorare molto. Sotto l'aspetto prettamente sportivo, prima di tutto c'è da costruire un gruppo solido, duraturo e ben strutturato per affrontare al meglio i prossimi impegni, basandosi su principi cari all'allenatore pugliese quali meritocrazia, voglia di lavorare e faticare, voglia di applicarsi e, soprattutto, di vincere: indossare la maglia azzurra deve tornare ad essere un privilegio concesso ai più meritevoli e non un peso che può ottenere e poi snobbare chiunque. Per quanto riguarda i fattori motivazionali, invece, bisogna ridare fiducia e mentalità giusta a un'Italia tornata con le ossa rotte dal Brasile (i precedenti con la Juventus sono confortanti in questo senso). Infine , occorre far riavvicinare al mondo azzurro molti sostenitori che si sono disaffezionati negli ultimi tempi. Con le quattro vittorie nelle prime quattro uscite (tre match di qualificazioni ai prossimi europei e l'amichevole con l'Olanda) e con il calore mostrato per la Nazionale a Palermo nella partita con l'Azerbaijan, Conte sembra essere sulla strada giusta e le convocazioni di gente come Graziano Pellè, bomber in Olanda e in Inghilterra ma mai nel giro del gruppo azzurro maggiore, di giovani talenti come Zaza e Rugani e conferme come Immobile, utilizzato poco in Brasile ma al centro del progetto contiano, fanno ben sperare sulla nuova politica e i nuovi metodi adottati. Inoltre, le visite nei ritiri delle squadre di serie A e il dialogo diretto aperto dal CT con i vari tecnici rappresentano una strada interessante per migliorare la collaborazione fra club e Nazionale. Da affinare il gioco, apparso finora non proprio esaltante. Il tempo per lavorare c'è. Tuttavia, ben poco può far un uomo solo per rinnovare un intero sistema in degrado e in crisi. Qui devono necessariamente entrare in gioco altre figure e trovare soluzioni rapide ed efficaci per risollevare il calcio italiano dal torpore generale nel quale si è calato. Stadi nuovi e di proprietà, investimenti importanti delle società calcistiche sui propri vivai e sui giovani italiani - i quali devono trovare più spazio nei club di appartenenza per abituarsi a giocare a un certo livello ed essere, così, più facilmente valutabili in ottica Nazionale - attenuamento delle sterili polemiche e focus sui veri problemi che attanagliano il nostro movimento sportivo. Del resto, se una macchina non funziona bene, sarà impossibile per un pilota, per quanto bravo egli sia, guidarla al meglio. La scelta di Conte ha messo d'accordo tutti: lui è l'uomo giusto, il miglior allenatore, il vincente in grado di risollevare le sorti della Nazionale. Con lui sembra essersi accesa una scintilla, ma in questa auspicata rivoluzione ed evoluzione di cui necessita il calcio italiano tutti quelli che amano questo sport avranno un ruolo fondamentale e saranno chiamati a rispondere, dai dirigenti ai calciatori ai giornalisti ai tifosi, per non far apparire Conte come un'oasi in un deserto senza fine. Fabio Mangione