Dal mito della crescita all’homo convivialis.

Dal mito della crescita all’homo convivialis.

di Francesco Fistetti

Nous reproduisons ici la préface que Francesco Fistetti a donnée à la traduction en italien du Pour un manifeste du convivialisme (Bord de l’eau, 2011) de A. Caillé, sous le titre Per un manifesto del convivialismo, Pensa multimedia, Lecce, 2013, traduction de Laura Gherardi.

Il convivialismo : il principio-speranza del XXI secolo

Il manifesto sul convivialismo che qui presentiamo al lettore italiano, scritto da Alain Caillé, ha l’ambizione non di delineare una nuova dottrina filosofico-politica da affiancare a quelle che hanno dominato il secolo scorso (liberalismo, socialismo, comunismo, anarchismo), ma piuttosto di estrarre, per così dire, ciò che esse, senza saperlo, avevano in comune, pur essendo delle ideologie teoriche e delle esperienze pratiche tra loro molto diverse per provenienza storica, ispirazione ideale e finalità etico-politiche. Lungo la storia della modernità l’ideale democratico si è incarnato in queste quattro ideologie, che ora sono giunte ad una sorta di esaurimento interno. Il problema fondamentale che il convivialismo solleva è sotto quali forme e a quali condizioni è possibile riattivare l’ideale democratico, tenuto conto delle trasformazioni intervenute su scala mondiale con l’ingresso nell’età della globalizzazione e considerata l’urgenza drammatica delle sfide da affrontare, la cui posta in gioco è la sopravvivenza stessa dell’umanità sul nostro pianeta. Come ricorda Caillé, è esattamente il problema che Marcel Mauss pone a conclusione del suo Saggio sul dono (1923/24), quando spiega che il “segreto” della convivenza dei popoli e delle nazioni consiste nel saper trovare ogni volta delle modalità istituzionali attraverso cui possano “contrapporsi senza massacrarsi, e a « darsi » senza sacrificarsi l’uno all’altro” (Mauss 1965, p. 291). Mauss suggeriva che per rompere il cerchio infernale della guerra di tutti contro tutti occorre affidarsi alla logica del dono, del donare/ricevere/ricambiare, che è la sola in grado di far “deporre le lance”, di creare “rapporti stabili” e di trasformare in socius chi prima era considerato come nemico.

Ora, il manifesto del convivialismo - proposto da Caillé come una traccia di discussione e, quindi, aperto ad ulteriori integrazioni e revisioni – afferma perentoriamente che l’umanità attuale si trova in una situazione estrema o, per dirla con Jaspers, in una situazione-limite, in cui in pericolo è tutto il patrimonio materiale, morale, artistico, scientifico, tecnologico, filosofico, religioso, ecc., che l’umanità è riuscita finora ad accumulare nel corso della sua storia ultramillenaria. Si tratta di una crisi di civiltà in un’accezione assolutamente inedita rispetto a quelle che gli storici ci avevano descritto : si pensi, per intenderci, a Johan Huizinga di La crisi della civiltà (1935). Egli avvertiva giustamente che “crisi della civiltà” è un concetto storico, non una formula buona per tutti gli usi (e abusi) e, di conseguenza, è un criterio ermeneutico di cui ci serviamo per ricostruire i processi storici. E riferendosi al Tramonto dell’Occidente (1917) di Spengler osservava che, nonostante la diffidenza dei lettori verso le sue vedute, tuttavia quel libro li familiarizzava all’idea della “possibilità di un tramonto dell’odierna civiltà, mentre prima erano ancora rivolti in una indiscussa fede nel progresso” (Huizinga 1963, p. 5). Rispetto a questi precedenti, il manifesto proposto da Caillé ha una tonalità specificamente “apocalittica” in filosofia e nelle scienze sociali, nel senso che esprime la coscienza di una catastrofe imminente, ma al contempo non si lascia prendere la mano dal catastrofismo – né illuminato né oscurantista -, ma elenca tutti i segni, per quanto flebili, di un’euristica della speranza – l’esatto opposto dell’euristica della paura di Hans Jonas - che conduca alla (ri)costruzione dell’ideale di convivenza che Aristotele chiamava “vita buona” : non solo un’etica delle virtù, ma anche un’etica (cosmo)politica. Con Hölderlin si potrebbe dire :“Ma là dove c’è il pericolo, cresce/anche ciò che salva (Wo aber Gefahr ist, wächst/Das Rettende auch)” : il principio-speranza nel nostro caso è costituito ancora una volta dai valori dell’Occidente, che si tratta, come chiarisce Caillé, di “relativizzare per conferire loro un’autentica portata universale” (infra, p. 45). L’euristica della speranza è qui affidata non già ad una critica totalizzante del progresso, come tante ne abbiamo registrato nel Novecento, suscettibili, come sappiamo, di buttar via il bambino con l’acqua sporca, ma piuttosto alla condivisione di un nuovo progetto di civiltà che reincammini l’ideale della democrazia su una strada alternativa a quella finora battuta dalle grandi ideologie della modernità. Caillé dice chiaramente qual è la strada che la democrazia dei moderni ha praticato e che adesso è divenuta impercorribile. E’ una tesi molto originale, ma anche oltremodo realistica per la lucidità con cui viene analizzata la dinamica che ha alimentato la costruzione del modello occidentale di democrazia, specialmente nel ciclo storico-politico del welfare State o, come si esprime Caillé in relazione alla Francia, dei “trent’anni gloriosi” (les Trente Glorieuses). Ed è una tesi al contempo filosofica ed antropologica. In primo luogo, con tutta una serie di autori, ai quali accenneremo in seguito, Caillé è convinto che siamo ormai entrati in un’”era post-democratica” (infra, p. 9). Che cosa vuol dire ? Sostanzialmente che l’ideale democratico non ha più la forza intrinseca di universalizzarsi secondo le direttrici che ha seguito fino a questo momento e che l’hanno condotta ad un punto morto. Di che cosa, infatti, si era nutrita fino ad oggi la dinamica democratica, al punto da garantirne il successo nei paesi occidentali e da raggiungere il suo apice in termini di capacità di attrazione quando determinò il crollo dei paesi comunisti dell’Est europeo dopo il 1989 ? Mettendo a frutto le ricerche di René Girard, Caillé applica la tesi del “capro espiatorio (boucle émissaire)” alle società democratiche del secondo dopoguerra. Per scongiurare la violenza, fonte di distruzione del legame sociale, ci sono tre modalità di gestione del conflitto e, per adoperare il linguaggio freudiano-hegeliano, di sublimare/superare l’odio e la collera sociali per mettere capo ad una vita in comune più o meno pacifica : la proiezione dell’odio, la sua introiezione o la sua dialettizzazione (infra, p. 6). Come è noto, dall’esame di un ampio materiale etnologico e mitologico Girard giunge a stabilire un nesso strutturale tra la violenza e il sacro : il sacrificio con la sua catarsi impedisce la diffusione disordinata della violenza e riesce ad arrestarne il contagio. La minima scintilla di violenza può provocare un incendio catastrofico, dal momento che lo spettacolo della violenza è contagioso ; e “non c’è regola universalmente valida, non c’è principio che riesca a resistere”, poiché essa ha “straordinari effetti mimetici, a volte diretti e positivi, a volte indiretti e negativi” (Girard 1980, pp. 49-50). Girard definisce “crisi sacrificale” la “crisi delle differenze”, cioè la dissoluzione di un ordine culturale storicamente determinato : venuta meno la linea di demarcazione tra il puro e l’impuro, tutte le altre differenze precipitano nel caos e scatta il meccanismo della violenza mimetica. “Questo ordine culturale – insiste Girard – (…) non è nient’altro che un sistema organizzato di differenze ; sono gli scarti differenziali a dare agli individui la loro ‘identità’, che permette loro di situarsi gli uni rispetto agli altri” (ivi, p. 73). Come dimostra lo studio delle cosiddette società primitive, ma anche dei tragici greci e moderni (come Skakespeare), sono le differenze culturali che garantiscono “l’ordine, la pace e la fecondità” e non sono le differenze, ma “la loro perdita a provocare la rivalità pazza, la lotta a oltranza tra gli uomini di una stessa famiglia o di una stessa società” (ibidem). La crisi sacrificale è la crisi dell’ordine culturale, generata dal crollo o dall’occultamento delle differenze. Girard individua il meccanismo della rivalità mimetica come motore della violenza distruttiva : il desiderio della violenza nasce non dall’impossibilità di ottenere l’oggetto desiderato, ma dal desiderare l’oggetto desiderato da un terzo, cioè dal rivale. “Desiderando questo o quell’oggetto, il rivale lo indica al soggetto come desiderabile. Il rivale è il modello del soggetto, non sul piano superficiale dei modi d’essere, delle idee, ecc., ma sul piano essenziale del desiderio” (ivi, p. 193). La collera, l’invidia e il risentimento sono i sentimenti che il meccanismo del desiderio del desiderio dell’altro e della rivalità mimetica possono innescare. Una tale situazione era stata magistralmente diagnosticata da Alexis de Tocqueville in La democrazia in America, là dove in pagine memorabili aveva descritto il valore dell’eguaglianza come una sorta di fata morgana, che gli uomini credono di aver raggiunto, ma sfugge continuamente loro dalle mani. E’ esattamente la legge della rivalità mimetica : il desiderio di eguaglianza “diventa sempre più insaziabile, a mano a mano che l’eguaglianza si fa più grande” ; e “nelle democrazie gli uomini otterranno facilmente una certa eguaglianza ; non possono però raggiungere quella desiderata : essa rincula ogni giorno davanti a loro, ma senza mai svelarsi ai loro occhi, e, ritirandosi, li alletta a inseguirla. Continuamente gli uomini credono di stare per afferrarla e continuamente essa sfugge alla loro presa” (A. de Tocqueville 1968, vol. 2, p. 630). Per Girard, il desiderio mimetico e la violenza contagiosa ad esso associata distruggerebbero la comunità se non ci fosse una “vittima espiatoria” a spezzare questo meccanismo catastrofico e a ristabilire l’ordine culturale delle differenze.

Caillé rielabora liberamente i risultati delle ricerche di Girard. Egli distingue tre forme di gestione del conflitto e di canalizzazione/controllo del risentimento sociale. La prima pone in essere un dispositivo di proiezione che può avere a sua volta due modalità di espressione. La prima ha a che fare con la proiezione dell’odio e del conflitto su una “vittima sacrificale” o “capro espiatorio”, che è un membro al contempo interno ed esterno alla comunità, la cui messa a morte placa le tensioni accumulatesi e rassicura le identità minacciate, purgandole delle loro componenti di ostilità reciproca. Nella seconda modalità la proiezione si dirige su un membro esterno alla comunità, marchiato come straniero, come nemico. La “singolarità parossistica e terrificante” dei totalitarismi del XX secolo consiste nel fatto che hanno utilizzato entrambi questi dispositivi socialpsicologici di proiezione bollando e sterminando come nemici dei particolari gruppi razziali come gli ebrei. Né va dimenticato che la relazione amico/nemico è stata teorizzata in termini di un’inimicizia “esistenziale”, cioè ontologica, dal giurista filonazista Carl Schmitt, che la considerava come il tratto costitutivo e fondativo del politico tout court, giungendo così ad una sorta di razionalizzazione filosofica in chiave moderna del meccanismo vittimario (Fistetti 2010, pp. 174-180). La seconda modalità di neutralizzazione del conflitto risiede nell’introiezione dell’odio, che si manifesta attraverso l’instaurazione di un’istanza che è al contempo immanente e superiore al corpo sociale, tale che sia in grado di controllare tutte le spinte centrifughe e di stabilire una gerarchia dei soggetti in funzione del loro (presunto) valore, cioè, come chiarisce Caillé riecheggiando su questo punto Louis Dumont, “una scala graduata della legittimità, della visibilità, della dignità, della purezza o della potenza”, in modo che l’odio si tramuti in deferenza verso i superiori, disprezzo per gli inferiori, ossequio del potere dominante. La terza modalità di gestione/neutralizzazione della violenza è costituita dalla dialettizzazione dell’odio, ed è propriamente la soluzione suggerita da Mauss : innescare il ciclo del donare/ricevere/contraccambiare là dove regna la guerra di tutti contro tutti e sorge un conflitto che può divampare nel contagio e nella furia della violenza “sacrificale”. Che è la soluzione che potremmo definire con Aristotele, peraltro richiamata da Mauss, della “giusta misura (mesòtes)” (Ph. Chanial e F. Fistetti 2011) : un equilibro che va incessantemente ricercato e faticosamente ricostruito se si vuole evitare sbocchi (auto)distruttivi, soprattutto in un regime democratico, caratterizzato per sua natura da quello che Chantal Mouffe chiama un “pluralismo agonistico” di interessi e valori (Ch. Mouffe 1993 e 1994). Nella democrazia moderna – comprese le forme di democrazia radicale che possono essere immaginate sulla scia di Castoriadis o di altri autori - ogni situazione e ogni soggetto, se non trovano la giusta bilancia tra interesse per sé ed interesse per gli altri, tra diritti e doveri, tra cura di sé ed apertura all’altro, corrono il rischio di degenerare in conflitti (neo)corporativi tali da dissolvere l’ordine sociale. Qui acquista tutta la sua forza la tesi di Caillé ispirata a Girard : la democrazia politica che nel secondo dopoguerra è stata edificata nel ciclo del welfare State ha fatto balenare davanti agli occhi di ognuno la prospettiva di un arricchimento materiale “ininterrotto per sé e per i propri figli” e di un cambiamento delle loro condizioni sociali e simboliche modellato dalla prosperità. Questo che è stato lo scopo ultimo (e primo) della Affluent Society, come ebbe a definirla John K.Galbraith in un libro famoso (Galbraith 1969), in cui tutti mirano a possedere e a consumare di più, ha funzionato coma una sorta di “capro espiatorio, di sostegno a tutte le speranze e di esorcizzazione di tutte le sventure e di tutti gli odi” (infra, pp. 12-13) : un capro espiatorio in positivo, perché ha dischiuso lo spazio dell’attesa del futuro e delle speranze condivise, che è lo spazio stesso della fede del progresso. Con Reinhart Koselleck potremmo dire, infatti, che il welfare State incardinato nella moderna democrazia politica ha determinato un “mutamento di esperienza” (Erfahrungswandel) straordinario, che ha aperto un “orizzonte di aspettative” (Erwartungshorizont) direzionato verso un futuro migliore (Kosselleck 1986, cap. III), dove l’ideale democratico si è identificato con l’esteriorizzazione/alienazione in un universo di cose materiali e di oggetti simbolici. Ora, una volta che viene meno la crescita economica alla base del welfare State, e una volta che emerge una tendenza strutturale alla stagnazione dell’economia reale e all’ipertrofia dei mercati finanziari, che disegnano sempre più nettamente i contorni di un capitalismo speculativo largamente automatizzato, sarà l’ideale democratico in grado di resistere, e magari di trasformarsi, oppure sarà travolto in una spirale regressiva senza fine ? Il dilemma di fronte a cui si trova l’umanità attuale è esattamente questo. Come ricorda Marc Humbert, il tema della società conviviale era stato sollevato da Ivan Illich in un libro del 1973, La convivialité, che insieme con pochi altri autori (come Ernst F. Schumacher di Piccolo è bello del 1973, Jacques Ellul di La tecnica del 1964, gli estensori del Rapporto sui limiti dello sviluppo commissionato dal Club di Roma, pubblicato nel 1972), “avevano messo in allarme l’opinione pubblica sul fatto che le evoluzioni mondiali in corso ci trascinano verso una catastrofe ed era ormai tempo di intraprendere cambiamenti radicali” (Humbert 2011). Tre sono, secondo Humbert, le patologie che funestano le società moderne, a cui occorre dare una risposta liberandosi dall’illusione che possano essere il mito della crescita e l’idolatria della tecnica a risolvere i problemi della nostra convivenza : 1) “un funzionamento esclusivamente centrato sull’efficienza utilitaristica” ; 2) “la focalizzazione su una crescita che minaccia la natura” ; 3) “e una reificazione/mercatizzazione generalizzata che rende inumane le nostre società” (ivi, p. 11). Caillé, da parte sua, avanza una proposta di soluzione, molto articolata, che, per economia di spazio, merita di essere discussa almeno per quanto riguarda il rapporto tra economia e democrazia e la costruzione di una nuova cultura che chiamerò (cosmo)politica. Ma prima vorrei provare a fermare brevemente l’attenzione sulla crisi dell’ideale democratico incarnato dal welfare State.

L’eclisse dell’ideale democratico

In particolare, non bisogna sottovalutare il fatto che è andata in frantumi la forma-partito che abbiamo conosciuto nel ciclo politico del secondo dopoguerra, perché non può sfuggire a nessuno che l’odierna disaffezione per la democrazia è una diretta conseguenza della perdita di attrazione del partito di massa tradizionale. Forse questa sorta di implosione è l’esito del nesso che come un nodo scorsoio si è venuto a stabilire tra l’ideale democratico e il mito della crescita funzionale all’arricchimento individuale. Se questa ipotesi di lettura ha un minimo di plausibilità, allora mi permetto di anticipare un corollario per la cui dimostrazione avremmo bisogno di un ragionamento più lungo e complesso. Il corollario è troppo importante sul piano della cultura e dell’organizzazione politica per non essere fin da subito enunciato, sia pure in termini abbreviati : per restituire vitalità all’ideale democratico, per aprire una nuova stagione della democrazia è necessario fare in modo che la forma-partito torni ad assolvere con uno spirito rinnovato e attraverso modalità inedite la funzione di pilastro del sistema democratico, che ad esempio non a caso la Costituzione italiana gli assegna nel processo di formazione della volontà politica. “Se i partiti politici non riuscissero a fare la loro rivoluzione interna, allora ciò vorrebbe dire che la forma-partito è superata”(Patrick Braouezec, citato da A. Gorz in “Entretien avec André Gorz” in Les periphériques, 1998, ora leggibile in : chaos@lesperipheriques.or ). Ma, bisogna aggiungere, risulterebbe superato anche il modello di democrazia rappresentativa che, sia pure tra molteplici varianti, ha contrassegnato i moderni regimi liberaldemocratici.

Solo se sapremo alimentare la passione dell’essere-insieme in un’associazione volontaria come il partito politico, l’ideale democratico potrà riprendere vigore e con esso la coalescenza tra democrazia e partiti politici. Infatti, quando questa coalescenza o circolo virtuoso tra democrazia e partiti politici si è interrotto, siamo entrati in quella fase storico-politica delle società ipermoderne che possiamo definire con Colin Crouch “post-democrazia” per indicare un insieme variegato e contaddittorio di sintomi che segnalano una “parabola discendente della democrazia” o un allontanamento dall’”ideale più elevato di democrazia”(Crouch 2003, p. 26) : sintomi che comprendono “frustrazione” e “disillusione” come stato d’animo diffuso, l’affermarsi di minoranze potenti (élites economiche e lobby affaristiche) che condizionano il sistema politico ai loro scopi, la mutazione del ceto politico preoccupato principalmente di manipolare i bisogni della gente (attraverso la logica del marketing politico), la formazione di partiti personali, l’astensionismo in ascesa, l’evaporazione dei contenuti programmatici dei singoli partiti, l’accentuarsi di rivalità politiche meramente estrinseche o di facciata, e soprattutto la riduzione della participazione dei cittadini alla vita pubblica ad “una partecipazione manipolata, passiva e rarefatta”(ivi, p. 28). Se a questi sintomi aggiungiamo gli effetti negativi indotti dalla globalizzazione (la deregolamentazione della produzione, lo smantellamento progressivo del welfare State, la precarizzazione del lavoro conseguente alla fine del fordismo, la frammentazione delle figure sociali e così via), ci rendiamo conto di come la fase post-democratica conservi sì tutti gli elementi formali della democrazia, ma all’interno di un quadro profondamente mutato. La prerogativa dominante di questo nuovo contesto epocale consiste nel fatto che il liberalismo si è staccato dalla democrazia con cui aveva convissuto per un intero periodo storico - che è stato quello dello Stato keynesiano/fordista (o Stato sociale di diritto che dir si voglia) - formando con essa un binomio indissolubile (la liberaldemocrazia). Quando il compromesso tra capitalismo e democrazia si è rotto, il liberalismo si è rivoltato contro la democrazia manifestando insofferenza per le regole che erano state pattuite come fondamento della convivenza sociale e del modo capitalistico di produzione-accumulazione. Da Keynes a Hayek, per usare due nomi-simbolo con cui riassumere il passaggio dal contratto sociale keynesiano, inscritto nello spazio dello Stato nazionale e che sul piano temporale è durato fino all’Ottantanove, a quella che possiamo chiamare una nuova fase del capitalismo, il “megacapitalismo” per adoperare l’espressione di A. Caillé, connotata, oltre che dalla mondializzazione e dalla finanziarizzazione del capitalismo, dalla tendenza a sottomettere tutte le sfere dell’attività sociale (scienza, arte, cultura, compresa la politica) alla logica del mercato (Caillé 2005a, p. 261 e ss.). Questo passaggio non è senza rischi per la democrazia sociale di tipo interclassista che che era stata costruita nel secondo dopoguerra. Essa era stata edificata garantendo l’universalismo dei diritti di cittadinanza e sulla base di un ethos solidarista che in Italia, ad esempio, raccoglieva l’eredità della cultura cattolico-democratica e della cultura del movimento operaio nelle sue diverse componenti. A ben guardare, la democrazia sociale, di cui stiamo parlando, registrava il protagonismo di una forma-partito che, per quanto ancorata ad ispirazioni ideologiche differenti, aveva in comune una concezione della politica come militanza, come fedeltà a determinati valori, come costruzione di una comunità democratica. In breve, il partito politico portava i suoi aderenti a vedere la democrazia come un ordine politico da instaurare attraverso la dialettica tra i vari gruppi sociali, non già come una “realtà già edificata che deve essere data e distribuita dallo Stato” (Caillé 2005b, p. 9). I partiti come costruttori di democrazia, dunque, in cui gli individui tessono un legame sociale che non è solo di parte, ma che allude ad una solidarietà tra cittadini di diversa estrazione religiosa, culturale, ideologica, che si riconoscono in una storia più o meno comune. Alla luce del paradigma del dono, potremmo dire che i partiti politici, così come hanno funzionato dal XIX secolo fino agli anni Ottanta del XX secolo, sono stati la forma più pacifica dell’”arte di associarsi”, che ha dato una risposta di lunga durata al problema strutturale di ogni convivenza, che, come abbiamo visto, Mauss ravvisava nel problema di vivere-insieme contrapponendosi “senza massacrarsi”. Vi era un circolo in gran parte virtuoso di dare/ricevere/contraccambiare, i cui soggetti erano la società civile, le istituzioni statali e i partiti politici. La democrazia del secondo dopoguerra, nelle diverse varianti che essa ha registrato in Europa occidentale, si è nutrita di questo ciclo del dono, dove la legittimità politica dei governanti veniva garantita dallo scambio tra redistribuzione delle risorse e consenso. Il limite di questa forma-partito consisteva nel collateralismo, nel fatto cioè che le strutture della società civile – dai sindacati alle associazioni di categoria - godevano di scarsa autonomia d’azione, perché considerate delle “cinghie di trasmissione” dei gruppi dirigenti dei partiti e, quindi, degli strumenti di raccolta del consenso. Questo primato del sistema dei partiti incuberà dentro di sé i germi della sua degenerazione, poiché condurrà all’occupazione dello Stato da parte dei partiti e ad una identificazione perversa tra sistema politico e istituzioni statali (comprese le istituzioni dell’economia pubblica come luoghi di finanziamento occulto dei partiti di governo). Con il passaggio all’economia-mondo globalizzata e con l’incrinarsi del contratto sociale fordista e delle sue regolazioni incentrate sullo Stato nazionale, il pericolo maggiore a cui la democrazia viene a trovarsi esposta è che essa si impoverisca al solo momento elettorale, cioè a mera democrazia rappresentativa, in cui peraltro le funzioni legislative e di controllo del Parlamento si assottiglino sempre di più a favore dei poteri dell’Esecutivo. In altre parole, la democrazia sociale non era fondata soltanto, come alcuni credono sulla redistribuzione delle risorse, ma al contempo su un embrione di paradigma deliberativo che portava ad interpretare i bisogni in chiave politica, nel senso cioè che i soggetti sociali in lotta si battevano sia per l’allargamento dei diritti di cittadinanza a strati sociali esclusi, sia per la partecipazione alla gestione degli affari pubblici di chi era fuori dallo spazio pubblico-politico. Per usare il linguaggio di S. Benhabib, la democrazia edificata nel secondo dopoguerra ha coniugato insieme la soddisfazione di “rivendicazioni di prosperità economica” e il “bisogno di un’identità collettiva”, ma il suo limite è stata l’incapacità dei partiti di ancorare il fondamento normativo della democrazia in un modello di cittadinanza attiva che andasse al di là del benessere economico e/o della difesa corporativa dei partiti. In questo modo, la democrazia ha rafforzato i suoi tratti di verticalità, vale a dire tutte quelle caratteristiche che connotano il potere – compreso il potere democratico – come insieme di apparati e di sottosistemi del tutto autonomizzati fino a diventare autoreferenziali e sottratti a qualsiasi logica del controllo da parte del parlamento, della sfera pubblica o degli stessi cittadini. Tratti di verticalità che essa pur deve avere per poter funzionare, ma che hanno bisogno di combinarsi con i tratti di orizzontalità costituiti dalle pratiche dal basso. Vanno letti così i conflitti come quello delle donne (per la parità e per la differenza di genere) e, più in generale, le battaglie per la democratizzazione di tutti gli apparati (dalla scuola all’esercito) che si sono svolti negli anni Settanta-Ottanta del Novecento. Che questo processo abbia avuto come sua altra faccia della medaglia una riburocratizzazione del welfare state, tale che molto spesso ha convertito le rivendicazioni egualitarie di carattere universalistico e le richieste di solidarietà in prestazioni clientelari e parassitarie, non può destare meraviglia, se teniamo conto del fatto che l’ideale democratico sempre più si andava identificando con l’aumento della ricchezza materiale, l’allargamento dei consumi e l’acquisizione del capitale simbolico (Bourdieu). Di questo trend paradossale qui deve interessarci un esito specifico, vale a dire il fatto che quel processo ha contribuito all’”evaporazione” dello spirito pubblico o della res publica – inclusi i beni pubblici - e al declino della solidarietà collettiva, tutti fattori che sono andati di pari passo, in una sorta di circolo vizioso, con la trasformazione del partito politico in una struttura post-democratica, descritta egregiamente da C. Crouch (ivi, cap. IV). In questo tipo di partito, con il declino della militanza e con i costi sempre più alti delle elezioni, è inevitabile che prenda corpo un ceto tendenzialmente neo-oligarchico e che si affermino pratiche lobbystiche : in una parola, che la politica acquisisca gli standard del mercato e che da parte sua il mercato subisca nei suoi meccanismi di funzionamento distorsioni da parte della politica, col risultato che si crei “una classe speciale di aziende con accesso alla politica assolutamente privilegiato”(ivi, p. 105), con la conseguenza che lo Stato perda la sua dimensione pubblica e, per così dire, si rifeudalizzi (ivi, p. 108 e ss.).

Come far fronte allora alla crisi della militanza ? Come rendere desiderabile la democrazia in presenza di un individualismo che, sia nei suoi aspetti positivi (autonomia del soggetto, affrancamento dai vincoli tradizionali spesso oppressivi, libertà di scegliere il proprio stile di vita e così via) sia nei suoi aspetti negativi (l’individualismo consumista ed edonista) è divenuto il tratto costitutivo delle società contemporanee ? (Ph. Corcuff 2005, p. 76). Nella prospettiva convivialista, l’individualismo va sganciato dalla concezione della libertà che lungo la storia della modernità ha identificato il concetto di emancipazione con una trasgressione permanente dei limiti, dando così origine a quel soggetto mimetico che è l’homo oeconomicus, per il quale l’ideale democratico ha funzionato come strumento di acquisizione di ricchezza e di potere, e, dunque, come un mezzo per legittimare la tendenza all’illimitazione : quella che i greci chiamavano hubris, riferendosi agli effetti catastrofici che la violazione dei limiti recava con sé. L’homo convivialis si riconosce vulnerabile e bisognoso della “cura” dell’altro in una rete di reciprocità che investe tutta la società civile e le istituzioni : un esempio molto istruttivo è, a questo proposito, il reddito di base incondizionato, una questione ormai matura, perché oggetto di iniziative civiche in più paesi, e che, per questa ragione, dovrebbe essere affrontata in sede di Unione Europea. Pertanto, il vecchio modello di militanza del partito politico è obsoleto : lo scioglimento delle appartenenze comunitarie tradizionali - fondate su un’integrazione verticale, sulla delega del potere e sull’adesione acritica che arrivava al sacrificio totale di sé – rende datato ed improponibile quel tipo di impegno. Al suo posto può subentrare solo un impegno, come è stato definito, “distanziato” (J. Ion in Corcuff, cit., p. 70), cioè un impegno riflessivo, “a geometria variabile” o legato a issues contingenti, che richiedono campagne di opinione e di mobilitazione transitorie e circostanziali. Ma un impegno del genere non basta a rivitalizzare il partito politico come pilastro della democrazia. Occorre valorizzare sì la istanza di riflessività e il bisogno di riconoscimento della soggettività, ma queste tendenze individualizzanti vanno inquadrate in un contesto solidaristico più ampio, in un “noi” non taylorizzato come i collettivi dei partiti di massa di stampo ideologico, ma che è costruito anche su una logica del dono e della gratuità al proprio interno, e dimensionato quanto è più possibile sugli elettori da considerare come persone e non astrattamente come clienti (nell’accezione commerciale o del clientelismo). Stiamo parlando di un modello di democrazia in cui il partito politico è parte integrante di una rete associativa molto articolata e differenziata che trova nella sfera pubblica allargata il medium di una reciproca comunicazione e discussione : il partito politico o diviene il ‘terminale’ che riesce ad annodare i fili di interessi e valori diasporicamente disseminati nella società civile e ad esprimerli in volontà e rappresentanza politica o è destinato a diventare una pura macchina di potere e un coagulo di interessi – non sempre leciti - che lottano in competizione tra loro per farsi Stato. Ma ciò presuppone il superamento della figura dello Stato-nazione, che nell’età della globalizzazione è già deperito, se non proprio estinto nelle sue funzioni tradizionali di sovranità, ma non ancora sostituito da un principio alternativo di regolazione. Su questo punto, Caillé sottolinea che sono ormai mature le condizioni per costruire una democrazia, che io chiamo cosmopolitica, vale a dire mondiale e locale al contempo, che faccia della pluralità delle culture il nuovo “nomos della Terra” (H. Arendt) e al contempo si riconosca nella cultura condivisa di una “comune umanità”, articolata in un “nuovo capro espiatorio positivo” : non più quello dell’accumulazione senza fine di oggetti di consumo materiale e di capitale simbolico, ma quello della “moltiplicazione delle possibilità di azione, di libertà effettiva e, quindi, di riconoscimento offerte agli esseri umani” (infra, p. 45).

Economia, Società, Democrazia.

Quale deve essere il rapporto, se ne esiste uno, tra economia e società che possa essere considerato favorevole all’espansione della democrazia ? Lo sviluppo dell’ethos democratico può essere considerato un fattore, una condizione o un pre-requisito della crescita economica, del benessere materiale e della coesione sociale ? Sono le domande che A. Caillé si poneva nella sua Introduzione al volume collettaneo, La démocratie au péril de l’économie (Caillé 2006, p. 31). Così pure, per Caillé, le questioni politiche fondamentali delle nostre società restano ancora oggi quelle relative al rapporto tra mercato e democrazia : se l’autonomizzazione dell’economia di mercato da qualsiasi vincolo sociale costituisce la “condizione necessaria e sufficiente” del buon funzionamento della democrazia (come ritengono i liberali o, meglio, gli ultraliberali) oppure se la giustizia sociale non richieda che la democrazia debba subordinare il libero gioco del mercato a delle regole sociali. A questo riguardo, vale la pena osservare che uno dei più grandi paradossi del mercato è che esso sempre più funziona contraddicendo la logica della “concorrenza perfetta” e secondo meccanismi invisibili ed intrasparenti. Infatti, al giorno d’oggi accade che il mercato venga invocato come un valore positivo che la governance politica deve salvaguardare e imporre rispetto alle distorsioni monopolistiche, alle rendite di posizione, ai cartelli finanziari di varia natura che tendono a violare la concorrenza “leale” e a conquistare dolosamente posizioni di dominanza. La “buona” politica in questo caso è chiamata a vigilare perché siano rispettate le regole della libera concorrenza da parte di tutti gli attori economici : a far sì, cioè, che il mercato sia, come direbbe Wittgenstein, un gioco dotato di regole ben precise ed universalmente valide (Quanto questo tema sia importante per le democrazie dei cittadini-consumatori, vale a dire per quelle democrazie dove la qualità, l’efficienza e la fruibilità dei servizi collettivi sono una componente cruciale del loro funzionamento, basti pensare soltanto alla problematica delle cosiddette “liberalizzazioni”, quando non li si vuole risolvere in pure e semplici privatizzazioni e, quindi, in uno smantellamento dei beni comuni).

Il convivialismo pone il problema a cui nessuna comunità politica può sfuggire, tanto meno la società planetaria in cui siamo ormai entrati : creare un equilibrio tra economia, società e democrazia. Il fatto è che questo problema oggi è diventato drammatico rispetto alle aspettative ottimistiche che l’Ottantanove aveva aperto, quando molti si erano illusi che Mercato e Democrazia marciassero “mano nella mano, anche se non proprio allo stesso ritmo e con lo stesso passo”(ivi, p. 32), come se Mercato e Democrazia fossero termini equivalenti e non, invece, due grammatiche assolutamente differenti.

Il grande tema che Caillé solleva nella sua proposta di manifesto del convivialismo è quello di una prosperità senza crescita. In verità, più che di una proposta si tratta di una strada obbligata, una volta che si sono esaurite le condizioni di una crescita illimitata ed è, invece, sopravvenuta come una tendenza strutturale una situazione di vera e propria decrescita o di stagnazione economica. Nella terza parte del manifesto Caillé illustra per rapidi accenni quello che egli, riprendendo un’intuizione formulata da John Stuart Mill nei suoi Principi di economia politica, chiama uno “stato stazionario dinamico e progressista” dell’economia. Nel capitolo VI del secondo Libro dei Principi Mill critica aspramente l’ideale di vita modellato sulla lotta per l’esistenza, cioè sulla logica della concorrenza promossa dal mercato, come se questo fosse “la sorte maggiormente desiderabile per il genere umano” (J. S. Mill 1983, vol. 2, p. 999). Mill afferma che quell’ideale di vita, che assume il mercato come il bene supremo, può andar bene ancora per i paesi che oggi chiameremmo in via di sviluppo, ma non per i paesi industrialmente progrediti. Quell’ideale di vita corrisponde ad “una fase necessaria del progresso della civiltà”, ma l’”incremento della produzione e della accumulazione” non può essere considerato come il “modello definitivo” di esistenza (ivi, p. 1000). Mill sembra riprendere un motivo topico della cultura sei-settecentesca, messo in luce da Albert O. Hirschman , secondo cui i commerci e l’interesse per l’arricchimento hanno sedato le passioni che avevano acceso gli animi trascinandoli, agli inizi dell’età moderna, in crudeli e devastanti guerre civili (Hirschman 1979). Mill ritiene, infatti, che la lotta per accumulare ricchezza va bene finché serve ad aguzzare gli ingegni e a mantenere vive “le energie degli uomini” e il loro sentimento di libertà, ma solo “finché menti migliori non riescano ad educare gli uomini a ideali migliori” (Mill 1983, vol. 2, p. 1000). Mill, dunque, come nota Caillé, rovescia in senso ottimistico la previsione pessimistica di Smith, Ricardo e Malthus, secondo la quale lo “stato stazionario” dell’economia sarebbe una iattura verso cui l’umanità andrebbe incontro, qualora ci fosse un aumento della popolazione tale da superare quello del capitale e le condizioni delle classi inferiori peggiorassero (ivi, p. 999). Al di là della misure concrete di carattere redistributivo che Mill propone come ad esempio “un sistema di legislazione che favorisca l’eguaglianza delle fortune” (ivi, p. 1001), ciò che conta è sottolineare che lo “stato stazionario”, da lui abbozzato, è, come chiarisce Caillé, stazionario “finanziariamente”, ma “economicamente e socialmente dinamico e progressista” (infra, p. 24). Una domanda che questa definizione solleva è fino a che punto essa coincide con la teoria della decrescita di Serge Latouche, che, come è noto, costituisce una critica radicale della razionalità tecnico-economica dominante e dell’immaginario utilitarista occidentale. Senza dubbio, tra i due autori vi è una convergenza su molti apetti della critica del modello di civiltà imperante, ma almento un punto molto netto di differenziazione va segnalato : Caillé non nasconde la sua adesione ad una socialdemocrazia radicalizzata nei suoi postulati originari ed integrata da un’acuta coscienza ecologica, mentre Latouche appare non salvare nulla della tradizione politica occidentale nella sua formulazione del socialismo associazionista. Ma è un discorso che non può essere sviluppato in questa sede. Per tornare a Mill, egli non esita a prospettare lo “stato stazionario” come un “miglioramento notevole” rispetto alle condizioni attuali. ”(L)a condizione migliore per la natura umana – egli scrive - è quella per cui, mentre nessuno è povero, nessuno desidera diventare più ricco, né deve temere di essere respinto indietro dagli sforzi compiuti dagli altri per avanzare” (ivi, p. 1000). Tuttavia, Mill resta all’interno dell’orizzonte filosofico dell’utilitarismo, per quanto emendato in direzione di uno sgravio per i soggetti dalle “fatiche più pesanti” e di “un tempo libero sufficiente a potersi dedicare alle cose amene della vita” (Mill 1893, vol. 2, p. 1001). Si tratta, invece, di sfondare ques’orizzonte attraverso una ridefinizione dell’ideale democratico tale da reinserirlo entro un progetto di civiltà in cui l’Occidente non solo relativizzi i suoi valori universalistici aprendosi alle altre culture e dismettendo la burbanza di una sua presunta superiorità, ma soprattutto riscopra il suo duplice ruolo di donatore/donatario nel ciclo dei rapporti con le altre civiltà e le altre culture. Ciò vuol dire che gli esseri umani intendono essere riconosciuti per il fatto di esistere e per l’importanza dei loro doni (del loro contributo passato ed attuale) agli altri (popoli, nazioni, istituzioni o l’umanità) e non per gli oggetti o prodotti che producono e accumulano. Torna qui il tema girardiano del “capro espiatorio positivo” : per scongiurare la perdita delle differenze e il precipitare nella guerra di tutti contro tutti, occorre un modello di democrazia che non sia alimentato dal desiderio mimetico e che mantenga viva una dimensione di gratuità, o, come si esprime Caillé, che coniughi insieme un certo benessere materiale degli individui e la preservazione dei beni comuni, in primo luogo la difesa dell’ambiente naturale dalle aggressioni distruttive dell’uomo. Va da sé che un modello di democrazia così concepito richiede un’idea alternativa di ricchezza, non più identificata con la ricchezza monetaria e con il Pil. E contestualmente l’adozione di una qualche variante di quello che Rawls chiama il “Principio di Differenza” : sono giuste le diseguaglianze che consentono di migliorare la posizione dei più sfavoriti.

A questo riguardo, illuminante è un’osservazione di L. Canfora sull’ex-Unione Sovietica (Canfora 2007, p. 35) : l’Unione Sovietica, nel lasso di tempo che va dalla liberazione dell’Europa orientale e dall’entrata a Berlino nel maggio del 1945 alla dissoluzione dell’Urss nel 1991, ha dissipato il patrimonio di credibilità di cui godeva per aver “portato la libertà” in Europa nella seconda guerra mondiale. Un processo analogo sta avvenendo dopo l’Ottantanove nei rapporti tra Occidente e gli altri paesi, nel senso che si va registrando, per ragioni diverse, una perdita di fede nella “speranza democratica” sia nei paesi occidentali che nei paesi non occidentali. E’ molto calzante, su questo punto, l’analogia da un lato con Atene e l’impero ateniese dopo le guerre persiane e dall’altro con la condotta dell’esercito “liberatore” francese dalla fine del Direttorio alla fine dell’impero.

Infine, va segnalato un paradosso inerente al rapporto tra capitalismo e democrazia, che possiamo formulare più o meno così : numerose evoluzioni a cui al giorno d’oggi noi intendiamo opporci, cioè molti dei fenomeni sociali patologici, derivano da motivazioni che originariamente sono democratiche (come il desiderio di migliorare le proprie condizioni materiali di vita e aumentare il proprio livello di consumi). L’esempio più istruttivo è quello delle industrie inquinanti e delle industrie delle armi (conflitto tra effetti negativi e l’occupazione). Caillé è anche convinto che il nesso storico tra capitalismo e democrazia registra la priorità temporale della democrazia sul capitalismo, nel senso che è stata la nascita dei Comuni e il corroboramento di luoghi di democrazia negli “interstizi” del potere feudale e monarchico a favorire la costruzione del mercato : è stato il movimento democratico moderno a dare impulso al capitalismo e non viceversa. Ma ciò che è vero sul piamo della genesi storica non lo è più nella nostra contemporaneità, una volta cioè che il capitalismo ha guadagnato con la globalizzazione una dimensione planetaria di storia universale : ora sono i regimi autoritari e dispotici che garantiscono uno sviluppo senza intoppi al capitalismo.

Così pure, le due caratteristiche peculiari del capitalismo si riflettono sui suoi rapporti con la democrazia : a) esso è un sistema di produzione finalizzato al mercato ; b) esso è fondato su una dinamica di espansione o di accumulazione infinita e senza limiti. Ora, come tenere sotto controllo in uno “stato stazionario dinamico e progressista” dell’economia queste due caratteristiche peculiari ? Oppure : in che modo attingere un simile “stato stazionario”, se il capitalismo ha questi tratti distintivi ? Come ‘civilizzare’ il capitalismo ? E’ importante ricordare, a questo proposito, che la definizione da parte di Tocqueville della democrazia come il processo tendenziale ed inarrestabile verso l’eguagliamento delle condizioni di vita (la “passione dell’eguaglianza”) suggerisce che il desiderio del soggetto umano di accrescere quella che Spinoza chiamava la propria “potenza” (o capacità di essere e di agire) – e che Sen chiama capabilities – entra in collisione con la logica immanente del capitalismo, qualora la promessa di avere di più e di aumentare il livello di consumo non venga mantenuta. Il matrimonio tra democrazia e capitalismo può essere virtuoso ad una sola condizione : se il capitalismo si sottomette volontariamente ad una legge etica (o etico-politica) o, come mi piace chiamarla, ad una clausola antisacrificale, simile, come abbiamo detto, a quella formulata da J. Rawls in Teoria della giustizia con il Principio di Differenza, ma estesa a livello cosmopolitico. Il che significa : integrare all’interno della comunità democratica, compresa la comunità internazionale, coloro che ne sono esclusi restringendo l’accrescimento di potenza dei più ricchi a vantaggio dei meno favoriti.

Non c’è chi non veda che lo scenario odierno è contrassegnato dallo scioglimento di quel matrimonio sul piano degli Stati nazionali e dall’indebolimento di ogni sollecitazione all’autolimitazione da parte del capitalismo della sua tendenza strutturale alla finanziarizzazione dell’economia e alla mercificazione di tutti i mondi della vita. Perciò, la proposta del manifesto del convivialismo vuole anche essere il primo passo per la formazione di una coscienza politica sovranazionale e di una nuova grammatica dell’ideale democratico.

1. L. Canfora, Esportare la democrazia. Il mito che ha fallito, Mondadori, Milano 2007

2. Ph. Chanial – F. Fistetti, Homo donator. Come nasce il legame sociale, il nuovo melangolo, Genova 2011

3. Ph. Corcuff, ’Le pari démocratique à l’épreuve de l’individualisme contemporain’, in La Revue du MAUSS, n. 25, 2005

4. C. Crouch, Postdemocrazia, trad. it. Laterza, Roma-Bari 2003

5. La Revue du MAUSS, n. 25, 2005, numero speciale dedicato alle patologie della democrazia contemporanea

6. A. Caillé, Dé-penser l’économique. Contre le fatalisme, La Découverte, Paris 2005a

7. A. Caillé, “Malaise dans la démocratie’, in La Revue du MAUSS, n. 25, 2005b

8. A. Caillé, “Introduction” à A. Caillé – M. Humbert (sous la dir. De), La démocratie au péril de l’économie, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2006

9. AA.VV., Globalizzazione e diritti futuri, a cura di F. Fistetti/R. Finelli/F. R. Recchia Luciani/ P. A. Di Vittorio, manifestolibri, Roma 2004

10. A. de Tocqueville, La democrazia in America, in Id., Scritti politici, ed. it. Utet, Torino 1968

11. F. Fistetti, Istantanee, Morlacchi, Perugia 2006

12. F. Fistetti, La svolta culturale dell’Occidente. Dall’etica del riconoscimento al paradigma del dono, Morlacchi Editore, Perugia 2010

13. N. Fraser/A. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento ?, trad. it. Meltemi, Roma 2007

14. J. K. Galbraith, La società opulenta, ed. it. Bollati Boringhieri, Torino 1969

15. R. Girard, La violenza e il sacro, ed. it. Adelphi, Milano 1980

16. A. O. Hirschman, Le passioni e gli interessi, ed. it. Feltrinelli, Milano 1979

17. J. Huizinga, La crisi della civiltà, trad. it. Einaudi, Torino 1963

18. M. Humbert, Introduction a A. Caillé-M. Humbert-S. Latouche –P. Viveret, De la convivialité. Dialogues sur la société conviviale à venir, La Découvert, Paris 2011

19. R. Koselleck, Futuro passato, ed. it. Marietti, Genova 1986

20. M. Mauss, “Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche”, in Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, trad. it. Einaudi, Torino 1965

21. J. S. Mill, Principi di economia politica [1848], vol. 2, capitolo 6, ed. it. a cura di Biancamaria Fontana, Utet, Torino 1983, p. 999 e pp. 1000-1001 (traduzione leggermente modificata)

22. Ch. Mouffe, Le politique et ses enjeux, La Découverte, Paris 1994

23. Ch. Mouffe, ’Pur un pluralisme agonistique’, in La Revue du MAUSS, n. 2, 1993, pp. 98-105

// Article publié le 12 octobre 2013 Pour citer cet article : Francesco Fistetti , « Dal mito della crescita all’homo convivialis.  », Revue du MAUSS permanente, 12 octobre 2013 [en ligne].
https://journaldumauss.net/./?Dal-mito-della-crescita-all-homo
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