Milano, 12 luglio 2016 - 11:25

Isole contese, Pechino sconfitta: «Non ha alcun diritto sul mar cinese meridionale» | La sentenza: leggi

Il giudizio della Corte permanente Onu di arbitrato sulla Legge del Mare nel contenzioso territoriale con le Filippine. Pechino conferma: «Non riconosciamo la sentenza»

(Ap) (Ap)
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Nel Mar cinese meridionale la Cina sta violando la legge internazionale. «Pechino non ha titolo storico sulle acque di quel mare». Il giudizio della Corte permanente Onu di arbitrato sulla Legge del Mare è arrivato: nel contenzioso territoriale con le Filippine la Cina ha torto. Un giudizio tecnico, basato sulla distinzione tra scogli e isole, ma dal significato politico chiaro: in sostanza, molte delle attività di Pechino per rivendicare sovranità territoriale sul 90 per cento circa del Mar cinese meridionale sono infondate e dunque illecite.

La disputa di Scarborough

Tra queste azioni contestate, in particolare quella dell’occupazione cinese di Scarborough Shoal, una serie di scogli di fronte alle Filippine che Pechino aveva definito «isole» per poter far valere una zona di controllo di 200 miglia dal loro centro. Il possesso nazionale di uno scoglio invece concede solo 12 miglia di mare intorno. Scarborough per la Corte è solo una serie di scogli. Quindi Pechino con la sua azione aggressiva ha torto.

Unclos, la legge del Mare

L’arbitrato dell’Aia è un pronunciamento che pone dei limiti legali al tentativo cinese di imporsi come potenza globale. Una decisione basata sulla Unclos, United Nations Convention on the Law of the Sea, sottoscritta dai cinesi nel 1996 e che prevede un arbitrato dei giudici Onu dell’Aia in caso di contenzioso sollevato da un Paese.

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La «linea dei nove tratti»

Di fronte ai giudici della Corte dell’Aia, nel 2013 il governo di Manila aveva impugnato l’occupazione di Scarborough e aveva contestato la «linea dei nove tratti» che secondo i cinesi delimita le acque nazionali nel Mar cinese meridionale e si allunga fino a duemila chilometri dalle coste della Repubblica popolare e fino a poche centinaia di chilometri da Filippine, Vietnam e Malesia. Secondo quella mappa risalente al 1947, con nove tratti di penna, il 90 per cento di quei circa tre milioni quadrati di oceano sarebbero «storicamente soggetti alla sovranità della Cina», fin dai tempi imperiali. Dentro quei nove tratti ci sono gli arcipelaghi delle isole Paracel (Xisha secondo i cinesi) e Spratly (Nansha in cinese) e transitano ogni anno merci e materie prime da e per l’Asia con un valore di 5 mila miliardi di dollari. Una via d’acqua strategica e ricca di risorse naturali, dal gas al petrolio. Una zona dove operano le flotte di pescherecci di molte nazioni, dalle Filippine al Vietnam, dalla Malesia al Brunei. Pescatori che spesso si trovano di fronte le mitragliere di navi da guerra. Per controllare militarmente la zona oceanica i cinesi negli ultimi due anni hanno costruito e fortificato una serie di isole alle Paracel, riempiendo di sabbia e cemento isolotti, scogli, secche e barriere coralline.

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Il boicottaggio

I cinesi non hanno accettato l’arbitrato e hanno boicottato i lavori della Corte. Il giudizio della Corte Onu è (dovrebbe essere) vincolante, ma non c’è meccanismo per farlo applicare con la forza. Il significato però è politico e potrebbe aprire la via a una serie di contestazioni da parte degli altri Paesi che si affacciano sul Mar cinese meridionale, allargando la crisi per Pechino.

Pechino rifiuta il giudizio

Per conoscere la reazione cinese non è stato necessario attendere nemmeno un minuto: la Cina ha ribadito che «non accetta e non riconosce» alcun valore alla sentenza della Corte Permanente Arbitrale dell’Aja. Era da settimane che governo, ambasciate e consolati sparsi nel mondo ripetevano che la decisione dei giudici dell’Aia «è solo un pezzo di carta» e la «linea dei nove tratti» tracciata sulla mappa del Mar cinese meridionale segnala il «territorio nazionale sovrano e irrinunciabile». Questa mattina le prime pagne dei giornali cinesi sono dominate da titoli come «L’arbitrato è nullo», piazzato dal “China Daily” su una grande foto di Woody Island, (Yongxing in mandarino), una delle isole delle Paracel controllata dall’esercito di Pechino e rivendicata dal Vietnam. La foto mostra in bella evidenza un aeroporto costruito a Yongxing dal genio militare. Un altro titolo: «Il tribunale ha trattato il caso in maniera irresponsabile». Viene citata una frase del presidente Xi Jinping: «Nessun Paese straniero deve aspettarsi che la Cina possa mandar giù l’amarezza di un danno alla nostra sovranità nazionale, ai nostri interessi di sicurezza e sviluppo».

Reazioni concrete

Gli Stati Uniti, alleati militari delle Filippine, hanno fin qui affermato di non voler prendere posizione sull’arbitrato (non potrebbero anche perché Washington non ha mai ratificato l’Unclos, la Convenzione sulla Legge del Mare). Il Pentagono però ha inviato alcune unità della US Navy nei pressi di Scarborough e nell’arcipelago delle Spratly e la portaerei USS Ronald Reagan fornisce copertura, ha scritto la rivista americana “Navy Times”. Se si sentisse provocata dagli americani e dai filippini, Pechino potrebbe dichiarare nel «suo» Mar cinese meridionale una Adiz, Zona di Identificazione Aerea di Difesa, come quella imposta a novembre del 2013 nel Mar Cinese orientale per rivendicare le isole contestate con il Giappone: Senkaku per Tokyo, Diaoyu per la Cina. Ogni apparecchio civile o militare che volesse volare sulla Zona dovrebbe identificarsi e chiedere autorizzazione al controllo aereo cinese. Nel 2013 il Pentagono rispose facendo volare sulle Senkaku/Diaoyu anche i bombardieri B-52.

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