UNIVERSITARIA
OLTRE FINISTERRAE
COLLANA DI STUDI COMPARATISTICI
DIRETTORI
Lucio Pegoraro
Angelo Rinella
COMITATO DI DIREZIONE INTERNAZIONALE
Carlos Blanco de Morais
Gerardo Eto Cruz
José Julio Fernández Rodríguez
Giovanni A. Figueroa Mejía
Agassiz Filho
David Fonseca
Sergio Gerotto
José F. Palomino Manchego
Gianmaria Piccinelli
Lara Trucco
COMITATO DI VALUTAZIONE INTERNAZIONALE
Serena Baldin
Maria Auxiliadora Castro e Camargo
Liliana Estupiñán Achury
Gianluca Gardini
Francisco José Gutiérrez Rodríguez
Patrizia Magarò
Aurides Mora
Michael O. Nuñez Torres
Antonino Procida Mirabelli di Lauro
Juan José Ruiz-Ruiz
Mayte Salvador Crespo
Mario Serio
La revisione dei volumi pubblicati nella collana è effettuata da due
membri del Comitato di valutazione o, in ragione della specificità di
contenuti, da esperti individuati dal Comitato di direzione e, quando
occorra, da tre componenti di quest’ultimo.
Le sfide della sostenibilità
Il buen vivir andino dalla prospettiva
europea
a cura di
Serena Baldin e Moreno Zago
La pubblicazione è stata realizzata con il contributo del Fondo di
finanziamento di Ateneo per progetti di ricerca (Fra 2012) attribuito al
progetto “L’emersione di paradigmi di sviluppo sostenibile e solidale.
Dall’America Latina qualche suggerimento per l’Europa?”, coordinato
dalla prof.ssa Serena Baldin del Dipartimento di Scienze politiche e sociali
(www.dispes.units.it).
Con il patrocinio di:
- Centro Studi sull’America Latina dell’Università di Bologna
- Centro Studi per l’America Latina dell’Università di Trieste
- Sezione italiana dell’Instituto Iberoamericano de Derecho Constitucional
- Sezione Territorio dell’Associazione Italiana di Sociologia
Questo volume è stato sottoposto a una procedura di valutazione anonima
da parte di due referees.
SOMMARIO
PREFAZIONE
Il buen vivir come risposta ai problemi di fondo dell’umanità
Alfredo Mela
INTRODUZIONE
Le declinazioni della sostenibilità.
Esperienze latinoamericane ed europee a confronto
Serena Baldin, Moreno Zago
9
17
PARTE I
LE SOCIETÀ INCLUSIVE
Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud:
alcuni interrogativi
Francesco Lazzari
ISBN 978-88-95922-53-9
© Copyright 2014 Filodiritto Editore
www.filodirittoeditore.com
In copertina immagine © iStockphoto.com
Inforomatica S.r.l., Via Castiglione 81, 40124 Bologna
www.inforomatica.it
Filosofie del buen vivir tra passato e futuro
Fulvio Longato
Il sumak kawsay: da cosmovisione indigena a
principio costituzionale in Ecuador
Silvia Bagni
27
51
73
101
Stampato da Rabbi S.r.l. - Bologna, ottobre 2014
Il buen vivir come “autoctonia costituzionale” e limite
al mutamento
Michele Carducci
La traduzione, l’adattamento totale o parziale, la riproduzione con qualsiasi
mezzo (compresi i film, i microfilm, le fotocopie), nonché la memorizzazione
elettronica, sono riservati per tutti i paesi.
L’interculturalità come condizione di sostenibilità
del multiculturalismo
Cinzia Piciocchi
119
6
Sommario
Il rispetto della natura e delle specificità culturali:
il buen vivir come pratica interculturale
Donatella Greco
Sommario
135
Le nuove città del sogno e del buen vivir:
il Movimento Cittaslow
Chiara Beccalli
PARTE II
GLI ORIZZONTI DELLA SOSTENIBILITÀ
I diritti della natura: i risvolti giuridici dell’ética ambiental
exigente in America Latina
Serena Baldin
Altre economie e buen vivir
Chiara Zanetti
155
Benessere psicofisico: etica, persona e armonia con la natura
Elisabetta Pontello
7
285
299
317
185
Dal Pil al Buen vivir: paradigmi di sviluppo, indici
e paesi a confronto
Moreno Zago
333
Vulnerabilità del bene comune acqua e sollecitazioni
di giustizia in America Latina
Sabrina Lanni
201
Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita):
si possono misurare?
Giovanni Delli Zotti
369
Food Sovereignty: processi di democratizzazione dei sistemi
alimentari in America Latina
Angelo Rinella
219
Pachamanka e sovranità alimentare in Ecuador:
due spazi di “cottura”
Paolo Corvo, Claudia García
239
Agroecologia e buen vivir. Come far giocare l’uomo
e l’ambiente
Giorgio Osti
253
Natura, buen vivir e razionalità neoliberale
Luigi Pellizzoni
PARTE III
IL BENESSERE E LE SUE MISURAZIONI
Il buen vivir tra economia e società
Gabriele Blasutig
271
POSTFAZIONE
Diritto, diritto comparato, altre scienze nello studio
del nuevo constitucionalismo e del buen vivir andino
Lucio Pegoraro
389
PREFAZIONE
Il buen vivir come risposta ai problemi di fondo dell’umanità
di Alfredo Mela1*
Da quasi un quarto di secolo, in parallelo con l’espandersi di un capitalismo finanziario caratterizzato dallo scoppio di “bolle” e con la diffusione di politiche multilivello ispirate al neoliberismo, si fa strada anche
la convinzione che i modelli di sviluppo, che hanno consentito la crescita
economica in una parte del mondo nel corso del XX secolo, stiano conducendo verso un vicolo cieco che riguarda – sia pure in forme diverse
– tutti i paesi. Di qui nasce l’urgenza di trovare altri percorsi praticabili
per l’umanità nel suo complesso. La crisi che si è aperta nel 2007-2008
sembra avvalorare ulteriormente la necessità di un cambiamento, ma al
tempo stesso mette in evidenza le enormi forze di resistenza che esso
incontra, ponendo anche in luce la diversità – e talora la inconciliabilità
– delle idee e delle proposte che dovrebbero favorirlo.
Ciò dipende dal fatto che, nelle varie proposte, i principi ispiratori di
una possibile transizione verso nuovi (o, quanto meno, riformati) assetti
economici, sociali e territoriali comportano differenti valutazioni delle
ragioni dei fattori di crisi e dei percorsi atti a superarli. Per usare una forte schematizzazione, si potrebbe dire che molte proposte si situano lungo
una linea che vede agli opposti due visioni quasi del tutto antitetiche.
La prima ritiene che la crisi nasca da meccanismi di blocco del modello dominante, in atto soprattutto nella fase più recente, che possono
essere superati attraverso una nuova ondata di processi di “modernizzazione”, vale a dire di adeguamento del sistema capitalistico – tanto a
scala globale, quanto a quella di ogni contesto nazionale – alle esigenze
della fase attuale. Questo implica il rilancio di un orientamento allo svi-
*
Professore ordinario di Sociologia dell’ambiente e del territorio nel Politecnico di Torino.
Prefazione
Alfredo Mela
luppo equiparato sostanzialmente alla crescita economica, ma corretto
attraverso un pieno uso delle potenzialità delle nuove tecnologie (con
particolare riguardo alle Ict) in campo economico e sociale, un’accresciuta attenzione alla sostenibilità – anche e soprattutto come fattore di
impulso alla green economy –, un sostegno alla competitività delle imprese e alla globalizzazione che non dimentichi, tuttavia, l’esigenza di
una maggiore inclusività sociale. È questo l’orientamento che traspare
nelle retoriche dell’Unione Europea e nei programmi che essa propone;
più specificamente, è questa la filosofia che si esplicita – a scala spaziale
– nelle proposte che stanno sotto il concetto-ombrello di smart city: ai
problemi dell’urbanesimo contemporaneo si risponde con un complesso
di politiche di innovazione, che si avvalgono delle tecnologie di punta
per perseguire obiettivi di promozione della sostenibilità ambientale, di
rilancio economico, di miglioramento della fruibilità della città.
La polarità opposta è ispirata, invece, ad una critica radicale del modello di sviluppo dominante, che ne mette in discussione non solo gli
esiti oggi osservabili, ma gli stessi presupposti. La crisi attuale, in questa prospettiva, non è un incidente di percorso, ma evidenzia come la
traiettoria di tale percorso sia insostenibile e debba essere orientata in
direzioni completamente diverse. La necessità di una inversione di tendenza attraversa pressoché tutti gli aspetti del modello di sviluppo: il rapporto predatorio che esso ha instaurato tra la specie umana e la natura,
l’idea che il profitto sia l’unico movente dell’attività economica, gli squilibri crescenti tra i paesi e tra i gruppi all’interno di ciascuno di essi, la
subordinazione della scienza e delle applicazioni tecnologiche alle sole
esigenze di mercato. Ma, ancora al di là di tutti questi oggetti di critica,
sta l’idea che occorra superare lo stesso concetto di sviluppo, non solo
perché spesso inteso come pura crescita del Pil di ogni paese, bensì anche perché basato sull’obiettivo di un progresso indefinito dell’attività
umana in un mondo comunque caratterizzato dalla finitezza delle risorse.
Queste visioni radicali trovano per lo più espressione in movimenti sociali e in organizzazioni della società civile, piuttosto che nelle politiche
istituzionali: esse riguardano, ad esempio, i movimenti altermondialisti,
le forme radicali di ambientalismo, una miriade di movimenti locali che
si oppongono a specifici progetti o a grandi opere, cercando tuttavia una
connessione reticolare con altri attori sociali.
Rispetto alla linea ora descritta – entro la quale si possono trovare
delle posizioni intermedie, che tentano peraltro difficili mediazioni tra
le due polarità – il tema del buen vivir, che è l’oggetto di questo libro,
presenta per molti aspetti una posizione eccentrica. Esso, infatti, nasce
da una interpretazione della crisi che si avvicina maggiormente alla seconda delle polarità ora descritte ma, al tempo stesso, ha ormai acquisito
un carattere istituzionale, divenendo bandiera ispiratrice di politiche di
alcuni Stati latinoamericani. In ciò sta il suo fascino, ma anche qualche
elemento di ambivalenza.
Nelle pagine che seguono sia l’uno che gli altri troveranno una puntuale analisi; tuttavia, già in sede introduttiva può essere utile sottolineare
alcuni aspetti. Innanzitutto, l’idea di buen vivir ha un carattere effettivamente in contrasto con i modelli basati sulla crescita e, dunque, non può
essere considerata una semplice declinazione latinoamericana di concetti
come quello di sviluppo sostenibile, quanto meno nelle sue interpretazioni blandamente riformiste. Come sottolinea Gudynas (2011), riprendendo l’espressione di altri intellettuali latinoamericani, essa non propone
forme alternative di sviluppo, ma un’alternativa allo sviluppo. In questa
luce, il concetto di buen vivir ingloba certamente una presa d’atto realistica: quella che il modello economico-sociale dei paesi più sviluppati
non potrebbe essere proposto come obiettivo per l’intero quadro dei paesi mondiali, perché il suo raggiungimento comporterebbe l’irreversibile
distruzione dei rapporti tra l’uomo e la natura. Tuttavia, va al di là di
questo, in quanto accusa di etnocentrismo lo stesso pensiero “sviluppista”: esso sarebbe una concezione imposta all’America Latina tramite il
colonialismo – prima politico e poi economico – in contrasto con quella
dei popoli originari del continente, la cui visione cosmologica ed il sistema di valori comprendono, invece, l’idea di una relazione armonica tra la
specie umana ed il cosmo e, dunque, della comunità di destini tra l’uomo,
gli altri esseri viventi, la Terra.
D’altra parte, il buen vivir, a differenza di altri concetti che si propongono solo come idee-guida per l’azione di movimenti o per la progettazione di politiche, diventa un riferimento che, in alcuni paesi latinoamericani, assume addirittura un rilievo costituzionale. Dunque, si trasforma
in un principio non solo recepito a livello istituzionale, ma addirittura
posto a fondamento delle istituzioni statali. Questo, da un lato, ne raf-
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11
Prefazione
Alfredo Mela
forza la concretezza e lo configura come una proposta non puramente
utopica ma, semmai, come una utopia realizzabile e, per alcuni aspetti,
già realizzata. Dall’altro lato, lega inevitabilmente il paradigma del buen
vivir alle pratiche degli Stati che lo assumono come principio ed alle scelte politiche dei governi di tali paesi e, in primo luogo, dei loro leader. Ciò
espone, in qualche misura, il paradigma stesso ai rischi di diventare strumento di consenso interno e di rafforzamento della posizione di taluni
Stati in un contesto internazionale o, quanto meno, subcontinentale; lo
apre, dunque, a tutte le ambiguità delle idee che si incarnano in concrete
strutture sociali, politiche e giuridiche.
Per queste ragioni, il buen vivir occupa un posto peculiare tra le potenziali idee-guida di modelli alternativi a (o seriamente correttivi di) quelli
del capitalismo attuale: è una forma di radicalismo istituzionalizzato che
– si può aggiungere – non nasce da rivoluzioni che si sono consolidate
in forme istituzionali (come quelle che, nel corso del Novecento, hanno
conosciuto ad esempio il Messico o Cuba), ma da profonde riforme della
democrazia nei rispettivi paesi.
C’è poi ancora un fondamentale motivo di specificità di questo paradigma: esso intende ispirarsi ad una tradizione autoctona, aspirando ad integrarla con l’eredità che proviene dalla cultura dei colonizzatori iberici. Una
tradizione che, orientata da una visione comunitaria che pone a fondamento della vita buona l’armonia del cosmo e l’equilibrio tra l’uomo e la natura,
non solo dà piena dignità ai popoli indigeni americani nei confronti della
popolazione di origine iberica, ma mostra l’importanza del loro contributo
alla risoluzione di un problema di fondo dell’umanità intera. Potremmo
dunque asserire che il concetto del buen vivir (o sumak kawsay, o suma
qamaña, come sarebbe forse più appropriato dire, conservando le dizioni delle lingue originarie) si presenta al tempo stesso come culturalmente
specifico, ma capace di aspirare ad un ruolo cosmopolita. Con ciò prende
implicitamente le distanze da idee che a loro volta si presentano come dotate di validità universale, ma che, per così dire, non accettano di essere
espressione specifica della cultura occidentale, in quanto presuppongono
una automatica equivalenza tra universalismo e valori europei: ciò vale in
modo particolare per principi ispirati ad un ottimismo tecnologico e alla
fiducia nell’economia di mercato, come è il caso ad esempio della già ricordata filosofia smart o di alcune interpretazioni della sostenibilità.
Questa natura al tempo stesso “locale” e “universale” del buen vivir
pone il problema del possibile trasferimento dei suoi insegnamenti nel
nostro contesto europeo e, dunque, della sua rilevanza come riferimento
teorico e politico per le nostre società. È un problema alla cui risposta
il presente testo offre importanti spunti, aprendo comunque ad ulteriori
approfondimenti. Pur restando alla superficie del tema, penso che vi siano due atteggiamenti da evitare. Il primo è quello di relegare la discussione ad un ambito di specialisti dell’America Latina, sotto il pretesto
apparentemente ragionevole che una comprensione piena del significato
del buen vivir derivi solo da una piena conoscenza della cosmovisione dei
popoli autoctoni e dalle ricostruzione storica delle vicende postcoloniali
del subcontinente, sino alla comprensione delle tensioni contemporanee
che lo attraversano. Sarebbe questo un eccesso di contestualizzazione,
che finirebbe per svuotare l’idea delle sue valenze universali, evitando di
prendere coscienza del fatto che essa prova a dare risposta a problemi
che si impongono ormai a tutti i popoli della Terra – qualunque ne sia
la cosmovisione – e che la crisi attuale ha reso sempre meno eludibili.
L’atteggiamento opposto da rifuggire è, invece, quello di un difetto di
contestualizzazione che portasse semplicemente ad un entusiasmo acritico per l’idea del buen vivir, svuotandola dei suoi contenuti peculiari.
Tale rischio, in definitiva, è quello di una sua accettazione in un clima di
eclettismo superficiale o, peggio, quello di un innamoramento a prima
vista, da parte di intellettuali occidentali, per un concetto che suona un
po’ esotico e proprio per questo può esercitare un fascino per chi cerca
soluzioni stimolanti alle aporie del proprio universo culturale. Se questo
avvenisse, non sarebbe la prima volta (si pensi all’attrazione esercitata in
Europa da varie forme di movimenti rivoluzionari latinoamericani, specie tra gli anni ‘60 e ‘80), ma potrebbe rivelarsi come un fuoco di paglia,
che non lascia tracce di rilievo.
Entrambi i rischi, come è evidente, sono qui presentati in forma schematica e persino un po’ caricaturale. Tuttavia il problema è sufficientemente chiaro: di fronte ad un’idea che proviene da un contesto culturale
“altro”, ma che affronta temi di rilevanza generale, si tratta in primo luogo di prenderla sul serio su entrambi i versanti. Su quello universalistico
occorre ammettere che la ricerca di un nuovo riferimento per la definizione di obiettivi sociali ed economici non ammette remore: l’idea di
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14
Prefazione
un progresso indefinito basato unicamente sull’ottimismo tecnologico e
sulle politiche neoliberali non conduce ormai da nessuna parte. Il paradigma del buen vivir, che propone come riferimento modelli di vita sobria, basati sull’equilibrio uomo-natura, sull’affermazione del ruolo della
diversità culturale, rinviando a concezioni olistiche delle relazioni sociali
e della salute, è un contributo importante verso l’individuazione di alternative. Sul versante della specificità culturale, occorre partire dal rispetto
per l’universo culturale che lo ha prodotto, unito ad un impegno per una
più adeguata comprensione di esso, senza per questo rinunciare a cogliere le ambiguità che derivano dai progetti politici che hanno fatto del buen
vivir un principio costituzionale. Tale rispetto della alterità conduce ad
un dialogo franco e paritario, che non si identifica necessariamente con
l’adesione ad una cosmovisione altra.
Oltre ciò (ed è questo un tema cui qui si accenna solo di sfuggita),
dovrebbe implicare anche lo stimolo ad una riflessione più approfondita
sulla nostra stessa cultura. Prendere coscienza del fatto che la cultura
occidentale non è che una delle civiltà del pianeta e, dunque, superare
la miopia di una visione eurocentrica è certamente una premessa indispensabile di quel dialogo paritario di cui si diceva. Ma lo è anche una
riappropriazione di quegli aspetti della cultura europea e di quelle tradizioni che non coincidono affatto con l’individualismo estremo e con una
concezione puramente strumentale della natura.
Non tutta la storia ed il pensiero dell’Occidente convergono verso gli
esiti di cui la crisi attuale sta evidenziando l’impatto negativo. Il capitalismo delle crisi finanziarie e della precarizzazione del lavoro è probabilmente il segnale della fine di un’epoca, ma non è la conseguenza inevitabile di tutta la civiltà europea. Può apparire banale riaffermare questo,
ma il clima culturale di questo inizio di XXI secolo sembra renderlo non
del tutto superfluo. Dunque, dialogare con le culture altre è essenziale,
come lo è al tempo stesso compiere una riflessione critica sulla nostra,
per riallacciarci a quegli aspetti delle tradizioni occidentali che meglio si
adattano a far da ponte tra l’Europa e gli altri continenti.
Alfredo Mela
15
Bibliografia
Gudynas E. (2011), Buen vivir: germinando alternativas al desarrollo, in ALAI,
América Latina en Movimiento, 462.
Abstract: The author focuses on the universal nature of the concept of
buen vivir as opposed to a conception of the dominant development model based on the goal of an indefinite progress of human
activity in a world, however, characterized by the finiteness of resources. But it would be wrong to relegate it to a simple declension
of Latin American concepts such as sustainable development. In
fact, despite coming from a different cultural context, it addresses
issues of general relevance by proposing a model of lifestyle based
on the balance among man, community and nature and on the affirmation of the role of cultural diversity and biodiversity.
Keywords: World economic crisis, Buen vivir, Alternative development model, Universal values, Cultural biodiversity.
INTRODUZIONE
Le declinazioni della sostenibilità. Esperienze latinoamericane ed
europee a confronto
di Serena Baldin2* e Moreno Zago3**
Il programma strategico Horizon 2020 con cui l’Unione Europea punta a rilanciare lo sviluppo degli Stati membri, alla voce “Sfide per la società” fissa delle priorità che fanno leva, fra le altre cose, sulla gestione
sostenibile delle risorse naturali e degli ecosistemi e sulla costruzione di
società inclusive e innovative. L’obiettivo è una crescita economica e occupazionale attenta alle esigenze di sostenibilità, le quali inglobano sia
aspetti ambientali che sociali.
Nell’attuale contesto di grave crisi economica e finanziaria, il modello
di sviluppo occidentale è sottoposto ad ancora maggiori critiche rispetto
al passato. Già a partire dagli anni ‘70, gli studi sui limiti dello sviluppo
hanno evidenziato le difficoltà di crescita di un sistema economico in
presenza di una disponibilità limitata di risorse naturali (Meadows et al.,
1972). In senso stretto, tali vincoli si concretizzano, in particolare, in scarsità di acqua, cibo ed energia (Unescap, 2010). In senso più ampio, anche
il cambiamento climatico rappresenta una variabile che incide in modo
sempre più preponderante sul successo del percorso di crescita. La tendenza mondiale rispetto alle risorse naturali è di un’intensificazione del
prelievo e dell’uso, dovuta alla congiunzione fra il mantenimento degli
standard di consumo dei paesi sviluppati e la crescente domanda da parte
dei paesi emergenti, alcuni dei quali molto popolosi e quindi in grado
di modificare ampiamente gli impatti. Nel caso dei paesi sviluppati, che
hanno già raggiunto un equilibrio di crescita sostenuta, si manifestano
*
Professoressa associata di Diritto pubblico comparato nell’Università di Trieste.
Professore associato di Sociologia dell’ambiente e del territorio nell’Università di Trieste.
**
Introduzione
Serena Baldin - Moreno Zago
sempre più chiare le criticità di tale sviluppo, mentre per i paesi emergenti, che stanno ancora attraversando la cosiddetta fase di transizione, ci si
chiede se il modello adottato dai primi sia ancora realizzabile oppure non
sia più sostenibile (Galor, 2005; Unescap, 2012).
Sul piano sociale si osserva poi che le diseguaglianze si stanno accentuando, e ciò anche nei paesi sviluppati. Una crescita solidale implica, a
livello pratico, la progettazione di programmi di inclusione sociale che
ha come obiettivo di garantire un minimo livello di welfare per ciascun
individuo, una condizione di benessere che comprenda sia beni materiali
(che si inverano primariamente nella garanzia del godimento dei diritti
sociali: alla salute, all’alloggio, ecc.), sia immateriali, al fine di interagire
in maniera costruttiva in seno alla società. Ecco che un livello dignitoso di
istruzione, il lavoro, la partecipazione alla vita politica, il riconoscimento della diversità culturale assumono un rilievo significativo, in quanto
rappresentano l’ambizione più profonda delle politiche inclusive, ossia il
raggiungimento della coesione sociale (Collins, 2003).
La ricerca di strategie alternative di sviluppo e di strumenti sociali
inclusivi e innovativi si dovrebbe muovere non solo sul piano delle pratiche, bensì anche su quello dell’analisi dei simboli del benessere. Ciò in
quanto le visioni del mondo e del benessere pesano sulle tendenze attuali.
Lo sviluppo sostenibile non è percepito allo stesso modo dagli attori globali. La sostenibilità chiama in causa idee e valori diversi a seconda del
contesto di riferimento. Anche il termine sviluppo può implicare concetti
differenti in base alle credenze etiche, alle rappresentazioni del mondo e
agli obiettivi dei singoli individui.
Tutto ciò suggerisce di ampliare lo spettro della riflessione teorica,
evidenziando altre rappresentazioni della sostenibilità. Del resto, il fatto
che la circolazione delle idee in campo giuridico, sociale, economico e
ambientale non sia unidirezionale, egemonizzata dall’Occidente, bensì
interdipendente e reciproca, è un dato oramai acquisito. Le esperienze
in ogni ambito del sapere di cui sono portatori i paesi in via di sviluppo e quelli emergenti – che non hanno conosciuto la razionalizzazione
del mondo occidentale di stampo weberiano –, rappresentano un fertile
terreno di analisi per individuare strategie nuove e modelli alternativi di
sviluppo, utili a rinfocolare il dibattito in Europa.
Muovendo da queste premesse, la collettanea si indirizza verso lo stu-
dio di altri paradigmi di vita, fondati su inclusione e partecipazione sociale, equità distributiva, rispetto della diversità culturale e della biodiversità, ecosostenibilità, giustizia ambientale, sovranità alimentare, benessere
psicofisico, con intenti di conoscenza e di comprensione delle capacità
innovative di soluzioni forgiate altrove. Sotto questo profilo, appare degna di interesse scientifico la cosmovisione dei popoli autoctoni dell’area
andina, sumak kawsay e suma qamaña nelle lingue native. La loro filosofia
di vita, tradotta con i termini buen vivir e vivir bien, contempla l’esistenza armoniosa, intesa come vivere in equilibrio con la comunità e con la
natura, e non come vivere sempre meglio secondo la logica di sviluppo
occidentale. Il postulato di fondo è che tutti gli esseri viventi sono parte
della Pachamama e in essa si completano. Questo sistema di pensiero è
cosmocentrico, con gli esseri umani coscienti di avere un ruolo subordinato rispetto all’ordine delle cose e ben lontano dall’immagine antropocentrica dominante. Da poco costituzionalizzata negli ordinamenti di
Ecuador (2008) e Bolivia (2009), questa cosmovisione esprime un equilibrio che include la qualità della vita, la democratizzazione dello Stato,
l’inclusione di tutte le componenti sociali e l’attenzione ai temi ecologici.
Il buen vivir implica un cambio radicale nel modo di concepire le relazioni fra Stato, società e mercato, nel tentativo di superare una visione
riduzionista di crescita economica che non è in grado di diffondere il
benessere in vaste aree del mondo. Ci si trova di fronte a una posizione
differente tanto dal realismo cartesiano quanto dal costruttivismo kantiano, che hanno dominato la modernità collegandosi con l’atteggiamento
appropriativo che caratterizza l’economia di mercato e i regimi di proprietà, e vicini a declinazioni recenti in ambito filosofico, sociologico e
antropologico post-strutturalista.
Giova qui chiarire che il buen vivir è un concetto in costruzione, da
non confondersi con un ideale di ritorno a un passato pre-coloniale. I
movimenti sociali iniziarono a richiamarsi al buen vivir negli anni ‘90,
per contestare le riforme economiche di stampo neoliberale, esprimendo
in questo modo l’impegno verso la decolonizzazione e il rafforzamento
delle identità culturali (Arkonada, 2009; Walsh, 2010; Gudynas, 2011). Si
tratta di una narrazione controegemonica, un prodotto culturale assurto
a tradizione «inventata» secondo l’accezione di Hobsbawm (2002: 3 ss.),
ossia l’elaborazione di una risposta a tempi di crisi, a epoche di rapido
18
19
Introduzione
Serena Baldin - Moreno Zago
cambiamento sociale e dove il richiamo al passato serve a legittimare le
scelte politiche. Marini (2011: 185) chiarisce che il richiamo all’invenzione non sottende necessariamente la nascita di un qualcosa che prima
non esisteva. Esso serve piuttosto a indicare il processo mediante il quale
viene raggiunta una versione univoca della tradizione, privilegiando alcuni percorsi a scapito di altri. Il passato cui si riferisce la tradizione non
è dunque necessariamente il passato storico. Ciò che importa non è la
verità del fatto, bensì la verità del ricordo che determina l’«anacronismo
essenziale» delle tradizioni (Monateri, 2013: 43 s.). Individui e tradizioni
culturali sono parte di una complessiva memoria della collettività nella
quale epoche e culture si stratificano le une sulle altre e possono, come
reminiscenze, riemergere e venire nuovamente collegate (Assmann, 2002:
256). I richiami al buen vivir appaiono allora un’operazione delle élites
indigene per coagulare il consenso elettorale attorno a un manifesto politico che permea alcune società andine.
La comprensione dei valori e la soddisfazione dei bisogni delineati
nella piattaforma politica del buen vivir sollecitano una lettura interculturale a ogni livello di conoscenza. Un passaggio obbligato per affermare
una «epistemologia del Sud» (de Sousa Santos, 2009), non occidentale,
che finalmente incorpori la cultura autoctona nell’identità latinoamericana, sovente dipinta come mera periferia del centro europeo (Somma,
2012).
A partire dalle suddette riflessioni, i curatori si domandano quali siano i valori che il buen vivir reca con sé e se dalla visione umanistica – focalizzata sull’individuo e la sua partecipazione/inclusione nella comunità
– e da quella cosmocentrica – distinta dalla prospettiva antropocentrica
– si possano trarre degli spunti utili al raggiungimento degli obiettivi di
sostenibilità fissati dall’Unione Europea. L’obiettivo è di riempire di significato questi concetti elaborati nell’area latinoamericana e di cogliere
differenze e somiglianze con le più recenti tendenze rinvenibili in ambito
europeo e anche internazionale.
Temi e problemi si sintetizzano in questo volume lungo tre filoni di
indagine. Il primo filone riguarda le società inclusive. Una società inclusiva dà senso di appartenenza a una comunità, considera la diversità
come un elemento di forza e non di divisione ed è basata sul rispetto
reciproco, garantendo pari opportunità e un tenore di vita dignitoso per
tutti. Francesco Lazzari apre la prima parte del volume con un’analisi dei
movimenti sociali che le recenti trasformazioni istituzionali avvenute in
America Latina hanno rimesso al centro della scena geopolitica. Questi,
richiamandosi anche alle tradizioni indigene, si stanno muovendo per
un’equa redistribuzione delle risorse nel rispetto dei diritti fondamentali
della persona e dell’ambiente. Fulvio Longato introduce il tema del buen
vivir mettendo a fuoco le convergenze tra le cosmovisioni andine e l’attuale riflessione occidentale sullo sviluppo, illustrando le problematiche
da affrontare per perseguire uno stile di vita improntato sulla sobrietà.
Silvia Bagni evidenzia come i richiami costituzionali al sumak kawsay e
alla Pachamama rappresentino un elemento innovativo del neocostituzionalismo andino caratterizzato dal tentativo di creare uno Stato realmente
pluralistico, solidale, partecipativo ed ecologico. Attraverso il riferimento al c.d. dilemma del cacciatore di Rousseau, Michele Carducci spiega
la funzione delle clausole costituzionali legate al buen vivir, finalizzate a
scongiurarne o comunque a limitarne gli effetti a danno dell’autoctonia
costituzionale intesa come pluralismo interculturale e come natura-soggetto. Il tema dell’interculturalità viene poi approfondito nei due articoli
successivi. Cinzia Piciocchi, descrivendo la differenza tra multiculturalismo e interculturalità in ambito giuridico, evidenzia come quest’ultima
veicoli l’idea che la reciprocità risiede nel riconoscimento dell’altro, e che
la convivenza implica un’assunzione di responsabilità collettiva. Donatella Greco analizza la relazione che i principi del buen vivir stabiliscono
con le tematiche legate all’ibridazione nel contesto latinoamericano, così
come viene intesa nelle riflessioni dell’antropologo Néstor García Canclini, anche a fronte dei meccanismi di globalizzazione tutt’ora in corso.
Il secondo filone è rivolto alla sostenibilità con riferimento ad ambiente, acqua e sovranità alimentare. Questi temi, presenti nelle agende
degli Stati e delle organizzazioni internazionali, sono considerati un traguardo per l’equilibrio politico mondiale e per la sopravvivenza umana.
Questa parte si apre con il contributo di Serena Baldin che esplora il
tema del riconoscimento dei diritti di Madre Terra evidenziando come la
vera novità introdotta da Ecuador e Bolivia sia l’actio popularis in materia
ambientale. Il rilievo dell’aspetto ecologico insito nel buen vivir, secondo
Luigi Pellizzoni, potrebbe rappresentare un’alternativa allo sfruttamento
del mondo biofisico che la globalizzazione neoliberale sta portando al
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21
Introduzione
Serena Baldin - Moreno Zago
parossismo. La sfida che l’America Latina lancia alle logiche del mercato
e del profitto governanti i settori relativi all’acqua e al cibo viene trattata
nei contributi successivi. Sabrina Lanni segnala le cause ex ante ed ex post
che incidono sulla persistenza della crisi dell’acqua e della sua vulnerabilità giuridica e dedica attenzione specifica al Tribunale latinoamericano
dell’acqua, che rappresenta una forma di risposta alle diffuse istanze di
giustizia alternativa e di soluzioni per la lesione degli interessi pubblici e sociali connessi a questo bene. Oltre al controllo sull’acqua, affiora
il concetto di sovranità alimentare quale obiettivo strategico finalizzato
ad invertire la logica distruttiva del modello agroalimentare dominante.
Angelo Rinella si concentra su questo principio nelle costituzioni di Venezuela, Ecuador e Bolivia, mentre Paolo Corvo e Claudia García individuano nella sovranità alimentare e nella pachamanka – un antichissimo
sistema di cucinare – due spazi di “cottura” di idee e di alimenti in cui si
esprimono l’identità e le ambizioni andine. Giorgio Osti, infine, utilizza
l’agriecologia e la sovranità alimentare come terreno di prova del rapporto uomo-natura che il buen vivir propone.
L’ultimo filone è quello del benessere economico, sociale e psicofisico
e della sua misurazione. Negli ultimi anni, i paesi dell’America Latina
stanno conoscendo importanti tassi di crescita economica, accompagnati
da significativi progressi in campo sociale. Tuttavia la politica, sia europea che latinoamericana, appare tiepida di fronte al crescere di movimenti sociali che aspirano a una re-incorporazione dell’economia nella
società. Gabriele Blasutig sviluppa proprio questo ultimo aspetto, evidenziando come il paradigma del buen vivir metta in discussione l’idea
– centrale nella modernità – che l’economia di mercato costituisca un
sistema autoregolato e separato dalla società e come l’azione economica
stia diventando sempre più una forma di azione sociale. E di economie
diverse, altre, solidali, etiche, sostenibili scrive Chiara Zanetti, illustrando
l’insieme di esperienze e buone pratiche che propongono alternative al
sistema di mercato esistente, che nel tempo ha messo in luce tutte le sue
criticità. Con Chiara Beccalli dall’economia si passa alla società e alle
politiche di governance e di pianificazione locale delle città che mettono
al centro i cittadini nel rispetto delle tradizioni fondative e per la ricerca
di un miglioramento della qualità della vita, affrontando l’esperienza del
Movimento Cittaslow. Elisabetta Pontello si focalizza sull’accezione di
ben-essere psicofisico della persona, che richiede un rapporto armonioso con la natura e che implica processi decisionali attinenti alla capacità
di fare e di essere. I due contributi finali sono dedicati alle misurazione
della qualità della vita a livello territoriale e individuale. Consapevoli che
la soddisfazione dei bisogni umani risponde a esigenze di valori sociali
specifici di ogni cultura, Moreno Zago, dopo una critica agli indicatori
classici dello sviluppo e agli indici proposti da varie organizzazioni, suggerisce un indice composito basato sulla visione andina del buen vivir evidenziando la relazione uomo-natura, mentre Giovanni Delli Zotti fa un
approfondimento metodologico sul concetto di felicità e di come questo
sia calcolato nelle survey internazionali.
In conclusione, i curatori non possono che condividere quanto scrivono nella prefazione Alfredo Mela e nella postfazione Lucio Pegoraro,
quando il primo suggerisce di evitare un facile innamoramento per un
concetto esotico che può rischiare di rivelarsi come un fuoco di paglia
che non lascia tracce rilevanti, e il secondo che rimarca la necessità di un
approccio critico sempre più interdisciplinare, in particolare del diritto
con la sociologia – che enfatizza il pluralismo espresso dalle società – e
l’antropologia – chiave di lettura essenziale per comprendere i fenomeni
basati su concezioni non occidentali del diritto. Il sistema andino, proponendo un modello di vita basato sull’equilibrio fra esseri umani e natura e
sull’affermazione del rispetto della diversità culturale e della biodiversità,
al di là delle sue zone d’ombra e delle peculiarità tipiche dell’area, offre
un contributo importante al tema dello sviluppo sostenibile. È un’alternativa di cui essere consapevoli per affrontare meglio le sfide che si presentano all’Europa, con particolare riguardo agli approcci neoliberali dei
modelli di crescita.
22
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Abstract: The volume focuses on the Andean cosmovision called buen
vivir and its manifestations on the social, environmental, legal, economic spheres. Recognized in the constitutions of Ecuador (2008)
and Bolivia (2009), buen vivir (sumak kawsay or suma qamaña in
local idioms) does not conceive the separation between human beings and nature typical of the Western societies. It is a systemic
approach to the development and sustainability, based on the subjective aspect rather than the objective one, and which differs from
the linear models of Western development. The aim of the volume
is to analyze the concepts of sustainable development and wellbeing in Latin America in the light of buen vivir and to understand
their potential in comparison to the European societies.
Keywords: Horizon 2020, Buen vivir, Inclusive societies, Sustainability, Well-being.
PARTE I
LE SOCIETÀ INCLUSIVE
Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud:
alcuni interrogativi
di Francesco Lazzari4*
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La dialettica sistemica tra democrazia e
democrazie. – 3. Coscientizzazione, processi di conquista dei saperi e democrazia emancipatoria. – 4. Per un sistema mondo che
integri e armonizzi i diritti della persona e i diritti della Terra.
1. Premessa
In questi ultimi lustri si è andata sviluppando in America Latina una
serie di rivolgimenti culturali, sociali e istituzionali che sembrano abbracciare, pur nella diversità dei linguaggi e delle forme, una visione del
mondo interpretabile secondo alcuni filoni particolarmente significativi:
a) attenzione alla persona intesa nella sua centralità inderogabile e depositaria di diritti, quelli illustrati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, firmata a Parigi nell’ambito dell’Organizzazione
delle Nazioni Unite. Una preoccupazione che per certi aspetti va anche
oltre, con riferimento soprattutto a quanto attiene ai diritti dei popoli e
della natura, che fanno un tutt’uno con i diritti della persona. Una persona i cui bisogni e aspirazioni rientrano in una visione olistica, integrata
e sostenibile, in cui il suo benessere e buen vivir sono inscindibili dalla
salute dell’ambiente e della Pachamama, in lingua nativa Madre Terra; b)
movimenti collettivi e sociali, comunità di base e della società civile che,
pur avendo una lunga tradizione di attivismo, di intervento e pressione
sociale, in questi ultimi decenni si sono fatti particolarmente incisivi riuscendo a produrre effettivi e sostanziali cambiamenti, non solo a livello
*
Professore straordinario di Sociologia generale nell’Università di Trieste e direttore del
Centro Studi per l’America Latina (Csal) e della rivista Visioni LatinoAmericane.
Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud
Francesco Lazzari
di società civile, ma anche sul piano istituzionale. Sono in grado di condizionare la politica, quando non vi intervengono direttamente facendo eleggere propri rappresentanti o comunque leader sostenuti, seppur
non senza critiche, dai movimenti stessi. Qualche esempio: Luiz Inácio
Lula da Silva, presidente del Brasile dal 2003 al 2011; Fernando Armindo
Lugo Méndez, presidente del Paraguay dal 2008 al 2012; Evo Morales,
presidente della Bolivia dal 2006; Rafael Correa, presidente dell’Ecuador
dal 2007; José Alberto Pepe Mujica Cordano, presidente dell’Uruguay
dal 2010; Michelle Bachelet, presidente del Cile dal 2006 al 2010 e dal
2014 per un successivo mandato.
Un’attenzione alla persona che nasce da lontano, ma che era stata messa totalmente da parte soprattutto negli anni ‘70 e ‘80 durante il periodo
delle dittature militari e dei colpi di Stato cruenti (Brasile, Argentina, Cile,
Colombia, Costa Rica, Honduras, Ecuador, Perù, Uruguay, Venezuela e
così via) che, con il sostegno molto spesso attivo e diretto degli Stati Uniti, avevano schiacciato ogni diritto individuale-collettivo-democratico e
il più elementare diritto alla vita. E forse non è un caso, in una sorta di
nemesi storica, che molti degli attuali presidenti siano stati perseguitati,
incarcerati, torturati e ridotti all’esilio in quegli anni delle dittature. Si
ripropone un’idea di persona senza se e senza ma, scevra da desideri di
vendetta e con la barra diritta verso una più incisiva redistribuzione delle
ricchezze e di migliori opportunità per tutti. Seppur faticosamente, e tra
mille contraddizioni legate anche ai processi di globalizzazione che mettono al centro il mercato, la persona sembra trovare in America Latina
un rinnovato vigore che diventa battistrada e conseguenza dell’azione di
tanti movimenti collettivi (Lapuente Giné, Sandberg, 2014).
Movimenti sociali che, nati in America centromeridionale, si stanno
viepiù globalizzando apportando linfa nuova ed energie positive, com’è
per esempio il caso del Forum sociale mondiale avviato nel gennaio 2001
a Porto Alegre e diffusosi a livello planetario. Esprimono la forza di una
cultura condivisa, che nasce dal basso e che vuole declinare in altro modo
la globalizzazione, il suo “libero mercato” e gli epigoni del neoliberismo.
Illuminante a tal proposito è quanto sostiene l’attuale presidente eletto dell’Uruguay, José Pepe Mujica Cordano, di origini liguri per parte
di madre, quando parla di sviluppo, di mercato e di autorealizzazione
basandoli su un concetto quasi del tutto assente dalle riflessioni attuali: la
sobrietà. Una sobrietà per vivere meglio e per riconciliare l’uomo con la
natura. Una sobrietà che possa rendere l’uomo più felice (Rabhi, 2013).
«La mia idea di vita è la sobrietà. Concetto ben diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente
senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché
quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo
della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è un
bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo
per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io
lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi.
L’alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui, che però ti tolgono il tempo per vivere» (Staglianò, 2013: 25). Una
pratica di vita che il presidente Mujica ha riassunto nello slogan: «Un
governo onesto. Un paese di prima classe». Una coerenza che lo fa vivere
nella sua casetta di 50 metri quadrati, appena fuori Montevideo, al Cerro,
rinunciando al palazzo di rappresentanza e al 90% del suo appannaggio
presidenziale che viene utilizzato per finanziare azioni di microcredito in
favore della popolazione (Millás, 2014). Un presidente che ha spinto The
Economist a eleggere nel 2013 l’Uruguay “paese dell’anno”.
28
29
2. La dialettica sistemica tra democrazia e democrazie
Come si sa, i diversi sottosistemi sociali – Stato, mercato, terzo settore
e sistemi informali – godono di strette interdipendenze e, proprio in virtù
di questa dialettica, anche la conquista dei diritti fondamentali non può
mai dirsi definitivamente compiuta. L’ideologia acritica che fa del mercato la sua centralità, ha infatti avviato all’alba del XXI secolo una vera e
propria involuzione socio-politica che ha come conseguenza la restrizione-cancellazione graduale ma inesorabile dei diritti fondamentali della
persona. Ciò è tanto più grave poiché tale ideologia si pone come unica,
reale e possibile salvezza del sistema socio-produttivo vigente. Un vero e
proprio pensiero unico. Confondendo gli interessi del neoliberismo con
quelli della democrazia, si crede, in virtù di tale ideologia, di poter salvare
i diritti della persona e di promuovere la democrazia. Si assiste, invece,
alla crescita esponenziale di esclusioni, polarizzazioni tra ricchi e poveri,
Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud
Francesco Lazzari
alla perdita del libero arbitrio del cittadino, alla stabilizzazione di molti
poveri sempre più poveri e di pochi ricchi sempre più ricchi, alla perdita
di senso, alla sfiducia nello Stato e nella democrazia e all’aumento dell’infelicità delle persone.
Le domande che sembrano invece emergere, indipendentemente dalle latitudini, richiamano altre necessità: a) come implementare nuove
politiche focalizzate realmente sui bisogni della gente, sull’etica e sulla
moralità per una gestione oculata dei beni comuni? b) come lavorare per
una diversa governance, planetaria e locale, e per la promozione di processi di vera democrazia? c) come sviluppare una democrazia più compiuta, che valorizzi la pluralità e il riconoscimento nel sistema decisionale di
un maggior numero di attori? d) come incrementare una democrazia più
sostanziale, che promuova la formazione (Gelpi, 2002) di valori condivisi, etici e una più equa distribuzione della ricchezza anche attraverso un
appropriato e responsabile welfare system? e) come radicare una democrazia più reale, che con proprie adeguate e rinnovate istituzioni favorisca
e rafforzi gli attori storici (Sosnowski, Patiño, 1999; Beck, 2003; Cesareo,
2003; Lazzari, 2007; Bauman, 2009) e ricomponga le dinamiche, spesso conflittuali, tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, tra
Stato e mercato, terzo settore e sistemi informali? Criticità che stanno
mettendo in discussione il futuro stesso della democrazia liberale se non
si saprà trovare una equilibrata coerenza tra i diversi sottosistemi e se non
si saprà uscire dal preconcetto che vede nella democrazia rappresentativa
liberale l’unico modo di declinare la partecipazione e l’assunzione di responsabilità pubbliche (Lazzari, 2004a).
In soccorso a tal proposito possono arrivare gli studi di Amartya Sen
(2004) sulla secolare esperienza di democrazia e libertà di tanti popoli
indigeni latinoamericani, asiatici, africani e arabi. «Il sostegno alla causa
del pluralismo, della diversità e delle libertà fondamentali è presente nella storia di molte società. Le antiche tradizioni di incoraggiamento e protezione della discussione pubblica su temi politici, sociali e culturali in
India, Cina, Giappone, Corea, Iran, Turchia, nel mondo arabo e in molte
regioni dell’Africa esigono un più concreto riconoscimento nella storia
delle idee democratiche. Questa eredità globale è una ragione sufficiente
per mettere in dubbio la tesi, spesso ripetuta, che la democrazia sia un’idea esclusivamente occidentale, e che sia perciò soltanto una forma di
occidentalizzazione» (Sen, 2004: 11 s.). Una visione che si salda, peraltro,
con l’idea di valorizzare la demodiversità, quella forma di democrazia che
non teme la coesistenza di prassi e modelli nati da esperienze differenti
quali quelle maturate dal Sud del mondo nell’ottica di un necessario ampliamento del canone democratico (de Sousa Santos, 2004; Spina, 2010).
È proprio valorizzando le diversità e le pluralità, che esistono e che caratterizzano il mondo, ma che nel gioco delle forze della modernità e della
postmodernità, molto spesso, non hanno potuto affermarsi, che si situa
la sfida di un’epistemologia capace di riconsiderare i modelli di organizzazione politica e di conoscenza, non esclusivi del mondo occidentale.
Vi sono altri modi di conoscere e altre epistemologie da cui partire e
da valorizzare, e che da secoli danno un contributo fondamentale all’umanità. È appunto il caso delle «conoscenze contadine e indigene che,
paradossalmente, sono minacciate dall’intervento crescente della scienza
moderna» ove peraltro la «preservazione della biodiversità è possibile
solo attraverso» tali forme di conoscenza e di pratica (de Sousa Santos,
Meneses, 2009: 49).
Prendere quindi atto che il mondo è epistemologicamente vario e
differenziato e che vi sono più epistemologie che, a causa della supposta neutralità della scienza e della modernità, sono di fatto emarginate
ed escluse dai processi di costruzione della conoscenza e delle pratiche
di intervento. E questo vale anche per il diritto. Il pluralismo giuridico
cui si fa riferimento ridà infatti valore e centralità ai sottogruppi sociali,
all’interdipendenza tra l’ordine delle comunità locali e l’ordine normativo superiore, ai trattamenti diversificati dei conflitti che si presentano
entro il gruppo ristretto e quelli che intervengono tra gruppi diversi.
Contrappone il diritto ufficiale e quello non ufficiale e prende a bersaglio
l’identificazione del diritto con lo Stato evidenziando, per contro, il diritto prodotto fuori dallo Stato come il risultato dell’azione della comunità
e di quella specifica cultura (Marchi, 2014; Sacco, 2007). Demodiversità
come conseguenza e continuità della biodiversità e della distinzione epistemologica, come compresenza di forme differenziate di epistemologia,
di democrazia, di culture e di diritto. Evidenziando queste fondamentali
relazioni, sinora trascurate, si potrà lavorare per cancellare la linea di demarcazione tra inclusi ed esclusi (dimensione socio-economica), tra vero
e falso (dimensione della conoscenza), tra legale e illegale (dimensione
30
31
Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud
Francesco Lazzari
del diritto). Proprio perché lottare per la giustizia sociale globale implica,
appunto, lottare per la giustizia cognitiva globale costruendo una compresenza radicale in cui «le pratiche e gli agenti di entrambi i lati delle
linee sono contemporanei in termini egualitari» (de Sousa Santos, Meneses, 2009: 45) nella consapevolezza che «non vi è conoscenza o ignoranza
in assoluto, ma ignoranza di alcuni saperi particolari» (ibid.: 39). Un’ecologia del sapere, dunque, capace di superare la visione egemonica della
scienza e le sue conseguenti applicazioni tecnologiche, per implementare
una conoscenza contro-egemonica che valorizzi i saperi dell’altro, i saperi
parziali. Saperi che possono interconnettersi nella «traduzione interculturale, intesa come la procedura che crea una intelligibilità mutua tra le
differenti esperienze del mondo, disponibili o possibili» (de Sousa Santos, 2011: 39).
Sono dunque tante le sfide, come pure molte le opportunità, con cui
misurarsi e su cui costruire la ricerca di senso che interroga tutti, e che
ha l’urgenza di una vera e propria transizione epocale (Lazzari, 2010).
Modernità, neoliberismo, postmodernità, pluralismo, globalizzazione,
multiculturalismo e diritti umani sono i termini del discorso attorno a
cui si dipana la riflessione che esige, appunto, un approccio che tenga
in debito conto i contributi offerti dai diversi sottosistemi sociali e disciplinari. Se è vero che la modernità ha posto le sue fondamenta sul
principio dello Stato, formulato da Hobbes, e sul principio del mercato,
approfondito soprattutto da Locke e Adam Smith, è altrettanto vero che
il principio solidaristico-partecipativo, comunitario-relazionale resta una
dimensione non conclusa. Una sfida cui la postmodernità dovrà fornire
risposta favorendo l’esplicazione di tutte le risorse e di tutte le energie
di cui il terzo settore e la società civile sono portatori (de Sousa Santos,
2002 e 2005a; Vida, 1998; Toscano, 2010). Diritti umani che a certe condizioni potrebbero essere messi al servizio di politiche emancipatorie e
controegemoniche nel momento in cui le differenziate visioni del mondo
riuscissero a superare le diverse matrici culturali riconoscendo la loro
incompletezza, accettando i «dialoghi interculturali su preoccupazioni
isomorfiche» e rinunciando a ogni imperialismo culturale. Sarebbe così
possibile pervenire ad una ricostruzione interculturale dei diritti umani
(de Sousa Santos, 2008; Battiston, 2009).
Sinora, si può dire, la storia della modernità, soprattutto in questi ul-
timi secoli, è stata un continuo tentativo di inclusione, ma con l’avvio
dei processi di globalizzazione neoliberista sembra si sia invertito tale
processo con la comparsa di una sorta di «fascismo sociale» (de Sousa
Santos, 2002 e 2003: 20) che porta ad una vera e propria stratificazione
della società tra totalmente integrati, parzialmente inclusi e invisibili, privi di qualsiasi diritto (de Sousa Santos, 2005b e 2008). Un fascismo che
si manifesta in quattro forme: a) il fascismo dell’apartheid sociale, che
evidenzia l’esclusione sociale nella segregazione territoriale urbana tra
zone selvagge e zone civilizzate; b) il fascismo parastatale, in cui alcuni
attori potenti usurpano le prerogative dello Stato; c) il fascismo dell’insicurezza, in cui si manipola discrezionalmente il sentimento di insicurezza di chi è particolarmente colpito dalla precarietà del lavoro o da altre
situazioni di disagio affinché si disponga a sopportare condizioni e pesi
enormi in cambio di una supposta diminuzione del rischio insicurezza;
d) il fascismo finanziario, la forma più perfida della socialità fascista in
quanto da una parte si presenta come pluralista e dall’altra come soggettivo e altamente discrezionale (de Sousa Santos, 2003: 21 ss.).
Pur tuttavia, nonostante le inesorabili restrizioni delle tutele della
persona, emergono nella contraddizione globalizzante anche risposte
divergenti e di rivolta alla globalizzazione egemonica: come la risposta
controegemonica o antiegemonica (de Sousa Santos, 2002) che in alcuni
paesi dell’America del Sud, grazie ai movimenti sociali e collettivi, appare
molto significativa e apre tra l’altro la strada ad una varietà di globalizzazioni che nascono dal basso (Holt-Giménez, 2010). Un processo che
sta attivando un’importante transizione «dalla resistenza all’alternativa»
(Quijano, 2008), dando spazio al «cosmopolitismo degli oppressi», che
trova forme attive di implementazione con azioni di lotta dei popoli come
è per esempio il caso, tanto per citarne qualcuno tra i tanti, del movimento zapatista messicano o del Forum sociale mondiale (de Sousa Santos,
2004; Lazzari, 2008).
«L’America Latina è il centro di questa nuova fase del movimento
sociale mondiale … Alle battaglie dei dominati e degli sfruttati del mondo industriale urbano, contro il neo-liberismo globalizzato, si sommano adesso, innanzitutto, le lotte degli “indigeni” di tutto il mondo, i più
dominati tra le vittime della “colonialità” del potere globale, in difesa
delle loro risorse per la sopravvivenza, che sono proprio tali, ma erro-
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Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud
Francesco Lazzari
neamente chiamate “risorse naturali” dalla prospettiva eurocentrica di
“sfruttamento della natura”: l’acqua, le foreste, l’ossigeno, il resto degli
esseri viventi, le piante alimentari e medicinali, insomma, tutto quello
che gli indigeni hanno usato, prodotto, e riprodotto per migliaia di anni,
e tutti i materiali che permettono la produzione della realtà sociale. Per
questo motivo gli “indigeni” e tutti i settori della popolazione mondiale,
cominciando dalla comunità scientifica e dagli intellettuali e professionisti della classe media, così come i lavoratori di tutto il mondo industriale,
stanno scoprendo che, in virtù delle tendenze distruttive del capitalismo,
queste risorse di sopravvivenza degli “indigeni” sono le stesse risorse per
la difesa della vita sul pianeta e sono proprio ciò che il capitalismo colonial-moderno sta portando alla distruzione. Sta emergendo un’ampia coalizione sociale che può essere, e di fatto è, un nuovo movimento sociale
mondiale» (Quijano, 2008).
«Se intendiamo avanzare una critica realmente radicale alle forme di
sapere egemoniche dobbiamo essere in grado di suggerire delle alternative alla cornice eurocentrica e nord-centrica, e riconoscere che l’epistemologia non può essere spiegata soltanto in termini epistemologici. L’epistemologia è invece contestuale, legata alle condizioni storiche in cui prende
corpo e a particolari agenti. Dietro una certa concezione epistemologica
molto spesso ci sono idee promosse con la forza: non la forza delle idee,
ma le idee della forza, della potenza militare, del colonialismo e del capitalismo. Per rinnovare il pensiero epistemologico dobbiamo cominciare
dalle esperienze degli oppressi, dal “Sud globale”, dal Sud inteso come
chi più subisce gli effetti del capitalismo. Partire dalla loro esperienza
cognitiva, da quel che pensano, dalle loro nozioni relative al modo in cui
la società si muove per apprendere forme di sapere più complesse e scoprire aspetti sconosciuti delle nostre società. Saperi non disciplinari, non
prodotti nelle “istituzioni”. Saperi che nascono da premesse molto diverse e che sottopongono a critica molti dei concetti eurocentrici, compreso
quello di democrazia» (dall’intervista di Giuliano Battiston a Boaventura
de Sousa Santos, 2009: 13).
La cultura indigena, con la sua cosmogonia, con l’idea di Pachamama,
con la pratica comunitaria della proprietà e dell’uso della terra e con la
democrazia partecipativo-comunitaria (si pensi ai tanti modi di declinare
concretamente i processi di democrazia in Africa, Asia e America) sono
un chiaro esempio di quello che si intende con la dizione epistemologia
del Sud. Anche la sociologia si deve interrogare, rispetto soprattutto alla
propria epistemologia, per individuare nuovi paradigmi e nuove teorie
con cui leggere ed interpretare la realtà e i sommovimenti introdotti dalla globalizzazione (Lazzari, 2008). Concetti peraltro che ritroviamo, pur
con accenti in parte diversi, anche in numerosi altri autori tra i quali
Paulo Freire con la Pedagogia degli oppressi (1971).
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3. Coscientizzazione, processi di conquista dei saperi e democrazia
emancipatoria
La valorizzazione della cultura, di cui è portatore l’analfabeta che non
è visto come puro involucro da riempire di nozioni prodotte dalla cultura dominante, fa dell’azione alfabetizzante di Freire un vero e proprio
processo formativo-educativo di crescita dell’autostima, del pensiero critico, della presa di coscienza della propria condizione per cambiarla e
per sovvertirla in ragione della forza che gli deriva dal semplice essere
persona. Quell’importante processo di coscientizzazione, appunto, che
Freire propone come cardine della sua azione di alfabetizzazione e di
formazione. Si lavora per il superamento della “disumanizzazione” (intesa come deprivazione dei diritti umani, ingiustizia sociale, negazione
di accesso alla conoscenza e “prescrizione”) e dell’introiezione dei valori degli oppressori, per un’educazione nuova, moderna, sorretta da una
pedagogia critica e processuale, che si incarna nelle esperienze della vita
degli educandi, in cui docente-discente sono uniti dall’insegnamentoapprendimento. Una doppia processualità che tocca entrambi non essendovi insegnamento senza apprendimento e viceversa. L’educazione con
Paulo Freire diventa vera e propria pratica democratica, di autonomia e
di libertà, un’azione per trasformare la propria vita e il mondo in cui si
è inseriti attraverso la pratica della liberazione e della coscientizzazione
(Freire, 1973a, 1973b, 1974 e 2004).
Una ricchezza epistemologica prodotta dunque dal sapere che nasce
dall’esperienza e dalla pratica comunitaria delle persone; un’epistemologia del Sud intesa come «modo per afferrare la ricchezza delle esperienze sociali senza che vada dispersa». Non vi può essere giustizia socia-
Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud
Francesco Lazzari
le globale senza una giustizia cognitiva globale (Battiston, 2009: 13; de
Sousa Santos, 2004 e 2008). Si fa cioè strada, anche grazie ai contributi
di Paulo Freire e Boaventura de Sousa Santos, un’idea di scienza intesa
come «esercizio di cittadinanza e di solidarietà», la cui qualità si misura
in ultima istanza attraverso l’inclusione di quelle «realtà rese assenti dal
silenzio, dalla repressione e dalla emarginazione». L’epistemologia neoliberista secondo de Sousa, garantirebbe «solo una democrazia di bassa
intensità» perché basata su «un’inclusione politica astratta fatta di esclusione sociale» (Battiston, 2009: 13; de Sousa Santos, 2004).
L’azione avviata dai movimenti sociali, con la forte partecipazione
diretta dei cittadini e delle persone, favorirebbe la trasformazione della
democrazia integrandone le due forme, quella rappresentativa e quella
diretta. Una democrazia emancipatoria, direbbe de Sousa, che potrebbe
finalmente trasformare i rapporti di potere in rapporti di autorità condivisa e partecipata nella promozione di un altro mondo possibile che non
può mai essere «un mondo senza alternative» (de Sousa Santos, 2004).
«Non eliminare le specificità culturali, ma creare dei terreni sui quali sia
possibile comprendere le differenze e al contempo capire ciò che rimane
in comune pur usando lingue differenti. Lo scopo non deve essere l’intrattenimento intellettuale, ma stabilire alleanze tra movimenti sociali»
(Battiston, 2009: 13; de Sousa Santos, 2004).
I movimenti collettivi e della società civile diventano cioè spazi in cui
confluiscono tutti coloro i quali lavorano per una globalizzazione controegemonica, con al centro la persona, e non il mercato, capace di «includere vari mondi, vari tipi di organizzazioni e di movimenti sociali e
varie concezioni di emancipazione sociale» (de Sousa Santos, 2003: 31).
Un nuovo contratto sociale più inclusivo, capace di sostituire la giustizia
restauratrice con la giustizia trasformatrice.
Per dare effettive risposte inclusive e redistributive alle attese dei movimenti sociali vi è la necessità di un diritto emancipatorio che orienti le
azioni e le politiche. Un diritto e delle politiche profondamente innovate capaci di favorire una integrazione del diritto e dei diritti con cui
si esprimono le mobilitazioni politiche, tali da permettere che «le lotte
siano politicizzate prima di essere legalizzate (de Sousa Santos, 2003: 37).
Ove sia appunto possibile superare lo stretto legame che si registra nella
società moderna tra diritto e potere, in cui il diritto si presenta come uno
«strumento squisitamente potestativo, strumento di potere, strumento
di controllo funzionalizzato alla piena affermazione del potere» (Grossi,
2003: 440).
A tal proposito il Forum sociale mondiale ne è un esempio emblematico: perché è nato al Sud; perché raggruppa e coordina movimenti
di provenienze diverse che, pur tenendo ciascuno la propria specificità,
riescono a sviluppare sinergie e alleanze, a cooperare e a creare azioni
adeguate in risposta ai bisogni emergenti. E, cosa non di poco conto, nelle azioni del Forum sociale mondiale, la presenza dei movimenti indigeni
si è ritagliata uno spazio decisamente significativo dimostrando che esiste
una società civile sempre più tenace, articolata, competente e sinergica,
che lascia intravedere come piccole e mirate azioni possano conseguire
effetti significativi per tutto il sistema mondo. In questo senso l’impegno
degli indios chiapanecas o del movimento zapatista del Messico o quello,
tanto per citare qualche altro esempio latinoamericano, del movimento
dei sem terra brasiliani, dei mapuches in Cile, degli indigeni dell’Ecuador,
del movimento katarista in Bolivia, possono rappresentare, in una società
ancora in parte autoritaria e fortemente piramidale ed escludente, un’opportunità di radicale cambiamento culturale e sociale interconnesso nella
rete globale dei movimenti antisistemici (Lemoine, 1997; Aa.Vv., 2001;
Herrera, 2000). Movimenti collettivi che si saldano frequentemente con
movimenti etnici di diverse origini e natura e che sono presenti in quasi
tutti i paesi del mondo, dall’Europa all’Asia, dalle Americhe all’Africa,
all’Oceania.
Quanto sia importante questo tipo di presenza è rivelato anche dal
fatto che nel mondo vi sono appena 14 paesi con una nazione composta
da una sola etnia, e il più delle volte si tratta di paesi minuscoli. Nel resto
del mondo, all’inizio del XXI secolo, si trovano tra le 6.000 e le 10.000
etnie con 230 gruppi etnici minoritari che equivalgono a circa il 17%
della popolazione mondiale, vale a dire a circa un miliardo di persone.
Di questi gruppi, il 51% è attore di un qualche tipo di rivolta, 142 hanno
messo in atto attacchi violenti contro le autorità costituite e 176 hanno
attuato proteste non violente. Erano 57 nel 2000 i paesi che dovevano misurarsi con conflitti etnici, separatisti o irredentisti (González, Thelman
Sánchez, 2001). Una statistica ampiamente superata se vi si aggiungono
i più recenti sommovimenti socio-politici rappresentati dalle primavere
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Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud
Francesco Lazzari
arabe o europee, sfociate talora in colpi di Stato talaltra in vere e proprie
guerre civili o annessioni, com’è per esempio il caso rispettivamente di
Egitto, Libia, Siria, Crimea, ecc. Movimenti che possono scuotere dalle
fondamenta la democrazia, la filosofia della Carta di San Francisco del
1945 e della Dichiarazione dei diritti della persona del 1948 e avviare veri
e propri esodi di profughi e di rifugiati che possono destabilizzare Stati
e regioni.
È certamente vero – osservava il presidente Bill Clinton – che la diversità etnica, sociale, culturale «è fonte di forza e causa di orgoglio» (Aa.
Vv., 1996a: 59; Bataille, 1997), ma è altrettanto vero che in buona parte
dei confini della terra ancora troppo spesso si assiste alla segregazione
degli abitanti indigeni, dei movimenti che si ribellano all’ingiustizia, che
si rivoltano alla povertà e alla miseria. Sono proprio queste presenze che,
pur nel fluire della storia con le sue colonizzazioni, conquiste e distruzioni, si fanno memoria storica, incarnata e autenticamente vissuta. Si
pensi appunto alla realtà andina e sud-andina che, nonostante le frontiere
costruite dagli Stati nazionali usciti dalle conquiste europee, aveva (già
migliaia di anni prima di Cristo), e nonostante tutto continua ad avere,
una propria identità socio-culturale, linguistica, valoriale che trova concrete presenze in dinamiche comunicative di rete, di complementarità, di
interscambio, di solidarietà (Aa.Vv., 1996b).
Come già nel 1836 sottolineava de Tocqueville (1968-1969 e 1969),
i paesi democratici preferiscono l’uguaglianza, da intendersi in questo
caso come l’uniformità (Talmon, 1967; Spengler, 1970); spesso, infatti, i
paesi stimati per la loro democrazia non sono affatto egualitari per quanto attiene al rispetto dei diritti delle minoranze. Nelle democrazie, le minoranze hanno forse maggiori probabilità della maggioranza di trovarsi
in posizioni svantaggiose con violenze che possono andare dalla pulizia
etnica serba o ruandese alle più sottili restrizioni dei diritti di cittadinanza dell’Estonia (1992: divieto alla popolazione russa di partecipare
al voto) o dei diritti linguistici. Ingiustizie e disuguaglianze che portano i
soggetti coinvolti a ribellarsi e a ricercare risposte che a volte si traducono
in conflitti distruttivi tanto per la minoranza quanto per la maggioranza.
La sfida si materializza nella capacità di trovare risposte che siano in grado di integrare principi apparentemente contraddittori: l’autodeterminazione della persona e del gruppo e l’integrità territoriale, la garanzia di
poter vivere differenti valori, culture, etnie, economie, politiche, progetti
di vita nel rispetto dei propri diritti fondamentali individuali, sociali, collettivi e nella sicurezza.
Per inciso, va sottolineato che ai termini politico ed economico si
attribuisce una chiara dimensione culturale. Le pratiche economiche e
politiche, infatti, «dipendono dal e sono dotate di ‘significato’ e sono
perciò ‘pratiche culturali’», proprio perché «l’‘economico’ non potrebbe
funzionare o avere effetti reali senza la ‘cultura’ o al di fuori del discorso
o del significato». La cultura è perciò «costitutiva del ‘politico’ e dell’‘economico’, così come il ‘politico’ e l’‘economico’ sono, a loro volta,
costitutivi e pongono i limiti per la cultura … Sono cioè articolati l’uno
con l’altro» (Hall, 2001).
I movimenti e le azioni collettive, negli accenni problematici e non
esaustivi qui riportati, sono appunto da intendersi come tentativi di risposta a queste contraddittorie e complesse questioni. Risposte che non
eliminano il conflitto tra le diverse dimensioni del discorso e del significato, e di altre ancora, e cui ci si è richiamati, ma che fanno del conflitto
non distruttivo una fonte di ricchezza collettiva nella ricerca di risposte
adeguate e ridistributive. Sarà dal conflitto, dal confronto e dall’uso del
pensiero critico che potranno scaturire nuove risposte e nuovi scambi
reciprocamente arricchenti, capaci di far tesoro dei processi inarrestabili – di incontro-scontro tra culture, etnie, bisogni, aspirazioni, classi,
interessi – e di un’acculturazione che deve riconoscere l’uguaglianza funzionale delle culture in quanto tutte sono capaci di mediare, nella loro
propria specifica realtà, il rapporto che l’uomo ha con la natura, con gli
altri uomini e con il trascendente. Il conflitto, sostiene Rifkin (2000), assume, forse soprattutto oggi, anche la dimensione della lotta tra globalità
e culture locali, tra reale e virtuale, tra civiltà e mercato, tra Stato e società
civile, tra mercato e terzo settore. Pertanto, se si vorrà salvare la potenza
di espressione dei significati condivisi, anche le reti commerciali e virtuali
dovranno trovare una controparte nella realtà e nelle esperienze e relazioni sociali e culturali specifiche e dirette, territorialmente definite.
La diversità non è dunque da considerarsi come esclusiva manifestazione di opposizione, incomunicabilità o conflitto fra culture e civiltà
differenti, fra i diversi sottosistemi che compongono una società o una
nazione (Ianni, 1998; Ramonet, 1999; Beck, 2000; Ascione, 2010); dalla
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Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud
Francesco Lazzari
diversità possono scaturire – come si può constatare da tante esperienze di vita, di culture e di popoli – solidarietà, ricchezze e nuovi impulsi
di vita (Béland, Zamorano Villarreal, 2000). La diversità è anzi l’humus
di ogni democrazia capace di dialogare (De Vita, 2003) con tutte le sue
subculture, è il presupposto di un agire sociale che voglia farsi autentica
azione di promozione – e di auto-promozione – di tutte le componenti
senza che un attore (Stato, mercato o azione collettiva) abbia il sopravvento o il diritto di primazia sull’altro (quasi sempre sulla società civile).
Perché questo possa accadere, non basterà «combattere l’esclusivismo»,
ma «occorre respingere sia l’indifferenza al valore (anche nella forma del
relativismo), sia la tendenza all’uniformità che cancella il diverso stesso».
Alla pura e semplice coesistenza o fusione delle diversità, ci insegnano
molte delle attuali esperienze latinoamericane, occorre sostituire una collaborazione che le conservi e le renda sinergiche «pur in presenza di un
certo grado di conflittualità non distruttiva» (Mathieu, 1988: 96).
Ovviamente si tratta di società in cui i rapporti fra i differenti attori
sociali «non sono rapporti statici, idilliaci, delineati una volta per tutte,
ma sono come il corso di un grande fiume, lungo il quale si amalgamano
certe sostanze e altre rimangono irrimediabilmente separate» (Cser, Filef, Istituto Santi, 1991: 117). Si tratta per l’appunto di una convivenza
concreta tra popoli e individui faticosamente processualizzata e vissuta
(Lazzari, 2002 e 2004b). Il dialogo tra sistemi che compongono l’orizzonte di vita di individui e gruppi non si presenta facile per nessuna realtà: né a Sud né a Nord, né a Est né a Ovest, né in America Latina, né
in Occidente. Però, le soluzioni adottate dall’uno possono illuminare il
sentiero e l’andare dell’altro, in una ricerca umile della verità che sa di
non possedere certezze incontrovertibili. D’altro canto la dissociazione
tra Stato e società civile si sta notevolmente rafforzando. Con l’incalzare
del predominio dell’economicismo e del privatismo in tutti i settori di
vita della persona, gran parte della cosiddetta società civile è sfidata a
sopravvivere, a organizzarsi, a coscientizzarsi elaborando nuovi mezzi di
lotta per influenzare e conquistare il potere (Ianni, 2000).
Questo processo di dissociazione è evidente nei paesi dell’America
Latina e si presenta, con manifestazioni piú o meno accentuate, in tutti
i paesi del mondo. «Sono nitide, drastiche, impressionanti e affascinanti
le polarizzazioni che si osservano, non solo tra una nazione e l’altra, ma
pure all’interno di una stessa nazione. È come se fossero ancora in formazione, o dissoluzione, nel tentativo di realizzarsi in condizioni sempre
diverse e insospettate, tanto da dare l’impressione di nebulose in cerca di
forma e fisionomia, qualcosa di simultaneamente possibile e impossibile,
di reale e illusorio» (Ianni, 2000: 61 s.). Processi che possono materializzarsi in non-luoghi sociali, osserva Marc Augé (1996), «che restringono
le possibilità esperienziali di fare delle scelte, di esprimere le proprie appartenenze e di essere riconosciuti», di costruire la propria identità e le
relazioni sociali, la propria storia e la propria memoria, conseguenze della non corrispondenza tra gli attori e i sistemi in cui gli attori stessi sono
inseriti, luoghi dell’esclusione sociale (Lustiger-Thaler, Maheu, Hamel,
1998: 185). È proprio in questo contesto, latinoamericano ma pure mondiale, che i cosiddetti corpi intermedi, o formazioni sociali intermedie o
di terza dimensione, esprimono la loro sfera nell’ambito dei beni, si situano sempre più come contesti relazionali distinti dallo Stato e dal mercato,
per trovare nelle diverse forme associative, di volontariato, di cooperazione, di solidarietà, di rivendicazione, di ribellione una reale possibilità
di concretizzare il loro progetto di bene comune (Donati, 1991: 166).
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4. Per un sistema mondo che integri e armonizzi i diritti della persona e
i diritti della Terra
Una dialettica crescente e sempre più incisiva che, tra avanzate e arretramenti, sembra trovare, nella pur parziale riscoperta della propria
specificità storica, l’idea di José Martí di «nuestra América», l’utopia di
Simón Bolívar di una nazione di nazioni, ma anche l’ideale di José Enrique Rodó di una razza di razze, di una cultura di culture, dello spirito
latino rappresentato dal personaggio shakespeariano Ariel in La Tempesta, il nume che affronta il materialismo-giogo impersonato da Calibano,
mentre il mentore Prospero parla alla gioventù51. Pertanto, sulla base degli
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Partendo dagli stimoli di William Shakespeare e dai cambiamenti storici messisi in
marcia a partire dal 1898 con la caduta dell’impero spagnolo e l’emergenza di quello
nordamericano, l’uruguaiano José Enrique Rodó (1872-1917) a 27 anni lancia dalle pagine del suo giovane giornale, da lui stesso chiamato «Ariel», un forte messaggio alla
gioventù del suo tempo per una civiltà latinoamericana e la costituzione degli Stati Uniti
Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud
Francesco Lazzari
accenni sin qui espressi, i processi di globalizzazione in America Latina
possono intendersi anche come nuova opportunità di incontro-scontro,
di confronto, di integrazione delle differenze nell’ottica dell’autorealizzazione di ciascuno e della reciproca solidarietà. I risultati però, come
sottolinea la world system analysis (Wallerstein, 2006 e 2007), dipendono
dalle capacità di analisi, dalle azioni e dalle specifiche capacità di organizzare le azioni che ogni attore sociale – Stato, mercato, società civile,
movimenti, sistemi informali – si impegna a mettere in campo nel rispetto
dei diritti di ciascuno.
Si è, in effetti, in presenza di azioni di intervento che si stanno riverberando anche sui modelli costituzionali che alcuni paesi hanno recentemente approvato quali l’Ecuador (2008) e la Bolivia (2009). Azioni
profonde che incidono sulla progettazione di quelle stesse società. Si assiste così ad un passaggio epocale con la transizione dal costituzionalismo
neoliberista egemonico ad un costituzionalismo originale che trova, nello
sviluppo solidaristico, sostenibile, interlegale, alternativo e contro egemonico, nuove possibilità di inclusione e nuove logiche epistemologiche.
Da una visione antropocentrica occidentale si giunge ad una concezione andina cosmocentrica, il cui baricentro è la Pachamama, la Madre
Terra, una Terra Patria per tutti gli uomini e per tutti gli esseri viventi
(Morin, Kern, 1993; Lazzari, 2004a; Baldin, 2014) il cui rapporto che
la lega all’uomo non può basarsi sulla totale libertà prometeica. Sempre
più, e oggi più che mai, ci si rende conto che la natura non è soltanto un
fine per l’uomo, ma anche un fine in sé. La libertà dell’uomo si coniuga
con la sua capacità non tanto di soggiogare la natura quanto piuttosto
di sapersi riconoscere in essa e di limitarsi di fronte ad essa proprio in
virtù della relazione che sussiste con la natura (Belardinelli, 1998: 97). In
questo i popoli indigeni, nella loro cosmogonia integrata uomo-natura,
possono indicare sapientemente la strada. Una strada che oramai è riconosciuta anche da alcune carte costituzionali che pongono al centro
delle relazioni non solo i sistemi statali, economici, della società civile e i
sistemi informali ma anche la stessa natura che assume così una rilevanza
giuridica, e ancor prima sociale e culturale, entrando prepotentemente
nelle scelte che l’uomo fa della propria vita e di quella dell’ambiente in
cui vive. Tutte criticità che richiamano e riconducono all’essenza stessa
della democrazia, al suo valore universale e condivisibile che comprende
«la sua importanza intrinseca per la vita umana, il suo ruolo strumentale
nella creazione di incentivi politici e la sua funzione costruttiva nella formazione di valori (e nella comprensione della forza e dell’attuabilità di
richieste e bisogni, diritti e doveri)» (Sen, 2004: 79).
La sfida che ci si pone sta quindi nella capacità dell’uomo di inventare un’altra logica sociale, che sappia valorizzare lo sviluppo sostenibile
e quella relazione uomo-natura che i popoli indigeni da sempre si tramandano e praticano. Lasciare spazio sul piano socio-culturale a idee e
a pratiche basate su concetti quali multiculturalismo, interculturalismo
e intraculturalismo, lascia presumere un’altra idea di diritto, quella che
de Sousa Santos (2002: 97) chiama interlegalità, cioè l’«intersoggettività
o (la) dimensione fenomenologica di pluralismo giuridico»; un processo,
cioè, «altamente dinamico (in cui i) diversi piani giuridici non si muovono in modo sincronico» e in cui il «risultato che ne consegue è un intreccio discontinuo e instabile di codici (in senso semiotico) legali» (ibid.:
437; Miazzi, 2008; Surace, 2014). E ciò in conseguenza del fatto che «le
società moderne sono regolate da una pluralità di legal orders, correlati
e socialmente distribuiti secondo modalità differenti». Emerge cioè una
pluralità di ordinamenti giuridici tanto sul piano interno quanto su quello transnazionale (de Sousa Santos, 2002).
Una simile impostazione epistemologica e pratica induce a vedere le
diverse espressioni culturali “altre” come capaci di convivenza, di pari
rispetto, di interazione ma, nel contempo, vedere anche la cultura “nazionale” come plurima e ciascuno di noi portatore di espressioni multiple. Diversità non più solo in relazione agli altri, ma in relazione anche
a noi stessi. È interrogarsi sull’impatto di tale pluralità/pluralismo sulle
esperienze, sulle percezioni e sulla coscienza dei singoli individui e dei
gruppi, inseriti in diversi e spesso contrastanti ordini legali e culturali.
È considerare il contesto di vita definito da una sorta di «porosità legale
o legalità porosa, in cui una molteplicità di reti di legalità ci obbligano a
costanti transizioni e trasgressioni» (de Sousa Santos, 2002: 437). Per entrare in questa nuova logica epistemologica e di azione è evidentemente
necessario cambiare valori e concetti, rivedere la visione monolitica del
diritto e dei suoi sistemi legali per orientarsi verso una rete di differenti
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dell’America del Sud (Rodó, 956; Zea, Taboada, 2002).
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Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud
Francesco Lazzari
sistemi legali, mutare le strutture, rilocalizzare l’economia e la vita, rivedere nel profondo i modi d’uso dei prodotti, garantire tramite misure
appropriate la transizione dal modello incentrato sulla crescita ad una
società della decrescita. Concetti peraltro non meramente teorici, come
ha sapientemente dimostrato Muhammad Yunus (1998) con il microcredito e la Grameen Bank.
È una sfida, soprattutto per uno sviluppo che voglia farsi carico delle
diversità del mondo e che voglia appoggiarsi sulle esperienze positive
realizzate dall’economia non mercantile, dalla società civile o controegemonica. Un mettere in discussione il termine stesso di crescita per enfatizzare quello di decrescita nella consapevolezza dell’incompatibilità di
una crescita infinita in un pianeta dalle risorse limitate. Si tratta appunto
di decolonizzare l’immaginario dai valori della società della crescita (concorrenza, mercificazione, velocità, appropriazione, ecc.) per ri-trovare un
modo di vivere in armonia con la natura e con il senso del limite. Rivalutare e riconcettualizzare, rovesciando il modo stesso di pensare e di
apprendere la realtà (Latouche, 2007 e 2012).
Parlare di democrazia significa quindi cercare di scorgere sempre più
lo stretto legame esistente tra le decisioni e i processi decisionali, non potendo, né volendo, parlare di processi democratici disgiunti dalla giustizia sociale in cui il ruolo del diritto, come sottolinea de Sousa Santos, ha
evidentemente un centralità indiscutibile. È solo «ripensando in profondità il modo con il quale le nostre democrazie prendono una decisione»,
ricorda Stiglitz, che si potranno «modificare i risultati di questi processi
decisionali. Negli Stati Uniti, ad esempio, a meno che non si cambino i
metodi con i quali le campagne elettorali sono finanziate, non cambieremo i risultati: le imprese continueranno a esercitare un’influenza indebita» (Stiglitz, 2001: 24 s.). Naturalmente si vuole pensare alla giustizia
sociale non solo in termini di risultati, ma anche in termini di processi attraverso i quali i risultati si costruiscono, «di eguaglianza di opportunità,
eguaglianza di voce e di partecipazione ai processi decisionali» (ibid.: 25),
sia dentro che fuori gli organismi internazionali, quali il Fondo monetario
internazionale, sia dentro che fuori ciascun paese e a partire dall’Unione
Europea che ha delegato alla cosiddetta Troika la gestione della crisi che
attanaglia alcuni membri dell’Unione. Secondo Henri Lustiger-Thaler,
Louis Maheu e Pierre Hamel (1998: 174) una più adeguata impostazio-
ne potrebbe infatti essere rappresentata dal tentativo di «ripensare l’istituzione all’interno della sociologia dei movimenti sociali proprio al fine
di meglio comprendere l’azione collettiva nel contesto della modernità
avanzata». Finora si è considerata la regolazione normativa come la funzione principale delle istituzioni. Di fronte alla crescente complessità della post-modernità si tratta di prendere maggiore «coscienza delle ambivalenze presenti nei sistemi dell’agire e del volere umano». Ciò, tra l’altro,
dovrebbe spingere gli studiosi ad un approccio più critico nei confronti
dello studio delle mere caratteristiche strutturali delle istituzioni, per approfondire maggiormente, invece, il modo in cui «gli attori istituzionali e
le nuove comunità si riconoscono mutuamente come attori chiave in un
campo diversificato di pratiche sociali e culturali iscritte in un terreno
istituzionale sempre più marcato» (ibid.: 174). Secondo gli studiosi citati si tratta, invece, di andare oltre l’approccio dell’istituzionalizzazione
parziale – che privilegia la funzione di inquadramento dell’istituzione – e
della prospettiva interazionista per tentare di focalizzare un’analisi che
sappia dar conto delle problematiche poste dalle finalità cui tendono le
istituzioni e dall’istituzionalizzazione dei movimenti sociali, che esprimono i cambiamenti maggiori che caratterizzano la modernità avanzata del
XXI secolo. Le istituzioni non sarebbero più solo delle risorse, di cui si
tenta di appropriarsi, bensì, in «quanto processo ‘agonistico’ carico di
conflitti, l’istituzionalizzazione limita e favorisce l’esperienza di pratiche
culturali», è cioè «portatrice di significati molto più di quanto non lo
prevedano gli approcci che insistono sulla routinizzazione delle norme
emergenti o, secondo la terminologia weberiana, sullo spiegamento della
razionalità strumentale come fondamento delle relazioni sociali» (ibid.:
174). È certo che, nonostante e a dispetto della loro frammentazione, i
nuovi movimenti si pongono come attori di una nuova centralità nella
formazione delle società della modernità avanzata o post-moderna. In
effetti «i movimenti sociali riflettono i molteplici livelli di stratificazione
delle forme moderne dell’azione collettiva in rapporto ai nuovi campi
dei conflitti emergenti» (ibid.: 175). All’istituzione va riconosciuta la funzione di inquadramento che però, secondo i citati autori, va integrata
dalla nozione di “campo di relazioni e di esperienze” e di “costruzione
flessibile”. L’istituzionalizzazione può cioè essere vista come un processo
in cui i movimenti sociali si misurano sul terreno delle ambivalenze, delle
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Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud
relazioni “agonistiche” e conflittuali, come porta d’entrata dell’esperienza nella costruzione dei conflitti in cui intervengono altri processi relativi
alla problematica della riflessività, della globalizzazione e dell’autenticità,
viste quali forme di una soggettività iscritta nei rapporti istituzionali o di
una soggettività ripiegata su se stessa (ibid.: 174).
Un dibattito, quello che qui succintamente si è voluto richiamare, che
accomuna tutti i paesi democratici e in cui Stato, mercato, sistemi formali
e informali non dovrebbero essere visti come alternativi o mutuamente
escludentisi, bensì come complementari l’uno all’altro. Una terza via in
cui si veda il settore pubblico e il settore privato sotto la luce della complementarità e della partnership: c’è bisogno del primo come del secondo,
e su questo tutti o quasi sembrano essere d’accordo. Il problema nasce
quando si tratta di stabilire la misura più adeguata di intervento dell’uno
e dell’altro. E nel procedere a tale definizione possono essere numerose le
distorsioni in cui si incorre, pur nella consapevolezza dei limiti e dei benefici che ciascun settore può offrire alla collettività: informazione imperfetta, mancanza di trasparenza, problemi del red tape, della burocrazia e
delle difficoltà a trattare con essa, del regulatory capture, del regolatoremediatore (lo Stato) che viene catturato dagli interessi particolari finendo
per non rappresentare più quelli generali, ecc. (Lustiger-Thaler, Maheu,
Hamel, 1998). A ciò si aggiunga che vi è un problema di governance e di
democrazia tanto in America Latina quanto in Europa o negli Usa o in altri paesi (Lazzari, 2004a). Al di là dei problemi verificatisi nel corso delle
elezioni presidenziali statunitensi del 2000 nel conteggio dei voti espressi
(che non sono peraltro del tutto trascurabili), restano aperte questioni più
fondamentali e persistenti quali il tipo di legge elettorale che si sceglie,
le modalità di compilazione delle liste elettorali, il finanziamento delle
campagne elettorali, la pressione di questo o quel potentato sul possibile
vincitore. Dimensioni che emblematicamente sembrano rappresentare,
tanto a livello reale che simbolico, anche i persistenti problemi presenti
in America Latina, e non solo in questa. Esiste evidentemente una debolezza dei processi democratici, un deficit di governance, che accomuna
paesi e società.
Francesco Lazzari
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Abstract: The recent cultural, social and institutional changes occurred in some Latin American Countries bring back the social
movements to the center of the geopolitical scene. Democratic
participation processes, also appreciating indigenous knowledges,
stimulate new actions and more effective policies for a better redistribution of resources respecting both the individual rights and
the rights of Mother Earth.
Keyword: Social movements, Epistemology, Interlegality, Democracy.
Filosofie del buen vivir tra passato e futuro
di Fulvio Longato6*
SOMMARIO: 1. Il buen vivir: un’approssimazione. – 2. Una filosofia
“plurale” in costruzione. – 3. Relazionalità e reciprocità. – 4. Le
sfide del buen vivir allo sviluppo umano.
1. Il buen vivir: un’approssimazione
La locuzione buen vivir o vivir bien riassume in castigliano diverse articolazioni delle cosmovisioni indigene in America Latina. Assunta a rango costituzionale nel 2008 in Ecuador e nel 2009 in Bolivia, l’espressione
riprende il significato di sumak kawsay nella lingua kichwa nel senso di un
sistema di conoscenza e di vita basato sulla comunione tra esseri umani e
natura e sulla complessiva armonia spazio-temporale dell’intera esistenza (Walsh, 2010: 18). Vivir bien traduce la locuzione suma qamaña nella
lingua aymara in Bolivia, il cui significato rinvia a una forma di vita armoniosa tra gli esseri umani e tra essi e il mondo naturale contrassegnata da
un atteggiamento di gratitudine (Albó, 2011: 135 s.). Benché il concetto
polisemico di buen vivir sia variamente interpretato dalle popolazioni indigene latinoamericane, le sue diverse concezioni presentano alcuni tratti
comuni che permettono di identificarne i significati principali – adottando a fini euristici lo schema concetti-concezioni di Dworkin (1989: 71 s.),
che distingue tra concetti generici, “astratti” e concezioni sostanziali che
diversamente li specificano. Per non incorrere in affrettate assimilazioni
o unilaterali equiparazioni a concetti – parimenti polisemici – quali benessere, qualità della vita, sviluppo, la presenza delle locuzioni autoctone
accanto ai termini castigliani nelle due costituzioni – sumak kawsay in
*
Professore ordinario di Storia della filosofia nell’Università di Trieste.
Filosofie del buen vivir tra passato e futuro
Fulvio Longato
quella ecuadoriana (preambolo e artt. 14, 250, 275) e suma qamaña nella
boliviana (art. 8) – richiede di considerarle nella loro accezione originaria, quindi in riferimento alle rispettive cosmovisioni. Prima di procedere
a una loro iniziale illustrazione, cui seguiranno alcuni approfondimenti
che ne riprenderanno aspetti salienti, va premesso che solo in parte sarà
possibile rendere adeguatamente conto della complessità di tutti i concetti in gioco, non da ultimo per l’impianto olistico della prospettiva del
buen vivir. Si seguirà pertanto un’analisi non “lineare”, ma per così dire
a cerchi concentrici, proponendosi di far interagire motivi centrali del
buen vivir con aspetti emergenti nell’attuale riflessione filosofica.
Buen vivir rappresenta innanzi tutto un modo di vivere da praticare
nelle diverse circostanze dell’esistenza, che non è predeterminato o proiettato teleologicamente verso un suo compimento futuro cui corrispondere progressivamente. Non indica quindi una sorta di progresso lineare,
bensì l’attuazione di una forma di vita in situazione. Sua caratteristica
saliente è la centralità assegnata alla relazionalità degli esseri umani tra
loro e l’ambiente naturale. La natura, la Madre Terra (Pachamama) è intesa e riconosciuta come un’entità che ricomprende la vita umana stessa,
da cui consegue la responsabilità di subordinare gli obiettivi sociali ed
economici alla preservazione dell’ecosistema (Zaffaroni, 2012). Un terzo,
non meno importante, tratto distintivo del buen vivir è la contestualità.
Per cogliere la specificità della “visione” in questione può soccorrere
in prima approssimazione la distinzione tra un modo rappresentazionale
e uno presentazionale di vedere il mondo (Whitt et al., 2001: 10 s.). Mentre il primo, considerato tipico dell’approccio occidentale nell’acquisizione e trasmissione della conoscenza e in particolare del sapere scientifico a
partire dalla modernità, si basa sulla separazione tra la conoscenza della
natura e la natura stessa, la prospettiva presentazionale si radica nella
convinzione di una conoscenza “insita” nella natura, che quindi può essere acquisita da una popolazione o da un individuo solo nel contatto
diretto e continuo con il luogo in cui tale conoscenza è incorporata e di
cui può fare esperienza. L’aspetto propriamente cognitivo è considerato indissolubile dall’esperienza di vita attuabile in un preciso e definito
contesto di relazioni, non da ultimo affettive, che includono l’ambiente
naturale. La trasmissione di conoscenza così intesa, che tipicamente avviene mediante narrazioni, assume la fisionomia di una conversazione tra
umani e tra umani e ambiente, in cui si dà ascolto alla “voce” della natura
interagendo con essa – l’etimologia latina di “conversare” rinvia peraltro
proprio al trattenersi insieme, al condividere, anzi al convivere presso la
stessa “dimora”. La contestualità ha valenza genealogica e si spiega in
base a una nozione di appartenenza o affiliazione che non è confinata al
mondo umano, ma comprende il luogo, l’ambiente naturale. La terra,
il territorio, l’ambiente naturale è parte integrante delle persone, come
il proprio corpo e i propri genitori e fratelli – ciò si riflette ad es. nel
significato di ayllu nella lingua nativa (Harris, 2000: 171 s.): non riveste
un valore di scambio, non è una proprietà che può essere acquisita o alienata al pari di una commodity. I legami genealogici tra le persone e con il
mondo non umano presentano caratteri sia descrittivi (l’appartenenza),
sia normativi, primo fra tutti la responsabilità – che si estende alle generazioni future oltre che, attraverso la memoria, a quelle passate – per la
cura dell’ambiente naturale in veste di custodi, grazie a una conoscenza e
familiarità possibili solo nel contatto profondo con i luoghi di vita (Yampara, 2001: 45 ss.; Whitt et al., 2001: 15 s.). Su questa base si è sostenuto
che la contestualità del buen vivir, del sumak kawsay comporta la sua
non esportabilità e trasposizione in realtà diverse per linguaggio, cultura,
storia politico-sociale e contesto ecologico (Oviedo, 2011).
Il complesso tema del rapporto e della comprensione tra diversi linguaggi, schemi concettuali, culture, forme di vita, e in particolare tra visioni differenti del “vivere bene”, è notoriamente al centro di indagini interdisciplinari di cui non è possibile e tantomeno corretto voler dar conto
in poche, ipersemplificatorie battute. Si può comunque argomentare sia
nel senso di una comprensione di forme di vita “altre” che non implichi pregiudizialmente omologazione o assimilazione, sia a sostegno della trasversalità di pratiche inerenti il mondo della vita (Lebenswelt) che
nel contempo preservi e accentui le loro rispettive specificità (Marconi,
2007: 128 ss.; Longato, 2012). Non si tratta pertanto di esportare una determinata concezione o cosmovisione, bensì di considerare i tratti distintivi dei concetti che la informano come altrettante possibilità, accessibili
anche da prospettive diverse, di “vedere” il mondo e come orientamenti
e potenzialità, praticabili pur in contesti differenti, per condurre l’esistenza. A tal fine, un approccio metodologicamente appropriato consiste
nel chiedersi se in tradizioni diverse, da non intendersi peraltro come
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Filosofie del buen vivir tra passato e futuro
Fulvio Longato
monolitiche, siano presenti posizioni che affermano il valore della relazionalità, degli esseri umani tra loro e con la natura, e quali declinazioni
essa assume. La loro presenza non va confusa con l’assenza di posizioni
opposte che ne misconoscono il valore. Il fatto che quest’ultime siano
considerate o percepite come egemoniche in uno o più contesti culturali
è il prodotto di dinamiche storiche, così come lo è il percorso che ha
portato alla promulgazione delle costituzioni del buen vivir, risultato di
lotte pluriennali delle popolazioni indigene, non solo dell’Ecuador e della Bolivia, per il riconoscimento delle loro composite identità e del diritto
a essere consultate su decisioni che riguardano i territori da loro abitati
(Yashar, 2005).
Per evitare che il richiamo alle locuzioni indigene del buen vivir sia
inteso come una mera riproposizione di una cultura ancestrale o con
finalità esclusivamente rivendicative, risulta appropriato parlare più in
generale di «movimenti sociali del buen vivir» (Deneulin, 2012: 3 s.) e
soprattutto considerare il buen vivir come una “piattaforma” di dialogo e confronto tra posizioni diverse, motivate dal proposito di ripensare
anche radicalmente la nozione di “vivere bene” ritenuta dominante e di
individuarne alternative. Il buen vivir si presenta come un concetto in
costruzione (Gudynas, 2011c), sulla cui base reinterpretare e declinare
principi e diritti espressi nelle carte internazionali dei diritti umani. In
questo senso va intesa la sua collocazione e funzione nelle costituzioni
boliviana ed ecuadoriana, che espressamente si ricollegano ai diritti umani. Nella prima, il vivir bien è un principio etico-morale che compare nel
II capitolo dedicato ai Principios, valores y fines del Estado e ne riflette
la natura multinazionale; è parte integrante di un insieme di valori tra i
quali unità, libertà, dignità, inclusione, solidarietà, cui va ricondotta la
pluralità delle forme di organizzazione economica dello Stato. Nella costituzione ecuadoriana, l’obiettivo del buen vivir dichiarato nel preambolo si sostanzia nel testo nei Derechos del buen vivir che comprendono tra
gli altri l’acqua e il cibo, l’ambiente sano, la salute, l’educazione, i quali
sono posti sullo stesso piano dei diritti di libertà, di partecipazione, delle
comunità e dei diritti della natura: il complesso dei diritti si inscrive in
un orizzonte interculturale rispettoso delle diversità. Al di là delle loro
differenze, entrambe le costituzioni proclamano l’indivisibilità e l’interdipendenza dei principi e dei diritti, riproponendo formalmente la struttu-
ra olistica del sistema dei diritti umani codificata a livello internazionale.
Il riferimento alla dimensione pluriculturale – per cui sarebbe corretto
parlare di buenos vivires – permette di interpretare i principi e diritti
contemplati nelle due costituzioni come punti di convergenza di concezioni culturalmente differenti, in analogia a quel consenso per intersezione (overlapping consensus) registratosi nella Dichiarazione universale
dei diritti dell’uomo: condivisione di un insieme di principi per l’agire
pur giustificati diversamente all’interno delle rispettive matrici culturali
(Longato, 2011). In questo senso la piattaforma del buen vivir rappresenta una sfida e un’opportunità che travalica i confini della sua genesi.
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2. Una filosofia “plurale” in costruzione
La prospettiva del buen vivir si presenta post-coloniale dal punto di
vista storico e può definirsi decoloniale come atteggiamento culturale e
politico di fondo: nel rivendicare pari dignità tra le diverse culture opera
nel contempo una decolonialidad in primo luogo rispetto alla “superiorità” della cultura europea (Marañón Pimentel, 2014), ma anche rivolta
all’interno degli stessi paesi andini, nel senso di denunciare forme più o
meno occulte di sapere dominante praticato in sede politico-istituzionale
(Rivera Cusicanqui, 2010: 53 ss.). La rapida risonanza internazionale che
tale prospettiva sta riscuotendo in ambito intellettuale e accademico oltre
che politico occidentale, unitamente al fatto di proporsi come un work
in progress, se da un lato testimonia un’esigenza transculturale di cambiamento, dall’altro espone il buen vivir a forme marcate di ibridazione
se non di appropriazione all’interno di paradigmi già consolidati, con
il rischio che i dibattiti aperti sul sumak kawsay tra posizioni in linea di
principio tutte legittime si riduca a un dialogo tra sordi e si tramuti in
un confronto agonico in vista di una determinata concezione a sua volta
dominante (Hidalgo Capitán, Cubillo-Guevara, 2014).
Relativamente all’interpretazione del sumak kawsay, si registrano tre
principali correnti di pensiero: socialista-statalista, ecologista e indigenista (Hidalgo Capitán, 2012). Mentre la prima considera prioritaria la
gestione statale del sumak kawsay in termini di equità sociale rispetto alla
questione ambientale comunque ampiamente contemplata, la seconda
Filosofie del buen vivir tra passato e futuro
Fulvio Longato
considera quest’ultima preminente, avvalendosi di contributi riconducibili a prospettive postmoderne di tipo costruttivista. La corrente indigenista, sottolineando la centralità dell’autodeterminazione delle popolazioni autoctone, distingue sumak kawsay e suma qamaña dal buen vivir,
considerando quest’ultima locuzione debitrice di apporti occidentali ritenuti incompatibili con le culture ancestrali. Di qui l’ulteriore questione
se la cosmovisione soggiacente il sumak kawsay sia oggi interpretabile
come una concezione ancestrale o non piuttosto moderna o postmoderna. Mentre gli indigenisti lo considerano una filosofia di vita basata su
tradizioni ancestrali, quindi premoderne, la maggioranza degli intellettuali di matrice socialista collocano il sumak kawsay nel solco della tradizione occidentale moderna esaltandone la funzione di trasformazione
sociale. Per la corrente ecologista il sumak kawsay si propone come un
punto di coagulo di referenti premoderni (tradizioni indigene) e moderni (il socialismo neomarxista o post-socialismo) nel post-moderno (deep
ecology e femminismo).
Un terzo fronte di discussione è rappresentato dalla traduzione stessa
delle espressioni sumak kawsay e suma qamaña. Pur con accenti tra loro
differenti gli autori indigenisti prediligono la locuzione “pienezza di vita”
(vida plena), mentre la corrente socialista associa al sumak kawsay l’aspirazione all’aumento del benessere soggettivo di natura materiale e immateriale, alla «fioritura sana in pace e armonia con la natura». Per i teorici
della corrente ecologista la locuzione buen vivir permette di recuperare,
anche se solo in parte, il significato indigeno di sumak kawsay per renderlo condivisibile anche da coloro che non si riconoscono nelle tradizioni
indigene. Da ultimo, ma non meno importante, l’insieme delle questioni
affrontate è rapportato alla definizione della nozione di sviluppo. Mentre nell’impostazione socialista il sumak kawsay delinea un modello di
sviluppo di ascendenze neomarxiste o socialdemocratiche alternativo al
neoliberismo capitalista, per gli intellettuali indigenisti si tratta di un’alternativa alla nozione stessa di sviluppo, considerata un tratto distintivo
della modernità che non trova equivalenti nelle cosmovisioni andine. Nel
rifiuto di ogni variante del modello moderno di sviluppo si registra una
convergenza con le posizioni ecologiste e postmoderne che interpretano il sumak kawsay come un percorso che conduca “oltre lo sviluppo”.
A fronte dell’ampio dibattito in seno ai teorici del buen vivir – che si
intreccia con svariati e differenziati accenti critici nei confronti delle politiche adottate dai governi ecuadoriano e boliviano per implementare i
principi, valori e diritti enunciati nelle rispettive costituzioni – non mancano posizioni anche interne all’ambiente intellettuale latinoamericano
che denunciano l’inconsistenza teorica del tema stesso del buen vivir e
l’improduttività politica di una retorica pachamamista (Gudynas, 2013;
Viola Recasens, 2014).
Com’è evidente, ciascuno di questi dibattiti, che attestano indiscutibilmente la vitalità della prospettiva del buen vivir al di là delle critiche
più radicali a essa rivolte, merita una trattazione approfondita, che in
ambito filosofico risulta a tutt’oggi ancora in fase poco più che iniziale.
Non è ovviamente possibile farlo in questa la sede. Va innanzi tutto sottolineato che la prospettiva del buen vivir si pone come innovativa rispetto
all’impostazione prevalente nella filosofia politica contemporanea che,
sulla scia di Rawls, separa le questioni di giustizia da quelle del “vivere
bene”, ritenendo di espungere quest’ultime da un contratto sociale finalizzato a delineare i principi “politici” di base per la convivenza entro una
comunità politica (Rawls, 1994). René Ramírez Gallegos, coordinatore
e coautore del Plan Nacional para el Buen Vivir 2009-2013 (Senplades,
2009), fa espressamente riferimento alla teoria di Rawls, definendo altresì la nuova costituzione “post-rawlsiana” (Ramírez Gallegos, 2010).
Tuttavia, non viene messa in discussione, se non indirettamente, l’impostazione di fondo di Rawls: nel Plan essa viene richiamata nella sezione
dedicata alla generazione e ridistribuzione di ricchezza (Senplades, 2009:
91 s.) e gli elementi post-rawlsiani si limitano a riprendere tematiche,
quali la posizione delle persone disabili, la giustizia transnazionale e il risparmio di risorse per le generazioni future, esplicitamente riferite a proposte di Nussbaum (2007). Appare problematico ricondurre l’impianto
della costituzione al framework rawlsiano. Mentre quest’ultimo si basa,
per l’individuazione dei principi di giustizia, su una (ipotetica) posizione
originaria di simmetria tra soggetti liberi, uguali e indipendenti, i movimenti sociali del buen vivir non solo si presentano nella sfera pubblica in
condizioni iniziali asimmetriche e di subalternità (Deneulin, 2014: 11),
ma, soprattutto, inquadrano le questioni di giustizia in una prospettiva
di buen vivir, non viceversa. Nella misura in cui ciò trova formalmente
riscontro nella costituzione ecuadoriana, un overlapping consensus post-
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Filosofie del buen vivir tra passato e futuro
Fulvio Longato
rawlsiano ha luogo allora tra diverse concezioni del “vivere bene”, un
consenso, come si è accennato, cui ricondurre i contenuti dei diritti ivi
enunciati e in generale dei diritti umani.
Il riferimento in questa sede a Ramírez Gallegos e in seguito ad altri
autori non comporta di per sé adesione alle loro interpretazioni del buen
vivir, né intende pregiudizialmente prendere partito per una posizione
che non si colloca ai due estremi di uno spettro estremamente composito,
il quale, come cursoriamente illustrato, va dall’immunizzazione del sumak
kawsay (e del suma qamaña) da apporti esogeni alla sua appropriazione
in paradigmi originari di altre tradizioni – due opposti che non di rado
comportano una sorta di essenzializzazione semplificatrice della posizione contraria e di idealizzazione della propria. I riferimenti a specifiche
posizioni filosofiche occidentali – significativi particolarmente quando
occorrono in documenti di carattere istituzionale, quindi in contesti programmaticamente intesi a coniugare teoria e pratica sociale – fungono da
indicatori per precisi punti di convergenza e di mutuo approfondimento,
che inducano a ripensare all’interno della propria cultura aspetti dimenticati o rimpiazzati da orientamenti ritenuti oggi predominanti.
è il llaki kawsay, traducibile con mal vivir, che può verificarsi nella casa,
nella comunità, nel territorio. Mentre nel primo caso, e parzialmente nel
secondo, la comunità può far fronte con le proprie risorse materiali e
valoriali, l’introduzione di valori estranei alla cultura indigena che inducano le persone a ricercare beni e risorse per soddisfare individualmente
aspirazioni egocentrate porta a sfruttare eccessivamente il territorio e in
definitiva allo sfaldamento della comunità, da cui quindi emigrare. Il mal
vivir può essere altresì causato da fenomeni di urbanizzazione e, a livello
più generale, dal deterioramento ambientale, in particolare dalla distruzione della biodiversità, sia locale che globale, con l’effetto di privare la
cultura autoctona dei suoi elementi simbolico-spirituali.
La relazionalità costituisce la comunità: non può darsi una vida plena
al di fuori o ai margini di una comunità. Ciò che la mantiene e implementa sono le diverse pratiche di reciprocità, ranti ranti o maki maki
(Macas, 2010: 187), definita come «la capacità di saper dare per ricevere
e di saper ricevere per dare» (Maldonado, 2010: 200). Come si è notato,
l’idea di parità e complementarità non contraddistingue unicamente le
relazioni umane – realizzandosi nel dialogo e nel consenso inteso come
centro, punto di equilibrio tra due polarità –, ma si estende alla natura, al
cosmo. La divinità Pachamama esprime precisamente la relazione duale
del pari o pacha, la totalità come struttura di relazioni.
Già a un primo esame non sfuggono analogie non superficiali con
aspetti ampiamente riscontrabili nella tradizione filosofica risalente al
pensiero greco, in particolare aristotelico, in cui la nozione di equilibrio
riferita alla formazione del carattere, cioè della personalità (êthos), contraddistingue le virtù ritenute necessarie per attuare pienamente la natura
sociale dell’uomo, che anche per Aristotele è tale solo nella vita di relazione entro la comunità. In particolare MacIntyre (1988: 225 ss.) evidenzia
il legame tra l’esercizio concreto di pratiche e le virtù. Pratica è qualsiasi
forma coerente e complessa di attività umana cooperativa socialmente
stabilita, strutturata intorno a determinati modelli e soprattutto a valori a
essa inerenti raggiungibili solo mediante l’acquisizione di qualità umane,
le virtù, il cui significato originario (areté) indica una disposizione all’eccellenza nell’essere e nell’agire. Va notato che pure l’aggettivo superlativo
sumak si riferisce alla pienezza nel senso di excelencia (Manosalvas, 2014:
114).
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3. Relazionalità e reciprocità
Come sopra evidenziato, la relazionalità tra le persone e con la natura è una, se non la caratteristica centrale sia del sumak kawsay che del
suma qamaña. Secondo la concezione indigenista (Viteri Gualinga, 2002;
Sarayaku, 2003), il sumak kawsay va inteso in riferimento a un territorio che comprende tre sfere – la parte coltivata, il bosco e l’acqua – e
che costituisce un mondo vitale in cui interagiscono elementi materiali e
simbolico-spirituali. Per ottenere le risorse necessarie e rapportarsi con
le tre sfere sono richieste alle persone fortezza interiore, condotta equilibrata, saggezza (yachai), capacità di comprensione, compassione, che
vengono apprese all’interno della comunità e nelle quali si riflettono i
valori di solidarietà, generosità, reciprocità (Hidalgo Capitán et al., 2014:
35 s.). L’armonia domestica è condizione di quella della comunità e, nel
contempo, dipende da quest’ultima, inserendosi in un’armonia e complementarità con gli altri esseri naturali. Il contrario del sumak kawsay
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Filosofie del buen vivir tra passato e futuro
Fulvio Longato
Su questa linea è altresì possibile ripensare un’altra nozione che rientra nel campo semantico della relazionalità ossia la dipendenza. Di contro
all’immagine, ancora dominante nell’odierno panorama filosofico postilluministico, dell’individuo autosufficiente e indipendente sta emergendo la consapevolezza che la vulnerabilità e la dipendenza sono elementi
costitutivi dell’umano, i quali investono direttamente la sua capacità di
rapportarsi non solo con gli altri, ma parimenti con il mondo non umano.
Le «virtù della dipendenza riconosciuta» illustrate da MacIntyre (2001:
117 ss.) di fatto coincidono con le menzionate qualità umane del sumak
kawsay e del suma qamaña.
Il riconoscimento della dimensione animale dell’umano – non si
è “come” animali, ma si è animali – rientra nella rinnovata attenzione
alla corporeità quale parte integrante dell’identità personale, al di là della scissione, non solo cartesiana, tra razionalità e animalità (MacIntyre,
2001: 13 ss.). Ciò apre scenari in parte inediti per buona parte della filosofia contemporanea, in direzione sia di una riconsiderazione della nozione stessa di dignità che tenga conto dell’affinità e continuità con altre
specie animali, sia dell’accentuazione della naturalità in chiave etica e
politica. Il riferire la dignità alla sola dimensione razionale, ritenuta sede
esclusiva della capacità sia cognitiva che morale, comporta l’attribuzione
alla naturalità di una funzione meramente ancillare (Nussbaum, 2007:
149 ss.). Considerare il corpo naturale non come strumento per l’esecuzione di intenzioni preformate a livello mentale, ma come «intelligenza
incorporata» (Fingerhut et al., 2013), a sua volta embedded socialmente
ed ecologicamente, richiede di intendere la (inter)dipendenza dagli altri
e dal mondo non umano non già o non solo in chiave di necessità di
sopravvivenza, bensì come cifra di indisponibilità. In quest’ottica, è possibile interpretare il conferimento di un valore intrinseco alla natura, su
cui insiste soprattutto la corrente ecologista del buen vivir, che si traduce
nel considerare la natura titolare di diritti nella costituzione ecuadoriana
e nella Ley de Derechos de la Madre Tierra adottata nel 2010 in Bolivia.
Attribuire e/o riconoscere un valore intrinseco significa identificare e
delimitare un ambito sottratto alla disponibilità piena o parziale. Richiamandosi al c.d. paradosso di Böckenförde, va ricordato che è un tratto
caratteristico degli ordinamenti democratici quello di basarsi sull’autonomia e sull’autolegislazione, rinviando, nel contempo, a fini fondativi e
di stabilità, a presupposti, rappresentazioni e risorse dichiarate indisponibili, cui richiamarsi per articolare le pratiche dei singoli e della collettività entro la comunità politica. Si tratta di dimensioni, entità, principi,
referenti in senso lato “trascendenti”, non necessariamente di carattere
religioso anche se quasi sempre a connotazione sacrale (Vorländer, 2013).
Tali sono appunto, negli ordinamenti ecuadoriano e boliviano, i diritti
umani delle persone e delle collettività unitamente alla Pachamama.
L’attribuzione di valore intrinseco può essere giustificato in modi diversi. Per quanto riguarda la natura, secondo Gudynas (2011b: 245 ss.)
risulta prevalente intenderlo come sinonimo di valore non strumentale:
mentre ciò che ha valore strumentale è un mezzo in vista di altro rivestendo un valore d’uso e di scambio, ciò che ha valore intrinseco è un fine in
sé. È degno di nota che Gudynas riproponga, pur senza citarlo, il tratto
distintivo dell’imperativo categorico kantiano e che, nella sua discussione
della deep ecology, sottolinei come attribuire alla natura un valore intrinseco non equivale di per sé a prefigurare una natura intatta, a vietare
l’utilizzo delle risorse naturali al fine di garantire la qualità della vita preservando nel contempo il ciclo vitale dell’ecosistema. L’antropocentrismo
da dismettere è quello incentrato sull’ideale baconiano dell’instaurazione
del regnum hominis, del dominio totale dell’uomo sulla natura, che i teorici del buen vivir denunciano come il pensiero unico sulla natura proprio
della tradizione occidentale – non sarebbe però da dimenticare, se pur
risultata una posizione minoritaria, la relazione e la comunicazione vitale
tra uomo e natura (frate sole e sora luna) espressa esemplarmente nel
Cantico delle creature di Francesco d’Assisi. All’antropocentrismo così
inteso si oppone il biocentrismo, secondo cui le vite umana e non umana
rivestono entrambe valore intrinseco.
Senza poter qui entrare in dettaglio nelle oscillazioni semantiche di
queste nozioni, una riconsiderazione della versione originaria della massima kantiana può offrire una risorsa concettuale per interpretare la relazione uomo-natura in linea con il buen vivir – ma anche con la United
Nations World Charter for Nature (1982): «Every form of life is unique,
warranting respect regardless of its worth to man». Vi si afferma di considerare «l’umanità, in se stessi e negli altri, sempre anche come fine e
mai unicamente come mezzo» (Kant, 1985: BA 67-68). Ciò non vieta,
realisticamente, che nelle transazioni umane trovino posto anche relazio-
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Filosofie del buen vivir tra passato e futuro
Fulvio Longato
ni di tipo strategico e strumentale: l’importante è che quest’ultime non
pregiudichino il rispetto del valore intrinseco delle persone (in cui consiste per Kant la dignità). In una versione post-kantiana – dal momento
che Kant, come si è notato, scinde l’umanità dalla naturalità, di se stessi e
degli altri esseri –, l’attribuire valore intrinseco (fine in sé) alla naturalità
sia umana che non umana ricomprende l’uomo nella natura, stabilendo
un medesimo criterio di relazionalità degli esseri umani tra loro e con gli
altri esseri naturali che contempli aspetti di indisponibilità. Un’interpretazione di questo tipo permette altresì il consenso sul rispetto delle persone e dell’ambiente naturale – intesi entrambi come Mitwelt e non solo
come Umwelt – a partire da diverse basi giustificative. Atteso che in sede
epistemica il conferimento di valore è opera umana, Gudynas (2011b:
264 ss.) sottolinea che il riferimento nella costituzione ecuadoriana alla
«Pachamama come espressione plurale» favorisce la convergenza sia di
posizioni che attribuiscono alla natura un valore sacrale, sia di posizioni
che non aderiscono alla deep ecology o non si riconoscono nelle tradizioni
ancestrali.
La reciprocità è un concetto ricorrente nella letteratura del buen vivir, associato a termini quali solidarietà e cooperazione, oltre che come
fulcro delle dinamiche di complementarità alla base delle cosmovisioni
indigene. Come si è notato, indica un dare che incontra un ricevere: tale
è ogni atto umano o divino cui corrisponde un atto complementare equivalente tra soggetti (Niel, 2011: 13). Nell’ambito delle ricerche attuali
sulle dinamiche della reciprocità emerge che se la reciprocità è una, a
livello umano le reciprocità sono molte, nel senso che le modalità e le
motivazioni sottostanti la reciprocità sono diverse (Bruni, 2006). Senza
poter qui nemmeno accennare alle diverse tassonomie proposte in ambito sociologico (Donati, Solci, 2011) ed economico (Sacco, Zamagni,
2006), sembra importante evidenziare che la reciprocità è l’elemento fondante dei “beni relazionali”. La loro caratteristica saliente è che il bene
consiste nella relazione stessa: essi non possono essere prodotti né fruiti
da un solo individuo, ma goduti simultaneamente solo nella reciprocità
(Nussbaum, 1996: 616 ss. ). Esempi di beni relazionali sono l’amicizia, la
partecipazione alla vita civile (di cui parla già Aristotele) ma anche la fraternidad. A differenza dei beni acquisibili nelle transazioni del mercato,
per loro natura anonime, ingrediente fondamentale di un bene relaziona-
le è l’identità delle persone coinvolte, così come la loro motivazione non
strumentale. Se è la relazione in sé a costituire il bene, essa è un fine e
non un mezzo per altro, come può esserlo un incontro di interessi o una
relazione per o funzionale allo scambio economico. In questo senso un
bene relazionale ha un valore, ma non un prezzo, e per tal motivo è una
forma di gratuità.
Nella letteratura sul buen vivir, il tema del dono come forma di reciprocità genuina è al centro delle riflessioni in particolare di Javier Medina, che, in riferimento tra gli altri a Marcel Mauss e Dominique Temple,
sottolinea l’aspetto qualitativo della reciprocità, fonte originaria del vincolo sociale. A fronte della marginalizzazione della reciprocità nella sola
sfera privata a esclusivo vantaggio del principio economico dello scambio
(quantitativo) di equivalenti, Medina (2003: 9 ss.) argomenta in favore di
una complementarità tra principio di scambio e principio di reciprocità,
in cui sia quest’ultimo a fungere da misura del primo. Richiamandosi
ad Aristotele e ai lavori di Nussbaum e Bruni, Ramírez Gallegos (2012)
assegna alla socio-ecologia politica del buen vivir l’obiettivo di generare
beni relazionali. La convergenza trasversale, che solo a prima vista può
apparire sorprendente, tra i fautori della reciprocidad e i teorici dei beni
relazionali testimonia che solo l’implementazione di atteggiamenti – e
virtù – improntate a valori intrinseci è in grado di contribuire a un rinnovato concetto di sviluppo, che contempli come sua parte integrante la
“cura” delle fragili interrelazioni di dipendenza nel Mitwelt.
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4. Le sfide del buen vivir allo sviluppo umano
Nell’illustrazione delle principali correnti di pensiero del buen vivir
si è rilevato un atteggiamento molto differenziato nei confronti del concetto e delle pratiche dello sviluppo. Unanime è la decisa critica al paradigma “convenzionale”, basato sulla figura dell’homo oeconomicus inteso
come individuo che massimizza il proprio interesse, definito dalla funzione di utilità, perseguendo l’accumulazione di beni materiali e posizionali, da cui consegue l’equiparazione del concetto di sviluppo a quello di
crescita economica con il Pil come unico indicatore rilevante (Gudynas,
2011c). La critica all’unidimensionalità delle concezioni riconducibili
Filosofie del buen vivir tra passato e futuro
Fulvio Longato
all’homo oeconomicus non è nuova e ha condotto, a partire dal 1990, alla
redazione da parte del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite, dei
Rapporti sullo sviluppo umano in una prospettiva multidimensionale,
che contempla, tra gli indici di sviluppo, l’alfabetizzazione, la speranza
di vita, la morbilità evitabile, oltre al Pil pro capite (indici che successivamente sono stati ampliati e ulteriormente perfezionati). Sulla base dell’«approccio delle capacità» (capability approach) elaborato da Amartya
Sen, lo sviluppo umano è inteso come «un processo di ampliamento delle
possibilità di scelta delle persone», che consenta loro di avere accesso alle
risorse materiali e immateriali necessarie a una vita dignitosa e di godere
di opportunità politiche, economiche e sociali che li facciano sentire a
pieno titolo membri della loro comunità di appartenenza (Undp, 1990:
1). Ricollegando il concetto di benessere (well-being) o di qualità della
vita a quello aristotelico di eudaimonia, tradotto nel Rapporto del 1990
come «fioritura umana» di contro al termine “felicità” di marca utilitaristico-welfarista (Undp, 1990: 6 s.), Sen (1994: 62 ss.) specifica che la capacità riflette la libertà delle persone di scegliere tra diverse combinazioni
di funzionamenti (functionings), intesi come modi di essere e di fare a cui
le persone attribuiscono un valore intrinseco. Tali sono, ad esempio, essere nutriti, godere di buona salute, partecipare attivamente alla vita della
comunità – funzionamenti che a loro volta coincidono per lo più con
contenuti espressi nelle carte dei diritti umani (Longato, 2001). Se la vita
delle persone è costituita da un insieme di funzionamenti, la vita effettiva
che ciascuna è in grado di condurre è data dalla possibilità di assegnare
liberamente (capability) il peso relativo ai diversi funzionamenti o, per
usare la terminologia di Nussbaum, alle diverse «capacità funzionali» che
è messo in condizione di scegliere e realizzare (Nussbaum, 2001: 95 ss.).
In quest’ottica sono interpretabili come altrettanti funzionamenti il controllo partecipato del proprio territorio, la cura dell’ambiente naturale, la
conservazione della propria identità culturale che si è visto caratterizzare
le concezioni autoctone del sumak kawsay (Renshaw, Wray, 2004; Hönig,
2011: 106 s.). Functionings e capabilities rivestono un valore intrinseco
nel senso che sono considerati importanti e quindi perseguibili di per sé,
assumono un valore strumentale solo nella misura in cui ciascuno è funzionale alla realizzazione di altri funzionamenti e capacità (ad es., l’essere
istruiti ha di per sé valore e nel contempo è un mezzo per aver voce nella
comunità). La distinzione rilevante è tra la sfera dei funzionamenti e delle
capacità da un lato e reddito e risorse materiali dall’altro: nel capability
approach sono quest’ultimi ad avere un valore unicamente strumentale.
L’approccio delle capacità, che costituisce oggi il riferimento principale per le problematiche legate allo sviluppo, è oggetto di analisi e di
discussione presso i teorici del buen vivir che, se pur con accenti diversi,
ne sottolineano gli aspetti di discontinuità rispetto al paradigma dello
“sviluppo come opulenza” di contro a uno stile di vita improntato alla
sobrietà. Ad es., il Plan Nacional para el Buen Vivir si colloca esplicitamente nel solco della prospettiva dello sviluppo umano e del capability
approach. Tuttavia, due sono le principali critiche rivolte a quest’ultimi:
il fatto di basarsi sull’individualismo etico e la mancata, o perlomeno insufficiente, considerazione dell’ambiente naturale come parte integrante
di una nozione di sviluppo in grado di rendere ragione delle diverse articolazioni del “vivere bene” perseguite e perseguibili a livello locale. Se
il capability approach, soprattutto nella versione di Sen, non intende formulare indicazioni precise applicabili omogeneamente a livello generale
– insistendo anzi su un processo deliberativo bottom-up per la definizione
del “vivere bene” nei diversi contesti di vita –, nondimeno le due critiche
rappresentano altrettante sfide a cui i teorici del capability approach solo
in tempi molto recenti hanno cercato di far fronte.
L’individualismo etico, secondo cui solo i singoli hanno personalità
morale, è effettivamente un tratto centrale del capability approach. Ciò
non significa misconoscere i legami sociali a favore di un individualismo
ontologico di tipo atomistico, bensì che le strutture e le proprietà sociali
sono da valutare per la loro funzione causale sul well-being degli individui. La preoccupazione è che quest’ultime possano ostacolare il “vivere
bene” dei loro singoli componenti (Robeyns, 2008: 90 s.). In tal modo,
però, non è adeguatamente considerata la centralità della relazione come
fonte di modi di essere e di fare, di funzionamenti, che possono essere acquisiti solo come risultato dell’interazione sociale e che sono irriducibili
a proprietà di singoli individui. Si tratta di strutture sociali e istituzionali
basate sul con-vivere, che permettono la fioritura dei singoli così come
delle comunità, perché caratterizzate da relazioni di reciprocità (Comim,
2008; Deneulin, 2008: 111). In tal senso vi è l’esigenza di introdurre nel
capability approach la categoria di “capacità sociali” intese come capabili-
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Filosofie del buen vivir tra passato e futuro
Fulvio Longato
ties di funzionamento collettivo possedute da una determinata comunità,
le quali hanno sì un valore strumentale perché sono i singoli a beneficiarne, ma anche un valore intrinseco perché non possono essere espresse
in termini individuali (Andreoni, 2009). È significativo che tale esigenza
viene recepita dai teorici del capability approach in riferimento a forme
di cooperazione orizzontale nel lavoro comunitario, di microfinanza e di
gestione di common goods come fiumi, laghi e foreste attuate da popolazioni autoctone (Distaso, Ciervo, 2007). Una riconsiderazione del capability approach, che colleghi l’affiliazione (affiliation), di cui Nussbaum
sottolinea la centralità come capacità funzionale individuale, a forme di
capacità relazionale e sociale può permettere di coniugare individualismo
etico e ontologia relazionale nei termini di un’«autonomia relazionale»
(Giraud et al., 2013) che risponda alle istanze poste dal buen vivir.
Per quanto concerne la seconda critica, i lavori di Sen e Nussbaum,
pur non negando l’importanza della cura per l’ambiente, considerano
quest’ultimo in funzione del well-being individuale inteso altresì in ottica
intergenerazionale. Sen ha, infatti, proposto di modificare la definizione
di sviluppo sostenibile del Rapporto Bruntland sostituendo il riferimento
ai bisogni (needs) con quello alle capacità, nel senso di «uno sviluppo in
grado di assicurare le capacità delle generazioni presenti senza compromettere le capacità delle generazioni future» (Sen, 2013: 11). Recentemente Nussbaum ha proposto di riconoscere e di tutelare, sotto forma
di diritti, capabilities specifiche del mondo animale, attribuendo quindi
un valore in sé agli individui senzienti non umani, ma considerando gli
ecosistemi come supporto alle esistenze individuali (Nussbaum, 2012:
150 ss.).
La sfida ecologica del buen vivir rappresenta senz’altro un banco di
prova impegnativo per il capability approach, in primo luogo per quanto
riguarda l’attribuzione di un valore intrinseco alla natura. Nella recentissima letteratura in proposito vi è, a quanto è dato conoscere, un’unica
proposta che affronta esplicitamente il tema dal punto di vista del capability approach. Essa consiste nel differenziare la nozione di servizi ecosistemici – intesa in generale come i benefici multipli che un ecosistema
apporta al genere umano – in supporting ecosystem services (in un senso
però diverso da Nussbaum) e in direct ecosystem services (Pelenc et al.,
2013). Mentre i secondi hanno una funzione strumentale per il benessere
umano (fornendo acqua, cibo, ecc.), i primi corrispondono ai processi e
cicli dei sistemi naturali che supportano dal punto di vista biologico la
vita sulla terra, generando habitat adatti agli organismi viventi, inclusi
gli umani che figurano perciò come parte della natura e non da questa
distinti. Dal momento che i supporting ecosystem services sono necessari
alla produzione dei direct ecosystem services, è attribuibile a essi e quindi
alla natura un valore intrinseco, distinto da quello strumentale diretto
al well-being individuale. Dall’attribuzione di un valore intrinseco alla
natura, che, per quanto interrelato a quello strumentale, rappresenta la
natura a livello culturale e simbolico come non pienamente disponibile all’intervento umano, consegue l’assunzione di una responsabilità ex
ante nei confronti degli ecosistemi intesi come common goods. Nell’ottica
della “sostenibilità forte” – della non sostituibilità del capitale naturale
con quello prodotto dall’uomo – una responsabilità antagonista a un atteggiamento prometeico nei confronti della natura può esercitarsi primariamente mediante forme collettive di agency. Tali forme di azione sono
realizzate da comunità, gruppi e associazioni di agenti che si attivano non
solo in vista del proprio benessere, ma per apportare cambiamenti all’interno delle loro comunità e in generale della società, i quali trascendono
il well-being individuale. In tal modo si conferma, anche rispetto al modo
di “vedere” la natura, l’esigenza di capacità sociali che emergano da interazioni guidate da una condivisa rappresentazione di responsabilità.
Come più volte sottolineato, il buen vivir è una filosofia in costruzione,
ma lo è anche in generale l’interrogarsi e il riflettere su che cosa significhi
e su come sia praticabile un “vivere bene” rispettoso del Mitwelt. L’interpretazione qui proposta delle convergenze stimolate dal buen vivir conferma che «todas as culturas são incompletas e problemáticas nas suas
concepções de dignidade humana … A incompletude provén da própria
existência de uma pluralidade de culturas, pois, se cada cultura fosse tão
completa como se julga, existiria apenas uma só cultura … O reconhecimento de incompletudes mútuas é condição sine qua non de um diálogo
intercultural» (de Sousa Santos, 1997: 22).
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70
Abstract: Based on the analysis of the concepts of sumak kawsay and
suma qamaña, this article focuses on the convergences between the
philosophies of buen vivir and the current Western thinking. The
focus is on the role of reciprocity in the relationship between human beings and nature and on the challenges the buen vivir poses
to human development.
Keywords: Good Life, Reciprocity, Nature as an intrinsic value, Human development, Capability approach.
71
Il sumak kawsay: da cosmovisione indigena
a principio costituzionale in Ecuador
di Silvia Bagni7*
SOMMARIO: 1. Introduzione: il costituzionalismo andino nel contesto
politico latinoamericano. – 2. Pachamama e sumak kawsay nelle
cosmovisioni indigene. – 3. Pachamama, sumak kawsay, buen vivir
nella costituzione ecuadoriana. – 4. Le criticità nell’attuazione del
progetto costituzionale tra sumak kawsay e buen vivir: profili giuridici, sociali e politici. – 4.1. Il difficile rapporto tra le forze politiche progressiste dalla Costituente all’attuale Assemblea nazionale.
– 4.2. Il delicato passaggio dal testo costituzionale alla legislazione attuativa. – 4.3. Il retaggio culturale della colonizzazione. – 5.
Conclusioni: in difesa dell’autonomia del nuovo costituzionalismo
andino.
1. Introduzione: il costituzionalismo andino nel contesto politico latinoamericano
Fino a ieri l’America Latina era considerata un continente importatore di modelli giuridici; anzi, spesse volte un pessimo imitatore, basti pensare alla deriva che nella maggior parte dei paesi sudamericani ha preso
il sistema presidenziale nel secolo scorso, trasformandosi con incredibile
facilità in vero e proprio regime dittatoriale. Oggi, quasi all’improvviso,
si ritrova ad essere continente esportatore non solo di idrocarburi e preziose materie prime, nonché di biocombustibile, grano, cacao, zucchero,
banane e altri alimenti destinati ai mercati del ricco Nord, ma anche di
esperienze politiche, giuridiche, sociali e culturali. Esperienze che non
*
Ricercatrice di Diritto pubblico comparato e professoressa aggregata nell’Università di
Bologna.
Il sumak kawsay
Silvia Bagni
vengono più viste come eccentriche o esotiche, bensì come espressione
di tradizioni culturali e istituzionali autoctone, indicate, almeno da una
parte della dottrina europea, come interessanti e innovativi paradigmi.
Nell’ambito del diritto costituzionale comparato, inoltre, si parla recentemente di nuevo constitucionalismo andino, nato dalla costola delle
teorie sul neocostituzionalismo del secondo dopoguerra, per risaltare la
portata innovatrice, in particolare, dei processi costituenti in Venezuela
(1999), Ecuador (2008) e Bolivia (2009). L’evoluzione politico-istituzionale di questi tre paesi, protagonisti del c.d. giro a la izquierda del continente (appena riconfermato, in questo anno cruciale di elezioni81, dalla recente vittoria della Bachelet in Cile), è di capitale importanza per la comprensione degli equilibri geopolitici della regione e del mondo intero: si
pensi alla politica controegemonica in tema di sfruttamento delle risorse
petrolifere, attraverso la rinegoziazione dei contratti di concessione con
le multinazionali del petrolio, alla gestione dei rapporti internazionali fra
i paesi dell’America Latina, con la spinta per la creazione di relazioni
Sud-Sud, attraverso l’istituzione di Unasur, Alba e Celac e la proposta
di una nuova architettura finanziaria con la creazione del Banco del Sur
e del Sistema Unitario de Compensación Regional (Sucre), alle politiche
di redistribuzione interna della ricchezza, alla ricontrattazione del debito
estero, attraverso procedimenti di auditoría pubblica, al ruolo propulsivo
dei movimenti indigeni verso il cambiamento del paradigma politico e
culturale, ecc. Tutti questi elementi extragiuridici si ritrovano in qualche
modo riflessi nelle disposizioni contenute all’interno delle nuove carte
costituzionali e sono indispensabili strumenti di comprensione che il giurista comparatista deve tenere presente se vuole cercare di andare oltre
la lettura di queste costituzioni come un magnifico manifesto delle più
avanzate teorie costituzionali in tema di diritti umani e Stato sociale, per
rilevarne anche le inevitabili contraddizioni, ma al contempo le incredibili potenzialità.
Credo che tale approccio metta al riparo tanto da critiche circa una
lettura ingenua o meramente formalista di queste costituzioni, quanto
contro l’assunzione di una posizione etnocentrica, di preconcetto rifiuto
nei confronti di modelli non consoni rispetto alla cultura occidentale, e
renda al contempo giustizia di un prodotto finale che possiede interessanti spunti di originalità. A mio avviso, al di là dei singoli istituti, gli
aspetti più innovativi si possono riassumere in due punti fondamentali:
1) il ruolo pervasivo della partecipazione popolare, testimoniato dall’abbondanza di previsioni di istituti partecipativi nelle neonate costituzioni,
tanto nella fase costituente, quanto in quella di esecuzione delle politiche
di governo; 2) il recepimento di concetti, visioni del mondo, tradizioni
giuridiche, provenienti dalle culture originarie che compongono questi
Stati plurinazionali.
Sebbene tali caratteristiche siano in diversa misura presenti in tutti
e tre i paesi citati, per quanto riguarda la partecipazione popolare, pioniera è stata senza dubbio la costituzione venezuelana, che per prima
ha tradotto in pratica le idee rivoluzionarie sul quinto potere elaborate
da Simón Bolívar, sulle quali in questa sede non mi soffermerò; mentre
per quanto riguarda il rapporto con le tradizioni indigene, i modelli di
riferimento sono senza dubbio le costituzioni di Bolivia ed Ecuador. Con
particolare riferimento al testo fondamentale ecuadoriano, si cercherà in
primo luogo un accostamento alla Weltanschauung dei popoli indigeni (§
2); si esaminerà in che modo essa sia stata recepita in costituzione (§ 3);
e infine si cercherà di metterne in luce gli aspetti giuridici più innovativi
e i punti critici, soprattutto con riferimento all’implementazione degli
obiettivi, dei diritti e dei vincoli introdotti dalla carta costituzionale al
livello delle fonti subordinate e delle politiche pubbliche (§ 4). Infine,
nelle conclusioni, si difenderà il carattere originale di questo tipo di costituzionalismo, che per la prima volta presenta al resto del mondo un
prodotto DOP del continente latinoamericano, con una certa dose di
successo pratico, nonostante l’elaborazione teorico-dottrinale di questo
nuovo paradigma costituzionale sia forse ancora un po’ acerba anche per
la pianta che ha prodotto il frutto.
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1
Alla data in cui si scrive (aprile 2014) si sono già tenute le elezioni amministrative in Ecuador, che hanno visto un leggero calo negli enti decentrati di Alianza País, il partito del
presidente Correa, che si è riconfermato nel 2013 al primo turno per un secondo mandato (terzo, qualora si voglia considerare anche l’anno di presidenza intercorso durante
il processo costituente), con il 57,1% di consensi, conquistando anche 100 dei 137 seggi
parlamentari. Inoltre, si sono svolte le presidenziali in Costa Rica, El Salvador e Cile, e
sono previste le presidenziali e politiche a Panama, in Colombia e in Brasile.
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Il sumak kawsay
2. Pachamama e sumak kawsay nelle cosmovisioni indigene
La cultura indigena entra per la prima volta in un testo costituzionale, non come una specie in via di estinzione, da proteggere attraverso la
creazione di uno zoo-safari per turisti sempre in cerca di manifestazioni
folkloristiche, bensì dalla porta principale, attraverso il riconoscimento,
fin dal preambolo e in numerose disposizioni nel corpo del testo, della
Pachamama e del sumak kawsay come valori, principi costituzionali e regime di diritti.
Prima di comprenderne la portata giuridica, tuttavia, è necessario approfondire la loro origine e il loro significato all’interno della tradizione
ctonia (indigena), avvalendosi di studi sociologici e antropologici, visto
che viene da più parti messa in dubbio la loro stessa appartenenza a una
qualsiasi cultura originaria andino-amazzonica, tanto che con riferimento
al sumak kawsay si parla di «tradizione inventata» (Hobsbawm, Ranger,
2002). Infatti, studi specialistici hanno dimostrato che, prima del 2000,
tanto nel vocabolario delle più comuni lingue indigene, quanto nella letteratura sulla storia, cultura e filosofia locale, tale espressione era inesistente, venendo invece utilizzati i due lemmi singolarmente, ovviamente
con diverso significato. Tutto sommato, dalla prospettiva giuridica che
abbiamo assunto, poco importa che si tratti di tradizione inventata, piuttosto che di ontologia (ri)scoperta (diversa rilevanza assumerebbe invece
il punto all’interno di una ricerca antropologica!). Ciò che conta è che:
a) sia stata coscientemente assunta come espressione e rivendicazione di
un’identità popolare, b) per questo motivo sia stata riversata nel testo costituzionale, e c) da questa fonte suprema abbia le potenzialità per esercitare un effetto trasformatore sull’ordinamento.
Un primo problema da risolvere, tipico per il comparatista, è quello della traduzione. Il costituente ha già preso una decisione sul “se”,
pur mantenendo in molte disposizioni anche la versione originale. Pure
rispetto a quest’ultima scelta occorre fare una riflessione. In Ecuador,
infatti, è stata utilizzata la sola lingua kichwa (sumak kawsay, appunto),
seppur l’art. 2, c. 2, riconosca come lingue ufficiali nelle relazioni interculturali anche il shuar, nonché gli altri idiomi ancestrali per i popoli che
ancora li parlano nei luoghi dove vivono, a fronte di un censimento nel
paese di almeno altre dieci lingue originarie.
Silvia Bagni
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La costituzione boliviana, invece, all’art. 8, c. 1, recita: «El Estado
asume y promueve como principios ético-morales de la sociedad plural:
ama qhilla, ama llulla, ama suwa (no seas flojo, no seas mentiroso ni seas
ladrón), suma qamaña (vivir bien), ñandereko (vida armoniosa), teko
kavi (vida buena), ivi maraei (tierra sin mal) y qhapaj ñan (camino o vida
noble)», mentre all’art. 5 afferma che sono lingue ufficiali dello Stato,
con eguale dignità, oltre al castigliano, tutte quelle dei popoli originari92. Il
combinato disposto dimostra non soltanto il grado di accentuazione che
il costituente boliviano ha voluto imprimere all’idea di Estado plurinacional, ma anche la complessità implicata nel riconoscimento costituzionale
delle culture originarie, che si richiamano non a una, bensì a diverse cosmovisioni, seppur da considerare fra loro compatibili sulla base di un
minimo comune denominatore di significato.
È giunto dunque il momento di spiegare quale sia questo contenuto
originale. In prima approssimazione, potremmo dire che il sumak kawsay
kichwa e il suma qamaña aymara, per limitarci alle due versioni più note,
esprimono l’idea di una forma di vita in armonia con la natura e con gli
altri esseri umani, ma la determinazione degli esatti confini di senso di
queste tradizioni resta una sfida anche per gli esponenti di queste culture.
Si tratta, infatti, di concetti che hanno differenti sfumature all’interno
di ciascun popolo indigeno. In Ecuador, ad esempio, differenti sono le
tradizioni fra gli indigeni dell’Amazzonia, gli andini e gli indigeni della
costa, gli afroamericani e i montubi.
I lemmi suma e sumak significano «plenitud, sublime, excelente, magnifico, hermoso»; qamaña e kawsay, invece, richiamano i concetti di
«vida, vivir, convivir, estar siendo, ser estando». La traduzione più fedele
delle due espressioni dovrebbe essere quindi vida en plenitud, ossia vita
in pienezza. Nella costituzione boliviana è stato tradotto come vivir bien
mentre in quella ecuadoriana come buen vivir. Le traduzioni castigliane
utilizzate nei testi costituzionali agli orecchi occidentali possono creare
2
«Son idiomas oficiales del Estado el castellano y todos los idiomas de las naciones y
pueblos indígena originario campesinos, que son el aymara, araona, baure, bésiro, canichana, cavineño, cayubaba, chácobo, chimán, ese ejja, guaraní, guarasu’we, guarayu,
itonama leco, machajuyai-kallawaya, machineri, maropa, mojeño-trinitario, mojeño-ignaciano, moré, mosetén, movima, pacawara, puquina, quechua, sirionó, tacana, tapiete,
toromona, uru-chipaya, weenhayek, yaminawa, yuki, yuracaré y zamuco».
Il sumak kawsay
Silvia Bagni
false assonanze con concetti più o meno noti del costituzionalismo classico o della filosofia antica. Vivir bien infatti, può richiamare la forma di
Stato del bienestar, e risulta evidente come un accostamento dei due concetti farebbe cadere la tesi della portata innovativa del costituzionalismo
andino (esattamente come alcuni critici sostengono); buen vivir richiama
invece l’ideale aristotelico della buona vita. Un’indagine comparativa sullo sviluppo delle due filosofie potrebbe forse condurre alla scoperta di
tratti comuni nella linea di pensiero di popoli geograficamente isolati e
temporalmente non coevi. Tuttavia, sul piano delle dottrine giuridiche
e politiche, il paragone dovrebbe arrestarsi, visto che dall’eudaimonia
aristotelica, intesa come fine principale dell’essere umano, l’Europa è
arrivata a sviluppare una versione meramente individualistica e soggettivistica della buona vita, non fondata sull’idea di bene comune; oppure
a trasformarla in oikonomia, che a sua volta, da una dimensione comunitaria e solidaristica, caratteristica dell’Illuminismo francese e italiano,
giunge alla costruzione dello Stato del welfare, del benessere inteso come
«godimento e, insieme, auto-imprenditorialità» (Esposito, 2013: 29).
Nella cosmovisione indigena tutto è connesso, interrelazionato, niente
sta fuori, ognuno è parte del tutto; l’armonia e l’equilibrio di uno e del
tutto sono il fondamento della comunità: «Saber vivir implica estar en armonía con uno mismo. Vivir Bien es vivir en comunidad, en hermandad
y especialmente en complementariedad. Es una vida comunal, armónica
y autosuficiente. Vivir Bien significa complementarnos y compartir sin
competir, vivir en armonía entre las personas y con la naturaleza. Es la
base para la defensa de la naturaleza, de la vida misma y de la humanidad toda» (Huanacuni Mamani, 2010: 7 ss.). Vivir bien non è dunque
equivalente a vivir mejor, perché quest’ultima espressione richiama una
forma di pensiero individualista, ancorata a un modello economico di
sviluppo storico lineare: in tale contesto l’aggettivo comparativo implica
che il soggetto viva meglio, ma a scapito di qualcuno che vive peggio. La
forma di Stato del benessere non è un’opzione praticabile in quanto non
sostenibile per le generazioni future. Per questo, secondo la cosmovisione andino-amazzonica, i paesi occidentali dovrebbero essere definiti
“mal sviluppati”, in quanto stanno mettendo in pericolo il futuro dei loro
simili, oltre che della natura.
Da queste basi non deriva tuttavia un pensiero uniforme circa cosa
debba essere inteso come espressione del sumak kawsay sul piano istituzionale, delle politiche di governo e delle rivendicazioni sociali. Sono
state descritte tre distinte correnti di pensiero circa il contenuto del principio: socialista-statalista, ecologista-postsviluppista e indigenista.
La prima corrente sarebbe composta da coloro che sostengono le politiche di implementazione della costituzione messe in atto dall’attuale
esecutivo ecuadoriano e che vedono nel sumak kawsay il modo di essere
del “socialismo del XXI secolo” o “socialismo del buen vivir”, come viene chiamato nei documenti ufficiali, quindi una forma culturale modernista e di sviluppo alternativo, in continuazione con il pensiero occidentale, a fondamento dello Stato del benessere, di cui esalta in particolare
gli aspetti equitativi e redistributivi della ricchezza (non a caso il Movimiento País ha scelto come simbolo della sua lotta politica «la revolución
ciudadana», richiamando un concetto, quello di cittadinanza, tipico del
costituzionalismo liberale).
La seconda corrente è invece costituita da quella che, secondo gli
schemi di lettura della scienza politica occidentale, potremmo definire
la sinistra più estrema e intransigente. I suoi membri riconoscono il cuore del buen vivir nella lotta per la preservazione della natura, nella costruzione partecipata e popolare delle politiche di governo, e infine nella
scelta decisa per un modello economico alternativo allo sviluppo. Per
questo tale corrente può essere inserita nel filone postmodernista e postsviluppista e si pone in maniera critica nei confronti dell’attuale governo,
accusato di utilizzare il buen vivir come mero slogan e di limitarsi soltanto
a realizzare una forma migliore di Stato del benessere, senza cercare di
cambiare seriamente il modello di sviluppo. L’obiettivo della costruzione
partecipata del buen vivir, inteso come ideale comune a tutto il popolo
e oltre, ossia rintracciabile anche in altre culture tradizionali del mondo,
distingue questa corrente da quella indigenista, ma apre il disegno utopico di un mondo diverso a tutti i componenti della società, a prescindere
dalle origini etniche e dalla identificazione con le tradizioni ancestrali,
realizzando quell’anelito all’interculturalità che ha trovato sede nella costituzione di Montecristi.
Infine, la terza corrente, composta prevalentemente dai leader del movimento indigeno, insiste soprattutto sul ruolo dell’autodeterminazione
dei popoli originari nella costruzione del sumak kawsay e sugli elementi
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Il sumak kawsay
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spirituali di questa cosmovisione. Denuncia la manipolazione del concetto da parte delle altre correnti, che, spogliandolo della sua dimensione cosmogonica, ne hanno tradito le origini e se ne sono appropriate,
mascherando sotto un nuovo nome, più attrattivo, modelli culturali ed
economici di matrice occidentale. La corrente statalista è molto critica
nei confronti di questa terza accezione: lo stesso presidente Correa l’ha
tacciata più volte di “indigenismo infantile”, mentre in dottrina alcuni
la classificano, con intento spregiativo, con il termine pachamamismo, a
causa dell’insistenza nel ricondurre il nuovo modello alle tradizioni ancestrali preincaiche, collegate al mito della Pachamama.
Secondo una delle varie versioni del mito, Pachamama, dea della terra,
si innamora di Pachacama, dio del cosmo. Dalla loro relazione nascono due figli, gli Huilcas. Alla morte del padre, la madre viene sedotta e
assassinata da Huacón, dio della notte, e i figli realizzano una terribile
vendetta a seguito della quale vengono trasformati in sole e luna, mentre
la loro madre viene rappresentata come un ghiacciaio che assicura agli
esseri umani la pioggia e fertilizza la terra. Pachamama viene tradotto
usualmente come Madre Terra: si tratta quindi di una divinità femminile,
legata alla fertilità e alla maternità, che incarna le due dimensioni dello
spazio e del tempo. Di fatto però, il mito va oltre, spiegando come sia la
relazionalità (uomo-donna, moglie-marito) alla base della vita. Attraverso
un rapporto di complementarietà, infatti, il cielo e la terra si ritrovano
uniti, tanto che l’etimo della parola Pachamama si compone di due lemmi
che significano insieme “le due forze”. Altro insegnamento del mito è il
rifiuto del ragionamento lineare e progressivo, a favore di quello circolare
e ricorsivo, per cicli, seguendo quelli riproduttivi della terra.
Mito, religione, realtà e sopravvivenza sono fra loro legati. La terra
non è solo un luogo fisico, un ambiente sociale. È un luogo sacro, punto
di incontro fra gli spiriti e l’uomo. L’essere umano deve vivere in equilibrio con la natura, non solo per rispettarne la sua dimensione biologica,
ma soprattutto in quanto essa viene percepita come un costrutto sociale.
Per questo bisogna rispettarla e non sfruttarla, secondo il concetto di
risorsa proprio del capitalismo (ad es., non è ammesso cacciare più del
necessario per il sostentamento della comunità). L’anima (samai), evidente commistione con la cultura cristiana, è dentro ogni essere vivente e
l’energia del mondo va sempre reintegrata. Una qualunque perturbazio-
ne dell’equilibrio mette a rischio la sopravvivenza della specie, in quanto
passato, presente e futuro sono correlati e dipendenti. Da qui il forte senso di responsabilità nei confronti delle generazioni future, che si ritrova
più volte come limite allo sfruttamento delle risorse naturali all’interno
della costituzione.
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3. Pachamama, sumak kawsay, buen vivir nella costituzione ecuadoriana
La costituzione ecuadoriana costruisce il buen vivir tanto come principio quanto come statuto di diritti (Titolo II, Capitolo II: Diritti del
buen vivir), che lo Stato deve dunque garantire ai soggetti interessati, i
quali hanno a disposizione un’ampia serie di strumenti giuridici e azioni
processuali di tutela. Essa mostra un approccio originale nel recepimento
della tradizione indigena, se si considera che nella costituzione della Bolivia, l’unica che insieme a quella ecuadoriana abbia sperimentato questa
via, il vivir bien (suma qamaña) è inserito fra i principi, valori e fini dello
Stato (Capitolo II, art. 8), quindi come elemento extragiuridico che deve
ispirare la condotta pubblica.
La costituzione ecuadoriana si compone di 444 articoli, posizionandosi tra le più lunghe al mondo. Nell’ottica che qui stiamo privilegiando,
cioè quella di evidenziare la penetrazione della cosmovisione indigena
all’interno del testo costituzionale, può essere utile procedere all’analisi
di un così vasto impianto normativo distinguendo le diposizioni che la
menzionano direttamente, dalle parti del testo che, pur in assenza di un
riferimento esplicito, introducono istituti in qualche modo riconducibili a quel tipo di mentalità; e ancora, all’interno della prima categoria,
distinguere fra quelle che richiamano istituti e concetti nel loro nome
originale (Pachamama e sumak kawsay), da quelle che utilizzano invece il
corrispondente tradotto in castigliano (buen vivir e naturaleza). In questo
modo avremo al contempo due ordini di grandezza del fenomeno: quantitativo e qualitativo, poiché l’uso della lingua originale rappresenta a mio
avviso una scelta di campo circa l’effettiva volontà, almeno in sede costituente, di imprimere una svolta ideologica alla costituzione, alla ricerca
di una vera convivenza interculturale nel nuovo Stato plurinazionale. Il
clima politico all’interno della maggioranza di governo, infatti, inizial-
Il sumak kawsay
Silvia Bagni
mente unita da un programma di cambiamento radicale di paradigma,
nel tempo si è andato modificando, tanto che ben presto alcuni protagonisti del momento costituente, come Alberto Acosta, nominato ministro
dell’energia e presidente della Costituente, si sono quasi subito defilati
da Alianza País, insieme a una parte del movimento indigenista. Il partito
del presidente, pur godendo della più ampia maggioranza di sempre in
Assemblea, si trova oggi nel mezzo di due diverse opposizioni, quella
tradizionale di destra, liberale e neoliberista, e quella di estrema sinistra.
Da un punto di vista giuridico, inoltre, ritengo che l’uso della parola
in lingua originale rappresenti un vincolo interpretativo per il giudice impegnato a garantire il rispetto della costituzione: egli infatti, nella ricerca
del significato costituzionale della disposizione, sarà portato a interpretarla alla luce dei valori propri di quella tradizione.
Il sumak kawsay è citato in costituzione cinque volte: nel preambolo, come obiettivo per la costruzione di una nuova forma di convivenza
cittadina, basata sulla diversità e l’armonia con la natura; all’art. 14, che
riconosce il diritto a vivere in un ambiente sano, che garantisca la sostenibilità e il sumak kawsay; all’art. 250, che riconosce il territorio amazzonico quale ecosistema necessario per l’equilibrio ambientale dell’intero
pianeta e gli attribuisce uno statuto speciale, garantito da una particolare
forma di pianificazione che assicuri la conservazione dei suoi ecosistemi
e del sumak kawsay; all’art. 275, il quale definisce il regime di sviluppo, orientato alla realizzazione del sumak kawsay; all’art. 387, dove si
elencano fra le responsabilità dello Stato quella di promuovere la ricerca scientifica e tecnologica, nonché lo sviluppo dei saperi ancestrali, per
contribuire a realizzare il sumak kawsay. La Pachamama è menzionata
due volte: nel preambolo, dove viene celebrata come vitale per la nostra
esistenza, e all’art. 71, dove si stabiliscono per la prima volta i diritti della natura intesa come soggetto di diritto. In tutti questi articoli sumak
kawsay e Pachamama sono sempre citati insieme alla rispettiva traduzione castigliana, come rafforzativi, a sottolineare l’origine, la matrice del
pensiero tradizionale da cui quelle disposizioni sono scaturite. Si tratta
sempre del tema ambientale: la constatazione è di particolare interesse,
poiché dimostra come proprio su tale dimensione ecologista sia stata
giocata la partita dell’innovazione del paradigma culturale nel processo
costituente, a dispetto di una posizione governativa attuale meno estrema
nei confronti delle tematiche ambientali, soprattutto quando si tratta di
contemperarle con esigenze di sviluppo economico-sociale (infra, § 4).
Il buen vivir viene citato in costituzione ben ventuno volte (a fronte
dei solo sette richiami al vivir bien nella costituzione boliviana). Dopo il
preambolo, lo ritroviamo come uno dei «doveri primordiali dello Stato»
(art. 3, c. 1, n. 5) e immediatamente dopo, nel Titolo II dedicato ai diritti, il primo gruppo è proprio quello dei diritti del buen vivir: all’acqua
(art. 12), a un’alimentazione sana e sufficiente (art. 13), a un ambiente
sano (art. 14), alla comunicazione e informazione libera, interculturale,
includente, diversa e partecipativa, che comprende il diritto all’accesso
alle tecnologie dell’informazione (art. 16), all’identità culturale (art. 21),
al tempo libero (art. 24), a beneficiare delle applicazioni del progresso
scientifico e dei saperi ancestrali, fra loro equiparati (art. 25), all’educazione (art. 26), a un habitat sicuro e salubre e all’abitazione degna (art.
30), allo sfruttamento dello spazio cittadino sostenibile (art. 31), inteso
come diritto di partecipazione al suo governo e come diritto di proprietà
con funzione sociale e ambientale, alla salute, anche sessuale e riproduttiva (art. 32), riconosciuto come diritto dipendente dall’attuazione degli
altri diritti del buen vivir, al lavoro (art. 33) e alla sicurezza sociale (art.
34). Questo Capitolo riconosce dunque come pertinenti al buen vivir
gran parte dei diritti sociali e di terza generazione, che tuttavia vengono
ulteriormente arricchiti nei successivi capitoli attraverso il riconoscimento di statuti di diritti a gruppi sociali individuati (bambini, adolescenti,
giovani, donne incinte, disabili, anziani, migranti, carcerati, consumatori)
e a comunità, popoli e nazioni in quanto tali.
Dal buen vivir dipendono anche doveri e responsabilità dei cittadini:
«Ama killa, ama llulla, ama shwa. No ser ocioso, no mentir, no robar»
(art. 83, c. 1, n. 2), ma soprattutto «Promover el bien común y anteponer
el interés general al interés particular, conforme al buen vivir» (art. 83,
c. 1, n. 7). Tale articolo va letto in connessione con il successivo art. 85,
che vincola l’orientamento delle politiche pubbliche a rendere effettivi il
buen vivir e tutti i diritti, secondo il principio di solidarietà. Si dà quindi
prevalenza alla prospettiva comunitaria rispetto a quella individualistica,
pur imponendo un tentativo di contemperamento degli interessi eventualmente in conflitto, ma «sin perjuicio de la prevalencia del interés general sobre el interés particolar».
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Silvia Bagni
Infine, il buen vivir gioca un ruolo fondamentale nella costituzione
economica del paese, in quanto preordina e vincola il regime di sviluppo
dello Stato a determinati obiettivi: «El régimen de desarrollo es el conjunto organizado, sostenible y dinámico de los sistemas económicos, políticos, socio-culturales y ambientales, que garantizan la realización del buen
vivir, del sumak kawsay» (art. 275, c. 1). Tuttavia, se il primo destinatario
della disposizione è lo Stato, che deve pianificare la politica economica
del paese in quella direzione, le persone, comunità, popoli e nazionalità
sono chiamate a partecipare attivamente all’impresa attraverso l’esercizio
delle loro responsabilità «en el marco de la interculturalidad, del respeto
a sus diversidades, y de la convivencia armónica con la naturaleza» (art.
275, c. 3). Di nuovo, si tratta di una impostazione parzialmente nuova nel
panorama giuridico costituzionale. Se, ad esempio, anche la costituzione
italiana richiama i doveri di solidarietà, lo fa partendo da una prospettiva personalista, di azione individuale, come parte dello sviluppo della
personalità di ciascuno («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si
svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»). La costituzione ecuadoriana affianca alla persona la comunità in una escalation sempre più
inclusiva, sottolineando così che gli obiettivi da realizzare mirano sempre
al bene comune, all’interno del quale c’è anche quello individuale. Ancora, questa prospettiva trova conferma nell’art. 277, che, elencando i
doveri generali dello Stato per la realizzazione del buen vivir, indica una
triade di soggetti destinatari, titolari di diritti per la costituzione: le persone, le collettività, la natura. Quando parla di buen vivir la costituzione
non si riferisce mai ai cittadini, bensì a questo gruppo di destinatari. Non
credo sia un caso: il paradigma del cittadino coincide oggi, nei moderni
ordinamenti socialdemocratici, con la politica dell’esclusione, dell’eguaglianza formale e non sostanziale, della neutralizzazione delle differenze
attraverso l’astrazione giuridica e dunque esattamente con il sistema di
sviluppo che si vuole superare.
Il buen vivir come principio-chiave del modello di sviluppo ecuadoriano trova concreta declinazione nel Capitolo dedicato alla Sovranità
economica. L’art. 283 definisce il sistema economico come sociale e solidale e pone come suo obiettivo la produzione e riproduzione delle condi-
zioni materiali e immateriali che rendono possibile il buen vivir. Il regime
economico si arricchisce, rispetto alle forme di organizzazione tipiche
del sistema liberale (pubblica, privata e mista), dell’economia popolare e
solidale, riconoscendo in questo modo le forme di produzione e scambio
tipiche della tradizione indigena. È forse interessante segnalare, in un periodo in cui all’interno dell’Unione Europea le politiche di rigore hanno
imposto addirittura revisioni costituzionali a garanzia del contenimento
del debito, che la disposizione sul debito pubblico dell’art. 290 riconosce come limite di legittimità dell’indebitamento la sovranità, i diritti e il
buen vivir, e proibisce espressamente la statalizzazione di debiti privati.
Infine, la costituzione individua un «Régimen del buen vivir», suddiviso in due ambiti, quello delle azioni nel campo dei diritti sociali e
quello dei diritti della natura, già specificati nel Capitolo VII del Titolo II
dedicato ai Diritti. La natura, secondo l’art. 72, ha diritto «a la restauración». È un diritto indipendente dall’obbligo di indennizzare o risarcire
le persone che hanno subito danni diretti dall’evento e include anche
i danni causati alla natura dallo sfruttamento delle risorse naturali non
rinnovabili. Ai sensi dell’art. 71, infatti, la natura (Pachamama), definita come il luogo dove si riproduce e si sviluppa la vita, ha il diritto a
che si rispetti integralmente la sua esistenza nonché i suoi cicli vitali, la
sua struttura, funzioni e processi evolutivi. Questo diritto è attivabile da
qualsiasi persona, comunità, popolo o nazione, e prescinde dal fatto di
aver subito un danno a titolo individuale. Lo Stato è tenuto ad applicare
il principio di precauzione ed eventualmente a porre restrizioni rispetto
ad attività suscettibili di condurre all’estinzione di specie, alla distruzione
di ecosistemi o all’alterazione permanente di cicli vitali (questo obbligo
è integrato da quello di consultazione delle comunità indigene rispetto
a qualsiasi decisione che riguardi il loro territorio, la loro esistenza e il
loro stile di vita: art. 57) mentre è totalmente proibita l’introduzione di
organismi e materiali geneticamente modificati che possano alterare in
maniera definitiva il patrimonio genetico nazionale (art. 73). Le persone,
comunità, popoli e nazioni potranno godere delle ricchezze naturali e
dell’ambiente ma i servizi ambientali dovranno restare di titolarità pubblica (art. 74).
Il riconoscimento della natura come soggetto di diritto è rivoluzionario in prospettiva giuridica. Comporta un rovesciamento di prospettiva,
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da antropocentrica a biocentrica: il passaggio dal diritto dell’ambiente
al diritto ecologico. La natura non è più tutelata in quanto finalizzata
al benessere dell’uomo, ma in quanto portatrice di valori in sé. Questo
permette di riconoscere un’azione popolare a difesa della natura, a prescindere da una lesione soggettiva di interessi propri del soggetto che
agisce. L’ordinamento, tuttavia, non si è consegnato senza riserve alla
subordinazione al diritto naturale in senso letterale; tutt’altro, visto che
la costituzione chiarisce fin dall’inizio che la natura ha i diritti che essa
stessa le riconosce (art. 10, c. 2). Solo in Ecuador la natura è riconosciuta
come soggetto di diritto, mentre la costituzione ambientale in Bolivia si
sviluppa soltanto attraverso il paradigma dei diritti di terza generazione,
che sono sempre e comunque diritti della persona (diritto a un ambiente
salubre, diritto alla salute, ecc.), ossia situazioni giuridiche funzionali allo
sviluppo dell’identità individuale. L’art. 395, c. 4, cost. Ecuador arriva a
prescrivere che in caso di dubbio interpretativo circa disposizioni ambientali il giudice debba applicare il principio nel dubbio pro natura.
Passiamo ora all’identificazione di quel gruppo di disposizioni che
presuppongono la cosmovisione andino-amazzonica come fondamento
epistemologico, senza tuttavia richiamare esplicitamente il sumak kawsay
o il buen vivir. Possiamo raggrupparle, a seconda della materia, in quelle
volte a riconoscere e realizzare: a) la dignità del lavoro e un’economia
sociale e solidale; b) la plurinazionalità e l’interculturalità; c) la partecipazione cittadina al governo democratico.
a) L’articolo 283 della costituzione dichiara che l’economia ecuadoriana è sociale e solidale. Questo significa che l’uomo è messo al centro
dei rapporti economici, e ciò comporta l’adozione di misure che esaltino
la dignità del lavoro, come la partecipazione democratica dei lavoratori
nella gestione dei processi produttivi, la redistribuzione della ricchezza,
il salario minimo o il divieto di terziarizzazione del rapporto di lavoro. La
difesa del lavoro deve prevalere su quella del capitale, per cui il principio
di solidarietà impone un ridimensionamento dei concetti di produttività
e competitività, che cedono di fronte ad esigenze legate alla tutela della persona-lavoratore. Tutto ciò senza negare in principio né il capitalismo, né la proprietà privata, bensì riconoscendo entrambe come forme
di espressione delle capacità di sviluppo dell’uomo, insieme, e alla pari,
rispetto al cooperativismo, all’impresa sociale, all’autogestione, alle reti
del commercio giusto, ecc. Il sistema economico è finalizzato, come tutti
gli altri ambiti del più ampio sistema sociale, alla realizzazione del buen
vivir. Questo significa che il modello economico di sviluppo è con esso
compatibile solo in quanto sostenibile, ossia inteso come “sviluppo integrale” dell’uomo in armonia con la natura, nel rispetto del sumak kawsay
(Stato ecosociale). Quindi, la crescita economica non è demonizzata in
sé, ma subordinata a un principio di sostenibilità. «El buen vivir no es
vida pobre, sino una vida rica en un sentido más profundo e integral,
digna en lo material, trascendente en lo social y espiritual, sensible a la
diversidad cultural y a la naturaleza» (Grijalva Jiménez , 2012: 49). È l’intervento regolatore dello Stato sull’economia a garantire che ciò avvenga,
sia in modo diretto, attraverso imprese pubbliche, soprattutto nei settori
strategici, sia indirettamente, attraverso la pianificazione (il Piano nazionale per lo sviluppo è il documento, vincolante per le pubbliche amministrazioni, su cui si basa l’intera azione statale) e una puntuale disciplina,
costituzionale e legislativa, di limiti e condizioni all’esercizio dell’iniziativa economica e alla proprietà in funzione dello sviluppo integrale della
persona nel rispetto dell’ambiente.
b) Il rapporto fra conquistatori occidentali e popolazioni indigene è
stato caratterizzato, in prospettiva giuridica, prima dal paradigma dell’assimilazione, poi da quello della tutela delle minoranze, sempre però da
una posizione che presupponeva l’inferiorità della cultura tradizionale
rispetto a quella europea. Come riconosce anche Zagrebelsky, il multiculturalismo «si ferma a una giustapposizione delle diverse culture, nella
migliore delle ipotesi estranee l’una all’altra; nella peggiore, conflittuali»
(Mauro, Zagrebelsky, 2011: 104). L’autore richiama la necessità di superare questo modello, facendo riferimento non al concetto di intercultura
ma a quello di «interazione» come «capacità delle culture di entrare in
rapporto per definire sé stesse e la disponibilità a costruire insieme e,
eventualmente, a imparare l’una dall’altra», senza rinunciare alla propria
identità e su un piano di eguaglianza. Questa posizione appare in totale
consonanza con il modello interculturale che propongono le nuove costituzioni andine. Infatti, attraverso la costituzionalizzazione della cosmovisione andino-amazzonica, rafforzata dalla tutela esplicita della cultura
ancestrale, si riconosce a tutte le forme epistemologiche uguale dignità.
La prospettiva interculturale diventa un’occasione per lanciare un pro-
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Il sumak kawsay
Silvia Bagni
cesso di decolonizzazione dei diritti umani, la cui teorica viene integrata
da visioni del diritto non occidentali, che suggeriscono, ad esempio, nuove riflessioni circa la dimensione collettiva dei diritti. Esempio paradigmatico è l’art. 11, n. 7, cost., che riconosce la dimensione collettiva della
dignità, superando la visione individuale occidentale. Infine, l’art. 1 cost.
proclama l’Ecuador «un Estado constitucional de derechos». La “s” finale nella parola derechos non è una svista, bensì la testimonianza di una
scelta cosciente a favore di una nuova forma di Stato, quella dello Stato
costituzionale dei diritti. Mentre la versione classica dello Stato di diritto
ha il suo perno nella sottoposizione dei pubblici poteri ai limiti formali
e sostanziali previsti dalla legge prima, dalla costituzione poi, nello Stato
dei diritti la loro massima estensione costituisce l’obiettivo primario dello
Stato (art. 11, n. 9), mentre diventano un limite per il pubblico e il privato, grazie alla loro efficacia diretta e vincolante. Viene superata la distinzione classica fra diritti civili, politici ed economico-sociali: essi vengono
raggruppati per “materia”, sono tutti immediatamente giustiziabili e fra
loro non c’è gerarchia (art. 11). Quanto alla loro progressiva estensione,
l’impegno costituzionale in tal senso si evince anche dall’equiparazione
dello status di cittadino e di straniero immigrato, incluso il diritto di voto,
esercitabile dopo cinque anni di residenza in Ecuador, nonché dalla previsione costituzionale della promozione della cittadinanza universale. Lo
Stato interculturale, plurinazionale e dei diritti implica il riconoscimento
del pluralismo giuridico, declinato sia come pluralità di fonti del diritto
(la legge e in generale il diritto dello Stato, gli usi e costumi del diritto indigeno, la giurisprudenza, financo la morale), sia come sistema articolato
di garanzie (normativa, politica, che si traduce nell’obbligo dello Stato di
determinare le politiche pubbliche, sanzionabile mediante l’azione costituzionale di inadempimento, e giurisdizionale). L’organizzazione della
funzione giudiziaria si arricchisce con la previsione della giurisdizione
indigena. Nel processo, la competenza giurisdizionale resta finché non
c’è la soddisfazione piena del diritto attraverso l’esecuzione della sentenza (art. 86, n. 3).
c) Il processo politico che ha condotto all’Assemblea costituente di
Montecristi ha visto protagonisti, per la prima volta nella storia ecuadoriana, gruppi sociali subalterni, in primis i movimenti indigeni, che
hanno portato come contributo fondamentale alla nuova costituzione la
loro particolare cosmovisione e dunque il sumak kawsay. Come abbiamo visto, la interrelazionalità e la vita comunitaria sono aspetti centrali
di questo modo di vivere. Questa dimensione si è dunque riversata nel
testo costituzionale attraverso la qualificazione dello Stato come partecipativo e grazie alla declinazione della partecipazione popolare come
diritto, come modus operandi nella definizione delle politiche pubbliche
per mezzo della pianificazione, come funzione autonoma dello Stato (di
trasparenza e controllo sociale), istituzionalizzata in diversi organi (il
Consiglio di partecipazione cittadina e controllo sociale, il difensore del
popolo, l’organo di controllo generale dello Stato e le sovrintendenze).
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4. Le criticità nell’attuazione del progetto costituzionale tra sumak
kawsay e buen vivir
4.1. Il difficile rapporto tra le forze politiche progressiste dalla Costituente
all’attuale Assemblea nazionale
Quando Rafaél Correa diventa presidente dell’Ecuador per la prima
volta, nel 2007, il paese proveniva da più di un decennio di grande instabilità politica, essendo stati gli ultimi tre presidenti eletti tutti obbligati
alle dimissioni per pressioni popolari nei precedenti dieci anni. La situazione economico-sociale era diventata insostenibile per la popolazione,
che nel 2004 era scesa in strada per manifestare tutto il suo odio nei
confronti di un establishment corrotto e “vendepatria”, al grido, ormai
noto anche in Europa, “que se vayan todos”. Correa si presenta alle presidenziali sostenuto dal movimento di revolución ciudadana Alianza País,
che riunisce anime diverse del panorama politico e sociale del paese, da
sempre ai margini del potere, dal centro all’estrema sinistra, dagli ecologisti al movimento indigeno, e decide di non presentare candidati per
l’Assemblea nazionale, in coerenza con un atteggiamento di dura critica
nei confronti del sistema e delle istituzioni, cavalcando la bandiera della
necessità di rifondare lo Stato su basi nuove attraverso la convocazione di
un’Assemblea costituente, di fatto primo atto del presidente neo-eletto.
Le elezioni per i membri dell’Assemblea assicurano ad Alianza País (AP) il
70% dei seggi, il sostegno all’esecutivo che mancava in sede parlamentare.
Il sumak kawsay
Silvia Bagni
La contestualizzazione politica è a mio parere necessaria per comprendere tanto l’origine e la natura, così fortemente radicale, della costituzione ecuadoriana del 2008, quanto la fase successiva di governo e
di attuazione, con i suoi innegabili successi ma anche le sue inevitabili
contraddizioni. Per come era stato il recente passato, la costituzione non
poteva essere meno che visionaria: il sumak kawsay diventa parola d’ordine e idea-guida che segna l’intero processo costituente e i successivi
obiettivi di mandato, ma fin da subito, con la rinuncia di Alberto Acosta
alla presidenza dell’Assemblea e con i primi dissapori con alcuni membri
del movimento indigeno, appare chiaro che non c’è unione di vedute sul
contenuto e sulle azioni da intraprendere nell’attuazione del buen vivir.
Richiamando le differenti posizioni sul modo di interpretare e concepire il sumak kawsay esposte supra al § 2, ed analizzando i testi di alcuni
documenti ufficiali, lo scollamento di vedute emerge. Nel Manifiesto ideológico di AP si dichiara ripetutamente che l’obiettivo da raggiungere è
il “Socialismo del Buen Vivir”, che è «ispirato nella diversità di filosofie
che forgiano l’ideale del sumak kawsay». Il Plan nacional de desarrollo
approvato con risoluzione n. CNP-002-2013 del 29 luglio 2013, in attuazione dell’art. 280 cost., è stato chiamato Plan nacional para el Buen Vivir
2013-2017. Ma quale concetto di buen vivir propugna? E coincide con
quello di sumak kawsay? Nel documento troviamo parti compatibili con
le visioni indigenista ed ecologista del sumak kawsay. Il buen vivir viene
descritto come «la forma de vida que permite la felicidad y la permanencia de la diversidad cultural y ambiental; es armonía, igualdad, equidad
y solidaridad» (p. 12 della versione riassunta) e si afferma che «el Buen
Vivir es el Sumak Kawsay» (p. 14). Prosegue dichiarando che si tratta di
una visione differente da quella occidentale e aristotelica di “vita buona”
e che «no se trata de un nuevo paradigma de desarrollo, sino de una alternativa social, liberadora». Fino a qui, il modello scelto appare in netta
rottura non solo con il precedente sistema neoliberale, ma in generale
con il modello di Stato sociale fino ad oggi realizzato in Occidente. Tuttavia, la ricetta proposta si basa in primo luogo sull’affermazione del ruolo
dello Stato «como promotor del desarrollo» (p. 31), come redistributore
delle risorse e della ricchezza, come regolatore del mercato, soluzioni ben
note all’Occidente e implementate prima del cambio di paradigma economico dal modello keynesiano a quello neoliberale. In questi termini la
portata dirompente del sumak kawsay agli occhi di un occidentale pare
ridimensionata, ancor più se si guarda alla parte del programma dedicata
alla pianificazione economica, dove si stabilisce l’obiettivo del cambio di
matrice produttiva da paese principalmente esportatore di materie prime
non lavorate, a un’economia della conoscenza, in grado cioè di proporre
sul mercato prodotti lavorati con valore aggiunto. In questo processo si
contempla lo sviluppo dell’industria mineraria e «se plantea usar el extractivismo para salir de l’extractivismo» (p. 48).
È all’interno di questa cornice che si inserisce lo scontro attuale tra il
governo, da una parte, e la sinistra più radicale e parte del movimento indigeno, inizialmente alleato di Correa, dall’altra. Essi attaccano la politica
dell’esecutivo proprio sul terreno che, come abbiamo visto nell’analisi
del testo costituzionale, era stato il cuore pulsante della rivoluzione, ossia
la politica di difesa della natura e di abbandono dell’estrattivismo. Nel
2007, il presidente Correa lanciava in sede internazionale all’Assemblea
generale delle Nazioni Unite, il progetto Yasuní-ITT. Con questa iniziativa l’Ecuador si impegnava a rinunciare all’estrazione delle risorse energetiche e minerarie del sottosuolo nei territori di Ishpingo-TambocochaTiputini, compresi nel parco nazionale Yasuní nell’Amazzonia ecuadoriana, con l’effetto di evitare l’immissione nell’atmosfera di 407 milioni di
tonnellate di CO2, conseguenza dello sfruttamento petrolifero, pari alla
produzione annua del gas-serra di paesi come Brasile o Francia. L’area,
un parco naturale dal 1970 di 9.820 kmq nel Nord-Est del paese, rappresenta la riserva di biodiversità più importante del pianeta, oltre a essere
la sede delle due comunità indigene in isolamento volontario presenti in
Ecuador, Tagaeri e Taromenane, del gruppo etnico Huaorani. In cambio,
l’Ecuador chiedeva alla comunità internazionale una compartecipazione
economica al progetto, pari alla metà del valore delle entrate che lo Stato avrebbe perso a seguito della rinuncia all’estrazione (stimati in 3.600
milioni di dollari), attraverso la realizzazione di un fondo gestito dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo a cui gli Stati, le organizzazioni internazionali, le ong e i singoli potevano contribuire, da utilizzare
sul territorio per il finanziamento di progetti relativi allo sfruttamento
di energie pulite e rinnovabili, alla riforestazione, alla preservazione del
parco naturale, alla ricerca e sviluppo di sistemi energetici sostenibili, allo
sviluppo delle comunità agricole locali.
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Il sumak kawsay
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Il progetto non ha ricevuto il sostegno necessario dalla comunità internazionale, che anzi, in alcuni casi ha osteggiato fortemente l’iniziativa.
L’esecutivo, nel 2010, ha annunciato l’adozione del “piano B”, ossia l’inizio del parziale sfruttamento petrolifero del parco nelle zone a minore
impatto ambientale. Il 15 agosto 2013 il presidente Correa ha chiesto al
Parlamento di dichiarare di interesse nazionale il nuovo progetto di sfruttamento del parco. Il 22 agosto la società civile, attraverso il comitato
promotore definito “Yasunidos”, ha presentato una richiesta di referendum nazionale sul quesito «Volete che il Governo ecuadoriano mantenga il petrolio greggio in ITT, noto come blocco 43, indefinitamente nel
sottosuolo?», tuttavia i promotori non sono stati in grado di presentare
il numero di firme previsto dalla costituzione per lo svolgimento della
consultazione (5% dell’elettorato), risultato certificato il 6 maggio 2014
dal consiglio elettorale nazionale.
annoverate le azioni di protezione (si legga amparo), habeas corpus, accesso alle informazioni pubbliche, habeas data, azione per inadempimento
e azione straordinaria di protezione. Tuttavia, le azioni costituzionali e
l’azione straordinaria di protezione sono esperibili, in base all’art. 439,
unicamente da parte di cittadini, individualmente o collettivamente. Le
azioni costituzionali sono popolari, ossia non serve che il soggetto ricorrente dimostri una lesione diretta di un proprio diritto o interesse.
A fronte di queste premesse costituzionali, la Legge organica sulle garanzie giurisdizionali sembra, sotto molti aspetti, aver disciplinato queste
azioni introducendo requisiti processuali non previsti dalla costituzione,
che ne restringono l’ambito applicativo. Ad esempio, l’art. 9, inserito tra
le regole comuni a tutti i giudizi, richiede, ai fini della legittimazione attiva, che la persona, comunità, popolo o collettivo sia lesa o minacciata in
uno o più dei suoi diritti costituzionali, specificando che si considerano
“persone lese” solo le vittime dirette o indirette di violazione di diritti
costituzionali che possano dimostrare di aver subito un danno. L’azione
di protezione diventa residuale, ossia solo a fronte dell’inesistenza di altro tipo di azioni giudiziali adeguate ed efficaci che possano ugualmente
tutelare il diritto violato (art. 40, n. 3). L’azione straordinaria di protezione diventa ammissibile solo qualora il ricorrente dimostri che il ricorso
è finalizzato a risolvere una violazione grave di diritti, o serva a stabilire
precedenti giudiziali, o a correggere l’inosservanza di precedenti della
corte o a pronunciarsi su questioni di rilevanza e trascendenza nazionale
(art. 62, n. 8), mentre viene esclusa contro sentenze del tribunale contenzioso elettorale durante i processi elettorali. Infine, a fronte di una generica previsione costituzionale della possibilità per la corte costituzionale
di ordinare misure cautelari, la legge ne limita l’utilizzo in caso di azione
straordinaria di protezione (art. 27, c. 3). Paradossalmente, per quanto
attiene alla legittimazione attiva nei casi di azione di incostituzionalità,
che la costituzione riserva ai cittadini, la Logjcc apre a tutte le persone.
Per quanto attiene specificamente all’utilizzo del sumak kawsay come
parametro di costituzionalità e ai diritti e alle azioni previste a tutela della
natura, gli interventi giudiziari sono ancora relativamente pochi e non
tutti coerenti. La prima azione di protezione a tutela della natura è stata
promossa da due cittadini stranieri, in esercizio di quella giurisdizione
universale di cui abbiamo sopra parlato, contro il governo provinciale
92
4.2. Il delicato passaggio dal testo costituzionale alla legislazione attuativa
Da un punto di vista giuridico, è necessario tenere distinte le due sfere dell’essere e del dover essere costituzionale, pur non rinunciando a
un’analisi della coerenza dell’ordinamento in termini di attuazione legislativa del progetto costituzionale e di interpretazione giurisprudenziale dei principi enucleati in costituzione. Mi concentrerò in particolare
sull’aspetto che mi pare più rilevante in relazione all’autodefinizione della costituzione come forma di Stato costituzionale dei diritti: le garanzie
giurisdizionali, con particolare riferimento ai diritti della natura.
La costituzione, conformemente al suo afflato garantista, offre non
soltanto un vasto armamentario di azioni a garanzia dei diritti costituzionali, coinvolgendo direttamente anche la magistratura ordinaria, ma pare
riconoscere una legittimazione processuale generale per attivarle. L’art.
75 afferma che ogni persona ha diritto all’accesso gratuito alla giustizia
e alla tutela effettiva, imparziale e rapida dei suoi diritti e interessi. L’art.
86, a sua volta, prevede che: «Las garantías jurisdiccionales se regirán, en
general, por las siguientes disposiciones: 1. Cualquier persona, grupo de
personas, comunidad, pueblo o nacionalidad podrá proponer las acciones previstas en la Constitución». Tra le garanzie giurisdizionali vanno
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Il sumak kawsay
Silvia Bagni
di Loja, responsabile di aver causato danni ambientali a seguito del deposito di materiale di scavo nel letto del fiume Vilcabamba durante la
costruzione della strada Vilcabamba-Quinara, realizzata senza preventiva
valutazione di impatto ambientale. La corte provinciale di giustizia di
Loja, nella causa 11121-2011-0010, promossa il 5/01/2011, ha riconosciuto la responsabilità dell’amministrazione locale, riconoscendo che la
natura «tiene de que se le respete integralmente su existencia y el mantenimiento y regeneración de sus ciclos vitales, estructura, funciones y
procesos evolutivos».
Per quanto riguarda la posizione della corte costituzionale, se da un
lato, già varie volte, in virtù del riconoscimento costituzionale del sumak
kawsay, la tutela della natura è stata considerata un motivo ammissibile
per giustificare lo Stato di eccezione decretato dal governo, dall’altro,
quando l’approccio che sarebbe richiesto in virtù di un’interpretazione
interculturale delle clausole costituzionali secondo i principi del sumak
kawsay entra in contrasto con le attività di pianificazione economica e di
sviluppo dello Stato, la corte si pone in posizione di difesa del perseguimento dell’interesse comune, identificato con un modello economico e
di Stato sociale sviluppista, senza tener conto dell’obiezione per cui nello
Stato del buen vivir il bene collettivo dovrebbe essere identificato nei
valori che la corte ha sacrificato103. Questo concetto viene largamente illustrato nell’opinione dissenziente del giudice Nina Pacari Vega nella pronuncia 001-10-SIN-CC del 18 marzo 2010, a seguito di azione di incostituzionalità promossa contro la Ley de Minería, forse ad oggi uno dei più
importanti casi affrontati dalla corte. Il giudice, già consigliera giuridica
della Conaie, l’organizzazione ecuadoriana rappresentativa dei popoli indigeni, ricorda come «de no existir armonía entre el “interés colectivo”
y el respeto a los derechos constitucionalmente reconocidos, y más aún
cuando aquellos están directamente relacionados con un derecho fundamental como la integralidad de los territorios de pueblos ancestrales o la
consulta prelegislativa, estaríamos frente a un concepto sustentado por
Roberto Dromi que dice: «No existe un concepto de utilidad pública
inmutable, rígido e inflexible» (p. 41 del voto salvado). Mentre infatti
l’opinione di maggioranza giustifica sotto vari aspetti la legge alla luce
delle norme costituzionali che consentono allo Stato, in base al concetto
di utilità pubblica, di comprimere i diritti dei popoli indigeni, il giudice
Pacari, in considerazione dell’importanza trascendentale della questione,
ritiene che la corte avrebbe dovuto procedere a una interpretazione globale della costituzione, sulla base del principio di interculturalità. Solo
questo tipo di approccio avrebbe consentito di vedere la reale portata di
concetti come quello di “terra” nella cultura dei popoli indigeni e quindi
di ponderare in maniera appropriata il diritto delle popolazioni indigene
alla consulta previa a fronte di altri concetti come quello di utilità pubblica.
94
3
Nella fattispecie, la società pubblica Petroecuador, che gestisce le attività estrattive per
conto dello Stato, è impegnata nella costruzione di un sistema di stoccaggio terreste del
GPL. Per realizzare il progetto, la società deve espropriare diversi ettari di terre comunitarie, secondo l’art. 57, n. 4, cost. inalienabili e indivisibili, anche se, dall’altra parte,
l’art. 323 attribuisce allo Stato il potere di espropriare beni, salvo indennizzo, per fini di
sviluppo sociale e benessere collettivo. La società richiede quindi alla corte una pronuncia interpretativa (sent. 002-09-SIC-CC). Nelle conclusioni si legge che «se prioriza el
interés general que representa a toda la nación, respecto del interés particular o comunal
como en la especie así sucede».
95
4.3. Il retaggio culturale della colonizzazione
Volendo considerare tutti i possibili ostacoli che il sumak kawsay può
incontrare nel diventare parte della “costituzione vivente” del paese, vale
la pena spendere alcune parole sul problema della mentalità dei destinatari delle politiche del buen vivir, e dunque su quello che alcuni chiamano
il formante culturale. È luogo comune che il rapporto delle popolazioni
latinoamericane con le norme possa essere racchiuso nell’espressione «se
acata, pero no se cumple». Questa massima deriva da una dinamica che si
produceva durante il periodo coloniale. I territori del continente latinoamericano erano governati da viceré, che rappresentavano il potere delle
Corone spagnola e portoghese. Quando in Europa il sovrano emanava
leggi per le colonie, esse si consideravano immediatamente vigenti, ma
nel lungo viaggio per giungere anche solo a conoscenza dei funzionari
del luogo spesso diventavano ineseguibili, perché nel frattempo erano
mutate le condizioni di fatto in base alle quali erano state assunte.
Il nuovo paradigma dei diritti e la riforma delle garanzie costituzionali
Il sumak kawsay
Silvia Bagni
devono essere visti come un’opportunità di riscatto per i settori della
popolazione tradizionalmente emarginati. Nel Plan nacional para el Buen
Vivir 2013-2017 si afferma che per raggiungere l’obiettivo del socialismo
del XXI secolo è necessario non soltanto un cambio di matrice produttiva «sino principalmente la mentalidad ciudadana» (p. 16). Per questo
uno dei dodici obiettivi prioritari è la costruzione del potere popolare:
«construir más sociedad, paralelamente a la recuperación del Estado»
(p. 46). La revolución ciudadana è nata dall’alto e quello che anche le
recenti elezioni amministrative hanno messo in luce è la necessità di fortificare la base, di animare e organizzare la società civile in tutti i luoghi di
espressione della partecipazione, soprattutto nelle istituzioni più vicine
alla gente (quartieri, assemblee popolari), rendendo effettivo lo strumentario partecipativo previsto dalla costituzione e dalla Ley de participación.
non si vuole in nessun modo giudicare nel merito le politiche del governo
ecuadoriano. L’analisi condotta, anche in termini politici, è semplicemente finalizzata a mettere in luce le diverse facce e dimensioni del sumak
kawsay; a far capire come si tratti di un concetto il cui contenuto è in
progressiva costruzione; a dimostrare come inevitabilmente le scelte di
attuazione sul piano politico e sociale abbiano ricadute sull’implementazione a livello giuridico del buen vivir.
Le considerazioni svolte portano in sede di conclusioni a rinnovare la
domanda circa la possibilità di riconoscere o meno, nei contenuti della
costituzione ecuadoriana, un modello alternativo di costituzionalismo.
La mia risposta a questo interrogativo è senz’altro positiva. La novità sta
nella riscoperta del valore dell’uomo come prioritario nella definizione
dell’indirizzo politico. Nel Plan nacional de desarrollo leggiamo infatti:
«El artículo 1 de la Constitución de la República, al configurar al Ecuador como un estado de derechos, pretende colocar al ser humano en el
centro de todo el accionar del Estado» (p. 24) e «el nuevo sistema economico tiene como centro y fin el ser humano, privilegia el mundo del
trabajo por sobre el capital y persigue el cambio de la matriz productiva»
(p. 49). Tuttavia, questa volta, a differenza di quello che accadde con l’influenza del personalismo cattolico nella costruzione dello Stato sociale,
si tratta di un uomo “situato”, fra altri uomini e nella natura. Il sumak
kawsay corrisponde sulla carta a «un nuovo patto sociale in armonia con
la natura» ma «el reto es pasar del pacto social en armonía con la naturaleza, aprobado por la mayoría de su población en la Constitución 2008,
hacia la transformación profunda que significa dar vida al Sumak Kawsay
con el nuevo régimen de desarrollo social y solidario que sustente y garantice el pleno ejercicio de los derechos con justicia intergeneracional»
(Quirola Suárez, 2009: 104).
Credo che questo sia l’aspetto della costituzionalizzazione della cosmovisione andina che a mio modo di vedere giustifica l’affermazione del
superamento della forma di Stato del bienestar verso quella del buen vivir,
come cambiamento di matrice culturale, innanzitutto, pur nella consapevolezza che la realtà economico-sociale è ancora distante dal garantire a
96
5. Conclusioni: in difesa dell’autonomia del nuovo costituzionalismo
andino
È quantomeno dubbio che l’ambizioso programma di governo espresso negli ultimi due Piani per lo sviluppo avrebbe potuto essere realizzato
rinunciando in toto alle risorse economiche derivanti dallo sfruttamento
petrolifero, né forse avrebbero potuto essere raggiunti i risultati sociali
fin qui ottenuti, di cui ha indubbiamente beneficiato almeno una parte
del popolo ecuadoriano in termini di qualità della vita14.. In questa sede
4
Riporto, a testimonianza del dibattito, anche accademico, che i governi Correa hanno
prodotto, alcune riflessioni di B. de Sousa Santos (2014). Parte dal riconoscere alcuni
meriti al presidente Correa: «es opinión ampliamente compartida que Correa ha sido,
“a pesar de todo”, el mejor presidente que Ecuador ha tenido en las últimas décadas y el
que ha garantizado mayor estabilidad política después de muchos años de caos. En tercero, no cabe duda de que Correa ha emprendido la mayor redistribución de la renta de
la historia de Ecuador, contribuyendo a la reducción de la pobreza y al fortalecimiento
de las clases medias». Segue descrivendo i caratteri che qualificano la sua politica: nazionalismo, populismo, statalismo, similmente alla politica di Atatürk in Turchia, e si
chiede se essa contrasti o meno con i contenuti della costituzione del 2008. La risposta,
alla fine di una lunga e attenta analisi, è la seguente: «Se trata, por tanto, del capitalismo
del siglo XXI. Hablar del socialismo del siglo XXI es, por el momento, y en el mejor de
los casos, un objetivo lejano. A la luz de estas características y contradicciones dinámicas
97
que el proceso dirigido por Correa contiene, centroizquierda es quizá la mejor manera
de definirlo políticamente».
Il sumak kawsay
Silvia Bagni
tutti i diritti riconosciuti in costituzione. Il formante culturale si è legato
a quello legislativo (costituzionale), come base di un nuovo Rinascimento
di matrice andina e non meramente importato o copiato. Credo sia anche questo il motivo del successo, sul piano giuridico, della costituzione
ecuadoriana del 2008: l’aver per la prima volta rappresentato un contenuto originale, con risposte adatte ai problemi, alla cultura e al territorio
locali, come lo Stato plurinazionale e interculturale o il rapporto con la
Pachamama. Questo non significa che il modello abbia soltanto una valenza “glocal”. Il sumak kawsay ha contenuti che possono essere definiti
e condivisi da parte di altri popoli non andino-amazzonici, esattamente
come la cultura occidentale presenta concetti che vale la pena diffondere
e condividire fra le varie culture, ciascuna con la propria matrice, come
quello di dignità umana.
In Italia, tra gli altri, Zagrebelsky ha denunciato la crisi della politica,
e di conseguenza della democrazia, che ne è attualmente la forma istituzionale: i governanti non sono più liberi di definire i fini delle proprie
politiche, in quanto il loro spazio di manovra è ormai limitato a scelte
tecnico-amministrative. Si proclama la crisi del nostro sistema economico, e dunque anche del nostro stile di vita, ma nel dibattito sulle possibili
soluzioni non si discute di modelli alternativi, tuttalpiù si continua a pensare a come ripristinare il vecchio modello di sviluppo. Eppure, lo stesso
autore riconosce che altri modelli (democrazia alimentare, democrazia
ambientale e democrazia culturale) sono pensabili, e da alcuni anche già
tentati. Il caso ecuadoriano, pur con tutte le sue debolezze e criticità, è
un esempio in questo senso, anche se non tutte le sue ricette sono nuove
in assoluto. Per certo, si tratta di una matrice culturale nuova per questo
preciso momento storico, che deve essere riconosciuta e dignificata, con
l’auspicio che possa espandere i suoi effetti, anche attraverso l’impulso
accademico, in altre realtà giuridiche e sociali, come manifesto di “un
altro mondo possibile”.
concetto di benessere, in Filosofia politica, 1.
Grijalva Jiménez A. (2012), Constitucionalismo en Ecuador, Corte Constitucional para el Período de Transición.
Hobsbawm E.J., Ranger T. (cur.) (2002), L’invenzione della tradizione, Einaudi.
Huanacuni Mamani F. (2010), Buen Vivir/Vivir Bien. Filosofía, políticas, estrategias y experiencias regionales andinas, Coordinadora Andina de Organizaciones Indígenas.
Mauro E., Zagrebelsky G. (2011), La felicità della democrazia. Un dialogo, Laterza.
Quirola Suárez D. (2009), Sumak Kawsay. Hacia el nuevo pacto social en armonía
con la naturaleza, in Acosta A., Martínez E. (coords.), El Buen Vivir. Una vía
para el desarrollo, Abya-Yala.
98
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de Sousa Santos B. (2014), ¿La Revolución ciudadana tiene quién la defienda?, in
http://blogs.publico.es/espejos-extranos/2014/05/09/la-revolucion-ciudadana-tiene-quien-la-defienda.
Esposito M. (2013), Il governo della felicità. Un percorso genealogico e critico sul
Abstract: The Ecuadorian Constitution of 2008 has welcomed in its
principles and rights some concepts from the indigenous Weltanschauung, such as sumak kawsay and Pachamama. The author tries
to show how the constitutional nature of these concepts represents
the innovative element of the Andean neoconstitutionalism, which
is characterized by founding an intercultural, multinational, social,
communitarian, ecological, participatory and pluralistic State. Although many of these concepts are not new for a European jurist,
their combination and their intercultural interpretation suggest a
need to update the traditional categories of classification, particularly regarding the form of State.
Keywords: Indigenous cosmovision, Sumak kawsay, Buen vivir, Nuevo
constitucionalismo, Pachamama.
99
Il buen vivir come “autoctonia costituzionale”
e limite al mutamento
di Michele Carducci12*
SOMMARIO: 1. Il buen vivir come clausola costituzionale. – 2. Tra “neocostituzionalismo del rischio” e “autoctonia costituzionale”. – 3.
Il buen vivir di fronte al dilemma del cacciatore. – 4. “Autoctonia
costituzionale” e resistenza al mutamento.
1. Il buen vivir come clausola costituzionale
Diverse e numerose sono ormai le letture e le interpretazioni proposte
e discusse per la comprensione e la utilizzazione dei principi o criteri del
buen vivir all’interno della scrittura e della struttura nomologica dei testi
costituzionali di Ecuador (2008) e Bolivia (2009). L’espressione è desunta
dalle lingue aymara e kichwa ed è resa ora con il termine sumak kawsay,
formalmente recepito dall’art. 14 della costituzione ecuadoriana ed ivi
sintetizzato come «vivere in un ambiente sano ed ecologicamente equilibrato, che garantisca la sostenibilità», ora con quello di suma qamaña (di
derivazione aymara), adottato dall’art. 8 della costituzione boliviana. I
due testi, tuttavia, non forniscono definizioni del termine, ma ne presuppongono la semantica, con un rinvio evidentemente complesso e plurimo
a tutta una serie di predicati di non facile o immediata costruzione (Niel,
2011). Infatti, che cosa può significare aver inserito il buen vivir come
vero e proprio enunciato costituzionale? E che cosa può voler dire averlo declinato all’interno di una serie di clausole costituzionali di diverso
contenuto linguistico e deontico (ben 99 articoli solo nella costituzione
dell’Ecuador)? Ogni risposta appare plausibile e ricca di implicazioni.
*
Professore ordinario di Diritto pubblico comparato nell’Università del Salento.
Il buen vivir come “autoctonia costituzionale”
Michele Carducci
Se pensiamo al concetto come richiamo alla cosmogonia della tradizione giuridica ctonia (indigena), è evidente che le clausole costituzionali
di riferimento ad esso non possono non assurgere a fonte di abilitazione
ad un pluralismo giuridico paritario e negoziato, come effettivamente si
presenta, almeno formalmente, nella previsione normativa dei due paesi
andini. Se lo assumiamo come piattaforma politica di una concezione
dello sviluppo alternativa ai modelli euro-nordamericani di accumulazione e sfruttamento, esso sembra ispirare una sorta di ragion di Stato
diversa da quella storicamente radicata nel costituzionalismo moderno:
quest’ultima limitativa sì del potere, ma (ri)-fondativa anche dell’ordine e
della sicurezza nello Stato per la persistenza delle relazioni sociali di mercato (Quijano Valnecia, 2012; Gudynas, 2011a: 441 ss.; 2011b); la prima
espressiva invece di una logica di inclusione dei soggetti storicamente
ignorati o sfruttati da quel processo (Castro-Gómez, Grosfoguel, 2007).
Se lo contrapponiamo al Nomos della terra (Schmitt, 1950), che ha definito gli “standard costituzionali comuni” degli Stati moderni coniugandoli intorno al primato dei rapporti privati della proprietà e del contratto
come garanzia della società mercantile e legittimazione della stessa sovranità (Costa, 1974), allora dobbiamo immaginare un diritto controegemonico rispetto a questo standard, proiettato su una diversa scala di valori
e di gerarchie, di impronta non più o non esclusivamente individualistica, ma comunitaria e plurale. Se lo consideriamo come legittimazione di
una soggettività costituzionale non solo antropocentrica ma ecocentrica
(Souza Costa, 2011: 58 ss.), di riconoscimento dei diritti della natura nella “ipotesi di Gaia” – ovvero come autosostentamento dell’ecosistema
rispetto a qualsiasi “sostenibilità” da parte dell’intervento umano – allora
questa ipotesi andina, nonostante i limiti e le riserve formulate sulla fondatezza della tesi scientifica di riferimento (Tyrell, 2013: 94), militerebbe per una “cattura costituzionale” (una inedita Ergreifung rispetto alle
esperienze novecentesche degli Stati interventisti europei) dell’egoismo
dei diritti e delle libertà (base delle idee epicuree occidentali di felicità:
Fornero, 2006: 154 ss.), a tutela di una armonia non solo sociale, ma
appunto naturale. Del resto, armonia è parola fondante delle cosmogonie indigene, mentre essa risulta ormai rimossa dal vocabolario morale e
politico del pensiero occidentale, come magistralmente documentato da
Leo Spitzer (1963). Tra l’altro, in tale prospettiva, si spiega anche l’atten-
zione verso il tema del buen vivir da parte delle chiese latinoamericane, a
partire dalla Commissione teologica internazionale e dalla Associazione
ecumenica di teologia del Terzo Mondo (Eatwot), fino ai richiami all’idea
ecozoica dell’ecologo-teologo Thomas Berry e agli indirizzi dell’Agenda
Latinoamericana Mundial “La Otra Economía”, del 2013, sulla funzione
sociale della proprietà e dell’attività di impresa come autosostentamento
ecologico (Albó: 38 ss.; Mo Sung: 40 ss.; Barros: 216 ss.).
In ogni caso, qualunque sia l’opzione di lettura prescelta, non si può
negare che questo nuevo constitucionalismo andino, senza padri o indigeno com’è stato classificato (Clavero, 2008; 2010: 195 ss.; 2011), abbia
smosso la semantica costituzionale della cultura giuridica, decolonizzandone il linguaggio di riferimento (Walsh, 2009) e le sue traduzioni
concettuali (Abasolo, 2010: 1 ss.), nella prospettiva di superare quella
geopolitica della conoscenza, secondo cui tutto deve essere osservato
dall’Occidente euro-nordamericano come unico vocabolario e parametro universale di comprensione e valutazione del mondo, come «colore
della ragione» (León Pesántez, 2013).
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2. Tra “neocostituzionalismo del rischio” e “autoctonia costituzionale”
Sarebbe infatti riduttivo e metodologicamente scorretto leggere le
clausole costituzionali andine secondo la lente eurocentrica del diritto
pubblico (sulle difficoltà di traduzione semantica del termine buen vivir,
v. Huanacuni Mamami, 2010; Fatheuer, 2011; Cunningham, 2012). Si
può discutere sulla loro forza normativa, ma la novità del loro contenuto
è indubbia, soprattutto se paragonata alle recenti formule più innovative
del «diritto costituzionale del rischio», circolanti nel panorama comparato (Vermeule, 2014).
Di costituzionalismo del rischio si è parlato a seguito della originale
riforma costituzionale greca del 2001 (Kontiadis, 2005: 512 ss.; Eleftheriadis, 2005: 38 ss.; Alivizatos, Eleftheriadis, 2003: 63 ss.; Venizelos, 2002:
515 ss.), per la parte relativa alla costituzionalizzazione di clausole rivolte
al futuro, come soluzione di problemi non ancora esistenti sulla tutela di
diritti “futuristici”. In questo modo, sono risultati enfatizzati elementi
connessi ai diritti della personalità: come il consenso informato (art. 5) e
Il buen vivir come “autoctonia costituzionale”
Michele Carducci
la protezione dei dati personali (art. 9), in rapporto soprattutto alla facoltà
di manipolazione della identità genetica dell’individuo (art. 5.5), lasciando inalterata la presupposizione della persistenza di un nesso asimmetrico tra essere umano e natura e di una separazione tra ambiente naturale e
ambiente culturale (art. 24), da governare attraverso strumenti razionali
di precauzione e bilanciamento degli interessi (Kriari-Catranis, 2003: 271
ss.). Il costituzionalismo andino, invece, non è per niente preoccupato
dei problemi non ancora esistenti. È invece preoccupato dei problemi
del passato: dello sradicamento delle identità provocato dal costituzionalismo di importazione; dell’occultamento delle identità perpetrato dal
dominio coloniale; dell’individualismo metodologico che immagina i diritti solo come razionali e calcolate proiezioni individuali. Per tali ragioni,
esso ribalta la presupposizione del rischio, come attestano, per esempio
nella costituzione dell’Ecuador, gli articoli 378, sulla gestione dei rischi, e
13 e 15, sulla non bilanciabilità della sovranità alimentare con la sovranità
energetica (Aparicio Wilhelmi, 2011); afferma il primato di una serie di
diritti della natura esigibili, progressivi e concretizzabili (Mamani, Clavero, 2010) in tutte le azioni pubbliche e private (lo certificano le clausole
di applicazione diretta e incondizionata della costituzione, contenute in
quei testi) (Baldin, 2014: 25 ss.); scongiura quel ripiegamento autoreferenziale dei diritti fondamentali, solitamente emergente dal confronto interculturale sui bisogni e gli interessi di diversa provenienza e soprattutto
di diversa visione del mondo (su tale tendenza v. Ricca, 2008).
Pertanto, se il costituzionalismo del rischio sembra pur sempre ispirato all’individualismo metodologico della razionalità della previsione e del
calcolo costi/benefici, quello andino si proietta sulla sfida delle alternative a quell’approccio, in nome della pluralità di tradizioni e cosmogonie
esistenti al suo interno. Così aprendosi, il nuevo constitucionalismo riflette quella autoctonia costituzionale invocata sin dai tempi dei processi di
decolonizzazione del secolo scorso (Herrero de Miñon, 1970: 29 ss.), ma
mai pienamente sperimentata a causa di influenze e interferenze eteronomiche occidentali di varia forza e contenuto (Garaicoa Ortiz, 2013).
Quali implicazioni derivano da tale apertura? In primo luogo, si vede
ammettere che clausole costituzionali come quelle del buen vivir devono essere considerate nella loro derivazione appunto autoctona, come
recuperata autodeterminazione di una comunità interculturale interna a
Stati di origine coloniale, indipendenti sì, ma solo in parte costituzionalmente sovrani, nella misura in cui non avevano ancora sperimentato
quel “principio generale”, definitivamente esplicitato dalla Corte internazionale di giustizia nel 1986 (nella problematica controversia Nicaragua vs. Stati Uniti d’America), della scelta effettivamente libera e plurale
sul proprio sistema politico, economico e sociale (Kamto, 2000: 127 ss.).
Molto significativa, in tale ottica, è la formulazione dell’art. 21 della costituzione dell’Ecuador, per la sua declinazione del diritto fondamentale al
pluralismo anche in termini individuali (in sintonia, tra l’altro, con la Dichiarazione Onu del 2007 sui diritti dei popoli e delle nazioni indigene)
ma nel quadro dei diritti riconosciuti dalla costituzione: autoctonia costituzionale costituzionalizzata, si potrebbe dire. In secondo luogo, quel
costituzionalismo è autoctono anche per il fatto di affermare, come si è
accennato, il primato del Kthonos (come identità ecologica) sul Nomos
(come identità meramente volitiva), attribuendo alla natura rappresentatività immediata dentro il Nomos (sulle implicazioni di tali ipotesi, v. Whiteside, 2013: 185 ss., con riguardo alle politiche della natura in Latour; e
Voigt, 2013, sul ripensamento della categoria della rule of law).
Quali implicazioni comporti questa doppia ipotesi di autoctonia è la
grande questione di metodo e di analisi, che deve affrontare il diritto costituzionale comparato contemporaneo. Per rispondere, si può ricorrere
alle riflessioni risalenti di chi è stato precocemente attento a questa doppia dimensione. Per esempio, già Michael Sandel (1982) constatava che
l’emersione delle diverse identità comunitarie non dovesse esser eletta
come semplice affermazione di relazioni scelte da individui, bensì come
persistenza e attaccamento ad elementi costitutivi differenti da quelli occidentali, nonostante l’espansione universalistica del costituzionalismo
euroamericano. Da tale angolo di visuale, l’autoctonia costituzionale racchiusa delle formule del buen vivir costituisce un richiamo, per il contesto andino, a questa specificità, attraverso una declinazione normativa
che evoca a sua volta la proposta avanzata da James Tully (1995) sul «costituzionalismo interculturale» come ridiscussione del potere costituente
e dei limiti al mutamento costituzionale, attraverso approcci negoziati,
funzionali al dialogo fra tradizioni giuridiche diverse. Tully ha parlato di
interculturalità costituzionale partendo dalla seguente constatazione: nel
mondo non più delle semplici integrazioni fra cittadini, ma delle vere e
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Il buen vivir come “autoctonia costituzionale”
Michele Carducci
proprie inclusioni culturali, riemerge la domanda iniziale del modo con
cui una costituzione possa fornire un comune riconoscimento alle legittime richieste dei membri delle differenti culture, rendendo a ciascuno il
suo e permettendo così a tutti di liberamente acconsentire alla medesima
forma di associazione costituzionale. Il concetto di Tully di un constitutional dialogue non definitivo perché sempre aperto, condotto con strumenti linguistici nuovi e diversi rispetto al passato e volto a garantire un
costante processo di interscambio culturale, si pone agli antipodi delle
concezioni unificanti delle costituzioni occidentali, dove il pluralismo è
stato declinato nei termini dell’accettazione unilaterale della diversità (al
singolare), ossia dell’accettazione di ciò che è estraneo, e non invece del
riconoscimento reciproco e circolare delle diversità (al plurale), ossia di
un valore comune di reciproco riconoscimento, da porre a base delle
costituzioni e sperimentare attraverso le costituzioni. Ecco allora che,
rispetto al costituzionalismo dello Stato – con immancabilmente l’invenzione unilaterale dei suoi cittadini e i suoi stranieri – andrebbe perseguito
un “costituzionalismo dei trattati”, basato cioè su costituzioni che abilitino continuativi negoziati interculturali, legittimati da scelte costituenti, o
riforme costituzionali realizzate nella partecipazione multiculturale delle
diverse identità interessate (le diverse autoctonie).
Dopo le finzioni dei momenti costituenti latinoamericani del passato (Clavero, 2007), alimentati da imitazioni museali di testi destinati al
nominalismo (Linares Quintana, 1981: 557) o al mimetismo (Colomer
Viadel, 1990), il nuevo constitucionalismo si è appropriato di questa necessità costituente inclusiva di tutte le identità presenti sul proprio territorio (Viciano Pastor, Martínez Dalmau, 2010a), dotandosi altresì di
meccanismi che garantiscano la permanenza di tale necessità, tanto per la
interpretazione quanto soprattutto per la modifica della costituzione nata
dall’inedito processo interculturale (Viciano Pastor, Martínez Dalmau,
2010b: 18).
ca nel suo percorso di sperimentazione, proprio perché soggettivamente
plurale: non un complesso di materie di varia natura e contenuto a disponibilità individuale o pubblica, tra loro isolabili e singolarmente tutelabili
in bilanciamento reciproco; ma un tutt’uno, di cui comprendere il significato attraverso una sorta di originalismo costituente e una rigidità interpretativa, che salvaguardino il pluralismo che ha prodotto e si è riconosciuto in quella unità, sostenendo in tal modo politiche, processi, prassi e
soprattutto interpretazioni vincolate alla volontà originaria (come esplicitamente richiesto dall’art. 196, p.to II, della costituzione boliviana con
il richiamo al costituente con i suoi «documenti, atti e risoluzioni») e alla
sistematicità del testo nei suoi enunciati (si veda la clausola di interezza
inserita nell’art. 427 cost. Ecuador).
Nella proiezione dell’autoctonia costituzionale, questa insistenza testualistica è strategica e imprescindibile (Ávila Santamaría, 2011), perché
mantiene in vita la complessità del dialogo interculturale come necessità
di una sua verbalizzazione esplicita, non semplicemente praticata, a garanzia della chiarezza reciproca, della trasparenza dei comportamenti,
della visibilità delle responsabilità degli attori in campo, giudici e interpreti compresi (sulla rilevanza di questa esplicitazione in generale per
l’inclusione effettiva delle comunità indigene, già García Ramírez, 1996:
889 ss.). Non a caso, le formule della trasparenza e della responsabilità
ricorrono in tutte le clausole costituzionali andine e risultano tutte coniugate con la visione olistica del buen vivir. Si pensi agli articoli 83, sui
doveri costituzionali, e 340 della costituzione dell’Ecuador; quest’ultimo
esclude dal proprio lessico il termine materia costituzionale (tecnicismo
che tende a presupporre ripartizioni di competenze) per parlare invece di
«sistema di inclusione ed equità», come architettura istituzionale del buen
vivir comprensivo di «sistemi, istituzioni, politiche, norme, programmi
e servizi» che, tra l’altro, garantiscano la «esigibilità dei diritti riconosciuti nella costituzione», in tutti gli ambiti (educazione, salute, sicurezza
sociale, gestione dei rischi, cultura, habitat e alloggio, comunicazione,
cultura fisica, fruizione del tempo libero, scienza e tecnologia, popolazione, sicurezza umana, trasporto, ecc.). In modo analogo, si collocano
altre disposizioni, come gli artt. 32 o 275: lette singolarmente, ognuna
di queste delimita enunciati di incerta classificazione (ottativi, emotivi,
prescrittivi, limitativi, ecc.?). Nella unità testuale – indubbiamente com-
106
3. Il buen vivir di fronte al dilemma del cacciatore
Consequenziale a tale schema operativo, non può che essere un’idea
di costituzione come unità organica nel suo impianto pluralistico e olisti-
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Il buen vivir come “autoctonia costituzionale”
Michele Carducci
plessa, ma perché complesso e difficile non poteva non essere il dialogo
interculturale a base di quella scrittura costituzionale – ciascuna gioca la
carta della esigibilità e della progressività di tutela a tutti i livelli di azione,
pubblici e privati.
È solo lungo questo percorso che il costituzionalismo andino può procedere nella sua scommessa della inclusione interculturale. Se noi lo leggessimo attraverso le lenti del costituzionalismo liberaldemocratico fondamentalmente monoculturale e individualistico, non comprenderemmo
nulla di quella scommessa. Il costituzionalismo liberaldemocratico ha affidato al primato della libertà, alla rappresentanza individuale e alla limitazione del potere la riuscita delle strategie di cooperazione plurale e di
risoluzione dei conflitti nell’attuazione dei suoi disegni normativi (Dani,
2013). Così evolvendosi, esso ha alimentato quella condizione esistenziale che proprio Rousseau, nel suo Discorso sull’origine della disuguaglianza
del 1754, inquadrò come dilemma del cacciatore: il problema della prevalenza degli interessi individuali verso i propri benefici immediati rispetto ai benefici, comuni ma non immediati, dei maggiori interessi collettivi
garantiti dal patto costituzionale (Skyrms, 2004); ossia il problema della
intergenerazionalità dei compromessi costituzionali di fronte alla evoluzione dei bisogni e degli interessi. Il dilemma del cacciatore, com’è noto,
spiega come, nella caccia al cervo (inteso quale bene comune accettato
da tutti i partecipanti al compromesso costituzionale), la cooperazione
sociale e la fiducia reciproca siano condizioni oggettive e necessarie per
il conseguimento dell’obiettivo (il cervo). Tuttavia, dimostra anche come
il passaggio di una lepre davanti a uno dei cacciatori (il bene o interesse
privato immediato) possa indurre ciascuno, senza scrupolo per gli altri,
ad abbandonare l’impegno comune, per il diretto conseguimento del risultato di soddisfazione individuale.
Proprio per evitare che questa tentazione finisca col prevalere nel
tempo, è stata declinata la concezione della costituzione come documento scritto fondamentale, che vincola alla cooperazione, ma al tempo stesso emendabile nel futuro, allo scopo di rimediare agli effetti del dilemma
contemplando il rinnovo della scrittura e dei patti di cooperazione tra i
partecipanti alla dinamica costituzionale in ragione della dialettica evolutiva di interessi individuali e collettivi. Sempre in questa prospettiva,
lo stesso costituzionalismo si è perfezionato, attribuendo al giudice (so-
prattutto al giudice costituzionale) il compito di vigilare sui conflitti tra
interessi individuali e interessi collettivi, assumendo la scrittura costituzionale stessa, in quanto parametro di legittimità del sistema, come bene
pubblico fondamentale di tutti gli appartenenti alla società (sulle varie
declinazioni del bene pubblico, comprensive anche delle regole costitutive di un ordinamento giuridico, v. Hargreaves Heap et al., 1992: 193 ss.).
Rigidità ed emendabilità costituzionale, da un lato, e controllo di costituzionalità, dall’altro, hanno storicamente contribuito a ridimensionare gli
effetti del dilemma del cacciatore. Sussiste, tuttavia, una condizione storica da non sottovalutare in questa evoluzione del dilemma: esso è nato
e si è sviluppato sempre in una prospettiva di fondamentale unicità delle
visioni umane su interessi individuali e collettivi coinvolti da quel dilemma (escludendo, per esempio, donne, schiavi, “buon selvaggi”, ecc.).
Oggi, questa prospettiva è cambiata ed è diventata molto più complessa, e non solo perché donne, schiavi, “buon selvaggi” o altra umanità
è stata finalmente inclusa nella cooperazione, ma soprattutto per altre
due ragioni: da un lato, la logica di mercato, come logica dell’interesse
individuale immediato, si è estesa dai beni privati a tutti i beni pubblici
(Sandel, 2012), compresi quelli fondamentali delle stesse regole costitutive della convivenza, ridotte anch’esse a “valori” del mercato (le modifiche costituzionali degli Stati europei sui vincoli di bilancio ne offrono inquietante conferma), sfalsando ulteriormente il delicato equilibrio
espresso dal dilemma del cacciatore (quali sono gli interessi veramente
collettivi di fronte al mercato?); dall’altro, l’ambiente, nella sua essenza
di interesse collettivo, non può più restare escluso dal dilemma o parteciparvi semplicemente al pari di qualsiasi altro bene (si pensi, per esempio,
alla logica “chi inquina paga” come rappresentazione di quel dilemma tra
beni e attori, posti tutti sullo stesso piano, come se lepri e cervi fossero la
stessa cosa: Spotts, 2012: 102).
Il dilemma del cacciatore, a questo punto, non può più escludere un
tertium comparationis delle sue scelte: un tertium ignorato da tutte le teorie politiche e costituzionali, comprese quelle più critiche verso l’individualismo metodologico sotteso al costituzionalismo moderno, a partire
dalla stessa tradizione marxista, che ha sempre negato, salvo alcune eccezioni (come la Dialettica della natura di Engels: Grijalva Jiménez, 2011),
ogni ruolo alla natura nel processo di produzione della socialità. La na-
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Il buen vivir come “autoctonia costituzionale”
Michele Carducci
tura, considerata senza diritti e soprattutto senza rappresentanza, perché
appunto rubricata come materia prima della produzione sociale, deve far
parte del dilemma del cacciatore; deve diventare soggetto delle decisioni
interne a quel dilemma (il che conferma la originalità della proposta del
nuevo constitucionalismo, rispetto alle ridondanze marxiste del pensiero
critico latinoamericano: si pensi a previsioni come gli artt. 333, 334 e 335
della costituzione dell’Ecuador).
Stando così le cose, rispetto ai meccanismi della rigidità/emendabilità
costituzionale e del controllo di costituzionalità, cos’altro può essere previsto in costituzione affinché il dilemma del cacciatore accetti la natura
non come parte del gioco, ma come cornice indisponibile dello stesso? È
plausibile ipotizzare che le innumerevoli clausole costituzionali ispirate al
buen vivir mirino a questo scopo? È su questo interrogativo che si radica
la doppia valenza dell’“autoctonia costituzionale”. Le due costituzioni
andine si presentano come strutture pietrificate dei livelli di cooperazione necessari a scongiurare o comunque limitare gli effetti del dilemma del
cacciatore a danno dell’“autoctonia costituzionale” intesa come pluralismo interculturale e come natura-soggetto. Vediamo come.
i giudici sovranazionali predicano come metodo, sia nel contesto interamericano (de Oliveira Mazzuoli, de Faria Moreira Teixeira, 2013: 199 ss.)
che europeo (Starita, 2010: 275 ss.), senza tuttavia poter incidere sull’assetto interno delle competenze e dei poteri. La costituzionalizzazione della democrazia partecipativa mira invece a reimpostare l’assetto dei poteri
e delle competenze, imponendo il dialogo interculturale e l’inclusione
della natura come soggetto costituzionale a tutti i livelli di azione pubblica e privata. Ne offrono testimonianza diverse clausole costituzionali
andine: penso, tra le altre, alla costituzionalizzazione del metodo negoziato tra giurisdizioni statali, indigene e campesinas, alla positivizzazione
delle politiche pubbliche come vere e proprie “fonti” costituzionali (art.
11, n. 8, cost. Ecuador: «Il contenuto dei diritti è sviluppato in maniera
progressiva attraverso le norme, la giurisprudenza e le politiche pubbliche»), al rapporto tra riserva di legge ed esigibilità dei diritti, compresi
quelli della natura (art. 426 secondo capoverso cost. Ecuador). Si tratta
di metodi e approcci che non passano necessariamente o prioritariamente dalla interposizione legislativa né dalla interpretazione del giudice.
Sintomatico, su questo fronte, è il regime delle lacune nella costituzione
dell’Ecuador: oltre al già citato art. 426 secondo capoverso, è da considerare l’intero art. 11, soprattutto nei nn. 3, 4, 5 e 8. Ma riscontri analoghi
si desumono da molte altre disposizioni: per la costituzione della Bolivia,
valgono gli articoli 3, 9, 17, 18, 30, 45, 78-81, 93, 95, 96, 98, 100, 108,
176, 186, 218, 241, 345, 346, 380-383, 394-395; per quella dell’Ecuador,
gli articoli 3, 10, 13, 15, 21, 31-32, 56-60, 95-102, 156, 242, 249, 334, 336,
340, 357-358, 375, 378, 380, 423.
Questa vasta rete normativa di sostegno alla interculturalità e al disegno dell’“autoctonia costituzionale” riscontra le sue giunture in tre blocchi normativi specifici: le clausole di resistenza istituzionalizzata al mutamento anticostituzionale; le clausole di progressività e non regressione
di diritti e garanzie costituzionali; le clausole di pietrificazione. Si tratta
di disposizioni non facilmente rubricabili nelle classificazioni consolidate della testualità costituzionale euro-nordamericana. Esse, infatti, non
fungono da semplici elementi di irrigidimento della forma costituzionale
scritta, assolvendo piuttosto ad una funzione di garanzia della legittimazione autoctona di quella scrittura.
Partiamo dalle clausole di resistenza istituzionalizzata al mutamen-
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4. “Autoctonia costituzionale” e resistenza al mutamento
Le due costituzioni tentano di instaurare un sistema di democrazia
deliberativa articolata su più livelli di dialogo interculturale tra le diverse
componenti del pluralismo che le ha prodotte. In tale prospettiva, esse
ridimensionano il ruolo del giudice come garante ex post di quel pluralismo, per anticiparne i momenti di emersione su altri fronti di confronto
e cooperazione (Palacios Romeo, 2008: 41 ss.). In altre parole, il rimedio
alla rottura della cooperazione (la scelta individuale della lepre a danno
della cooperazione per la cattura del cervo) non può essere solo il giudice: neppure il giudice di costituzionalità. Ci vuole qualcosa di più, qualcosa che tenga sempre attivo il concorso alla cooperazione.
Si spiega così l’enfasi tributata alla democrazia partecipativa come
mandato costituzionale di cooperazione (v. per es. l’art. 11 della costituzione boliviana). Il pluralismo non deve semplicemente essere garantito
per via giudiziale – quella via giudiziale alla democrazia deliberativa che
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Il buen vivir come “autoctonia costituzionale”
Michele Carducci
to anticostituzionale. Ci si riferisce ai Titoli III e IV della costituzione
dell’Ecuador, collegati con l’art. 130, nonché agli artt. 26, 139, 140, 196
e ss. della costituzione della Bolivia. Sono tutti strumenti in cui la disponibilità anche interpretativa della scrittura costituzionale conosce dei
contrappesi di iniziativa cittadina diretta (come per l’azione straordinaria
di cui all’art. 134 cost. Ecuador o le declinazioni della partecipazione di
cui all’art. 26 cost. Bolivia) o rappresentativa (art. 130 cost. Ecuador) o
giudiziale (art. 88 cost. Ecuador, artt. 196 ss. cost. Bolivia), che mira al
controllo sociale del mutamento costituzionale e alla denuncia istituzionalizzata dell’anticostituzionalità come negazione del disegno autoctono
scritto in costituzione.
Analogamente operano le clausole di progressività e non regressione
dei diritti, che definiscono il quadro di contenimento sia delle dinamiche
interpretative della costituzione (nel senso che l’applicazione dei diritti
dovrà essere progressiva e non regressiva, secondo lo stesso intento originario del testo costituzionale) sia del mutamento formale o informale del
documento costituzionale, scandito nella distinzione fra diversi procedimenti, legittimati tutti dall’oggetto di intervento rispetto proprio a quella
progressività e non regressione dei diritti posta a base dello sviluppo costituzionale. Non si tratta di clausole di auto-conservazione dello status
quo; né siamo di fronte ai classici meccanismi di difesa costituzionale appresi dall’esperienza liberaldemocratica. Si deve riscontrare piuttosto un
approccio differente di ottimizzazione della costituzione, il cui mandato
è affidato a più attori in più contesti.
Si spiega in quest’ottica la tecnica della pietrificazione utilizzata dai
due testi proprio sul fronte del mutamento costituzionale formale: tecnica diversa dalla semplice garanzia della rigidità della costituzione (Colombo Morúa, 2011). La costituzione dell’Ecuador non provvede solo
ad esplicitare limiti al mutamento (art. 441), ma formalizza la distinzione
tra potere costituente e poteri di emendamento e riforma parziale della
costituzione, con la corte costituzionale come arbitro (art. 443) non dei
contenuti dei limiti, bensì delle regole dei procedimenti interculturali di
partecipazione cittadina al mutamento, essendo appunto l’interculturalità l’unica fonte di legittimazione di qualsiasi mutamento. Ecco allora
che la dinamica costituzionale potrà operare, nella continuità del metodo
partecipato, a livello interpretativo (artt. 171 e 427), di emendamento
(art. 441), con condizioni di procedibilità per organicità della materia e
dei contenuti (art. 136), di riforma parziale (art. 442), con la partecipazione cittadina interculturale (art. 101), fino all’esercizio di scrittura più
prossimo all’evento originario autoctono, l’Assemblea costituente (art.
444), purché quest’ultima espressa dal consenso di tutte le autoctonie
presenti nello spazio statale, attraverso la partecipazione referendaria.
Analogamente si può scandagliare la scrittura della costituzione della
Bolivia, negli articoli 190, 191, 192, 202, 411. Al pluralismo delle autoctonie costituzionali (artt. 190-192), si affianca anche qui un metodo
interculturale che vede nel tribunale costituzionale plurinazionale il suo
interprete supremo a tutela di qualsiasi forma di mutamento costituzionale sia formale che informale e a tutela della partecipazione cittadina nei
procedimenti formali (art. 202), con esclusione esplicita della mutabilità
dei diritti interculturali a base della costituzione stessa, per i quali l’unica
via non potrà che essere il ritorno alla scelta costituente con la partecipazione popolare delle diverse autoctonie (art. 411).
Questi esperimenti di scrittura ci dicono qualcosa di interessante per
le nostre tradizioni di formalizzazione e interpretazione dei limiti al mutamento: una costituzione interculturale non si tutela dai suoi mutamenti
con il solo irrigidimento formale dei procedimenti o con le astrazioni
valoriali delle interpretazioni sapienziali circolanti tra i giudici. La costituzione si tutela riducendo al minimo il dilemma del cacciatore, ovvero
garantendo la persistente dialettica tra partecipazione interculturale e
interpretazione, tra esperienza popolare (la interculturalità autoctona di
quei paesi) e sapienza giuridica, proprio sul fronte della discussione dei
limiti al mutamento.
Pertanto, quando Ecuador e Bolivia pietrificano persino il potere costituente, non lo fanno per imbrigliare il pluralismo. Lo fanno per preservarlo, prendendo atto che, in un contesto di autoctonia costituzionale
come quello dei paesi andini, qualsiasi mutamento costituzionale non
può chiamarsi fuori da quella esperienza giuridica di cooperazione interculturale – come verificatosi nelle imitazioni museali del passato – ma
dovrà operare nel rispetto di quella autoctonia. Certo, ci si potrà sempre
porre contro la “volontà” della costituzione. Ma, a quel punto, diventerà
chiaro che il fenomeno non sarà più un mutamento/sostituzione dentro
l’autoctonia costituzionale, bensì una sostituzione/soppressione di quella
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Il buen vivir come “autoctonia costituzionale”
Michele Carducci
autoctonia: significherà, in altre parole, la rottura del quadro di cooperazione e la ricaduta nel dilemma del cacciatore.
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Abstract: The article analyzes the function of the constitutional clauses
relating to the buen vivir in Ecuador and Bolivia. They are utterances that express the “constitutional autochthony” of the Andean
populations, actively involved, for the first time, in the constitutional process of re-foundation of the State. Through the reference
to the Rousseau’s “dilemma of the hunter”, the article explains the
content of those clauses, aimed to ensure intercultural cooperation
as a condition of a peaceful co-existence of different cosmogonies
present in the Andean Countries.
Keywords: Legal pluralism, Legal traditions, Constitutional autochthony, Constitutional change, Cooperation.
117
L’interculturalità come condizione di sostenibilità
del multiculturalismo
di Cinzia Piciocchi13*
SOMMARIO: 1. Un prima e un dopo: il multiculturalismo nel diritto
comparato. – 2. Pluri-, multi-, inter- prefissi diversi per il medesimo termine: cultura. – 3. Alcuni elementi di comparazione tra
paesi andini e contesto europeo.
1. Un prima e un dopo: il multiculturalismo nel diritto comparato
Ci sono termini che, una volta entrati nell’uso, segnano un prima e un
dopo: nell’ambito giuridico, mi pare che il multiculturalismo rientri tra
questi. Il concetto del multiculturalismo specie negli ultimi decenni è penetrato nel lessico di diverse discipline e si caratterizza per il riferimento
a due termini, la pluralità e la cultura: culture diverse che coesistono nel
medesimo contesto sociale e finiscono per confluire nella rappresentazione fornita da questa parola composta. Ampio, in particolare, è l’uso
dell’aggettivo multiculturale, che è penetrato in settori disciplinari tra
loro differenti ed eterogenei, affiancando e connotando in senso innovativo concetti e definizioni tradizionalmente presenti nei relativi ambiti di
riferimento. In quello giuridico, diventano così multiculturali, ad esempio, la cittadinanza (Kymlicka, 1995), i diritti, lo Stato, la costituzione, la
forma dello Stato.
Questo fenomeno non è esclusivo di un determinato contesto sociale,
*
Ricercatrice di Diritto pubblico comparato e professoressa aggregata nell’Università
di Trento. Il presente contributo rientra nel progetto di ricerca “Jurisdiction and Pluralisms. The impact of pluralisms on the unity and uniformity of jurisdiction” finanziato
dal Miur (Prin 2010-2011), coordinatore nazionale prof. Roberto Toniatti (http://www.
jupls.eu).
L’interculturalità come condizione di sostenibilità
Cinzia Piciocchi
linguistico, o nazionale: gli esempi proposti sono in lingua italiana, ma i
medesimi concetti si rinvengono in altre lingue, come ciudadanía multicultural, État multiculturel o multikulturelle Verfassung. Il multiculturalismo appare quindi come concetto a vocazione transnazionale, descrivendo fenomeni simili che interagiscono con contesti nazionali e disciplinari
differenti, seppure in modo non univoco. Un fenomeno non dissimile – e,
mi pare, in alcuni ambiti prevalente – vede tali termini affiancati ad un
altro concetto, l’interculturalità141: abbiamo così la cittadinanza interculturale, i diritti interculturali, lo Stato interculturale, la costituzione interculturale e la forma di Stato interculturale, riprendendo gli esempi proposti
sopra. Anche queste definizioni non appaiono vincolate ad un contesto
nazionale specifico poiché, nuovamente, emergono in ordinamenti tra
loro differenti, come attestano le definizioni in lingue diverse: citoyance
interculturelle, intercultural rights, Estado intercultural.
Nasce allora l’esigenza di comprendere a quali motivazioni risponda
questo passaggio, se di passaggio si tratta, o quantomeno l’affiancamento
dell’uno all’altro concetto – multiculturalismo ed interculturalità – nell’ipotesi di una migliore comprensione di entrambi a partire dal loro raffronto. In particolare, a questo fine, proponiamo una breve riflessione
sull’utilizzo del termine interculturalità in ambito giuridico, attraverso la
ricerca dei tratti essenziali di tale definizione, applicabili a contesti geoculturali tra loro differenti. Nello specifico, si predilige il contesto dei
paesi andini, di particolare interesse specie per l’impiego del concetto
di interculturalidad a livello costituzionale. La pluralità sociale che caratterizza tale contesto presenta peculiarità che lo distinguono rispetto
al panorama europeo, principalmente per il confronto con le comunità
indigene. Tuttavia, l’individuazione di funzioni ed esigenze alle quali l’utilizzo del termine interculturalidad in ambito giuridico risponde, può
prescindere da determinati connotati geo-culturali specifici, presentando
elementi comuni anche a contesti giuridici ulteriori, quale ad esempio
quello europeo, in cui il riferimento all’interculturalità appare sempre
più frequente.
2. Pluri-, multi-, inter- prefissi diversi per il medesimo termine: cultura
120
1
In letteratura si trovano sia il termine interculturalismo sia il termine interculturalità;
in questa sede si utilizza il secondo essendo quello prevalente.
121
I sostantivi multiculturalismo ed interculturalità hanno in comune il
riferimento alla cultura, che non è una nozione prettamente giuridica.
A ben vedere, risulta complesso attribuire ad esso una collocazione disciplinare prevalente (antropologia? sociologia?), poiché si tratta di un
concetto multiforme e polisemico. La cultura, infatti, può indicare cose
diverse tra loro: il patrimonio storico-culturale di un paese, l’istruzione,
l’identità, la lingua, la provenienza di gruppi e di individui ed anche l’insieme di tutti questi elementi. Come espressione d’identità, poi, la cultura
può risultare dalla stratificazione di livelli diversi: quello individuale di
percezione di se stessi, quello collettivo, in cui rileva il concetto di appartenenza, a sua volta proprio di ambiti diversi, famigliare, religioso e lato
sensu sociale. Quando penetra nell’ambito giuridico, quindi, la cultura
porta spesso con sé un retroterra radicato, eterogeneo e talvolta conflittuale, con una valenza intrinseca anche extragiuridica e pluridisciplinare.
La cultura, in questa prospettiva, rientra in quei concetti che assumono
rilevanza giuridica ma che nascono altrove: “territori stranieri” ai quali il
diritto, talvolta, fa rinvio (Piciocchi, 2014).
A fronte di un concetto così complesso ed eterogeneo, poi, si affiancano prefissi diversi, quali pluri- multi- ed inter-culturalismo, a significare
che, anche in assenza di un significato univoco, permane comunque la
possibilità di un riferimento comune, che può connotarsi in modo diverso, secondo accezioni differenti. Se si guarda all’autore del volume
che ha avuto un ruolo determinante nella circolazione del concetto di
cittadinanza multiculturale e nel conseguente dibattito su di esso, Will
Kymlicka, si nota come già dieci anni fa egli facesse riferimento all’interculturalità. In un articolo del 2003, infatti, Kymlicka affiancava i concetti di multicultural States e intercultural citizens, evidenziando come il
primo presupponga il secondo, poiché lo Stato multiculturale necessita
del “supporto” dei suoi cittadini: «Ideally, these two levels should work
together in any conception of citizenship: there should be a ‘fit’ between
our model of the multicultural state and our model of the intercultural
citizen. The sort of multicultural reforms we seek at the level of the state
should help nurture and reinforce the desired forms of intercultural skills
and knowledge at the level of individual citizens. Conversely, the inter-
L’interculturalità come condizione di sostenibilità
Cinzia Piciocchi
cultural dispositions we encourage within individual citizens should help
support and reinforce the institutions of a multicultural state» (Kymlicka, 2003: 148).
Interculturalità, secondo tale prospettiva, appare come espressione
delle condizioni che favoriscono la comprensione reciproca delle culture,
nei diversi ambiti in cui ciò possa essere incentivato: l’istruzione, il plurilinguismo, il confronto sui valori religiosi; più in generale in riferimento
ad azioni lato sensu culturali, che favoriscano la reciproca comprensione.
Una comprensione che, va precisato, non pare solo riferita alla conoscenza del contenuto dei tratti significativi delle identità “altre”, quanto alla
percezione dell’importanza che esse rivestono per chi su di essi costruisce la rappresentazione della propria identità. Dove l’interculturalità si
avvicina alla conoscenza del contenuto della cultura “altra”, invece, è
nel concetto di local interculturalism, ravvisando nella dimensione locale
l’opportunità di una comprensione delle culture “vicine”, poiché si collocano in contatto nel medesimo territorio o in ambiti geografici contigui,
trovandosi quindi a convivere (Kymlicka, 2003: 159).
Dieci anni dopo, Taylor svolgeva considerazioni non dissimili, riferendo l’interculturalità al concetto di integrazione, con riferimento specifico alla situazione del Québec, quindi alla luce della coesistenza tra due
gruppi linguistici principali, per i quali la questione dell’opportunità di
conoscenza e comprensione della cultura del “vicino” si pone con forza
(Taylor, 2012: 417). Taylor lega tale tematica al principio di eguaglianza,
secondo una prospettiva di grande interesse, che individua nell’interculturalità l’opportunità di costruire le basi di tale principio, al di là degli
assetti costituiti, attraverso una percezione delle identità che sappia andare oltre le diseguaglianze: «It may be the general consensus that women
have their ‘place’, and shouldn’t aspire to operate outside it; or that this
society has as its basic purpose the preservation of a certain historic culture, and that thus full members of this culture have a privileged position
within it. For the sense of multicultural challenge to arise, this normalization has to be put in question, has to be seen as a denial of equality, which
is one of the crucial values of a democratic society» (ibid.).
Emerge, in queste considerazioni, una nozione di interculturalità
come espressione della necessità di un cambiamento, rispetto al quale
è necessario trovare in primis un lessico in grado di esprimerlo: «a nar-
rative of the transition we’re trying to bring about» (ibid.). L’esigenza di
questo cambiamento, al quale l’interculturalità dà voce, appare espressa
anche dalle critiche delle quali il multiculturalismo è stato fatto oggetto,
perlomeno in alcune sue manifestazioni. Guardando nuovamente alla letteratura, si può allora notare il fiorire di opere in cui il multiculturalismo
appare oggetto di ripensamento (rethinking multiculturalism di Parekh,
2000), o in cui esso appare non riuscito, o di aspre critiche, come ricorda Barrett, che parla di «backlash against multiculturalism» e di «multiculturalism under attack» (Barrett, 2013: 21, 54). Ed è ancora Kymlicka
(2010: 32 ss.) ad interrogarsi sui concetti di rise and fall of multiculturalism e sulla possibilità stessa di individuare, in quella contemporanea,
un’epoca di post-multiculturalità.
Ciò che pare oggetto di critica, in particolare, sono le strategie associate – a torto o a ragione – al multiculturalismo che, in alcuni casi,
sono state ritenute causa (o concausa) di fenomeni di disaggregazione;
quindi le critiche stesse non appaiono imputate tanto al fenomeno in sé,
quanto alle possibili conseguenze divisive sulla società. Significative, a
questo proposito, sono le considerazioni svolte dal Consiglio d’Europa
nel documento White Paper on Intercultural Dialogue, adottato nel 2008
(CM(2008)30): «Whilst driven by benign intentions, multiculturalism is
now seen by many as having fostered communal segregation and mutual
incomprehension, as well as having contributed to the undermining of
the rights of individuals – and, in particular, women – within minority
communities, perceived as if these were single collective actors».
La dottrina ha individuato nell’interculturalità una risposta a queste
critiche, evidenziandone la dimensione più dialogica e più vicina alla
realtà delle culture coinvolte ed utile alla costruzione della convivenza,
agendo in particolare sul concetto di cittadinanza (Salazar Benítez, 2005:
127, 306 ss.). In particolare, emerge l’esigenza di assumere la tutela della
diversità come valore di rilevanza giuridica che non si pone solo come
auspicabile obiettivo di carattere politico e sociale (ibid.: 309). L’integrazione tra culture diverse, in tale prospettiva, non pare più un’opzione,
ma una direzione in qualche modo obbligata, che prende atto delle differenze anche attraverso un concetto di cittadinanza interculturale, inteso
come costruzione di un panorama sociale e giuridico che, senza negare la
diversità, favorisce nel modo più ampio possibile le possibilità di recipro-
122
123
L’interculturalità come condizione di sostenibilità
Cinzia Piciocchi
ca comprensione e, quindi, di un’integrazione funzionale alla convivenza.
Il rapporto tra l’interculturalità e una dimensione di integrazione o
relazione si ripropone in contesti differenti (ad es. il rapporto canadese
Building The Future. A Time For Reconciliation, di Bouchard e Taylor,
2008). Con riferimento al contesto andino, Walsh evidenzia che: «Mientras que lo pluri y multicultural son términos descriptivos que sirven para
caracterizar la situación diversa e indicar la existencia de múltiples culturas en un determinado lugar, planteando el reconocimiento, tolerancia y
respeto entre ellas, la interculturalidad aún no existe. Es algo por construir. Ella va mucho más allá del respeto, la tolerancia y el reconocimiento de
la diversidad; señala y alienta, más bien, un proceso y proyecto sociales y
políticos que apuntan a la construcción de sociedades, relaciones y condiciones de vida nuevas y distintas» (Walsh, 2009: 76). L’interculturalità, in altre parole, appare includere in sé l’idea di una progettualità che
prende atto delle diversità che il multiculturalismo ha reso visibili, ma si
fa carico di promuoverlo, ricercandone le condizioni di sostenibilità: dal
pluralismo como hecho al pluralismo como valor (Pérez Tapias, s.d.: 7).
quello specifico contesto: «A nivel de sociedad digamos, pues, que la
humanidad colapsa en la civilización occidental: el lóbulo izquierdo, y
en la civilización oriental: el lóbulo derecho, del cual la indianidad es un
subsistema. En adelante, puesto que pensamos desde Bolivia, nos referiremos a la indianidad como lo contrapuesto de occidente: las dos civilizaciones que nos constituyen. Al interior de ambos lóbulos civilizatorios se
encuentran las culturas. En el caso de occidente: las culturas portuguesa,
italiana, inglesa, holandes… En el caso del oriente: las culturas china,
tibetana, aymara, quechua, guaraní, schuar, nahua, hopi… Por tanto, una
primera acepción de interculturalidad, en nuestro caso, es para referirse
a las relaciones entre aymaras, guaraníes, tacanas… que no es muy usual;
una segunda acepción de intercultural, más usual y menos exacta, es la
que se refiere a las relaciones entre la cultura hispano-criolla y las culturas indígenas. En este caso es más apropiado hablar de un diálogo entre
civilizaciones» (Medina, 2005: 36).
Il comparatista, però, non è alla ricerca di coincidenze, ma di elementi
che, rispondendo a funzioni comuni, consentano di individuare categorie applicabili anche in contesti differenti (per tutti de Vergottini, 2014;
Pegoraro, 2012 e 2013; Toniatti, 2007). Da questo punto di vista, i paesi
andini sono di grandissimo interesse per il giurista europeo. In essi il
concetto di interculturalità penetra in alcune costituzioni, dando talvolta
voce proprio al passaggio dal pluri- o multi-culturalismo all’interculturalità, per cui si evidenzia chiaramente la dimensione costituzionale di tali
concetti (su cui v. i contributi di Bagni e Carducci, in questo volume) e
la valenza simbolica ad essi attribuita poiché, come ricorda la dottrina
sudamericana, la costituzione stessa presenta una «dimensión simbólica,
intrínsecamente no menos adecuada que la dimensión fáctica» (Viciano
Pastor, Martínez Dalmau, 2011: 321; e v. anche Médici, 2010: 113). Nella costituzione ecuadoriana, ad esempio, prende corpo il passaggio da
uno Stato «pluriculturale e multietnico» (art. 1 cost. 1998) ad uno «interculturale e plurinazionale» (art. 1 cost. 2009). Anche nella costituzione
boliviana l’interculturalità si affianca alla plurinazionalità negli aggettivi
che definiscono lo Stato all’art. 1, e viene poi richiamata a più riprese
nel testo fondamentale (López, 2012). Un concetto che, come sottolinea
Baldin (2014), «si fonda sulla relazione, comunicazione e apprendimento
permanente fra le persone e le comunità di saperi, valori, tradizioni e
124
3. Alcuni elementi di comparazione tra paesi andini e contesto europeo
L’utilizzo del vocabolo interculturalità in ambito giuridico e in particolare costituzionale risponde alle peculiarità e caratteristiche proprie
dei singoli contesti nazionali. La sua applicabilità ad ambiti geo-culturali
differenti, tuttavia, presuppone la possibilità di individuare alcuni tratti
essenziali, che caratterizzano il concetto a prescindere da una specifica
collocazione geografica e giuridica. Si ripropone per questo termine il
medesimo problema incontrato in relazione al multiculturalismo, poiché anch’esso non è oggetto di interpretazione univoca: l’interculturalità
proposta nei documenti del Consiglio d’Europa non coincide totalmente
con quella fatta propria dalle costituzioni e dalle leggi di alcuni paesi sudamericani né, ad esempio, con quella che emerge nel contesto giuridico
canadese. Baldin (2012: 69 ss.) ricorda come esistano diverse possibili
interpretazioni dell’interculturalismo in senso descrittivo o prescrittivo
mentre, con riguardo all’area andina, Medina fornisce due possibili chiavi di lettura dell’interculturalità, connotata rispetto agli attori sociali di
125
L’interculturalità come condizione di sostenibilità
Cinzia Piciocchi
logiche distinte, per favorire il pieno sviluppo delle capacità dei singoli e
dei gruppi, rompendo con lo schema egemonico di una cultura dominante e altre subordinate».
In entrambe le carte costituzionali, la dottrina ha individuato un riconoscimento delle lotte delle comunità indigene, specie nell’accostamento tra plurinazionalità e interculturalità, che per de Sousa Santos (2012:
20) rappresentano una versione antitetica del multiculturalismo inteso
come mero riconoscimento della diversità e danno luogo a un «constitucionalismo intercultural, plurinacional y pluricultural» (ibid.: 35; cfr.
anche Castañeda Velásquez, 2009: 37; e, per una ricostruzione anche
storica della definizione delle comunità indigene, v. Fernández Osco,
2008). L’interculturalità, in particolare, è riferita a una definizione della cittadinanza che incentiva criteri di sostenibilità nel comportamento
dei cittadini come criterio trasversale al testo costituzionale stesso, in cui
si ripresenta in diverse parti. Si tratta, secondo questa lettura, di «un
criterio transversal que atraviesa los capítulos de la Constitución y precisa
de una respuesta innovadora que los viabilice como formas sostenibles de
adecuación de los comportamientos ciudadanos» (Verdesoto Custode,
2007: 150. Il concetto di sostenibilità del pluralismo emerge inoltre anche
a livello europeo, in ambiti differenti; cfr. Toniatti, 2009: 1121).
L’interculturalidad si diffonde poi in contesti ulteriori: nella salute
(Ruiz-Llanos, 2007: 99 ss.), nella formazione dei giuristi (Cóndor et al.,
2010; più in generale, per un’analisi comparata dell’incidenza del pluralismo ed in particolare del concetto di plurinazionalità sul potere giudiziario, cfr. Rey, 2014), nell’istruzione, e in tutti si evidenzia un riferimento
prevalente al rapporto con le comunità indigene, focalizzando spesso le
forme di partecipazione anche istituzionale, partendo quindi dall’interazione con comunità per le quali si pone la richiesta di riconoscimento
come soggetti di diritto. Brunet Ordoñez Rosales (2013: 439) riconduce l’origine dell’interculturalità proprio all’ambito dell’istruzione e del
continente sudamericano: «La interculturalidad, a diferencia del multiculturalismo, tiene su origen en América Latina con motivo del reclamo
indígena por una educación formal que incluya sus valores culturales».
Quest’aspetto connota naturalmente l’interculturalità nel contesto dei
paesi andini in modo peculiare: si tratta elementi non riproducibili in via
generale nell’ambito giuridico europeo, nel quale il pluralismo culturale
ha invece come riferimento principale – sebbene non esclusivo – il fenomeno migratorio. Al di là degli attori specifici coinvolti, però, l’esigenza
anche giuridica di un dialogo interculturale appare spesso riferita ad ambiti comuni, secondo chiavi di lettura non legate indissolubilmente alle
specificità del contesto di riferimento. L’istruzione, ad esempio, è uno di
questi, essendo un settore particolarmente esposto ad un contenzioso che
spesso impegna dottrina e legislatore nell’analisi della valenza culturale
e/o religiosa di simboli, materie insegnate, abbigliamento di docenti ed
allievi, ecc., nonché sulla rispettiva compatibilità con il pluralismo, sovente anche alla luce del rapporto tra ordinamento giuridico e religione.
L’attenzione per l’ambito dell’istruzione può ricondursi al ruolo cruciale
che essa riveste – e del quale questo contenzioso appare in parte conseguenza –, dovuto ad una constatazione di per sé semplice: che per la
scuola passa il tipo di società che si vuole costruire (Piergigli, 2011: 893
ss.).
Appare allora sempre più frequente il riferimento all’educación bilingüe e intercultural, a partire dalle espresse previsioni di alcune costituzioni, come quella boliviana in cui l’istruzione interculturale (più precisamente: «intracultural, intercultural y plurilingüe») è menzionata all’art.
30, p.to 12, o quella ecuadoriana, che a più riprese richiama l’«educación
intercultural e bilingüe» (es. art. 57) o, ancora, negli analoghi richiami
che si ritrovano in altre costituzioni dell’area sudamericana (a titolo
esemplificativo, si riporta l’art. 75 della costituzione argentina: «Corresponde al Congreso … Reconocer la preexistencia étnica y cultural de
los pueblos indígenas argentinos. Garantizar el respeto a su identidad y
el derecho a una educación bilingüe e intercultural»). Il diritto costituzionale all’educazione bilingue e interculturale è stato individuato anche
in assenza di previsioni costituzionali esplicite in tal senso, ad esempio
nell’ordinamento giuridico peruviano, in cui tale diritto è stato teorizzato
sul fondamento dell’identità culturale come diritto costituzionalmente
protetto (Brunet Ordoñez Rosales, 2013: 441. Cfr. inoltre Walsh, 2005;
Palomino Manchego, 2013: 61 ss.), e in merito all’esperienza cilena (Riedemann Fuentes, 2008: 169 ss., che sottolinea anche alcuni aspetti critici
dell’applicazione di tale concetto).
Si cerca una risposta alla pluralità culturale e sociale attraverso l’idea
che la diversità non ponga solo problematiche da affrontare, ma sia anche
126
127
L’interculturalità come condizione di sostenibilità
Cinzia Piciocchi
una possibile risorsa. Nuovamente, nell’ambito dell’istruzione nei paesi
andini il rapporto con le comunità indigene è un riferimento prevalente,
tuttavia non esclusivo, poiché si parte spesso dal dialogo con esse, per
guardare poi alla società intera.
Un percorso non dissimile è avvenuto nel contesto giuridico europeo,
a partire dall’immigrazione, in riferimento alla quale nasce un’attenzione
alle politiche linguistiche che assume via via una prospettiva più ampia
in relazione, più in generale, all’incontro tra culture diverse (Blanchet,
Coste, 2010: 9). Il Consiglio d’Europa dedica attenzione a tale concetto
nell’ambito dell’istruzione, evidenziando a più riprese come la diversità
tra multiculturalismo e interculturalità nella scuola non sia meramente
lessicale, ma faccia riferimento a concetti tra loro epistemologicamente
differenti. Concetti non dissimili sono poi ripresi in alcuni testi legislativi
nazionali, quali la legge organica spagnola sull’educazione (L.O. 2/2006),
con riferimento alle misure di integrazione degli immigrati (Rodríguez
García, 2011: 235 ss.). L’interculturalità appare anche come costruzione
di spazi di relazione, che presuppongono la consapevolezza dell’esistenza
di pluralità di culture, favorendo l’integrazione tra esse (López, 2012) e
costituendo, in tale prospettiva, il contesto senza il quale altre misure volte a promuovere l’eguaglianza risultano di scarso significato. Le quote, ad
esempio, che appaiono talvolta nell’ambito dell’istruzione e che, secondo
la dottrina, possono risultare poco efficaci in assenza di un contesto complessivo che valorizzi la comprensione interculturale (ibid.: 48).
Torniamo quindi a un concetto non dissimile da quello espresso da
Kymlicka in riferimento al cittadino interculturale, per il quale si prevedono condizioni di sostenibilità di obiettivi altrimenti destinati a rimanere inattuati. Ne deriva la necessità di un riconoscimento che assuma
una dimensione necessariamente pubblica, non relegando il pluralismo
a quella puramente privata, come attesta l’attenzione per un altro tema,
contiguo ma non coincidente con quello dell’istruzione e che si interseca
sovente con il concetto di interculturalità: la memoria.
L’attenzione per la dimensione storica rappresenta l’espressione di
una necessità profonda e significativa, poiché evidenzia una delle esigenze alle quali l’interculturalità tenta di dare una risposta, e cioè che il riconoscimento delle identità passa anche per una dimensione pubblica, che
non si pone sul mero piano legislativo o istituzionale. Tale livello – quello
istituzionale – sussiste e connota quello che è stato definito come «constitucionalismo intercultural» (come evidenzia de Sousa Santos, 2007:
36); ma presuppone una dimensione culturale, che passa ad esempio attraverso l’esplicitazione delle motivazioni anche storiche che rendono o
che hanno reso prevalente una cultura. L’interculturalità, in altre parole,
presuppone innanzi tutto una «descolonización mental» (nelle parole di
Bartolomé Clavero, s.d.: 9) che assume significato non solo in relazione
ai paesi che hanno vissuto l’esperienza coloniale ma contribuisce, in una
prospettiva più ampia, alla costruzione di una consapevolezza, che rientra a pieno titolo negli elementi di sostenibilità senza i quali il multiculturalismo rischia di rimanere su di un piano quantomeno teorico.
L’importanza della memoria nel dialogo interculturale affiora pure in
ambito europeo. Ad esempio con riferimento alle considerazioni svolte
dal Consiglio d’Europa, in cui a più riprese è dedicata attenzione alla dimensione storica, che pare orientata ad evitare la costruzione di un “noi”
e di un “loro” aprioristico, andando quindi in senso opposto rispetto agli
elementi che ostacolano il dialogo e favoriscono la discriminazione, come
stereotipi e stigmatizzazione (Council of Europe, 2001: 29). Creare un
percorso che consenta alle culture di essere “viste” è un compito affidato
anche all’ordinamento giuridico, non lasciando la dimensione interculturale alla sola (buona) volontà politica, ma “istituzionalizzandola”.
La transizione del concetto di interculturalità dal piano degli obiettivi
meramente politici a quello giuridico si può trovare anche nella riflessione sul legame con il principio di eguaglianza, sotto diversi profili. La
dottrina relativa al contesto andino evidenzia come l’assimilazione culturale sia uno degli elementi (naturalmente non il solo) che contribuisce all’esclusione socio-economica di alcuni gruppi (López, 2012: 36).
Inoltre, il Consiglio d’Europa richiama un aspetto di grande rilevanza
anche nell’ambito europeo, che fornisce una motivazione all’introduzione di una prospettiva interculturale e tocca un punto molto importante
quando si parla di eguaglianza. Il dialogo interculturale presuppone la
conoscenza dell’“altro”; la predisposizione di azioni che favoriscano tale
conoscenza, però, è volta in primis alla maggioranza, per un motivo semplice: i gruppi minoritari si trovano già a praticare il pluriculturalismo
sotto diversi punti di vista, come ad esempio le lingue, la scansione dei
tempi del lavoro e dello studio, dovendo affiancare ai dettami della pro-
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129
L’interculturalità come condizione di sostenibilità
Cinzia Piciocchi
pria cultura d’origine i comportamenti della cultura maggioritaria, che
penetrano anche nelle norme giuridiche (Piciocchi, 2006).
Il Consiglio d’Europa, trattando di educazione interculturale, afferma
come la pluriculturalità sia già una realtà per le culture minoritarie, che
si trovano a integrarsi in quella di maggioranza. Nel documento stilato
dalla Language Policy Division per la Platform of resources and references
for plurilingual and intercultural education si legge che «Many people
living within multicultural and plural societies are pluricultural. Pluricultural individuals are more likely to come from ethnic minority than
ethnic majority backgrounds, because minority individuals usually have
not their own ethnic heritage culture but must also engage with aspects
of the dominant majority national culture in which they live. Members
of majority groups by contrast have hitherto not needed to adopt any of
the values, beliefs or practices of other groups, especially if they live in an
ethnically homogeneous area, but are now increasingly obliged to notice
the multiculturalism of their own society and others. This gives them opportunity to grow into pluriculturalism through the complex networks
which cross-cut established groupings, to acquire the competences needed in such dynamic situations and experiences» (Byram, 2009: 6).
La recezione dell’interculturalità a livello giuridico consente di vedere
pure questo diverso punto di partenza, che pone anche la maggioranza nelle condizioni di praticare una pluriculturalità non come necessità,
bensì come arricchimento. La reciprocità della conoscenza, in altre parole, mette cultura di maggioranza e gruppi minoritari non sullo stesso
piano, il che renderebbe irriconoscibile l’una e le altre, non potendo più
definirsi in un rapporto reciproco che si nutre anche della diversità del
proprio ruolo. La reciprocità della conoscenza conferisce pari dignità al
riconoscimento della dimensione identitaria delle diverse culture, favorendo la comprensione non tanto e non solo della cultura in sé, ma del
ruolo e dell’importanza che alcuni valori rivestono per alcuni gruppi. Tra
questi, anche i principi della maggioranza stessa, che deve comprendere
per poter essere compresa, potendo richiedere l’«accettazione e adattamento di norme e valori della società di accoglienza» (Rodríguez García,
2011: 245), nel momento in cui dispone degli strumenti per distinguere
la valenza negoziale dei valori in gioco, secondo l’importanza che essi
hanno nella cultura dei diversi attori.
Il riconoscimento si pone quindi come presupposto di qualsiasi negoziazione: si può chiedere all’identità il rispetto di alcuni principi
fondamentali se l’identità stessa percepisce la sua “visibilità”; promuovendo l’idea che non sussiste una minore protezione giuridica in virtù
dell’appartenenza culturale, se il “diritto alla cultura” assume però un
qualche significato (Wiater, 2010: 9). L’interculturalità veicola l’idea che
la reciprocità risieda nel riconoscimento: identità che si sentono reciprocamente “viste”, riescono a negoziare. Nelle parole di Rodríguez García
(2011: 235): «La garanzia del fatto che la multiculturalità si orienti verso
l’interculturalità è che la prima sia guidata da valori etici universali (valori comuni) e si producano nuovi “meticciati” dei valori differenziali,
sempre che tali valori non entrino in contraddizione con i valori etici
universali (valori comuni)». In questo senso, l’interculturalità esprime
un’esigenza che accomuna contesti giuridici diversi: la previsione di criteri di sostenibilità del multiculturalismo in cui i diversi attori negoziali
si percepiscono come espressione di una cultura, inclusa quella di maggioranza che alle altre si rapporta, non necessariamente su di un piano di
parità giuridica, ma nella disponibilità a favorire quanto più possibile la
reciproca comprensione. Una società che si voglia definire inclusiva deve
allora guardare alle conseguenze del riconoscimento giuridico di identità
e diversità alla luce dell’idea che la convivenza implichi un’assunzione di
responsabilità collettiva.
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L’interculturalità come condizione di sostenibilità
Wiater P. (2010), Intercultural Dialogue in the Framework of European Human
Rights Protection, Council of Europe.
Il rispetto della natura e delle specificità culturali:
il buen vivir come pratica interculturale
Abstract: In the past years, cultural pluralism used to be defined by
the adjective “multicultural”, while today the adjective “intercultural” seems to be preferred. This change has occurred also from
the legal perspective, for example in the constitutions of some Andean Countries, but also in many documents of the Council of Europe. But what is the meaning of interculturalism and is it possible
to construe it as a transnational concept?
di Donatella Greco15*
SOMMARIO: 1. Buen vivir: radici antiche di un concetto moderno. – 2.
Back to basics: i valori fondamentali espressi dal buen vivir – 3. Il
buen vivir e la valorizzazione della diversità culturale.
Keywords: Multiculturalism, Interculturalism, Cultural pluralism, Andean Countries, Council of Europe.
1. Buen vivir: radici antiche di un concetto moderno
Nelle parole di David Choquehuanca Céspedes (2010), intellettuale
aymara e ministro degli esteri del governo boliviano, il buen vivir è definito come il recupero di uno stile di vita in armonia con il mondo e con
la natura, che contempla il rispetto e la valorizzazione di tutti gli elementi
del cosmo. In aggiunta a ciò, a comporre il quadro che tratteggia questa
visione del mondo concorre naturalmente anche l’essere umano, il quale
deve essere considerato come parte integrante della natura e non concepito, pertanto, come un’entità separata da essa.
Il buen vivir, inteso come paradigma interpretativo del vivere contemporaneo, diventa pertanto qualcosa di antico e moderno assieme. È infatti al principio degli anni Duemila che, nel complesso delle critiche mosse
allo sviluppo, il dibattito attorno a questa tematica si accresce, arricchendosi di numerosi contributi provenienti in particolar modo dal mondo
andino. Alimentato dai principi cosmologici delle popolazioni autoctone
dell’America del Sud (Vanhuist, Beling, 2012: 4), il buen vivir si configura
come una visione alternativa allo sviluppo (anche quello sostenibile), poiché pone anche l’accento sull’importanza rivestita dai fattori ecologici e
sociali nella relazione con l’ambiente e lo sviluppo. Il buen vivir o sumak
*
Dottoressa di ricerca in Politiche transfrontaliere per la vita quotidiana nell’Università
di Trieste.
Il rispetto della natura e delle specificità culturali
Donatella Greco
kawsay o suma quamaña fa pertanto riferimento ad un vivere in armonia
ed equilibrio con la Madre Terra, il cosmo, la vita, la storia e, più in generale, con tutte le forme viventi (Huanacuni Mamani, 2010: 7). Tuttavia,
con il tempo, il concetto di buen vivir si svincola da una semplice visione
filosofico-antropologica della vita ottenendo sempre maggiore visibilità e
permeando, adattandosi alle specificità culturali locali, contesti sempre
più vasti della vita pubblica e politica dei cittadini. Inoltre, l’importanza
assunta dai principi alla base di questa filosofia per le popolazioni andine
viene “ufficializzata” con la loro costituzionalizzazione nel 2008 in Ecuador e nel 2009 in Bolivia. Accade così che valori come «non essere pigro,
bugiardo e ladro» (art. 8 cost. Bolivia) o il diritto a vivere in un ambiente sano ed ecologicamente equilibrato che garantisca la sostenibilità e il
buen vivir (art. 14 cost. Ecuador), vengano percepiti come una priorità,
tanto da inserire questi elementi nei testi costituzionali dei succitati paesi; essi divengono così dei veri e propri punti cardine della vita di una
comunità.
Come afferma tra gli altri Gudynas (2011), un aspetto centrale nella
formulazione del buen vivir è rappresentato dalla critica che questo muove alle dinamiche dello sviluppo contemporaneo. Ciò che viene contestato, in prima istanza, è l’enfasi posta nei confronti degli aspetti economici
e del mercato, l’ossessione per il consumo e il mito di un continuo progresso. Ne consegue che lo sviluppo convenzionale venga considerato
un mal desarrollo, ovvero un cattivo sviluppo che collima con un conseguente mal vivir (Tortosa, 2001); nell’ottica andina tale equazione sembra
valere per la maggior parte delle economie avanzate.
Da un punto di vista ancora più generale, la filosofia che fa capo al
buen vivir contesta che il benessere sia esclusivamente riconducibile al
possesso e accumulo di beni materiali affermando, di contro, l’importanza delle relazioni tra gli esseri umani e la natura. Ciò che è importante
sottolineare è che il concetto di buen vivir, come mettono in risalto tra
gli altri Vanhulst e Beling (2012), ha lo scopo di promuovere l’armonia e
l’equilibrio tra i membri della società e gli elementi dell’ambiente circostante, senza considerare che tra questi intercorra un rapporto gerarchico
di subordinazione. Metaforicamente, ciò che il buen vivir propone è ciò
che potrebbe essere definito un recupero della dimensione panica con la
realtà, considerando quindi la natura come una vera e propria forza vi-
vente con la quale l’uomo tende ad identificarsi attraverso uno spirito di
comunione e di unione con essa. Tale impostazione, per esempio, appare
collimare con il pensiero di Amartya Sen per il quale il potere di creare
ricchezza per una società e i suoi individui dovrebbe corrispondere non
tanto ad un accumulo materiale di beni e denaro, quanto ad un rafforzamento dalle basi delle capacità del singolo essere umano. Ne consegue
che lo sviluppo, nell’ottica dell’economista indiano, dovrebbe convertirsi
in un meccanismo di empowerment dei soggetti che da questo vengono
supportati nel compiere scelte che li conducano a vivere meglio e più a
lungo. Riprendendo un concetto già espresso da Marx, Sen (1985: 945)
sostiene che si tratta di «sostituire il dominio delle circostanze e del caso
sull’individuo con il dominio dell’individuo sulle circostanze e il caso».
In linea più generale va sottolineato come il concetto di benessere
espresso dal paradigma andino del buen vivir sia sostanzialmente differente dall’idea di questo stesso concetto teorizzata in Occidente. A questo punto appare utile soffermarsi sull’analisi di alcuni dei principi generali che stanno alla base della prospettiva del buen vivir.
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2. Back to basics: i valori fondamentali espressi dal buen vivir
Ripercorrendo i principi ispiratori attorno ai quali la filosofia del buen
vivir si erige, appare utile sottolineare alcune differenze che intercorrono
tra l’interpretazione occidentale del principio di benessere e quanto, invece, viene espresso dalle pratiche del buen vivir. Medina (2006: 105 s.),
in modo efficace, pone in rilievo come la tradizione occidentale legata al
concetto di benessere e di buona vita sia essenzialmente riconducibile a
due fattori. Il primo rimanda alla concezione cristiana dove è Dio a separare la natura dagli esseri umani, creati con lo scopo di dominare la terra
e renderla sua servitrice. La natura domata dall’uomo viene così concepita come un piccolo orto chiuso, un’oasi ricavata dalla giungla dove il
primo uomo e la prima donna vivono nell’ozio fino alla ben nota cacciata dall’Eden. Non a caso, infatti, per l’uomo il castigo per eccellenza
in risposta alla disubbidienza nei confronti di Dio diviene il lavoro; è per
mezzo del biblico “sudore della fronte” infatti che Adamo e tutta la sua
futura stirpe dovranno, da quel momento in poi, guadagnare da vivere
Il rispetto della natura e delle specificità culturali
Donatella Greco
per sé e le loro famiglie. Il secondo elemento fa, invece, riferimento al
principio aristotelico secondo cui la buona vita sia identificata con la vita
nelle città. Medina (ibid.) sottolinea come, in origine, la condizione di benessere fosse coincidente, tra le altre cose, con l’accrescimento della cultura, lo sviluppo dell’intelletto, la cura del corpo, lo studio, l’amore per
l’arte e, più in generale, l’interesse per la vita politica. In sintesi, questa
prospettiva sottolineava come vivere bene volesse dire anche e soprattutto curare il corpo, lo spirito e l’intelletto, disponendo del proprio tempo
da impiegare per corrispondere alle esigenze della propria anima. Di contro invece, il lavoro manuale (svolto in prevalenza nelle periferie e nelle
campagne) veniva considerato una pratica che abbassava notevolmente
la qualità della condizione umana, poiché allontana l’uomo dalle attività
contemplative e di cura di sé e delle proprie attitudini.
Sulla base di questi presupposti ne consegue che, per Aristotele, la buona vita coincida con quella trascorsa nella poleis, luogo prediletto per la
cura e lo sviluppo delle facoltà intellettuali e fisiche. Sulla base di queste
considerazioni è di facile intuizione comprendere come, tra le altre cose,
anche questo tipo di impostazione abbia contribuito a creare una sostanziale disparità nelle società occidentali dove il benessere di pochi veniva
garantito, già nell’antica Grecia, dal lavoro di molti, spesso svolto in
condizioni di schiavitù comprensibilmente molto lontane dal principio
di benessere ed estremamente penalizzanti per la dignità della persona.
A differenza di quanto accade nel contesto andino, si stabilisce così un
principio di rottura tra l’uomo – che sceglie la città – e la natura che, nei
secoli seguenti, troverà l’apice negativo nelle conseguenze delle rivoluzioni industriali e tecnologiche che hanno supportato l’implementazione
del sistema produttivo di stampo capitalistico incentrato sulla massivizzazione del profitto.
Differentemente, rispetto a quanto accade in Occidente, il principio
alla base del buen vivir implica una relazione molto stretta con la terra
e, più in generale, con la natura, intesa sia come fonte di approvvigionamento alimentare ma anche come elemento con cui vivere in armonia ed
equilibrio. Sempre Medina (ibid.: 108) sottolinea come il punto non sia
trasformare il mondo ma comprenderlo, rispettando mutualmente tutte
le forme di vita che lo compongono. Ne consegue, come sintetizza Solo
de Zaldívar (2013), che il buen vivir può essere inteso come una forma
alternativa di sviluppo che garantisce una maggiore sostenibilità ambientale e uguaglianza nella qualità e negli stili di vita. Se esteso anche al
di fuori del contesto boliviano ed ecuadoriano, il buen vivir può altresì
essere considerato come «una nuova prospettiva attraverso cui guardare
e immaginare il futuro» (Prada Alcoreza, 2013: 148) sposando così una
visione di crescita e sviluppo più egualitaria.
Tuttavia, la necessità di delineare un nuovo orizzonte di vita maggiormente sostenibile nei confronti dell’economia e dei rapporti con la natura
non appaiono gli unici aspetti attraverso i quali la filosofia andina del
buen vivir si sviluppa. Condividendo l’impostazione tra gli altri di Acosta
(2011: 190), il buen vivir deve più correttamente essere inteso come un
approccio olistico alla vita che supera il campo economico e attraversa
trasversalmente l’intero apparato societario, passando anche, come accade in Bolivia ed Ecuador, per i principi costituzionali. L’inserimento del
buen vivir nelle costituzioni boliviana ed ecuadoriana rappresenta l’esplicitazione di un vero e proprio progetto che comprende l’implementazione di un nuovo Stato e, soprattutto, di una nuova relazione più giusta tra
questo e la società. Tale prospettiva, oltre che presentarsi giuridicamente
come una novità assume altresì il carattere della decolonizzazione (Alcoreza, 2013: 156) perché risulta in definitiva finalizzata al riconoscimento
delle popolazioni autoctone che hanno superato e resistito agli anni di
dominio coloniale e che oggi, nonostante l’inevitabile inserimento in circuiti dell’economia globalizzata, tentano di riaffermare i principi riferibili
ad una forma di comunità che richiama il rapporto con le origini e con
la terra. Questa interpretazione politica del buen vivir cerca di tradurre
in principi costituzionali il sumak kawsay ecuadoriano o suma quamaña
boliviano, a tutela della visione cosmogonica andina che tende ad una
relazione più equa, inclusiva e rispettosa dell’ambiente e degli elementi
che lo compongono. In aggiunta a ciò, il buen vivir intende anche perseguire con forza la valorizzazione e l’inclusione delle popolazioni locali
al fine di creare una società più armoniosa in grado di promuovere la
componente autoctona e con essa anche la diversità etnica e culturale. La
valorizzazione dell’elemento autoctono si incrocia con il riconoscimento
e l’inclusione della diversità che nell’ibridazione, per esempio, trova una
delle sue manifestazioni.
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Il rispetto della natura e delle specificità culturali
3. Il buen vivir e la valorizzazione della diversità culturale
Se, come detto al principio, il rispetto e l’ascolto della natura rappresenta una parte importante dei principi attorno ai quali l’etica societaria
del buen vivir si sviluppa, uguale importanza e attenzione viene rivolta
all’insieme delle diversità culturali che le società dei paesi in questione
inglobano. Nell’attuale contesto globalizzato, infatti, la presenza di più
culture e di diverse rappresentanze nazionali in un medesimo territorio
non è certo fattore inconsueto. I flussi migratori internazionali in questo
hanno giocato nei secoli un ruolo fondamentale: essi, infatti, non solo
hanno rappresentato una costante per tutte le popolazioni ma, in tempi
più recenti, hanno anche costituito il propulsore, la vera forza motrice
della globalizzazione (Castels, Miller, 2012: 25). Favorire gli spostamenti su di un territorio significa contemporaneamente contribuire a creare
delle società in cui elementi diversi si incontrano, si mescolano a quelli locali preesistenti e producono nuovi «universi simbolici» (Canclini,
2001: 14). Ad arricchire questo panorama hanno contribuito, inoltre, le
varie campagne di colonizzazione europee (britanniche, francesi, spagnole e portoghesi su tutte) che dall’età moderna in avanti hanno influenzato
l’evolversi della storia di numerosi paesi ed etnie del cosiddetto nuovo
mondo.
Volgendo l’attenzione all’eterogeneità culturale di cui una popolazione può essere manifesto, il contesto latinoamericano appare certamente un territorio privilegiato in virtù del suo passato e delle vicissitudini
storiche che lo hanno attraversato. Canclini a riguardo, in riferimento
alla condizione dell’America Latina, parla di heterogeneidad cultural multitemporal (Canclini in Mialet, 2000: 134). Per l’autore è questa un’affermazione particolarmente esaustiva in quanto pone in evidenza come
l’eterogeneità in questi luoghi non sia solo un fattore di classe sociale,
etnia o gruppi culturali ma esprime qualcosa di più. Si tratta, infatti, di
una coesistenza di gruppi sociali portatori di elementi e storie culturali
differenti. Questi stakeholder culturali partecipano tutti alla contemporaneità, seppur con livelli di coinvolgimento differenti, rimanendo contemporaneamente evidente manifesto di epoche, tradizioni culturali, usi
e costumi differenti. Queste “diverse temporalità” (ibid.) possono certamente coesistere, adeguandosi l’una all’altra; per l’autore perché ciò
Donatella Greco
141
accada, appare importante sottolineare come non si tratti di una semplice convivenza tra diversi gruppi culturali, quanto del riconoscimento e
della valorizzazione dell’esistenza di gruppi con un’identità e una storia
differenti. Ciò significa che nel processo di studio e analisi di queste dinamiche è necessario identificare l’eterogeneità diacronica che in questi
territori ha sedimentato nel corso dei secoli. Considerando valida questa
impostazione lo stesso Canclini (ibid.: 135 s.) afferma che «in America
Latina i progetti moderni, anche al costo di grandi ingiustizie, disuguaglianze e meccanismi di marginalizzazione, hanno perseguito l’obiettivo
di raggiungere un elevato livello di integrazione. Questo atteggiamento,
di contro, ha contribuito a porre in secondo piano l’aspetto dell’eterogeneità, sublimandola in un progetto forzato di integrazione nazionale,
atteggiamento che in qualche modo si è ripercosso sui cosiddetti studi
culturali in America Latina. A seguito di ciò, mi pare che la diversità
venga più che altro considerata come parte della nazione. Ne consegue
che è apparso evidente come la diversità di etnie, di gruppi e sottoculture
potesse acquisire maggiore senso se concepita come parte dei progetti
nazionali e come diretta conseguenza delle contraddizioni imposte dalla
modernità e non semplicemente come singole rivendicazioni isolate di
ciascun gruppo etnico».
Come afferma Lee (2004), già al termine del XIX secolo si rende evidente il fallimento dei programmi di colonizzazione di stampo europeo
messi in atto nei secoli precedenti. Nel corso dell’Ottocento, mentre
l’Europa intera vive una fase di forte sviluppo economico e industriale, i paesi latinoamericani, di contro, non tengono il passo di queste innovazioni, indugiando in un evidente stato di arretratezza economica e
produttiva rispetto al vecchio continente. Questa situazione pone nuove
questioni e nuove problematiche al contesto latinoamericano che molto hanno a che fare con la matrice identitaria di questi popoli. Se da
un lato, l’identità coloniale è sempre stata vissuta come una imposizione
della Spagna imperiale che i latinoamericani spesso hanno mal tollerato,
dall’altro l’adozione di una mentalità liberale è apparsa una strada che i
locali desideravano percorrere per porsi al passo con i tempi del mondo
“civilizzato”. Si trattava, in un certo senso, di un avvicendarsi al timone della colonizzatore: il modello spagnolo veniva sostituito da quello
europeo. Secondo l’intellettuale messicano Leopoldo Zea (in Lee, 2004:
Il rispetto della natura e delle specificità culturali
Donatella Greco
92), infatti, «il vecchio ordine coloniale è stato distrutto ma dalla sua
distruzione non è nata nessuna naturale contropartita». Questa affermazione lascia intendere come, dopo essersi affrancati dal proprio passato
coloniale, le popolazioni ispanoamericane abbiano dovuto cominciare a
difendersi dall’imperare del modello europeo il quale appariva profondamente inadatto al contesto locale. Lo scrittore cubano José Martí (in
Lee, 2004: 92), a tal proposito, ha parlato opportunamente di un cambio
di servidumbre ponendo in evidenza come, dal vecchio dominio coloniale, l’America Latina rischiasse di passare sotto l’egida di un altro potere
esterno, identificabile con i principi e diktat socio-economici provenienti
dal sistema occidentale. Ciò pone in evidenza come, a fronte dei cambiamenti socio-economici occorsi negli anni, il recupero di una dimensione
locale dei valori e degli stili di vita venisse inteso come un’esigenza imprescindibile per le popolazioni locali. Ne consegue che la posizione di
Martí, seppur cronologicamente antecedente161, e il pensiero di Canclini
temporalmente più recente, appaiono collegabili con i principi di rispetto e valorizzazione delle specificità e delle diversità culturali espressi dal
buen vivir.
Nel dettaglio, la prospettiva di Martí si pone come una reazione contro il positivismo e i principi di modernità dei paesi sviluppati, condannando il pragmatismo materialista del progresso occidentale e riaffermando l’importanza dei valori spirituali locali. Il saggio di Martí a cui si
fa riferimento in questa sede è Nuestra América, scritto e pubblicato nel
1891 in Messico. Uno dei principali fili conduttori della produzione filosofico letteraria dell’autore cubano è certamente rappresentato dall’analisi e dallo studio dell’America meticcia e dell’impatto culturale di questa
sul contesto sociale locale. Martí vive e opera nella seconda metà del XIX
secolo in un momento storico in cui le neonate repubbliche latinoamericane erano impegnante nell’emancipazione e nel consolidamento della
loro indipendenza dal regime coloniale iberico. Nuestra América è infatti
una metafora, espressione non solo di un identità geografica del paese,
ma anche evidenza della percezione relativa alla presenza di una duali-
tà convivente nel continente latinoamericano. Tale impostazione porta
Martí ad affermare che esistano due Americhe. La prima è appunto la
nuestra tierra, quella a cui visceralmente i propri abitanti si sentono legati, percependo un sentimento di appartenenza e la presenza di un legame
ancestrale con essa, identificabile con l’animo di un popolo e il suo modo
di agire e vivere nel mondo, esprimendo le proprie radici e la propria
costruzione storica (Streck, 2008). A questa si affianca otra América, ovvero quella che Martí indica come esito dei lunghi anni di colonizzazione
e che rischiava di assoggettarsi ad un nuovo dominio coloniale (quello
americano).
La proposta teorica di Martí, pur essendo stata teorizzata in un contesto storico e politico peculiare ed estremamente connotato, è innovativa
e interessante nel panorama degli studi a tal riguardo poiché compie un
passo ulteriore nell’analisi del fenomeno. Riaffermando la posizione di
Simón Bolívar, Martí considera che l’unico modo per il popolo latinoamericano di sfuggire a nuove dipendenze e ritrovare la propria unità
è quello di riconoscere la condizione ibrida dell’America Latina, tenuta
insieme dalla componente spagnola ereditata dagli anni di colonizzazione. Si tratta di un passo significativo, specie se compiuto a seguito di un
periodo storico che va dagli anni ‘50 del XIX secolo fino al principio
degli anni ‘90.
Come segnala tra gli altri Lewis (1965), c’è stato un tempo non troppo
lontano in cui l’economia dello sviluppo identificava la struttura duale di
molti paesi che componevano la regione latinoamericana come la principale causa del sottosviluppo economico di questi territori. Nel complesso
del continente latinoamericano, le economie dei paesi seguono percorsi
differenti, esprimendo diversi livelli di maturità del loro ciclo economico/
produttivo. Accade così, seguendo la prospettiva degli stadi di sviluppo
di Rostow (1962) che all’interno di un sistema paese possano convivere
settori economici la cui condizione è del tutto assimilabile a ciò che l’autore definisce come take off, ovvero fase cruciale del decollo dell’economia coincidente con la vera e propria rivoluzione industriale. Questi stadi
più sviluppati dell’economia coesistono con altri settori, il cui potenziale
di sviluppo appare più lento e complessivamente più arretrato rispetto ad
altri. In questi segmenti, la depressione del sistema e la maggiore lentezza
dei meccanismi di crescita vengono inevitabilmente collegati con la pre-
142
1
Cronologicamente, l’operato di Martí si colloca negli anni in cui le due ultime colonie
spagnole Cuba e Puerto Rico erano impegnate nella conquista dell’indipendenza avvenuta nel 1898 a seguito delle scoppio della guerra combattuta tra Spagna e Stati Uniti.
143
Il rispetto della natura e delle specificità culturali
Donatella Greco
senza dell’elemento etnico, ciò che abitualmente in America Latina viene
identificato come lo indigena, e di conseguenza assimilato ad uno stato
di arretratezza e sottosviluppo. Al contrario, i settori che vivono più intensamente la fase del decollo dell’economia si tende, in termini di valori
e meccanismi economici e di produzione, ad identificarli con il contesto
occidentale, ponendo così indirettamente in evidenza come teoricamente
il modello economico produttivo europeo fosse la strada maestra verso lo
sviluppo. Ne consegue che, come segnala Solo de Zaldívar (2013), l’alterità culturale in quanto espressione della diversità dei popoli, diventa un
ostacolo, una barriera alla modernizzazione. Di conseguenza, affinchè il
ciclo evolutivo dello sviluppo possa compiersi in modo omogeneo in tutti
i settori, la componente locale del paese deve essere sacrificata. Questo
atteggiamento, unito alla frammentazione e alla polarizzazione indotta
dai meccanismi della globalizzazione genera disequilibri sulla struttura
economica, sociale e culturale dei paesi, elementi negli anni resi sempre
più evidenti e acuti nel contesto latinoamericano (Mantecón, 1993).
Riconoscere essenzialmente la condizione mestiza dell’America Latina come una delle peculiarità del contesto locale, conduce ad elevare
quest’ultima a chiave di volta dell’identità di questi luoghi, affermandone
l’importanza rispetto alla costruzione identitaria e opponendosi, nel contempo, alla visione eurocentrica imperante in quegli anni che vedeva la
mescolanza delle razze come elemento degradante per la civiltà. Si tratta,
dunque, secondo quanto afferma Abellán (1998: 155), di propendere per
una “riconciliazione storica” con il passato, funzionale ad ottenere un
presente più sereno e consapevole e costruire un futuro di benessere ed
equità, fondato sul riconoscere e tutelare le specificità locali. Canclini, invece, in un’ipotetica ottica di continuità con le posizioni di Martí, ferma
la sua attenzione sulla diversità considerata nel conteso latinoamericano come parte di una nazione, oltre che a rappresentanza di una chiara
presa di coscienza relativa al passato e al presente di un popolo. Questo
presuppone l’assunzione di un principio di rispetto, riconoscimento e
uguaglianza della differenza, elementi questi che, come sottolineato, vengono valorizzati nel complesso del paradigma del buen vivir. Come posto
già in rilievo in precedenza, sono proprio le costituzioni di Bolivia ed
Ecuador, infatti, il luogo prediletto per l’esplicitazione dei principi che
ispirano e fondano il nuovo corso democratico di questi paesi che si basa
sul rispetto dell’ambiente, della natura, della componente autoctona e
della diversità dei popoli. Come sottolinea Foroni (2014: 96-97), la costituzionalizzazione del paradigma andino del buen vivir pone infatti in rilievo l’importanza di un insieme di valori considerati come fondamentali
che, se rispettati, possono dare vita ad una nuova forma di convivenza,
un nuovo patto sociale, dando maggiore rilievo alla tutela e all’inclusione
della diversità. Sottolineare l’importanza primaria della giustizia sociale,
della solidarietà comunitaria, della plurinazionalità e dell’interculturalità
stabilisce un nuovo corso dove la composizione plurale viene non solo valorizzata, ma posta come principio fondamentale attorno a cui erigere la
nuova visione dello Stato. Nello specifico, l’impostazione della vita di una
comunità all’insegna del buen vivir passa anche attraverso una riflessione
da condurre circa il rispetto della diversità e la matrice etnica delle popolazioni. A tal proposito, va ricordato, come afferma Gudynas (2011), che
è necessario che il progetto eretto attorno a quella che potremmo definire
una filosofia di vita del buen vivir venga costruito e compreso seguendo
un doppio filone interpretativo. Da un lato bisogna decolonizzare i saperi
e la conoscenza, abbandonando la prospettiva di superiorità imposta della conoscenza occidentale ed eurocentrica. Contemporaneamente, risulta
ugualmente importante rispettare la diversità intrinseca delle differenti culture e non leggere questa condizione plurale attraverso un’ottica
gerarchica. Attribuire una rinnovata importanza ai principi comunitari
identificati come forma di reazione e contrasto alla logica capitalistica,
sebbene il sistema paese risulti collocato nei circuiti internazionali economici e politici, rappresenta così l’esplicitazione di un’alternativa concreta
allo status quo. In aggiunta a ciò, va considerato come tale atteggiamento
divenga anche rappresentativo della volontà di recuperare un nuovo orizzonte di vita, dove la forza e la creatività delle culture e delle tradizioni
locali vengano riconosciute, divenendo strumento funzionale ad una crescita e uno sviluppo più etico del territorio (Prada Alcoreza, 2013).
Prendendo in prestito nuovamente il lessico dell’antropologo messicano Canclini esposto nel volume Culturas híbridas: estategias para entrar
y salir de la modernidad, l’ibridazione, nel panorama della valorizzazione
delle specificità locali, viene considerata come un elemento da sviluppare
e non più come un tratto connotato da un carattere negativo. Si potrebbe
pertanto affermare che, in questo senso, il buen vivir diviene una pratica
144
145
Il rispetto della natura e delle specificità culturali
Donatella Greco
interculturale trasversale che consente di entrare e uscire dalla modernità, trovando un equilibrio che permette il rispetto dell’ambiente e delle
diversità rimanendo, al contempo, sintonizzati con l’attuale contesto economico e culturale. Nel dettaglio, nella concezione dell’autore messicano
(2001: 14), l’ibridazione assume le seguenti caratteristiche: «Intendo per
ibridazione quel processo socioculturale all’interno del quale si strutturano pratiche differenti e discrete che già esistevano in forma separata
e che si combinano per generare nuove strutture, nuovi oggetti, nuove
pratiche, nuovi universi simbolici».
In effetti, Canclini più che di ibridazione tout court, preferisce parlare
di “processo di ibridazione”, in quanto si tratta di un compendio dinamico di fattori che, agendo quotidianamente in sinergia, provocano la nascita di fattori ibridi i cui elementi costitutivi vanno ritrovati nel progressivo
mescolarsi degli elementi, nelle continue forme di adattamento poste in
essere dai protagonisti nel corso dei cambiamenti sopra citati (immigrazione, spostamenti di varia natura e genere, ecc.). Tuttavia, parlare di
ibridazione tout court o di processi di, veicola una serie di considerazioni
sul tema. La prima tra queste è che, come numerosi autori sottolineano
(Canclini et al., 1993; Canclini, 2001; Fabietti et al., 2000), i processi di
ibridazione non rappresentano certamente un elemento recente e non
unicamente correlabile a periodi storici riferibili a fasi di intese migrazioni o conquiste coloniali. È possibile, infatti, affermare che non esistono
culture che non siano in qualche forma ibride, in quanto «le culture si
combinano e si ricombinano» (Fabietti et al., 2000: 165) da secoli nonostante l’intensità di questi scambi si sia indubbiamente accentuata nell’età contemporanea. Tuttavia, ciò che è importante sottolineare secondo
Canclini (2001) è il modo in cui le culture, intese come insiemi più o
meno coerenti di significati interconnessi, si ricollocano continuamente
considerando la rapidità dei tempi odierni. In questo senso, i principi alla
base del buen vivir, garantendo il rispetto e l’espressione di una pluralità
di stili e di alternative di vita, creano l’ambiente e lo spazio giusto per l’espressione e la tutela dell’ibridazione. Più in generale, ad essere garantita
è la visione culturale di ogni singola componente indigena, rifiutando
qualsiasi interpretazione a carattere etnocentrico (Prada Alcoreza, 2013).
Ulteriormente la riflessione di Canclini sposta l’attenzione sul concetto di cultura: come sottolinea Zires (in Canclini et al., 1993), parlare di
ibridazione pone indirettamente in discussione il concetto stesso di cultura, intesa come un insieme di nuclei più o meno omogenei di nozioni e
credenze, appartenenti ad una data comunità, gruppo o nazione. Questo
tipo di posizione enfatizza l’omogeneità e la coerenza come caratteristiche principali riferibili alla nozione di cultura, posizione che, secondo
l’autore, viene scardinata da quella di culture ibride proposta da Canclini. Ne consegue che l’idea di cultura che ben si sposa con il concetto di
ibridazione è quella di un compendio composito formato da specifici elementi culturali che assumono molteplici forme e generi e che rimangono
in permanente trasformazione. Le culture ibride, pertanto, sono quelle
che si producono in un sempre più rapido processo di incontro tra culture. Di conseguenza, esse rappresentano le nuove sintesi, i nuovi profili,
i nuovi paesaggi che caratterizzano il mondo contemporaneo e «nascono dall’incontro di individui e gruppi con storie, memorie, conoscenze
e identità diverse, spesso fondate su premesse esperienziali e concettuali
molto distanti tra loro» (Fabietti et al., 2000: 165).
Anche in questa posizione è evidente come non venga contemplata la
presenza di un principio di superiorità tra le diverse componenti culturali, le quali non si impongono l’una sull’altra ma divengono complementari
o comunque mai antagoniste. Tale atteggiamento risulta essenzialmente
consistente con i principi di uguaglianza e rispetto delle diversità espressi
dal buen vivir che vede nelle diversità culturali una fonte di ricchezza da
tutelare e salvaguardare. Inoltre, nella modernità in cui il passato convive
con il presente e il locale si mescola con il globale, è in atto un processo
di ibridazione a cui sfuggire non è possibile. In questo senso, la filosofia
del buen vivir appare lungimirante e si pone come garante di un atteggiamento inclusivo e che valorizzi le diverse matrici culturali, autoctone
o nate dall’incontro di diversi elementi culturali, che compongono un
territorio. Come detto in precedenza, va tenuto in conto che il buen vivir
deve essere inteso come un complesso di significati, come un paradigma
interpretativo che raggruppa diverse posizioni che si fanno portatrici di
specificità locali. L’elemento comune è contestare l’attuale regime di sviluppo e affermare l’importanza della relazione tra l’uomo e l’ambiente e
la società: ne consegue che anche per questo esso vada inteso come un
concetto plurale (Gudynas, 2011: 11).
Secondo quanto detto fino ad ora rispetto alla tutela delle specificità
146
147
Il rispetto della natura e delle specificità culturali
Donatella Greco
e delle diversità locali, è possibile affermare che il buen vivir incorpora
i principi di rispetto e tutela delle specificità e delle diversità espressi
dall’interculturalità. Tale concetto, estremamente dibattuto negli ultimi
decenni, appare connotato da una natura proteiforme e polisemica (Marc
1992: 30). Già sul finire degli anni ‘20 del secolo scorso, l’antropologo
culturale Franz Boas (1928: 72) nel dibattere temi come la relazione tra
razza e cultura, il nazionalismo e le relazioni interraziali, pone in evidenza
come «La soppressione delle differenze culturali o l’isolamento dei differenti gruppi non può rappresentare lo scopo di un intelligente sforzo nel
dirigere lo sviluppo umano». Tale affermazione pone in rilievo come, la
gestione di una differente matrice etnico culturale all’interno di un territorio, necessiti di meccanismi di valorizzazione di cui l’intera comunità
può beneficiare.
In anni più recenti, al crescente uso nei contesi nazionali e internazionali del concetto di interculturalità e dei relativi sinonimi, si rende altresì
evidente l’esigenza di introdurre elementi di distinzione all’interno della
«confusa nebulosa» (Pompeo, 2007: 133) che circonda questo termine.
Prendendo spunto da quanto affermato da Pompeo (ibid.), da un punto
di vista generale è possibile affermare che il termine interculturalità racchiude al suo interno una serie di significati tra loro diversi. Tuttavia, nel
tentativo di dare una definizione si può affermare che esso, come sostantivo, rappresenta le implicazioni culturali che sono relazionabili alla coesistenza di attori provenienti da orizzonti diversi. Come aggettivo, esso
viene invece utilizzato per qualificare una specifica attitudine a superare ostacoli e realizzare efficaci meccanismi comunicativi in contesti di
convivenza (ibid: 134). Il prefisso inter rappresenta pertanto l’elemento
linguisticamente discriminante del termine in quanto esprime dinamiche
e dialettiche che presuppongono uno scambio, un’interazione proficua e
possibile tra elementi differenti che si contrappone alla multi-culturalità
che indica, al contrario, una giustappozione, un «vivere accanto» (ibid.).
Proprio come accade per il processo di ibridazione di Canclini, l’interculturalità deve essere intesa come un percorso dinamico, attivo, un work
in progress che si relaziona in modo progressivo con i diversi contesti
portatori di specificità culturali.
Tuttavia, pur auspicando un’armonica convivenza e un reciproco riconoscimento dell’alterità e dell’elemento autoctono, va tenuto ugualmente
in conto che, proprio per l’intrinsecità dell’elemento plurale, non esiste
un buen vivir indigeno dal momento che la categoria “indigeno” è un
artificio, una semplificazione, una chiave di lettura utile per ordinare e categorizzare l’eterogeneità locale di popoli e nazionalità ognuna portatrice
di una propria visione di buen vivir. L’elemento che accomuna il suma
quamaña, il sumak kawsay e le altre manifestazioni locali di buen vivir è
rappresentato dal fatto che ognuna di esse esprime una rielaborazione
della comune sensibilità rispetto a determinati temi. Ciò crea un terreno
comune fertile per la costruzione e l’accettazione di un meccanismo di
vita più sostenibile, per la natura e l’uomo inserito nella collettività.
In conclusione, si potrebbe affermare che, nel contesto latinoamericano, parlare di buen vivir significa anche assumere una prospettiva di
analisi che tenga conto della valorizzazione dell’elemento diversità che,
combinato con le pratiche moderne, ha contribuito a delineare il volto attuale del continente e dei diversi paesi e contesti culturali che lo compongono. Far convivere il recupero di questi orientamenti e stili di vita con
la modernità è possibile ed è il proposito che Bolivia ed Ecuador stanno
perseguendo nei propri contesti nazionali. Chiaramente, a fronte degli
attuali meccanismi, rifiutare completamente le logiche di mercato significherebbe condannare un sistema paese all’isolamento e non è questo
a cui le pratiche del buen vivir aspirano. Al contrario, la sfida è proprio
quella di adattare la modernità ai principi di benessere e di rispetto della natura, della Pachamama e della diversità e specificità socio-culturale,
contribuendo a creare un ambiente economicamente e socialmente più
sostenibile. Ne consegue che, in quest’ottica ibrida, interculturale e fondamentalmente dinamica, l’elemento mestizo, assieme all’elemento autoctono, tenderà ad essere così sempre più valorizzato e integrato nelle
pratiche pubbliche del quotidiano.
148
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150
Abstract: The analysis of this article is focused on the origins of the
concept of buen vivir as it is understood in the context of the Andes (Bolivia and Ecuador, in particular). The text highlights how
the principles related to this concept influence many fields of the
life of a Country and its society. In detail, the analysis is focused
on the relationship that the principles of buen vivir lay with issues related to hybridization in the Latin American context, as
it is understood in the reflections of the Mexican anthropologist
Canclini, especially in the middle of the on-going mechanisms of
globalization.
Keywords: Buen vivir, Interculturality, Hybrid cultures, Latin America.
151
PARTE II
GLI ORIZZONTI DELLA SOSTENIBILITÀ
I diritti della natura: i risvolti giuridici
dell’ética ambiental exigente in America Latina
di Serena Baldin17*
SOMMARIO: 1. L’armonia con la natura: un formante culturale in espansione. – 2. La circolazione dei formanti relativi ai diritti della natura. – 3. Lo statuto giuridico di Madre Terra in Ecuador e Bolivia.
– 4. Le azioni popolari a salvaguardia dell’ambiente. – 5. Conclusioni.
1. L’armonia con la natura: un formante culturale in espansione
Il presente contributo intende esaminare gli aspetti legati al riconoscimento dei diritti della natura. Ci si chiede quale sia il fondamento
che giustifica la nascita di questo nuovo soggetto giuridico, che diritti
possano rivendicare gli enti non umani e come vengano salvaguardati.
Gli interrogativi prendono le mosse dall’evidenza: alcuni paesi hanno già
riconosciuto le pretese giuridiche di Madre Terra e altri hanno proposto
modifiche costituzionali in tal senso. Essendo la tutela ambientale condizionata – ruota attorno alla salvaguardia umana e non della natura –, le
implicazioni giuridiche di questo riconoscimento sono particolarmente
significative. Garantire i diritti del mondo non umano significa operare
una trasformazione profonda nell’assiologia dei valori, presupponendo
che questi si debbano poi inverare in criteri interpretativi che bilancino
gli interessi della specie umana e quelli dell’ecosistema in modo diverso
dall’attuale. Nell’ipotesi che la tendenza continui a diffondersi nel prossimo futuro, giova approfondire il tema per comprenderne meglio i contenuti.
A tale fine occorre specificare i significati di individualismo e olismo.
*
Professoressa associata di Diritto pubblico comparato nell’Università di Trieste.
I diritti della natura
Serena Baldin
Il primo considera l’umanità un prius ontologico rispetto al tutto, mentre
il secondo la concepisce come una parte di un tutto sovrastante. L’antropocentrismo si fonda sulla separazione fra umani e “intorno”. Nel suo
ambito si distinguono un indirizzo dominativo, per cui la natura è intesa
come una riserva di ricchezze da sfruttare per il benessere della specie
umana; uno conservativo, che riconosce la presenza di limiti allo sfruttamento e alla crescita materiale a tutela degli interessi delle generazioni
future; e uno preservativo, spesso coniugato assieme al conservativo, teso
a salvaguardare quelle aree che ancora non recano l’impronta umana e a
difendere le specie in via di estinzione (Viola, 1997: 47 ss.).
Le concezioni non antropocentriche sostengono che la natura ha
un valore in sé, indipendentemente dall’utilità per gli esseri umani. Gli
indirizzi cosmocentrici sono riconducibili alle teorie olistiche che si
esprimono nel biocentrismo e nell’ecocentrismo, con ulteriori correnti
al loro interno. In breve, le posizioni biocentriche sono quelle più radicali, che riconoscono dignità morale a ogni singolo essere vivente (come
l’animalismo) o a gruppi di individui (specie, comunità, ecosistemi). Nella versione ecocentrica, ciò che conta nei rapporti fra umani e ambiente
è un mutamento di Gestalt. Sul piano ontologico, l’ecocentrismo nega la
divisione esistenziale sulla cui base si afferma la primazia umana e, dal
punto di vista etico, rifiuta di assegnare un valore intrinseco agli esseri
umani, promuovendo l’eguaglianza fra questi e la natura (Uebel, 2011:
133 s.; Pagano, 2004: 87 ss.; Pisanò, 2012: 91 ss.).
Le idee ecocentriche e biocentriche sono contestate da molti studiosi
di temi ambientali. Essi reputano illusorio il fatto di poter ragionare in
termini diversi da quelli che pongono l’umanità al di sopra degli, o come
ontologicamente distinta dagli, enti non umani. In parallelo, nel contesto
di grave crisi ecologica che ci troviamo a fronteggiare, dove è in gioco
la sopravvivenza della stessa specie umana (Carducci, 2014), la visione
cosmocentrica sale alla ribalta sollecitando intense riflessioni sul modo in
cui trattiamo la natura. Esperti di varie discipline rimarcano l’urgenza di
un diverso approccio a queste problematiche per garantire la sostenibilità a livello globale. Essi sottolineano l’uso responsabile delle risorse da
parte delle culture indigene, auspicando una rivalutazione di quelle pratiche e dei loro sistemi di pensiero, fondati su una concezione animistica
della natura.
L’indagine muove dal concetto di armonia con la natura. Sebbene
la parola armonia appaia rimossa dal vocabolario morale e politico del
pensiero occidentale (Carducci, in questo volume), altrove si assiste alla
sua rivalutazione. Un dato da tenere presente al fine di comprendere, a
grandi linee, la sua rispondenza a criteri etici condivisi che ne possano
giustificare l’accoglimento in una declinazione giuridica. Ciò in quanto il
formante culturale, che plasma la mentalità dei giuristi e rappresenta l’adesione ideologica o culturale a un certo patrimonio di tradizioni, svolge
un ruolo primario nella scelta di adottare delle norme e nel garantirne
l’effettività (Pegoraro, 2011: 50). Di seguito verrà approfondito il tema
dello statuto giuridico di Madre Terra a partire dai formanti dottrinali
(sui formanti si v. Sacco, 1992: 43 s.) che hanno reso possibile la circolazione di questa idea in varie parti del globo.
Visioni olistiche, religioni che considerano in termini negativi la separazione dell’io al tutto, comportamenti che anelano a uno stile di vita
fondato sull’armonia con la natura sono rintracciabili in molte parti del
pianeta: il dharma in India, il tao in Cina, il circolo sacro della vita dei
nativi nordamericani, ubuntu, unhu, ujamaa in Africa. In Sudamerica,
suma qamaña, sumak kawsay, lekil kuxlejal, nande reko, sono le espressioni utilizzate da altrettanti gruppi autoctoni per indicare l’esistenza intesa
come equilibrio del singolo all’interno della collettività e dell’ambiente
circostante, secondo uno schema di tipo circolare, dove è assente l’idea di
progresso (Lanni, 2013: 178 ss.). La dimensione olistica rientra nei valori
e nelle credenze ancestrali, e il diritto di questi popoli, il diritto ctonio o
indigeno, è «sinceramente ambientalista … Non è semplicemente verde:
è verde profondo» (Glenn, 2011: 141).
L’olismo trova anche in Occidente autorevoli esponenti, a partire dal
fondatore dell’etica ambientale, Aldo Leopold. In Land Ethic del 1949 il
naturalista statunitense sostiene che, dal punto di vista evolutivo, tutte le
specie viventi sono interconnesse fra loro e con gli ecosistemi, e il rapporto individuo-natura è il campo etico dal quale ricavare le norme prescrittive del comportamento umano. Nel 1973, ulteriore diffusione dell’ideale
olistico si deve al filosofo norvegese Arne Naess, che conia il termine deep
ecology. Naess rifiuta l’approccio tradizionale all’ambiente di tipo antropocentrico (la shallow ecology), dove l’ecosistema è tale rispetto a un soggetto, a un termine di riferimento. L’ecologia profonda non separa gli
esseri umani né ogni altra cosa dall’ambiente naturale, in quanto concepisce il mondo come una rete di fenomeni interconnessi e interdipendenti.
156
157
I diritti della natura
Serena Baldin
Negli ultimi vent’anni, l’indiana Vandana Shiva si è affermata come una
delle voci ambientaliste più accreditate. In Il bene comune della Terra, la
studiosa afferma che per dare origine a una democrazia della comunità
terrena si debbano considerare non solo gli interessi della specie umana
bensì anche quelli di tutte le forme di vita che popolano il pianeta. Queste teorie, si noti, non utilizzano il linguaggio dei diritti per difendere la
natura; puntano solo a ridefinire il rapporto etico fra umani e non umani
(Andreozzi, 2011: 123 s.; Pisanò, 2012: 97 ss.).
Un obiettivo condiviso anche da Hans Jonas, che considera la rivisitazione di tale rapporto un imperativo ineludibile e, senza chiamare in
causa l’olismo o i diritti della Terra, si affida al principio di responsabilità.
Secondo il filosofo di origine tedesca, la relazione fra umanità e natura si
concreta in doveri della prima nei confronti della seconda. La garanzia
della sopravvivenza sia della generazione presente che di quelle a venire, nonché dell’“intorno” che condivide il destino della specie umana,
si esprime nei termini di un obbligo morale (Jonas, 1979). Riflessioni,
queste, che troveranno cassa di risonanza nell’elaborazione del concetto
di sviluppo sostenibile enunciato nel Rapporto Brundtland Our Common Future della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo del
1987, quale principio di etica collettiva che impone a ogni Stato di gestire
razionalmente le proprie risorse. Esso si fonda sull’assunto che al diritto
di beneficiare e sviluppare il patrimonio naturale e culturale ereditato
corrisponde il dovere di utilizzarlo in modo da consegnarlo alle future
generazioni migliorato e non peggiorato, e si compone di quattro aspetti: ambientale, economico, sociale e politico-istituzionale, tutti essenziali
per garantire il mantenimento delle risorse del pianeta.
Ora, Ecuador e Bolivia hanno riconosciuto nei loro testi solenni, vigenti rispettivamente dal 2008 e 2009, la cosmovisione dei gruppi autoctoni dell’area andina, traducendola con i termini buen vivir e vivir
bien, con l’intento di dare forma a un modello originale di sviluppo (o
una alternativa allo sviluppo stesso, secondo alcuni). L’intento è di perseguire un equilibrio che includa la qualità della vita intesa come vivere in
armonia con la natura, e non come vivere meglio secondo la logica della
crescita lineare, non in grado di garantire né l’equità intragenerazionale
né quella intergenerazionale (Carducci, 2012: 319 ss.; Bagni, 2013; Baldin, 2014). Nella Ley de derechos de la Madre Tierra adottata in Bolivia
(infra, § 3), l’armonia è il primo dei principi elencati all’art. 2. Essa sta a
indicare che le attività umane devono perseguire un equilibrio dinamico
con riguardo ai cicli e ai processi inerenti alla natura.
L’armonia con la natura è un’aspirazione che trova riflesso nei documenti internazionali. La World Charter for Nature delle Nazioni Unite del
1982, atto privo di efficacia vincolante, introduce una serie di principi
generali, primo fra tutti il rispetto della natura e della non alterazione
dei suoi processi vitali. Il preambolo pare oscillare fra la dimensione biocentrica e quella antropocentrica. Il primo profilo si ravvisa nell’affermazione che ogni forma di vita è unica e meritevole di essere rispettata,
qualunque sia la sua utilità, e che bisogna garantire il valore intrinseco
degli organismi viventi; il secondo profilo nell’invito a non subordinare
passivamente gli interessi umani a quelli della natura. Dieci anni dopo,
l’indirizzo antropocentrico è l’unico ravvisabile nella Dichiarazione di
Rio sull’ambiente e lo sviluppo (Pisanò, 2012: 128 ss.). Il primo principio
afferma che «Gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni relative allo sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto a una vita sana e produttiva in armonia con la natura».
Dal 2009 l’esigenza di un cambiamento di rotta si palesa nel progetto
delle Nazioni Unite che si concreta, sotto la guida boliviana, in negoziati intergovernamentali annuali e in successive risoluzioni dell’Assemblea generale sui principi che vanno sotto la denominazione di Harmony
with Nature (http://www.harmonywithnatureun.org). L’obiettivo è di
promuovere un approccio olistico allo sviluppo sostenibile, rispettoso
dell’ambiente. Nel quarto rapporto del Segretario generale su Harmony with Nature del 2013 si legge che il sistema economico, affinché sia
sostenibile, deve riconoscere i limiti e i «diritti» della natura (p.to 72 del
Rapporto nr. A/68/325 del 2013). L’ultimo dialogo interattivo, dell’aprile
2014, ha avuto per oggetto l’esame delle caratteristiche di un nuovo paradigma, ecocentrico, e delle strategie che le società dovrebbero mettere
in atto per adeguarsi a tale visione, secondo cui la natura non è più concepita come mera fonte di beni materiali e viene posta allo stesso livello
degli esseri umani. Segnatamente, il concetto di armonia con la natura
«incorpora idee di approcci non antropocentrici allo sviluppo, ossia approcci che considerano il valore intrinseco di ogni parte dell’ambiente e
la necessità di realizzare un giusto bilanciamento fra i bisogni economi-
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I diritti della natura
Serena Baldin
ci, sociali e ambientali delle generazioni presenti e future». Ne consegue
l’urgenza di prefigurare un modello economico diverso da quello egemone, che punti alla sostenibilità includendo un dato oramai ineludibile:
non possiamo continuare a crescere indefinitamente in un pianeta dalle
risorse finite (United Nations General Assembly, 2014).
se Christopher D. Stone intitolato Should Trees Have Standing?, uscito
nel 1973, ove l’autore concepisce la natura come una pluralità di soggetti
giuridici titolari di diritti, ricordando come nel corso dei secoli i diritti
si siano estesi a classi sempre più ampie di persone fisiche e giuridiche.
Secondo lo schema per cui non si possono sostenere effettivamente delle
pretese se queste non sono giustiziabili, conferire titolarità giuridica alla
natura implica che essa possa adire le vie legali per il tramite di un tutore;
che, essendo portatrice di interessi propri, si possa vedere riconosciuto
un danno; e che possa beneficiare direttamente del risarcimento, qui prospettando la creazione di appositi fondi di tutela. Compito dei guardians,
nominati dal giudice, dovrebbe essere anche quello di vigilare sugli enti
non umani in pericolo. I tutori dovrebbero avere poteri ispettivi, di monitoraggio ambientale, di rappresentanza degli enti vigilati a livello legislativo e amministrativo (Stone, 2010).
L’idea dello standing aperto agli enti non umani fece breccia, all’epoca, in una dissenting opinion nella causa Sierra Club v. Morton risolta
dalla Corte suprema nel 1973. Il caso riguardava un contenzioso civile nel
cui ambito gli interessi del fiume danneggiato dagli interventi edilizi non
vennero mai sollevati. Il giudice Douglas, ben disposto verso la teoria di
Stone, scrisse che la questione critica dello standing nelle cause ambientali «would be simplified and also put neatly in focus if we fashioned a
federal rule that allowed environmental issues to be litigated before federal agencies or federal courts in the name of the inanimate object about
to be despoiled, defaced, or invaded by roads and bulldozers» (Baude,
1973: 197 ss.; Stone, 2010: 38).
Nell’area latinoamericana le proposte di riconoscimento dei diritti alla
natura sono state fatte proprie da insigni giuristi, oltre che dagli ecologisti. L’ispiratore della normativa ambientale cilena, Godofredo Stutzin,
alla fine degli anni ‘70 pubblica il saggio La Naturaleza de los Derechos
y los Derechos de la Naturaleza ove sostiene l’esigenza di riconoscere la
natura quale parte integrante dei conflitti ambientali, consentendole di
assumere direttamente la difesa dell’ecosistema. Da interesse giuridicamente protetto, la natura deve divenire soggetto dell’interesse giuridicamente protetto, avente le caratteristiche di una persona giuridica, nello
specifico di una «fondazione per la vita». Come le altre fondazioni, la
Terra possiede un patrimonio ordinato a uno scopo. Esso comprende
160
2. La circolazione dei formanti relativi ai diritti della natura
Con riguardo ai fondamenti filosofici dei diritti della natura, le fonti
di ispirazione sono varie. Un illustre difensore di questa tesi è l’ecologoteologo Thomas Berry, considerato il padre della Earth Jurisprudence, il
quale si ispirò al modo di vivere dei popoli indigeni per elaborare le sue
riflessioni, secondo cui le leggi umane devono rispettare la natura per
garantire l’integrità e il benessere di tutti gli esseri viventi e per le generazioni future. La Earth Jurisprudence è la teoria giuridica che propugna
il riconoscimento dei diritti della natura sull’assunto che la Terra sia la
fonte primaria del diritto. I suoi fautori ricercano soluzioni che affermino, in termini etici e pragmatici, la capacità e la responsabilità degli esseri
umani di arrestare le pratiche che mettono in pericolo la sopravvivenza
di qualsiasi specie vivente. Di recente, l’avvocato sudafricano Cormac
Cullinan ha posto l’accento sui fondamenti valoriali che condizionano i
sistemi giuridici, con particolare attenzione alla proprietà. Egli sostiene
che la specie umana deve riconoscere le limitazioni ai propri diritti quale
conseguenza del rispetto della comunità Terra (Cullinan, 2012).
Un’ulteriore corrente filosofica, denominata Law for Nature, ambisce
ad articolare in modo nuovo il rapporto fra diritto ambientale e governance. Essa ruota attorno al concetto di normatività ecologica che, mediante
un processo continuo di trasformazione, riorienta il diritto e fonda la relazione fra soggetto e oggetto in termini di patrimonium, ossia di eredità
comune, ponendo enfasi sul fatto che i beneficiari di un common good
debbano avere degli obblighi di preservazione nei riguardi dei posteri.
L’ottica intergenerazionale dovrebbe limitare le possibilità di sfruttamento implicite nelle costruzioni giuridiche della proprietà privata e ridurre
la distanza fra gli esseri umani e gli ecosistemi (De Lucia, 2013: 167 ss.).
Una pietra miliare della Earth Jurisprudence è il libro dello statuniten-
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I diritti della natura
Serena Baldin
tutti gli elementi animati e inanimati del mondo naturale. Nel salvaguardare tali beni dalle aggressioni umane, la natura esercita al contempo il
diritto alla vita e all’integrità e il diritto di proprietà, essendo l’elemento
lesionato sia parte rappresentativa della Terra, sia parte integrante del
suo patrimonio. L’impianto teorico di Stutzin, analogamente a quello di
Stone, si estende al tema della rappresentanza degli interessi della natura,
da affidare sia a persone giuridiche che fisiche. Inoltre, sostiene la necessità di istituire organismi pubblici indipendenti per tutelare l’ambiente
seguendo l’esempio dell’ombudsman, e di prevedere un fondo economico destinato agli interventi di ripristino (Stutzin, 1984: 97 ss.).
Attualmente in America Latina (e non solo) si assiste a un crescente
sostegno agli indirizzi cosmocentrici. L’appello a Pachamama è sotteso
alle lotte ecologiche contro deforestazioni, costruzioni di dighe, politiche neoestrattiviste, che mobilitano montagne, fiumi, terra, come entità
senzienti, attori che scendono nell’arena politica (Escobar, 2010: 40). Un
richiamo indubbiamente favorito dalla presenza di numerosi popoli indigeni, i quali non hanno introiettato la cesura fra società e “intorno” tipica
dei paesi industrializzati, e che sono le principali vittime dello sfruttamento dissennato delle risorse naturali.
Da un’altra prospettiva, l’area latinoamericana lascia intravedere un
disegno transnazionale, aperto alle istituzioni e alla società civile, che
mira a una nuova comprensione ambientale fondata su un’ética ambiental exigente, una morale tesa alla protezione della vita sul pianeta (v. Lanni, in questo volume), nel cui schema si possono fare rientrare le iniziative
andine sul riconoscimento dei diritti di Madre Terra, disciplinati in via
costituzionale in Ecuador dal 2008 e in via legislativa in Bolivia dal 2010.
I contributi teorici di Stone e di Stutzin appaiono fondamentali nell’elaborazione seguita dai due paesi andini. Palese è anche l’influenza del
pensiero ecofemminista (su cui Pellizzoni, in questo volume), nonché
quella di altri strenui difensori dei diritti della natura, come il costituzionalista colombiano Ciro Angarita Barón, ricordato da Alberto Acosta, ex presidente dell’Assemblea costituente ecuadoriana, e da Alberto
Gudynas, ecologista che partecipò al processo di stesura della nuova legge fondamentale (Gudynas, 2009a: 40; Sánchez Jaramillo, 2013). E non
v’è dubbio della consulenza fruttuosa del Community Environmental Legal Defense Fund (Celdf), organizzazione statunitense che fornisce pareri
a Stati ed enti locali in materia ambientale (Margil, 2008).
Prima del riconoscimento costituzionale di diritti alla natura in Ecuador (infra, § 3), le pretese giuridiche dell’ecosistema erano già contemplate nelle ordinanze di svariati comuni statunitensi (Burdon, 2011: 9).
La loro ratio è quella di controbilanciare il potere delle corporations consentendo a chiunque di adire le vie legali a tutela dell’ambiente. Se poi
si confronta l’art. 71 della costituzione ecuadoriana con le idee del Celdf
per la revisione delle carte fondamentali di alcuni ordinamenti statunitensi, è evidente la loro forte analogia. L’Ecuador afferma che la natura
«ha diritto al rispetto integrale della sua esistenza e al mantenimento e
alla rigenerazione dei suoi cicli vitali, della sua struttura, delle sue funzioni e dei suoi processi evolutivi. Tutte le persone, comunità, popoli o
nazionalità potranno richiedere alle autorità pubbliche la piena applicazione dei diritti della natura». In una bozza di proposta emendativa alla
costituzione del Vermont viene sancito, all’art. 24 intitolato Diritti della
natura, che «The natural environment within the State, including all of
the components and systems thereof, has the inherent and inalienable
right to exist, persist, evolve, maintain its systems, and regenerate its own
vital cycles, structures, functions, and processes. The State, local governments, and each resident of the State shall have standing to enforce these
rights on behalf of the natural environment» (analoghe proposte si riferiscono alle costituzioni degli Stati di Hawaii, Maine, New Hampshire,
New Mexico, Ohio, Oregon, Pennsylvania, Washington. Cfr. http://
celdf.org/section.php?id=426).
Ulteriori iniziative intraprese dai paesi andini ambiscono ad avere un
respiro internazionale. Nell’aprile del 2010 è stata proclamata la Dichiarazione universale dei diritti di Madre Terra nell’ambito della Conferencia Mundial de los Pueblos sobre el Cambio Climático y los Derechos de la
Madre Tierra svoltasi a Cochabamba in Bolivia. Il primo articolo proclama Madre Terra un essere vivente, una comunità di creature correlate,
tutte aventi titolo ai diritti innati riconosciuti nel testo, senza distinzioni
fra esseri, specie, origine, o altro status. Il documento, alla cui stesura ha
contribuito Cullinan, è ora al vaglio dell’Onu ai fini della sua adozione
(Cullinan, 2011: 12 ss.).
Nel dicembre del 2010 lo Stato boliviano ha approvato la Ley de derechos de la Madre Tierra, che riprende l’elenco dei diritti inserito nella
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I diritti della natura
Serena Baldin
Dichiarazione di Cochabamba. Anche la rinnovata Ley ambiental de protección a la Tierra en el Distrito Federal del Messico del 2013 ricalca lo
schema andino. Si discosta però dalla legge boliviana nella parte in cui,
laddove quest’ultima enumera le pretese della natura in termini di diritti,
lo Stato messicano le concepisce in termini di responsabilità degli abitanti del Distretto federale (art. 86 bis 5; Garza Grimaldo, 2013). Nel 2013
l’Ecuador ha sottoposto al Parlamento latinoamericano, organizzazione
che riunisce tutti i paesi dell’area, il progetto di legge quadro dei diritti
della natura che riproduce la Dichiarazione universale dei diritti di Madre Terra. Uno dei compiti più importanti del c.d. Parlatino è agevolare
il processo di armonizzazione legislativa. Ora che il progetto è stato approvato, verrà preso in considerazione dai legislatori degli Stati membri.
Il riconoscimento dei diritti della natura non si arresta all’area latinoamericana. Nel 2012 la Nuova Zelanda ha conferito personalità giuridica
al fiume Whanganui sulla base del Whanganui River Agreement fra il governo e la popolazione maori. La teoria di Stone, proposta qualche anno
prima da giuristi dell’Università di Otago per dare voce alle aspirazioni
indigene di cogestire il territorio fluviale considerato un’entità viva, ha
trovato accoglimento (Morris, Ruru, 2010: 49 ss.). L’accordo prevede la
nomina di due tutori (uno scelto dalla Corona, l’altro dal popolo autoctono) per rappresentare e agire in nome di questa entità, denominata Te
Awa Tupua, ossia «un tutto integrato e vivente dalle montagne al mare,
compresi i suoi affluenti e tutti gli elementi fisici e metafisici». I tutori
hanno il compito di proteggere la salute e il benessere del fiume; difenderne lo status e i valori; agire e parlare in suo nome; svolgere le funzioni
di proprietario terriero su aree prefissate, partecipare agli iter normativi e
gestire fondi in nome di Te Awa Tupua (Hsiao, 2012: 371 ss.; Barraclough, 2013: 1 ss.).
Seguendo l’esempio ecuadoriano, pure in Turchia e in Nepal (in
quest’ultimo ordinamento con l’ausilio del Celdf), sono state avanzate
proposte di riconoscimento dei diritti della natura a margine dei rispettivi processi di revisione costituzionale poi interrotti. La bozza turca della
Initiative for an Ecological Constitution prevedeva una ridefinizione della
qualifica dello Stato, da intendersi come «Stato costituzionale democratico, secolare, ecologico, sociale, basato sui diritti umani, che sono parte
della Natura». Merita qui segnalare che lo Stato ecologico, secondo una
versione chiaramente antropocentrica, è sancito all’art. 1, c. 2, della costituzione montenegrina del 2007. L’enfasi “verde” discende dalla «convinzione che lo Stato sia responsabile della preservazione della natura,
dell’ambiente sano, dello sviluppo sostenibile» (preambolo). L’unico disposto dedicato all’ambiente, l’art. 23, riprende i temi della Convenzione
di Aarhus sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico
ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale del
1998, vigente dal 2001.
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3. Lo statuto giuridico di Madre Terra in Ecuador e Bolivia
Alla luce della disciplina introdotta in Ecuador e Bolivia, ci si chiede
quale sia la differenza sostanziale fra il riconoscere solo il diritto all’ambiente e l’affermare anche i diritti della natura. I pensatori riconducibili
alla corrente della Earth Jurisprudence contestano l’approccio classico al
diritto ambientale – per cui la natura è protetta solo quando la sua distruzione minaccia la sopravvivenza umana, altrimenti il suo sfruttamento è
consentito – difendendo l’idea di un cambio di paradigma, ecocentrico,
che affermi l’inviolabilità di Madre Terra; ogni allontanamento da tale
principio è da ritenersi un’eccezione (De Lucia, 2013: 175).
Nelle costituzioni dei due paesi andini l’ambiente si configura come
un diritto prestazionale legato alle condizioni di vita del singolo individuo. In aggiunta, tali ordinamenti introducono delle disposizioni che
esplicitano le pretese della natura, affermando la cittadinanza ecologica
(Gudynas, 2009b: 58 ss.). Comunità politica e cittadinanza si estendono
al mondo non umano (animali, piante, fiumi), in quanto provvisto di volontà e sensazioni proprie. Questo assume un’importanza significativa,
tanto da elevarsi a soggetto giuridico per configurare un nuovo tipo di
«metabolismo sociale». L’espressione designa il rapporto fra natura e società in termini di processo co-evolutivo, in cui entrambe interagiscono
nel tempo e non è possibile comprendere l’una senza l’altra, essendo integrate (Jaria i Manzano, 2013: 46; Toledo, González de Molina Navarro,
2007: 85 ss.). Si prende così atto che gli ecosistemi e le comunità naturali
non sono beni mercificabili, oggetti di cui si può disporre in qualsivoglia
modo, bensì entità con un autonomo diritto di esistere e di prosperare
I diritti della natura
Serena Baldin
(Lanni, 2013: 175 ss.). La natura è qui intesa come il tertium necessario,
accanto al binomio libertà-autorità, della dialettica costituzionale per garantire la sopravvivenza umana (Carducci, 2014).
La costituzione ecuadoriana, all’art. 10, c. 2, afferma che la naturaleza
è soggetto dei diritti che le riconosce la costituzione. Lo statuto giuridico è disciplinato al Capitolo VII: Diritti della natura (artt. 71-74 cost.).
L’idea biocentrica si invera nell’art. 71 cost. che enuncia le pretese della
natura, ossia il «diritto al rispetto integrale della sua esistenza e al mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli vitali, della sua struttura, delle
sue funzioni e dei suoi processi evolutivi».
I successivi due disposti introducono il diritto al ripristino (art. 72
cost.), i principi di precauzione e di restrizione e il divieto di introdurre
organismi e materiali organici e inorganici che possano alterare irreversibilmente il patrimonio genetico nazionale (art. 73 cost.). Il ripristino
comporta il reintegro dei sistemi di vita degradati, danneggiati o contaminati dallo sviluppo umano e dalle attività industriali mediante l’adozione
di una serie di misure per ricreare condizioni ambientali (vegetazione,
flora, fauna, clima, acqua, suolo e microrganismi) analoghe a quelle originarie. Il principio di precauzione sottende un criterio prudenziale che
deriva dall’esigenza di prevenzione ecologica, rappresentando in anticipo
e quindi scongiurando gli eventi potenzialmente dannosi. Esso punta a
preservare la stabilità dell’ecosistema e a consentire la continuità delle
sue capacità prestazionali (Grassi, 2012: 89, 125). Non si tratta di aspetti
vincolati ai diritti della natura, essendo rinvenibili nella normativa ambientale di molti ordinamenti.
Infine, l’art. 74 cost. sancisce che «Le persone, le comunità, i popoli e
le nazionalità hanno il diritto di beneficiare dell’ambiente e delle ricchezze naturali che consentano il buen vivir. I servizi ambientali non saranno suscettibili di appropriazione; la loro produzione, prestazione, uso e
sfruttamento saranno regolati dallo Stato». Un disposto di chiaro tenore
antropocentrico, ove il richiamo al buen vivir e alla regolamentazione
statale rappresentano i limiti alla disponibilità sconsiderata delle risorse,
e che si riallaccia all’art. 14 cost. dedicato al diritto all’ambiente sano.
Nello specifico, ivi è riconosciuto il diritto della popolazione a vivere in
un ambiente sano ed ecologicamente equilibrato, che garantisca la sostenibilità e il buen vivir, e viene dichiarata di interesse pubblico la preser-
vazione dell’ambiente, la conservazione degli ecosistemi, la biodiversità
e l’integrità del patrimonio genetico del paese, la prevenzione dei danni
ambientali e il recupero degli spazi naturali degradati.
In Bolivia, lo statuto giuridico di Madre Terra è ampiamente normato
nella legge nr. 71 del 2010. Il fondamento della Ley de derechos de la Madre Tierra si rinviene nella costituzione vigente dal 2009. All’art. 33 cost.
si afferma che «Tutti hanno diritto a vivere in un ambiente salubre, protetto ed equilibrato. L’esercizio di questo diritto deve consentire ai singoli
e alle collettività della presente generazione e di quelle future, e anche
agli altri esseri viventi, di svilupparsi in modo regolare e permanente». La
struttura del precetto, che segue lo schema tipico del diritto ambientale,
fa trapelare il cambio di prospettiva che apre la strada al riconoscimento
dei diritti della natura. La nuova impostazione si coglie nel riferimento
agli altri esseri viventi, a cui si riconoscono diritti (Zaffaroni, 2012: 109
ss.). La tipologia delle pretese rivendicabili da Madre Terra non è però
desumibile dal testo fondamentale. A differenza dell’Ecuador, dove alla
natura è attribuita una sfera di posizioni soggettive in via costituzionale,
nell’ordinamento boliviano esse sono riconosciute solo attraverso disposti di rango ordinario. Soluzione che potrebbe inverarsi in una ben distinta graduazione dei diritti a livello attuativo, suscettibile di variazioni
legate alla discrezionalità del legislatore.
L’art. 2 della Ley de derechos de la Madre Tierra afferma il principio
del bene collettivo. Esso implica che l’interesse della società, nell’ambito
dei diritti della Terra, prevalga su tutte le attività umane e sopra qualsiasi
diritto acquisito, e che il principio della non mercantilizzazione si applichi ai sistemi di vita e ai processi che li sostengono, che non sono parte
del patrimonio privato di nessuno. All’art. 3 si proclama Madre Terra
sistema vivente e dinamico, formato dalla comunità indivisibile di tutti i
sistemi di vita e degli esseri viventi, interrelati, interdipendenti e complementari, che condividono un destino comune. In questo passaggio si nota
chiaramente l’adesione all’ideale cosmocentrico, con l’equiordinazione
fra umani e mondo non umano.
All’art. 5 della Ley si avverte poi l’eco della teoria di Stutzin sulla natura concepita come una fondazione: «Agli effetti della protezione e della tutela dei suoi diritti, la Madre Terra assume il carattere di soggetto
collettivo di interesse pubblico … I diritti stabiliti nella presente legge
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I diritti della natura
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non limitano l’esistenza di altri diritti della Madre Terra». Sulla base di
questa clausola aperta, le pretese della natura sono elencate all’art. 7: alla
vita (ossia il mantenimento dell’integrità dei sistemi di vita e dei processi
naturali che li sostengono, così come le capacità e le condizioni per la
loro rigenerazione); alla diversità della vita (per la preservazione delle
diversità e varietà degli esseri viventi, senza alterazioni genetiche); all’acqua (per preservare la funzionalità dei cicli dell’acqua e a protezione da
contaminazioni); all’aria pura (per preservare la qualità e composizione
dell’aria da contaminazioni); all’equilibrio (per il mantenimento o il ripristino della interrelazione, interdipendenza, complementarietà e funzionalità dei componenti della Madre Terra, per perpetuare i loro cicli
e per riprodurre i processi vitali); al ripristino (per reintegrare in modo
adeguato ed effettivo i sistemi di vita danneggiati dalle attività umane);
alla vita libera da contaminazioni (per preservare Madre Terra).
Il diritto al ripristino viene considerato come la novità più significativa dei paesi andini, l’emblema della loro «virata biocentrica» (Gudynas,
2009a: 35). A parere di chi scrive, tale pratica non richiede l’enucleazione
di un diritto laddove gli amministratori siano consapevoli delle responsabilità in tema di conservazione ambientale e provvedano al riguardo,
e diviene comunque obbligatoria in ipotesi di danno riconosciuto giudizialmente che imponga la bonifica. Ci si chiede inoltre fino a che punto
la sfera giuridica della natura sia più ampia rispetto a quella dei singoli
che devono poter godere di un ambiente salubre, tanto da giustificare un
riconoscimento specifico. Le pretese di Madre Terra (es. aria pura, vita
libera da contaminazioni) appaiono ridondanti con il diritto dei singoli a
vivere in un ambiente salubre, a eccezione (si potrebbe sostenere) delle
aree in cui non vi siano insediamenti umani.
Anche il diritto della natura alla biodiversità può essere letto come
un valore da proteggere in chiave antropocentrica. La Convenzione sulla
diversità biologica sottoscritta a Rio de Janeiro nel 1992 riconosce il suo
valore insostituibile quale agente necessario all’evoluzione della vita sulla
Terra e dal quale dipende la vita dell’umanità stessa. Nelle costituzioni
andine, la biodiversità è anche menzionata nei termini di un interesse
pubblico a garantirla (art. 14 cost. Ecuador) e di un dovere dello Stato e
della popolazione a conservarla (art. 342 cost. Bolivia). Da ciò si evince
una oscillazione fra linguaggio dei diritti della natura e appello alle re-
sponsabilità delle istituzioni e della società sia nell’ordinamento ecuadoriano che in quello boliviano.
Nemmeno il diritto alla vita, ossia il mantenimento e la rigenerazione
dei cicli vitali del mondo non umano, rientra nella sola sfera di disponibilità della Madre Terra, nel senso che ciò che ricade in tale ipotesi può
comunque trovare altre formule per garantirne la tutela. Nel testo costituzionale ecuadoriano, si è già sottolineato che l’art. 14 dedicato all’ambiente sano sancisce di interesse pubblico la preservazione dell’ambiente
e la conservazione degli ecosistemi. Pure nella Ley de derechos de la Madre Tierra boliviana si ravvisa la doppia impostazione, cosmocentrica e
antropocentrica. All’art. 2, p.to 3, la garanzia della rigenerazione viene
contemplata fra i principi generali, espressa in questi termini: «Lo Stato
nei suoi differenti livelli e la società, in armonia con l’interesse comune,
devono garantire le condizioni necessarie affinché i diversi sistemi di vita
della Madre Terra possano assorbire i danni, adattarsi alle perturbazioni, e rigenerarsi senza alterare significativamente le loro caratteristiche di
struttura e funzionalità, riconoscendo che i sistemi di vita hanno limiti
nelle loro capacità di rigenerarsi, e che l’umanità ha limiti nella sua capacità di invertire le proprie azioni». Il principio dello sviluppo sostenibile
(artt. 275 e ss. cost. Ecuador; artt. 33 e 311, c. II, p.to 3, cost. Bolivia)
e quello precauzionale (art. 73 cost. Ecuador; Ley Forestal nr. 1700 del
1996 della Bolivia) rappresentano rispettivamente il limite e il criterio
applicabile per contrastare lo sfruttamento degli ecosistemi.
Le dimensioni olistica e individualista convivono in ambedue i sistemi
normativi, lasciando supporre che il loro ambito di intervento sia identico, solo affrontato da punti di vista speculari: uno usa il linguaggio dei
diritti, l’altro quello dei doveri e degli interessi. Quello che dovrebbe
differenziare i paesi andini è il loro orizzonte teleologico: il cosmocentrismo vuole proteggere effettivamente gli interessi della natura. Parificarli
a quelli della specie umana significa direzionare altrimenti l’ipotetico ago
della bilancia. In Ecuador le pretese della natura di cui all’art. 71 cost. devono intendersi collocate sullo stesso piano di quelle degli esseri umani,
in virtù dell’art. 11, c. 6, cost. che statuisce la equiordinazione fra i diritti.
L’art. 395, c. 4, cost. specifica poi che in caso di dubbi sulla portata delle
disposizioni in materia ambientale, queste si applicano nel senso più favorevole alla protezione della natura. Nella Ley boliviana, lo spostamento
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del baricentro viene invece esplicitato in questi termini: «Tutte le boliviane e i boliviani, facendo parte della comunità di esseri che compongono
Madre Terra, esercitano i diritti stabiliti nella presente legge in forma
compatibile con i loro diritti individuali e collettivi. L’esercizio dei diritti
individuali è limitato dall’esercizio dei diritti collettivi nei sistemi di vita
di Madre Terra; qualsiasi conflitto tra diritti deve risolversi in modo da
non intaccare irreversibilmente la funzionalità dei sistemi di vita» (art. 6;
v. anche Vargas Lima, 2012: 258). La norma di rango ordinario potrebbe
ancorarsi al principio dello sviluppo sostenibile di cui all’art. 311, c. II,
p.to 3, cost., che contempla all’armonia con la natura, alle finalità dello
Stato di cui all’art. 8 cost., le quali implicano la soddisfazione condivisa
delle necessità umane includendo l’armonia con la natura e con la collettività, e agli altri disposti sottoindicati per cercare di validare questa
interpretazione.
L’equilibrio fra gli interessi socio-economici e quelli che rilevano sul
piano ambientale si rintraccia in svariate norme costituzionali. Il buen
vivir non è concepito al servizio del benessere materiale e dell’aumento
della ricchezza, bensì al servizio delle opportunità offerte agli individui e
alle comunità di mantenere e coltivare le rispettive peculiarità e tradizioni, anche di tipo produttivo (Prada Alcoreza, 2013: 145 ss.; Ruttenberg,
2013: 68 ss.). Tutto ciò implica un cambio radicale nel modo di concepire
le relazioni fra Stato, mercato, società e natura. I segni del nuovo bilanciamento si rinvengono nei precetti relativi agli obiettivi e ai limiti alle
attività economiche per tutelare l’ambiente, rappresentando la cartina di
tornasole del cambio di paradigma.
In Ecuador, fra gli obiettivi fissati per lo sviluppo è contemplato il recupero e la conservazione della natura, e il mantenimento di un ambiente
sano e sostenibile (art. 276, p.to 4, cost.). L’impegno si sostanzia ulteriormente, ex art. 397, p.to 4, cost., nell’intangibilità delle aree naturali protette, per garantire la conservazione della biodiversità e il mantenimento
delle funzioni ecologiche degli ecosistemi. L’ambiente è poi concepito
alla stregua di elemento restrittivo del diritto a sviluppare attività economiche (che devono essere conformi alla responsabilità ambientale e sociale e al principio di solidarietà, ex art. 66, p.to 15, cost.) e del diritto alla
proprietà privata, che assomma funzioni di ordine sociale e ambientale,
del pari all’uso e all’accesso alla terra (artt. 66, p.to 26, e 282 cost.). La
politica economica ecuadoriana, ai sensi dell’art. 283 cost., è finalizzata a
«una relazione dinamica ed equilibrata fra società, Stato e mercato, in armonia con la natura; e ha per obiettivo garantire la produzione e la riproduzione delle condizioni materiali e immateriali che rendano possibile il
buen vivir». L’equilibrio con la natura viene poi riproposto all’art. 284,
p.to 4, cost., fra gli obiettivi della politica economica, per promuovere il
«valore aggiunto con la massima efficienza, dentro i limiti biofisici della
natura e del rispetto della vita e delle culture». L’art. 319 cost. individua
varie forme di organizzazione della produzione in ambito economico, affidando allo Stato il compito di promuovere le modalità che assicurino il
buen vivir e di disincentivare quelle che attentino ai diritti degli individui
e della natura.
In Bolivia, tra i fini e i compiti essenziali dello Stato figurano la promozione e la garanzia dell’uso responsabile e pianificato delle risorse naturali e la conservazione dell’ambiente, per il benessere delle generazioni
attuali e future (art. 9, c. 6, cost.). La funzione ambientale (e sociale e culturale) è riconosciuta alle risorse idriche, che non possono essere oggetto
di appropriazione privata né di concessione (art. 373, c. 2, cost.), e alle
aree protette che costituiscono un bene comune (art. 385 cost.). Anche
qui, al pari dell’Ecuador, si riconoscono diverse forme di organizzazione
economica, sulle quali ricade l’obbligo di rispettare e tutelare l’ambiente
(artt. 306 e 312 cost.). Lo Stato detiene la direzione e il controllo dei
settori strategici dell’economia. Tra le sue funzioni è contemplata la promozione prioritaria della industrializzazione delle risorse naturali rinnovabili e non rinnovabili, nel rispetto e nella protezione dell’ambiente (art.
316, c. 6, cost.). Un impegno ripetuto anche all’art. 319, c. 1, cost.
Queste disposizioni programmatiche fungono da cornice entro la
quale fare convivere gli interessi della società e gli interessi della natura
in un rinnovato patto solidaristico che, rispetto al passato, tiene in grande
considerazione la salvaguardia ambientale. L’esigenza di rispettare l’ecosistema, precondizione della sopravvivenza umana, si collega strettamente anche al tema delle responsabilità (infra, § 5).
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4. Le azioni popolari a salvaguardia dell’ambiente
Negli ultimi anni l’importanza della giustizia ambientale è stata avvertita al punto che, ora, si notano maggiori aperture nella legittimazione attiva al fine di agevolare interventi preventivi e repressivi in questo settore.
Le restrizioni che tuttavia vigono ancora in numerosi ordinamenti si
giustificano con il timore che, in caso contrario, i giudici sarebbero innondati di ricorsi; o che soggetti non qualificati possano sottoporre casi
infondati o strumentali per danneggiare la controparte; o sostenendo che
si tratti di questioni di competenza del legislatore o dell’esecutivo; o che
questo tipo di cause possa inibire lo sviluppo o comunque imputare costi
aggiuntivi al settore economico (Pring, Pring, 2009: 33). In siffatte ipotesi, l’iniziativa generalmente spetta al pubblico ministero e al ministro
dell’ambiente (in Italia, fino al 2006 era concesso alle associazioni ambientaliste di proporre, in caso di inerzia degli enti territoriali, le azioni risarcitorie per danno ambientale. A seguito di ricorsi puramente vessatori,
il legislatore ha poi deciso di riconoscere loro solo un potere di denuncia,
senza la possibilità di intervenire nel giudizio di risarcimento del danno.
L’azione ora può essere promossa soltanto dal ministero dell’ambiente, ai
sensi del decr. legisl. nr. 152 del 2006. Cfr. Maddalena, 2011: 10 s. Sulla
proposta di introdurre l’azione popolare in Italia per tutelare l’ambiente,
v. Settis, 2010: 304 ss.).
Un’apertura allo standing si ravvisa negli ordinamenti che conferiscono tale facoltà alle associazioni ambientaliste ed eventualmente a singoli o
gruppi di individui, a condizione che dimostrino di avere un interesse al
ricorso (così in Regno Unito, Austria, Francia, Sudafrica, Filippine). Tale
richiesta può rappresentare un serio ostacolo alla garanzia effettiva di accesso alla giustizia, del pari ad altri requisiti di difficile soddisfacimento,
trattandosi della difesa di un diritto collettivo che incide, nella maggior
parte dei casi, su gruppi indeterminati di persone. Una via ulteriore è
contemplata in quegli ordinamenti (Austria, Grecia, Ungheria, Kenya,
Costa Rica) che hanno istituito l’ombudsman ambientale o commissioni specializzate all’interno della struttura organizzativa dell’ombudsman
(Pring, Pring, 2009: 38 s.; Bonine, 2003: 32 s.).
La legittimazione attiva più ampia si registra laddove è contemplata l’azione popolare, strumento solitamente impiegato a garanzia della
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tutela di interessi diffusi o superindividuali di rilevanza costituzionale,
come l’ambiente. Tale rimedio consente di promuovere un giudizio prescindendo dall’obbligo per il ricorrente di dimostrare un interesse personale e diretto nella causa. Mediante l’intervento del singolo, chiamato a
esercitare alcune funzioni a difesa della legalità costituzionale, si valorizza
il principio della democrazia partecipativa (Rolla, 2012: 104 s.). Non si
tratta di un istituto molto diffuso. Senza pretesa di esaustività, l’actio popularis per le questioni ambientali è accolta in Spagna, Portogallo, Paesi
Bassi, Estonia. Nell’area sudamericana si ritrova in Brasile (ove è esplicitato, ex art. 5, p.to 72, cost., l’esonero per l’attore dalle spese giudiziarie
e dagli oneri di soccombenza, salvo che non sia comprovata la mala fede),
Perù, Colombia e Costa Rica (Rego Blanco, 2007; Siqueira, 2010; Ovalle
Favela, 2003: 597 ss.; Ponce Nava, 2012). Pure in Sudan e in Kenya è
prevista questa forma di accesso alla giustizia ambientale. Nella nuova
costituzione kenyota del 2010, in particolare, si specifica all’ultimo capoverso dell’art. 70 che il ricorrente non deve dimostrare che qualcuno
abbia subito perdite o danni (Mwenda, Kibutu, 2012: 85).
Ora questo strumento si rinviene anche in Ecuador e Bolivia. Prima
di definire meglio i contorni dell’actio popularis in tali ordinamenti giova
ricordare che il fulcro della teoria di Stone verte sul riconoscimento della
soggettività della natura, da cui discendono due ulteriori profili: la rappresentanza in giudizio conferita a chiunque e l’eventuale risarcimento
dei danni a esclusivo vantaggio di Madre Terra.
In Ecuador, ai sensi dell’art. 71 cost., tutte le persone, comunità, popoli o nazionalità possono richiedere alle autorità pubbliche la piena
applicazione dei diritti della natura. La garanzia processuale si concreta
in una azione popolare denominata acción de protección sollevabile, anche da chi non sia direttamente danneggiato, davanti al giudice di prima istanza del luogo dove è avvenuta la lesione del diritto costituzionale
(Montaña Pinto, 2012: 122). Nello specifico, l’istituto ha per oggetto la
tutela diretta ed efficace dei diritti costituzionali violati mediante atti od
omissioni di qualsiasi autorità pubblica non giurisdizionale; da politiche
pubbliche che si suppone privino del godimento o dell’esercizio del diritto costituzionale; e da soggetti specifici, a determinate condizioni (art.
88 cost.). L’acción de protección è attivabile, ai sensi dell’art. 40 della Ley
Orgánica de Garantías Jurisdiccionales y Control Constitucional (Logjcc)
I diritti della natura
Serena Baldin
del 2009, qualora non vi sia altro meccanismo di difesa giudiziale adeguato ed efficace per tutelare il diritto violato. Questo significa che il
diritto in questione non può trovare salvaguardia in una delle altre sei garanzie giurisdizionali previste dalla costituzione o nelle azioni specifiche
contemplate da fonti ordinarie (Andrade Quevedo, 2013: 114; Montaña
Pinto, 2012: 105). L’immediatezza di giudizio è assicurata da una procedura molto celere (Storini, Navas Alvear, 2013: 84 ss.), con l’obiettivo di
tutelare i diritti costituzionali e di dichiarare la conseguente riparazione
integrale dei danni causati dalla lesione (Andrade Quevedo, 2013: 115;
Montaña Pinto, 2012: 107, 126 ss.).
La Logjcc sembrerebbe restringere il contenuto del disposto di rango
superprimario sotto il profilo della legittimazione attiva, laddove si riferisce a soggetti o a gruppi lesionati o minacciati di lesione (art. 9), risultando in contrasto con la norma che impone la sola prova della violazione
di un diritto costituzionale e non di un interesse diretto o legittimo del
ricorrente (Prieto Méndez, 2013: 175 ss.; Storini, Navas Alvear, 2013:
120; Montaña Pinto, 2012: 120 s.). Risale al 2011 la prima sentenza a
beneficio della natura, nella fattispecie del fiume Vilcabamba, resa dalla
corte provinciale di Loja, sezione penale. Il profilo della legittimazione
attiva degli attori non viene neppure considerato, dato che essi esercitano il «principio di giurisdizione universale» a favore del natura. Il passaggio della sentenza conferma in questo modo la lettura estensiva del
precetto che delinea una azione popolare. Il collegio statuisce inoltre che
l’azione di protezione di cui all’art. 88 cost. è l’unico rimedio processuale
idoneo ed efficace per porre fine e rimediare prontamente a un danno
ambientale; che il principio precauzionale va interpretato in termini di
probabilità, e non di certezza del danno; che l’onere della prova relativo
alla dimostrazione dell’impatto ambientale spetta alla controparte in osservanza dell’art. 397, c. 1, cost. Ancora, la corte afferma che il criterio
per determinare i danni subiti dalla natura è la portata intergenerazionale, ossia quei danni che per la loro ampiezza si ripercuotono anche sulle
generazioni future; e che il bilanciamento di interessi contrastanti (come
il diritto della natura versus il diritto allo sviluppo) va risolto applicando
il principio di proporzionalità. In merito, la corte specifica che sovente
si tratta di conflitti apparenti, come nel caso di specie, in quanto i diritti
della natura sono concorrenti con i diritti umani fondamentali quali il
diritto alla salute, alla vita degna e a vivere in un ambiente sano.
La risposta dei giudici sembra mettere a tacere qualsiasi tentativo di
individuare criteri olistici, ossia differenti dai criteri applicati in precedenza nelle cause ambientali, che rappresentino sul versante giudiziale la
virata biocentrica dell’ordinamento.
Ciò che importa sottolineare attiene agli effetti della sentenza, che coronano la teoria di Stone. Dalle cause sollevate ex art. 71 cost., i promotori del ricorso, quantunque danneggiati, non possono trarre alcun beneficio. Questo procedimento è a esclusivo vantaggio della natura (Suárez,
2013).
In Bolivia, la rappresentanza in giudizio è espressamente sancita all’art.
34 cost.: «qualsiasi persona, a titolo individuale o in rappresentanza di
una collettività, può promuovere azioni legali a salvaguardia dell’ambiente». Il rimedio giudiziale previsto è la acción popular, esercitabile contro
gli atti o le omissioni delle autorità o dei singoli o delle collettività, che
violino o minaccino di violare i diritti e gli interessi collettivi, fra i quali è
compreso l’ambiente (art. 135 cost.). L’azione si può sollevare nel corso
del periodo in cui sussista la lesione o la minaccia ai diritti e agli interessi
collettivi. Non è necessario esperire altra via giudiziale o amministrativa
esistente (art. 136 cost.). Il carattere intertemporale della misura implica
che, una volta cessata la violazione o la minaccia, questa non sia più attivabile. E il principio di sussidiarietà è esplicitamente escluso in quanto
tutto il procedimento si basa sulla celerità per una salvaguardia tempestiva del diritto.
L’istituto boliviano ha una triplice finalità: preventiva, evitando che la
minaccia attenti ai diritti e agli interessi diffusi; sospensiva, mediante la
cessazione degli effetti prodotti dall’atto lesivo; riparatoria, con l’obbligo
del ripristino delle condizioni precedenti alla lesione (Vargas Lima, 2012:
266 ss.; sent. cost. nr. 1974/2011-R). Ai sensi dell’art. 71 del Código Procesal Constitucional del 2012, se il giudice o il tribunale concede la tutela,
ordina l’annullamento dell’atto o il compimento del dovere omesso; e
può stabilire l’esistenza di indizi di responsabilità civile o penale. Con
riguardo alla legittimazione attiva, nella Ley Marco de la Madre Tierra y
desarrollo integral para Vivir Bien, nr. 300 del 2012, si ravvisa una antinomia col dettato costituzionale, analoga a quella individuata in Ecuador.
L’art. 39, c. II, della legge statuisce che solamente chi dimostri di avere
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I diritti della natura
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un interesse diretto possa agire a difesa dell’ambiente (Pérez Castellón,
2013: 5).
Oltre a questa illegittimità, rivelatrice dell’atteggiamento preclusivo
del legislatore nei riguardi dell’azione popolare nel settore ambientale,
un altro dato smorza la portata dell’intero impianto normativo boliviano.
Madre Terra non è la beneficiaria diretta ed esclusiva della pronuncia.
Il precetto costituzionale lascia chiaramente intendere che il rimedio è
affidato ai singoli (soggetti giuridici) affinché tutelino l’ambiente (oggetto
giuridico). Gli effetti positivi ricadranno su tale bene solo in via indiretta.
Salta dunque l’intelaiatura che fa perno sulla soggettività di Madre Terra,
confermando l’adesione alla salvaguardia ambientale nella sua declinazione classica. L’ideale teorico è attuato integralmente solo in Ecuador.
L’eco delle proposte elaborate da Stone e da Stutzin si coglie infine
nella previsione di istituire la Defensoría del ambiente y la naturaleza in
Ecuador (art. 399 cost.) e la Defensoría de la Madre Tierra in Bolivia (art.
10 della Ley de derechos de la Madre Tierra), quali omologhi dell’ombudsman, e nella istituzione di un fondo pubblico a favore della natura
per amministrare e assegnare risorse finanziarie in modo efficiente, trasparente e opportuno, al fine di realizzare i programmi e le attività di mitigazione ambientale e adattamento ai cambiamenti climatici (in Bolivia,
ex art. 57, c. II, della Ley Marco).
ciocchi, in questo volume). Del pari, è un mezzo politico per esprimere
la rinnovata attenzione verso lo sfruttamento indiscriminato e il degrado
dell’ambiente.
La risposta è no se si considerano gli effetti giuridici di tale scelta. L’indirizzo cosmocentrico impone di assegnare agli interessi economici e alle
esigenze sociali che ruotano attorno ai beni della natura un peso inferiore
a quello attuale. Non significa necessariamente dover giungere all’estremo di affermare la pariordinazione giuridica fra ecosistemi ed esseri umani. Perseguire un giusto equilibrio vuol dire attribuire un rilievo finora
negato al nostro pianeta, che richiede in primo luogo un rafforzamento
sotto il profilo etico e un adeguamento della normativa ambientale in svariati paesi. E questo vale anche seguendo la prospettiva antropocentrica.
L’attuale approccio all’ambiente implica l’uso consapevole e responsabile
delle sue ricchezze, nell’accettazione che lo sviluppo sostenibile del XXI
secolo non comprenda più la crescita illimitata e l’idea del vivere meglio
radicata in Occidente.
Nelle pagine anteriori si è cercato di dimostrare che le pretese di Madre Terra non sono distinte dalla sfera del diritto ambientale tanto da
esigere la nascita di un nuovo soggetto giuridico. È la lettura integrale
dei disegni costituzionali, che puntano al perseguimento del buen vivir,
a dover garantire una interpretazione a maglie più strette delle norme in
modo da calibrare gli interessi economici e sociali verso una sostenibilità
attenta alle esigenze ecologiche. L’artificio derivante dalla teoria di Stone,
poi, il cui solo risultato è di distinguere chi tragga vantaggio diretto da un
ricorso giudiziale, non pare incisivo. Trattandosi della difesa di un bene
collettivo, la linea divisoria fra comunità umana ed ecosistema è così sottile che la natura, quand’anche non promuova un’azione popolare, riceve
comunque dei benefici dall’eventuale decisione favorevole. In termini ancora più netti si esprime Jaria i Manzano (2013: 58, 64), sostenendo che
tale riconoscimento non apporti nulla di nuovo e che invece, in questa
fase di crisi di civilizzazione della cultura dominante, bisognerebbe prendere più seriamente esempio dal modus vivendi delle culture indigene.
La tendenza più interessante che sembra affiorare dall’ambito processualistico è un’altra: l’espansione dell’actio popularis per salvaguardare
l’ambiente. Sebbene le probabilità che i singoli si facciano promotori di
cause giudiziali siano molto più basse rispetto all’intervento di associa-
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5. Conclusioni
La cittadinanza ecologica andina è il prodotto di molteplici influssi giuridici che, in quest’ambito culturale particolarmente recettivo alle
istanze olistiche, sono germogliati nel modo descritto. Serve, alla luce
di quanto emerso dall’indagine, sostenere la soggettività giuridica della
natura? Sì e no.
Sì nel contesto andino (e neozelandese), trattandosi di un modo per
affermare il rispetto della cultura indigena mediante la valorizzazione
dell’ideale biocentrico. Il valore simbolico della scelta è indiscutibile.
Riconoscere la natura significa incorporare nell’ordinamento la visione
olistica nell’ottica interculturale elevata a principio informatore dello Stato e intesa come «condizione di sostenibilità del multiculturalismo» (Pi-
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I diritti della natura
Serena Baldin
zioni impegnate nella tutela ambientale, quello che importa è l’accento
sulle responsabilità di ciascun individuo. I doveri di solidarietà intergenerazionale non si esauriscono nell’operato degli organi pubblici, estendendosi pure ai singoli e alle comunità, mediante la loro partecipazione
alla gestione e alla difesa del mondo non umano. Una via per intendere
il rapporto etico tra gli esseri umani e la natura più consona, a modesto
avviso di chi scrive, rispetto al linguaggio dei diritti, che pure è in ascesa,
dapprima indirizzato solo agli animali (in Germania, Svizzera, India e
bozza della costituzione islandese) e ora alla natura nel suo complesso. Il
costituzionalismo della responsabilità, ravvisabile nella costituzione polacca, in quella svizzera, e nella carta dell’ambiente approvata con legge
costituzionale dalla Francia nel 2005, si fonda sul rispetto e sulla cura
dell’ambiente (Jaria i Manzano, 2013: 75).
In Ecuador, fra i doveri e le responsabilità di ognuno sono contemplati il rispetto dei diritti della natura, la conservazione di un ambiente sano
e l’uso delle risorse in modo razionale e sostenibile (art. 83, nr. 6, cost.).
A ciò si aggiungono gli obblighi dello Stato, e in particolare il dovere di
disciplinare l’uso e l’accesso alla terra soddisfacendo la funzione sociale
e ambientale (art. 282 cost.). La responsabilità per la tutela ambientale
ricade anche in capo alle amministrazioni periferiche, le quali, per attuare
i piani di sviluppo sociale e di gestione sostenibile dell’ambiente, possono
del pari allo Stato espropriare beni e dichiarare zone riservate o soggette
a controllo per lo sviluppo futuro (artt. 323, 376 cost.). In Bolivia, tutte
le persone hanno il dovere di difendere l’ambiente affinché sia adeguato
allo sviluppo degli esseri viventi (art. 108, nr. 16, cost.). Lo Stato e la
popolazione devono conservare, proteggere e utilizzare in modo sostenibile le risorse naturali e la biodiversità, così come mantenere l’equilibrio
ambientale (art. 342 cost.). Si tratta di passaggi che alimentano la dimensione politico-istituzionale dello sviluppo sostenibile. Questo approccio
coinvolge i poteri pubblici da un lato e le componenti sociali dall’altro,
dato che le istanze in discussione possono trovare soddisfazione solo se
dirette anche alle singole comunità (Cordini, 2007: 503).
Il nuovo ecodiritto di Ecuador e Bolivia deve ancora dimostrare le sue
potenzialità di successo, misurandosi con i meccanismi di governance statali e transnazionali e con i forti poteri economici che nella natura vedono
solo una preziosa risorsa da sfruttare indebitamente. In questo percorso
in salita, bisogna anche ricordare che si sta trattando di paesi in via di
democratizzazione e di modernizzazione (Somma, 2012: 1 ss.), per cui
i loro traguardi risultano ancora più ambiziosi. Il modello di sostenibilità ambientale dei paesi andini è indubbiamente significativo per l’enfasi
posta sulle responsabilità, sulle norme programmatiche sopra indicate (§
3) e sugli istituti di partecipazione che garantiscono alla cittadinanza di
venire consultati e di poter formulare proposte sui temi ambientali (spec.
artt. 57, p.to 7, e 97 cost. Ecuador; art. 30, p.to 15, cost. Bolivia).
Modi per manifestare l’adesione all’ética ambiental exigente, come con
l’istituzione a Quito, nel gennaio 2014, del Tribunale etico permanente
per i diritti della natura e della Madre Terra, una piattaforma di discussione che si propone di perseguire la giustizia globale di fronte ai crimini
contro le forme di vita facendosi portavoce mondiale delle questioni ecologiche. Nella prima seduta, presieduta da Vandana Shiva e composta,
fra gli altri, da Cormac Cullinan e Alberto Acosta, si è discusso delle gravi
violazioni della Dichiarazione universale dei diritti di Madre Terra già
perpetrate (es. i danni provocati da Chevron-Texaco nella foresta amazzonica dell’Ecuador; il disastro della piattaforma petrolifera Deepwater
Horizon nel golfo del Messico) e dei pericoli derivanti da progetti estrattivi su vasta scala (es. il progetto di estrazione di petrolio nel parco nazionale Yasuní-ITT in Ecuador; la minaccia alla Grande barriera corallina
in Australia da parte di un’industria carbonifera; cfr. Viale et al., 2014).
Il riconoscimento della soggettività giuridica della natura si sta diffondendo a livello globale soprattutto grazie all’attività di avvocati ambientalisti e di studiosi di varia provenienza. Ecuador e Bolivia stanno
inoltre alimentando i dibattiti internazionali sullo sviluppo sostenibile,
mettendo in luce un laboratorio di idee da cui scaturisce, e potrà ancora
scaturire, un’interessante fenomeno di circolazione di formanti giuridici.
In conclusione, piace ricordare la legge del Distretto federale del Messico, ove i diritti della natura sono stati declinati nei termini di responsabilità umane; una soluzione alternativa che potrebbe essere accolta più
agevolmente in altri sistemi giuridici.
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Abstract: This contribution investigates the diffusion of the idea to
confer a sphere of rights to Mother Earth. Firstly, it underlines
the importance of the philosophical theories on nature as legal
subject in the present debates on the recognition of rights to ecosystem, and the reception of these theories in some Countries.
Subsequently, a chapter focuses on the Ecuadorian and the Bolivian rules which confer a sphere of rights to nature, highlighting
the main features and the differences vis-à-vis Stone and Stutzin’s
ideal models. The contribution suggests that this recognition does
not actually improve environmental protection, and that the truly
innovative solutions proposed by Ecuador and Bolivia must be
sought in the balance between economic interests and ecological
interests, in the introduction of the actio popularis, and in the emphasis on everyone’s responsibility in safeguarding the ecosystem.
Keywords: Sustainability, Environmental law, Rights of Nature, Actio
popularis.
183
Natura, buen vivir e razionalità neoliberale
di Luigi Pellizzoni18*
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Buen vivir e natura: una “archeologia” in corso. – 3. Realismo, costruzionismo e co-produzione. – 4.
Nuovo materialismo e ontologia della natura. – 5. Neoliberalismo
e regolazione della natura. – 6. Conclusione.
1. Introduzione
Il buen vivir implica non solo la rivendicazione dei diritti dei popoli
indigeni sulla terra che abitano ma anche una concezione della natura diversa da quella occidentale. Natura e cultura, ambiente e società sono poste in una relazione di mutua presupposizione o continuità, il che sembra
iscrivere di diritto il buen vivir alla causa della sostenibilità (ecologica,
economica e sociale). La crescita di interesse per il tema sembra offrire,
anche fuori dal mondo latinoamericano, una alternativa allo sfruttamento
della natura e delle comunità umane che la globalizzazione neoliberale
sta portando al parossismo. Ma le cose stanno davvero così? Dubbi sono
già stati sollevati al riguardo. Qui affronto la questione da una prospettiva specifica: la relazione tra buen vivir, teorie post-costruttiviste della
natura e razionalità neoliberale. Ciò che si osserva è una tendenza generalizzata al superamento tanto del realismo tradizionale di matrice cartesiana quanto del costruttivismo linguistico di matrice kantiana. Cosa questo
comporti non è però di evidenza immediata.
Il ragionamento si svolge nel modo seguente. Da una disamina del
concetto emerge l’opportunità di guardare ai fondamenti teorici del buen
vivir, come «tradizione inventata» (Hobsbawm, 1994) che legge la cul*
Professore associato di Sociologia dell’ambiente e del territorio nell’Università di Trieste.
Natura, buen vivir e razionalità neoliberale
Luigi Pellizzoni
tura indigena alla luce degli sviluppi più recenti della teoria sociale. Al
riguardo mi concentro sul “nuovo materialismo”, nella declinazione femminista, cui è sottesa l’idea che una prassi emancipativa efficace sia oggi
strettamente legata a una decostruzione delle ontologie classiche, realiste
e costruttiviste. Le nuove ontologie si basano tuttavia in misura notevole
sulle concettualizzazioni della natura prodotte dalla tecnoscienza, a loro
volta in sintonia con la razionalità neoliberale. Il dubbio che si profila,
quindi, è che l’approccio post-costruttivista punti a un bersaglio sempre
meno attuale, senza prendere nota del proprio allineamento con la visione della natura che soggiace alle politiche neoliberali. Un processo di
inclusione e svuotamento della critica si è avuto, in un recente passato,
con l’affermazione del post-fordismo. C’è quindi da chiedersi se non stia
oggi avvenendo qualcosa di simile. Il buen vivir, tuttavia, mantiene aspetti promettenti, su cui mi soffermo nella conclusione.
in quanto radicato nel qui e ora. Non a caso si fa notare la connessione tra
buen vivir e il tema recente della decrescita (Agostino, Duebgen, 2012),
per esempio in merito al valore della convivialità (Latouche, 2007). Tra i
due concetti vi sono però importanti distinzioni, in particolare riguardo
alla crescita, oggetto di una condanna radicale nel secondo caso e condizionale nel primo (Garcia, 2013). La costituzione boliviana, per esempio,
coniuga buen vivir e industrializzazione nel quadro di una equa distribuzione dei benefici che ne derivano. E c’è chi osserva che una concezione
troppo restrittiva di buen vivir pecca di ingenuità e rischia di ostacolare
le battaglie per una maggiore equità e contro la dipendenza economica
(Lambert, 2011). In sintesi, il buen vivir è un concetto in via di elaborazione e non privo di zone d’ombra (Baldin, 2013). Al centro della sfida
allo sviluppismo capitalista sembra stare, in ogni caso, l’affermazione di
una differente ontologia dell’umano e del non-umano. È sulle implicazioni di questa ontologia che vorrei concentrare l’attenzione.
Che il buen vivir giochi una partita anche, e forse innanzitutto, di carattere ontologico è sottolineato, tra gli altri, da Arturo Escobar (2010a).
A suo giudizio l’America Latina è oggi al centro di processi controegemonici tesi al superamento della società liberale fondata sulla proprietà
privata e la democrazia rappresentativa. Fulcro di questi processi è l’attivazione politica di ontologie indigene di carattere relazionale, dunque
opposte a quelle della modernità liberale, le quali si basano sulla contrapposizione tra natura e cultura e tra individuo e comunità. In Bolivia,
Ecuador, Colombia, Perù, Guatemala, Messico, siamo di fronte a “lotte
ontologiche”, nel senso di una de-naturalizzazione di tali dualismi a favore di prospettive secondo cui esistono solo soggetti in relazione, incluse le
relazioni tra umani e non umani. La costituzione ecuadoriana attribuisce
diritti alla Pachamama, la Madre Terra. Ma la Pachamama non è riconducibile al quadro ecologista tradizionale, che si limita per lo più a chiedere
un’estensione dei classici diritti liberali. «La nozione è impensabile in
base a qualsiasi prospettiva moderna, entro cui la natura è vista come
oggetto inerte di appropriazione umana» (Escobar, 2010a: 39). L’idea di
Pachamama è sottesa alle lotte ecologiche in corso nelle aree andine e
amazzoniche contro dighe, estrazioni petrolifere e minerarie, coltivazioni transgeniche e deforestazione; lotte che «mobilitano enti non umani
(montagne, acqua, terra, perfino il petrolio) come entità senzienti, ossia
186
2. Buen vivir e natura: una “archeologia” in corso
Il buen vivir è un concetto complesso. La nozione ecuadoriana di sumak kawsay o quella boliviana di suma qamaña esprimono l’idea di una
pienezza di vita che include aspetti materiali e spirituali ed è possibile
solo entro una comunità che unisce persone e ambiente naturale. Comunità politica e cittadinanza si estendono al mondo non umano (animali,
piante, ecosistemi, spiriti), in quanto provvisto di volontà e sensazioni
proprie. L’idea di una fusione indissolubile tra individuo, comunità e
ambiente si contrappone al dualismo occidentale tra natura e cultura,
rifiutando una relazione puramente strumentale con il mondo biofisico.
Benché queste idee derivino dalle culture indigene, esse sono di elaborazione recente e in continua evoluzione (Gudynas, 2011). Il buen vivir appartiene alla famiglia delle tradizioni inventate: risposte a problemi
attuali che assumono la forma di riferimenti al passato. Un procedimento
“archeologico” nel senso di Foucault (2000), per il quale ciò che è in gioco nella ricerca di una arché non è l’individuazione di un’identità o verità
originaria, metastorica o metafisica, ma la comprensione di ciò che accade
oggi. Il buen vivir, dunque, può essere non- o anti-moderno nel senso di
una contrapposizione con la tradizione occidentale, ma è modernissimo
187
Natura, buen vivir e razionalità neoliberale
Luigi Pellizzoni
attori nell’arena politica» (ibid.: 40).
Escobar lega esplicitamente l’ontologia relazionale del buen vivir alla
recente svolta post-costruttivista nelle scienze sociali. A suo parere (Escobar, 2010b), dopo l’ecologia politica degli anni ‘70 (basata sull’incontro
tra ecologismo e economia politica di derivazione marxiana) e quella tra
gli anni ‘80 e ‘90 (imperniata sulle questioni epistemologiche sollevate dal
costruzionismo e l’anti-essenzialismo post-strutturalista), siamo ora a una
terza generazione, in cui si consuma una vera e propria “svolta ontologica” nella teoria sociale, caratterizzata da un’inedita combinazione di antiessenzialismo e realismo in direzione di una flat ontology: a gerarchie, trascendenze, strutture e dualismi (natura/cultura, mente/corpo, soggetto/
oggetto, realtà/rappresentazione, materia/informazione, epistemologia/
ontologia, ecc.) si sostituisce un’immanenza orizzontale e contingente:
pratiche, network, ibridazioni, assemblaggi tra entità umane e non umane, organiche e inorganiche, talvolta anche soprannaturali. La domanda
è allora se questo tipo di ontologia costituisca davvero un’alternativa alla
logica appropriativa e competitiva neoliberale. Escobar, come molti altri,
sembra dare per scontata una risposta affermativa, in base all’assunto che
tale logica si basa sul tradizionale naturalismo della modernità occidentale. Ma siamo sicuri che le cose stiano davvero così?
caratterizzato a lungo il dibattito nelle scienze sociali, anche riguardo alle
implicazioni politiche dell’una o l’altra opzione (meglio rivelare assunti
e interessi nascosti dietro pretese oggettività o ancorare a fatti incontrovertibili la critica delle ingiustizie radicate nell’ordine sociale?). A partire
dagli anni ‘90, tuttavia, la diatriba è stata progressivamente rimpiazzata
da quello che Sheila Jasanoff definisce «idioma della co-produzione». L’idea di base è che «il modo in cui conosciamo e rappresentiamo il mondo
(natura e società) è inseparabile dal modo in cui decidiamo di viverci»
(Jasanoff, 2004: 2); detto altrimenti, che verità e realtà, epistemologia e
ontologia, sono l’esito contingente di assemblaggi di entità eterogenee:
persone, teorie, strumenti di indagine, entità materiali di ogni sorta.
Questa traiettoria evolutiva – dove i limiti sempre più acutamente
percepiti della decostruzione del discorso, come approccio analitico e
pratica militante, spingono alla ricerca di nuovi fondamenti ontologici
che evitino tuttavia di ricadere in un realismo tradizionale non meno deleterio su entrambi i fronti – è riscontrabile in modo sempre più marcato
in numerosi campi: dai science and technology studies alla filosofia, dalla
sociologia alla geografia umana. È proprio questo risorgente materialismo dell’incontro mutevole tra agency umana e non umana ciò che, come
abbiamo visto, Escobar pone alla base dell’ecologia politica di terza generazione, quindi anche della tradizione inventata del buen vivir.
188
189
3. Realismo, costruzionismo e co-produzione
4. Nuovo materialismo e ontologia della natura
In Occidente, l’ontologia della natura sovrappone tradizionalmente
tre aree semantiche (Williams, 1983; Pellizzoni, Osti, 2008): natura come
tutto ciò che esiste; come ciò che si oppone a cultura, agli artefatti umani;
come carattere fondamentale degli enti (vedi nozione di “natura umana”). Quanto alla conoscenza della natura, la modernità è attraversata dal
dissidio tra la versione cartesiana e quella kantiana: entrambe dualistiche
(mente e corpo, o materia, sono reami distinti), ma divise sul punto se la
mente abbia accesso cognitivo alla realtà materiale come tale, o soltanto
alla realtà fenomenica, ossia la realtà materiale filtrata dalle nostre capacità percettive e categorie cognitive. Filtro che, rispetto agli a-priori kantiani, nel corso del Novecento assume sempre più carattere sociale, o meglio
linguistico-culturale. Da qui la diatriba realismo-costruzionismo che ha
Il nuovo materialismo è tuttavia una realtà a sua volta frastagliata e in
piena evoluzione. Qui mi limito a considerare una delle declinazioni più
interessanti: quella femminista. Nell’introdurre una collezione di saggi
dedicati al nuovo materialismo, Diana Coole e Samantha Frost (2010:
3) osservano che «ovunque si guardi … troviamo richieste sparse ma insistenti di approcci d’analisi più materialisti e nuovi modi di pensare la
materia e i processi di materializzazione». Le basi di questo movimento
sono in sostanza due. Primo, i recenti sviluppi scientifici rendono impossibile concepire la materia nelle forme ispirate dalle scienze classiche, il che impedisce ai teorici dei processi culturali di comprenderle e
discuterle. In fisica, nelle scienze della vita, nella biomedicina e altrove i
Natura, buen vivir e razionalità neoliberale
Luigi Pellizzoni
fenomeni materiali sono sempre più concettualizzati in termini di confini porosi. Le distinzioni tra fisico e biologico, naturale e tecnologico, si
confondono. Il mondo inorganico, sempre più caratterizzato in termini
di auto-organizzazione, si tinge di connotazioni vitalistiche, mentre la vita
assume caratteri dematerializzati: informazione, testualità, codificazione
(Keller, 2007 e 2011). Secondo, da ciò derivano questioni etiche e politiche di fronte alle quali l’orientamento costruttivista è inadeguato. Il
femminismo ha sfidato con successo gli appelli alla fatticità e prescrittività della natura. Quest’ultima, tuttavia, non è necessariamente «un serbatoio di investimenti politici conservatori» (Kirby, 2008: 8). La materia è
tutto tranne che «inerte, stabile, concreta, immodificabile e resistente al
mutamento storico-sociale» (Hird, 2004: 224). Essa è al contrario attiva,
inventiva, recalcitrante, creativa. La materia «non è una cosa ma un fare»
(Barad, 2003: 822); un divenire incessante e «vibrante» (Bennett, 2010);
una fluidità e plasticità inafferrabile. Anche testi e segni possono essere
riconfigurati come materiali da un punto di vista sostantivo o ontologico.
«La vita stessa è una codificazione creativa» (Kirby, 2008: 9), una continua riscrittura di sé. Ontologia ed epistemologia non sono più distinguibili poiché il mondo viene conosciuto attraverso pratiche concrete, che
incontrano una materialità attiva.
In questo contesto, più che di co-produzione di conoscenza e mondo si deve parlare di impossibilità di distinguere chi osserva e chi è osservato, parole e cose. Per l’agential realism di Karen Barad (2007), ad
esempio, abbiamo non interazioni tra entità ontologicamente definite ma
intra-azioni tra enti in perenne divenire. Ciò che esiste sono solo i fenomeni, quali relazioni ontologicamente primitive, senza relata preesistenti; solo cose e non rappresentazioni di cose. Di conseguenza non regge
nemmeno la critica del discorso o della cultura, a lungo ritenuta terreno
cruciale della lotta per l’emancipazione. Invece della consueta, e di fatto
inconcludente, disamina di errori e controversie occorre assumere posizioni “affermative”; puntare su concretezza e corporeità come luoghi di
resistenza, creatività e speranza, eticamente rilevanti in quanto esito di
scelte che materializzano stati particolari della realtà (Grosz, 2005). È il
corpo, e non il linguaggio, a essere dotato del massimo potenziale emancipativo perché «il regno della materia è irriducibile a quello dei discorsi
e gli artefatti culturali non sono arbitrari rispetto alla natura» (Coole,
Frost, 2010: 27).
Il nuovo materialismo femminista (ma lo stesso vale per altre declinazioni) tende quindi ad attribuire precedenza alla vitalità della materia,
alla sua potenza creatrice, che precede, produce e include i processi di
significazione. L’operazione non è tuttavia priva di rischi. Uno è di abbandonare troppo frettolosamente la critica del discorso, soprattutto se si
riflette che, fuori da contesti particolari, il costruzionismo è tutt’altro che
egemonico. Le modalità cambiano, ma la naturalizzazione come pattern
culturale è tutt’altro che superata (McNeil, 2010). Tra l’altro, nel concreto dei conflitti sul corpo e la natura, realismo e costruzionismo tendono
a perdere di rilevanza come categorie capaci di distinguere posizioni intellettuali e sociali, divenendo piuttosto mosse tattiche scelte di volta in
volta dagli attori in campo: industriali e ecologisti, governi e oppositori
(Pellizzoni, 2011). La diatriba sulla sussistenza e l’origine antropica del
cambiamento climatico è emblematica al riguardo (Freudenburg et al.,
2008). Altro rischio è di acquisire acriticamente le immagini della natura fornite dall’avanguardia scientifica. Nello sforzo di superare le secche
della decostruzione linguistica si tende a trascurare il carattere “artefatto” degli esperimenti e la natura consensuale delle evidenze che vi si riscontrano (Stengers, 2000). Così come nell’attribuire testualità alle cose o
ontologia ai segni – è il caso della decodificazione e ricodificazione chimica espressa dai batteri, che autrici come Kirby (2008) leggono in termini
di abilità linguistica e capacità di reinventare se stessi – vi è la tendenza a
slittare dalla metafora o dal modello esplicativo all’ontologia dei processi
stessi (Pinch, 2011).
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191
5. Neoliberalismo e regolazione della natura
Ma c’è qualcosa di ancora più rilevante per il nostro ragionamento
sul buen vivir come “archeologia” post-costruttivista del rapporto uomonatura. Il carattere inevitabilmente metaforico e consensuale delle nuove descrizioni della materia attira l’attenzione sul contesto in cui esse si
vanno sviluppando. Se concetti e prassi scientifiche prendono forma solo
entro quelli che Ludwik Fleck (1983) chiama “stili di pensiero”, ossia
gli orizzonti di senso che gli scienziati condividono con le cerchie sociali
più ampie in cui sono inseriti, dobbiamo interrogarci sulla Weltanschau-
Natura, buen vivir e razionalità neoliberale
Luigi Pellizzoni
ung odierna. Da trenta e più anni stiamo assistendo a una variegata ma
generalizzata trasformazione sociale e culturale imperniata sull’ideologia
neoliberale (Brenner et al., 2010; Baccaro e Howell, 2013). Gli autori
marxisti parlano di «neoliberalizzazione della natura» riferendosi a una
rinnovata fase di accumulazione del capitale: attraverso strumenti parzialmente inediti (che combinano potere statale e forme di regolazione
indiretta e diffusa, la cosiddetta governance), è in atto un poderoso processo di privatizzazione e mercificazione del mondo biofisico, non dissimile da quanto è avvenuto in altre epoche (Harvey, 2003; Castree, 2008).
Tuttavia, se guardiamo a un paio di esempi, ci rendiamo conto che in
ballo c’è qualcosa di più.
Prendiamo i carbon markets, i mercati delle emissioni di CO2, promossi dal Protocollo di Kyoto (1997). L’idea, com’è noto, è che si fissa
un tetto alle emissioni e si distribuiscono “diritti a inquinare”, che possono essere poi comprati e venduti. La ricerca dell’efficienza economica
dovrebbe quindi spingere ad adottare gradualmente soluzioni tecniche
meno impattanti. Senza entrare nel merito dei risultati (deludenti) fin qui
ottenuti, notiamo che punto cruciale del meccanismo è che la riduzione
del CO2 prodotto in un dato luogo del pianeta è considerata equivalente
alla riduzione di un altro gas serra emesso altrove, e ciò in base a un tasso di conversione stabilito dall’International Panel on Climate Change e
definito global warming potential (Gwp). Per esempio, il Gwp del trifluorometano (Hfc-23) è fissato in 11.700, quindi una tonnellata di Hfc-23
corrisponde a 11.700 tonnellate di CO2. Un’industria italiana può così
decidere di ridurre le sue emissioni di CO2 o comprare crediti venduti da
una fabbrica che, da qualche parte nel mondo, sta riducendo l’Hfc-23.
Prendiamo adesso i brevetti biotecnologici. Un tempo non erano consentiti, in base all’assunto che l’ibridazione non presenta i necessari requisiti di novità, inventività e applicabilità industriale, posto che il materiale
biologico si riproduce, tra l’altro in modo non riducibile a uno schema
fisso. Ma nel 1980, la corte suprema statunitense ha sentenziato che un
batterio geneticamente modificato è brevettabile quale “composizione di
materia” di carattere innovativo (poiché in tale forma non è disponibile
in natura), la cui applicabilità industriale risiede nell’identificazione della
sua specifica funzione191.
Ecco qui due esempi lampanti di neoliberalizzazione della natura, nel
senso di estensione della privatizzazione e mercificazione: gas serra e batteri diventano oggetto di appropriazione e compravendita. Tuttavia c’è
dell’altro. Il Gwp è un’astrazione (funziona da mezzo di scambio come
la moneta) ma anche qualcosa che si suppone avvenga effettivamente
nell’atmosfera, o meglio un processo o un’entità fisica il cui concretizzarsi
si vuole evitare. Nel caso del brevetto su una sequenza genetica, identificare la sua funzione significa capire la biochimica della proteina che un
gene produce e come ciò conduce a un tratto specifico dell’organismo.
Il gene ha quindi uno status ambiguo, al tempo stesso entità materiale e informazione. In effetti, come si evince anche dalla giurisprudenza
in materia, il brevetto finisce per coprire tanto l’informazione genomica quanto il materiale fisico (Dna) e quindi l’organismo che incorpora
tale informazione. Organismo, tra l’altro, diverso da quelli “naturali” (e
quindi protetto da un diritto di proprietà) ma anche “sostanzialmente
equivalente” a questi ultimi (e dunque non passibile di regolamentazione
specifica). In breve, Gwp e brevetti biotecnologici ci pongono di fronte
a entità ontologicamente indefinite o oscillanti tra materiale e simbolico,
reale e virtuale, costrutto epistemico e realizzazione concreta, differenza
ed equivalenza (Pellizzoni, 2011).
È questo uno sviluppo puramente endogeno della ricerca e della regolazione tecnoscientifica? È lecito dubitarne. L’indeterminazione ontologica, infatti, è profondamente radicata nella razionalità neoliberale,
per la quale è la gestione dell’incertezza e non il calcolo del rischio ciò
che sta alla base della creatività imprenditoriale, la quale richiede intuito,
flessibilità, anticipazione, giudizio esperienziale (O’Malley, 2004). L’indeterminazione, cioè, non è prospettata come angosciante e paralizzante
ma come liberatoria, poiché riduce limiti e costrizioni aprendo spazi d’azione potenzialmente illimitati (Pellizzoni, 2011). L’esplosione dei derivati finanziari ne è la prova evidente. La vita stessa è descritta in termini
di emergenza e adattamento complesso, condizione che comporta certo
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Questa concezione si è imposta a livello mondiale in quanto inserita negli accordi Trips
(Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights) del 1994, la cui sottoscrizione è
parte integrante dell’adesione al Wto.
Natura, buen vivir e razionalità neoliberale
Luigi Pellizzoni
pericoli e insicurezze ma che è tuttavia posta «al cuore di ciò che vi è di
positivo e costruttivo» (O’Malley, 2010: 502). L’idea di resilienza, quale
adattamento contingente a turbolenze sociali e biofisiche imprevedibili, è
non a caso sempre più incorporata da azioni di governo che abbandonano la pianificazione tradizionale a favore di tecniche anticipatorie basate
sulla costruzione di scenari (Walker, Cooper, 2011).
Arriviamo qui al nocciolo della questione. In un lavoro spesso citato,
Luc Boltanski e Eve Chiapello (2005) descrivono il “nuovo spirito” del
capitalismo post-fordista. Esso ha integrato e messo a valore la critica
che i movimenti degli anni ‘60 e ‘70 avevano rivolto al modello fordista e
statalista (burocratico, pianificato, standardizzato, industrialmente “pesante”), contrapponendogli autonomia, flessibilità, responsabilizzazione,
creatività, smaterializzazione. C’è da chiedersi allora se non siano oggi il
neo-materialismo e le ontologie flat a riuscire funzionali alle logiche di
un capitalismo fluido e cangiante. La domanda mi pare scarsamente presente nel dibattito. Nonostante l’insistenza sulla stretta relazione tra ontologia e politica (Mol, Law, 2006; Escobar, 2010b; Coole, Frost, 2010),
le posizioni post-costruttiviste non sembrano in genere registrare che la
propria visione – in particolare la cancellazione di ogni distinzione tra
ontologia ed epistemologia, realtà materiale e rappresentazione simbolica – coincide nella sostanza con quella neoliberale. Il problema, mi pare,
sta nel fatto che esse continuano a visualizzare un bersaglio, il classico
realismo scientifico e costruttivismo culturale, il quale sta rapidamente
scomparendo sotto i colpi di una trasformazione nella prassi e nella regolazione tecnoscientifica che va esattamente nella direzione auspicata,
ma con esiti opposti. La somiglianza tra neoliberalismo e post-costruttivismo si estende perfino alla concezione del soggetto, in entrambi i casi
anti-essenzialista, “decentrata” e contingente. Tra l’agente neoliberale e
il soggetto “post-umano” di molta teoria post-costruttivista l’unica differenza è che il secondo trae da anti-essenzialismo e contingenza una critica alla hybris moderna, facendo professione di umiltà, cura e rispetto di
un mondo biofisico mutevole e vitale, mentre il primo vede in tutto ciò
l’opportunità di rifare il mondo a proprio piacimento, plasmandolo e plasmandosi in un incessante divenire “altro” o “di più”. Differenza importante, senza dubbio, ma non derivabile dalle rispettive posizioni ontologiche; tant’è che teoriche femministe come Donna Haraway (2008) e Rosi
Braidotti (2013) si collocano su posizioni così decisamente “affermative”
circa le potenzialità di auto-trasformazione offerte dalla tecnoscienza, da
risultare difficilmente distinguibili dalla narrativa neoliberale dell’human
enhancement (Roco, Bainbridge, 2003). Così come la “cittadinanza biologica” delle scelte responsabili, di cui parlano Nikolas Rose (2007) e altri,
si carica di profonda ambiguità quando si tratta di distinguere interventi
terapeutici (riparativi di danni o deficit fisici o psichici) e interventi di
potenziamento fisico, estetico o mentale (Bard, 2012), la cui soglia di accettabilità sociale è affidata al vaglio di imprecisate agenzie regolative che
dovrebbero vigilare su un mercato di cui si ribadisce il ruolo di principale
promotore e distributore dell’innovazione (Agar, 2010; Buchanan, 2010).
Tra i pochi studiosi che si stanno ponendo questo genere di domande
può essere citata la filosofa Nancy Fraser (2009), la quale, richiamandosi
proprio a Boltanski e Chiapello, parla di «fastidiosa convergenza» tra
alcuni degli ideali espressi dal femminismo nel contesto dell’ascesa del
neoliberalismo e le richieste di una nuova forma di capitalismo post-fordista, “disorganizzato” e transnazionale. La questione è, in altri termini,
se i cambiamenti culturali promossi dal femminismo siano serviti a legittimare una trasformazione strutturale del capitalismo che va in collisione
proprio con la visione femminista di una società giusta. A sua volta il geografo marxista Neil Smith (2005) si interroga sugli approcci “neo-critici”,
basati sulle ontologie flat sopra discusse, che stanno fiorendo nella sua
disciplina. Approcci per i quali le nozioni di spazio, scala e gerarchia, fino
a ieri cruciali per la critica di ingiustizie, disuguaglianze e sopraffazioni,
sono da abbandonare a favore di una visione del mondo e della politica
frammentata, “affettiva”, “immanente”, centrata su una “ecologia della
speranza” e sulla sperimentazione continua (Amin, Thrift, 2005; Marston
et al., 2005); nozioni non solo fumose ma visibilmente affini alla retorica
neoliberale. Le idee innovative e radicali, osserva Smith, finiscono triturate nella melma culturale. La loro forza, le sfide che esse pongono, le
rende appetibili, politicamente e commercialmente, il che le espone a un
processo di erosione, generalizzazione e integrazione. L’esempio viene
da nozioni come differenza, multiculturalismo, pluralismo, identità, da
tempo riciclate dal lessico e dall’iconografia di Cnn, Mtv, McDonald’s e
Benetton.
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Natura, buen vivir e razionalità neoliberale
6. Conclusione
Anche il buen vivir rischia di subire la stessa sorte? Impossibile dirlo
in questo momento. Certo, come abbiamo visto, si tratta di un’idea controversa. Soprattutto, si tratta di una tradizione inventata, pienamente
inserita nella teoria sociale post-costruttivista, della cui ambigua relazione con l’avversario designato, l’ideologia neoliberale e il suo assalto alla
natura e alle comunità locali, essa inevitabilmente partecipa.
Questa, almeno, la tesi che ho cercato di argomentare nel presente
saggio, il cui obiettivo non era sviluppare una critica distruttiva del buen
vivir ma sollevare un problema trascurato. Come osserva Smith, non c’è
niente di inevitabile nel processo di integrazione e svuotamento delle
idee innovative. Quello che occorre è però «essere sempre parecchi passi
avanti al tritatutto capitalista, reinventando i conflitti, trovando nuovi linguaggi, nuove strategie politiche, nuove idee, nuove forme di attivismo»
(Smith, 2005: 891). In questo senso il buen vivir ha dalla sua il fatto di
innestarsi su una visione del mondo (natura, individuo, comunità) profondamente diversa da quella da cui promanano tanto l’individualismo
rapace del neoliberalismo che il post-umanismo decentrato della teoria
sociale contemporanea. Una visione che, alla luce di una diversa concezione dell’esperienza, più che cancellare sembra rimodulare la tensione
tra mondo e conoscenza. Nozione aperta, bisognosa di ulteriore elaborazione ma non piegabile a qualsiasi lettura, il buen vivir può quindi costituire un punto di riferimento importante nella ricerca di un’alternativa
praticabile alla neoliberalizzazione della natura.
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Luigi Pellizzoni
Abstract: By linking nature and culture in a relationship of mutual
presupposition or basic indistinctiveness, the framework of buen
vivir seems to offer a “sustainable” alternative to the exploitation
of the biophysical world and human communities that neoliberal
globalization is taking to the extreme. Buen vivir, however, is an
“invented tradition”, still under elaboration. Indigenous cultures
are read in the light of most recent developments in social theory,
which connect emancipatory practices and deconstruction of classic ontologies. On their side, new post-constructivist ontologies
(this contribution focuses on feminist “new materialism”) build to
a remarkable extent on the conceptualizations of nature provided
by technoscience, which in their turn are attuned to neoliberal
rationality. One may wonder, therefore, if the post-constructivist
approach is pointing to a target of decreasing significance, while
failing to acknowledge its own alignment with the vision of nature
that underlies neoliberal policies. In any case, buen vivir remains
a promising framework, especially in regard to its grafting onto a
worldview that differs profoundly from the one which underpins
both the greedy individualism of neoliberalism and the decentered
post-humanism of contemporary social theory.
Keywords: Nature, Buen vivir, Neoliberalism, Post-constructivist ontologies, New materialism.
199
Vulnerabilità del bene comune acqua
e sollecitazioni di giustizia in America Latina
di Sabrina Lanni20*
SOMMARIO: 1. Riconoscimento dei diritti indigeni e ripensamento della
gestione dei beni comuni. – 2. Vulnerabilità dell’acqua come bene
comune tra diritti e garanzie. – 3. Crisis del agua a fronte dell’impegno delle esperienze giuridiche latinoamericane. – 4. A favore
di una giustizia alternativa: il Tribunal Latinoamericano del Agua.
1. Riconoscimento dei diritti indigeni e ripensamento della gestione dei
beni comuni
Il riconoscimento dei diritti indigeni, che è stato promosso dal nuovo costituzionalismo latinoamericano a partire dagli anni ‘80 del secolo
appena concluso, riveste un profondo valore euristico nella rivisitazione
delle logiche del mercato e nel rilancio della logica dei popoli. Il richiamo
in sede costituzionale al sumak kawsay (Ecuador, art. 14), ossia a quel
paradigma di vita andina che tiene conto congiuntamente delle esigenze
dello sviluppo, dell’economia e di quelle della Madre Tierra, così come il
richiamo al suma qamaña (Bolivia, art. 8), vale a dire all’equilibrio materiale e spirituale dell’individuo e alla relazione armoniosa dello stesso con
tutte le forme di esistenza, danno voce a principi metagiuridici di popoli
e nazioni lasciate dal diritto nel limbo della storia (Lanni, 2011: 23 ss.).
Non solo quindi dal punto di vista della dottrina giuridica, ma anche dal
punto di vista della politica del diritto.
Il suma qamaña e il sumak kawsay non rappresentano la mera costi*
Ricercatrice di Diritto civile comparato presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche e
professoressa a contratto di Diritto privato comparato nell’Università Magna Graecia di
Catanzaro.
Vulnerabilità del bene comune acqua
Sabrina Lanni
tuzionalizzazione di principi generali connessi a determinati popoli indigeni in via endogena ed esclusiva. Al contrario, essi presentano una
potenzialità epistemologica ed un’incidenza dirompenti nelle scelte dei
governi latinoamericani, in quanto impongono uno sforzo di decodifica e
rielaborazione giuridica nella gestione dei beni comuni, favoriscono una
ridefinizione del rapporto uomo-natura, confidano nello sviluppo di un
senso di giustizia intergenerazionale quale limite all’interesse economico
dell’accumulo e dello sviluppo di stampo capitalista e occidentale.
L’“uso” e la “partecipazione” nella gestione dell’acqua – così come del
sottosuolo, dell’aria e delle conoscenze tradizionali – rappresentano tratti
distintivi di un diritto fondamentale cui si tende largamente tra i popoli indigeni nelle scelte politico-economico-sociali dei paesi dell’America
Latina. Si tratta tuttavia di un diritto che emerge a livello globale ed è caratterizzato da una significativa forza espansiva: invero l’aspirazione all’uso e alla partecipazione dei beni comuni emerge anche in altri contesti, o
meglio in contesti tendenzialmente omologati in una logica dominante,
cioè priva del forte dissenso di cui sono portatori da diversi lustri i popoli
indigeni nelle scelte politico-economico-sociali dei paesi latinoamericani.
È l’esempio dell’Italia, dove negli ultimi anni si registra sul tema un flusso
crescente di idee nel dibattito politico e scientifico (Rodotà, 2013), che ha
in considerazione il potere conformativo del diritto (Marella, 2012), e che
rimarca le violazioni perpetrate da esso contro il quadro giuridico e ideologico dei beni comuni, attraverso indagini che muovono da casi storici
(come quello della sentenza della corte di cassazione romana del 1887,
che diede ragione al comune di Roma contro il principe Borghese che
voleva chiudere i cancelli della Villa, riconoscendo ai cittadini il diritto
di passeggiare liberamente in quel luogo; Di Porto, 2013), e che hanno il
merito di non rendere avulso il contesto municipale da quello globale (al
di là di settoriali allocazioni ideologico-politiche che vedrebbero i beni
comuni esclusivamente come “benicomunisti”; Mattei, 2011).
Il riconoscimento dei diritti indigeni nelle esperienze giuridiche latinoamericane contribuisce a rendere le stesse comparativamente singolari
rispetto a quelle europee. I popoli indigeni, l’incidenza delle loro identità
culturali, l’attenzione per la loro cosmovisione presentano un ruolo determinante nella tassonomia del sistema latinoamericano. È possibile per
tutto ciò individuare diversi ordini di ragioni, tra i quali: il diritto/dovere
alla salvaguardia dei beni comuni è un diritto/dovere connaturato alla
tradizione ctonia (Glenn, 2011: 162); il diritto/dovere alla gestione e alla
salvaguardia dei beni comuni prescinde dal paradigma occidentale della
modernità dello Stato e della privatizzazione dei beni (Marés de Souza
Filho, 2009: 67); il diritto/dovere alla gestione e alla salvaguardia dei beni
comuni è fondato su un legame di solidarietà che è calato in una dimensione diacronica e collettiva.
Tutte le ragioni esposte trovano molteplici appigli nelle indagini già sviluppate dagli antropologi della cultura e da quelli del diritto, o da quanti
a vario titolo studiano i diritti indigeni e la loro storia, diversamente il “legame di solidarietà” quale carattere basilare dei diritti indigeni, sembra
meritevole di una maggiore attenzione da parte del latinoamericanista, in
ragione sia della sua valenza “interculturale” sia della sua propensione
“normativa”. Invero, il binomio solidarietà-reciprocità come individuato
nelle indagini giuridico-antropologiche (Míguez Núñez, 2013: 435) vanta legami con la solidarietà ribadita nelle costituzioni più recenti, dove
al principio stesso è riconosciuta una specifica funzione di intervención
(de Cabo Martin, 2006: passim) e di deber (Quinche Ramírez, 2009: 91
ss.). Intervención e deber mettono in crisi gli elementi tassonomici della
proprietà del sistema giuridico romanistico. Per un verso, i beni sono
ancorati alla logica della titolarità, nel senso che, a seconda della loro
appartenenza, in base a quanto dispongono diffusamente i codici civili, sono di dominio pubblico o di proprietà privata. Per un altro verso,
non consentono una loro estensione alla proprietà del bene acqua, del
bene terra e del bene aria, o di quant’altro tra i beni considerabili nelle
tradizioni ctonie come beni comuni per antonomasia, in quanto il giurista della tradizione romanistica sarebbe propenso a sistematizzare i beni
stessi tra gli schemi codicistici, notoriamente disegnati in relazione alla
proprietà delle cose corporali e alla proprietà fondiaria in particolare. I
beni della Pachamama, assieme ad altre categorie di beni – al riguardo
può essere significativo richiamare l’esempio dei beni oggetto di proprietà intellettuale – sono invece categorie ontologicamente diverse, che mal
si attagliano al concetto di una possibile proprietà indigena. Si tratta di
beni che prescindono dal binomio pubblico-privato e che non sembrano
“oggettificabili”, in quanto il soggetto è parte dell’oggetto senza possibilità di addivenire a mercificazioni.
202
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Vulnerabilità del bene comune acqua
Sabrina Lanni
La ragione di questa differenza risiede in una diversa concezione della
esclusività (non del singolo ma della collettività) e del tempo (non solo a
favore della vita presente ma anche di quella futura), come anche nella
prevalenza della logica del dovere rispetto a quella del diritto (non solo
utilizzo ma anche preservazione). Ancor prima, l’uomo stesso risponde
per i popoli indigeni ad una visione olistica, e le nuove costituzioni latinoamericane ne hanno colto la relativa istanza conferendo valore giuridico
alla simbiosi che unisce i diritti dei popoli indigeni e i diritti della natura.
I beni comuni della Pachamama o della Madre Tierra rispondono quindi
ad una logica di resistenza verso la loro appropriazione esclusiva, così
come verso la sfruttabilità delle risorse naturali di cui sono considerati
vittime nella prospettiva capitalistica. Dal punto di vista sistematico, i
diritti dei popoli indigeni al riconoscimento, all’uso e alla partecipazione nella gestione dei beni comuni si possono far rientrare in una nuova
prospettiva socio-ambientale del diritto, nei cosiddetti diritti di quarta
generazione, dove il diritto individuale è chiamato a contemperarsi con
il diritto collettivo, sia da punto di vista sostanziale che da quello processuale, nella prospettiva di un dialogo finalizzato al loro riconoscimento
effettivo o al loro rafforzamento sostanziale in sede globale (Ferrarese,
2011: 564).
È esplicito il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni all’uso e
alla partecipazione nella gestione dei beni comuni che si rinviene nelle
ultime costituzioni latinoamericane. Invero, il richiamo in sede costituzionale al sumak kawsay e al suma qamaña danno riscontro municipalizzato a principi ancestrali, che si ritrovano in moltissime culture ctonie
dell’America Latina, tra le quali si possono ricordare, a titolo di esempio,
quella dei tseltal, che parlano di lekil kuxlejal, e quella dei guaraní del Paraguay, che si rifanno al nande reko (Melià, 1988: 33; Paoli, 2003: passim).
In altre parole, i richiami stessi incorporano la cultura ctonia nell’identità
latinoamericana e sottraggono all’arbitrio dei governi in carica le scelte
politiche relative a questi temi: il sumak kawsay e il suma qamaña sono divenuti ufficialmente obiettivi del lungo periodo (Gudynas, 2009: passim).
Questi concetti – o meglio questi obiettivi di vita – discussi e illustrati nella bibliografia specialistica (Walsh, 2008; de Sousa Santos, 2010),
promuovono comunemente, per tutte le scelte che incidono sulla Madre Tierra, la necessità di una distinzione aprioristica tra “vivere bene”
e “vivere meglio”, e quindi promuovono sia una critica alla situazione
socio-economica attuale, sia una proposta di ricostruzione sociale, culturale e politica per ciò che pertiene ad ogni paese. La rilettura delle
democrazie latinoamericane alla luce dei questi concetti limita le scelte
miopi, pone un limite al maldesarrollo, promuove la progettazione del
post-capitalismo o, come preferiscono altri, del otro desarrollo (Gudynas,
2009: 275), dell’etnodesarrollo (Bonfi Batalla, 1982: 131-145), del pachamamismo (Houtart, 2011). In sintesi: il desarrollo a servizio del buen vivir e della salvaguardia dell’acqua, della terra, dell’aria, ecc., o in altre
parole, la prevalenza delle scelte ecologico-qualitative rispetto a quelle
economico-quantitative.
Emergono insomma obiettivi di lungo periodo. Il buen vivir rappresenta un principio polisemico e transistematico che è frutto della costruzione e ricostruzione di concetti largamente giuridici operata in seno alla
dottrina indigenista: esso incoraggia le distanze dal capitalismo e dal suo
archetipo di società eurocentrica-nordamericana, favorendo per un verso
la diminuzione della forbice tra tradizioni ctonie e ordinamenti giuridici, e per un altro verso il riequilibrio del rapporto tra Stato e proprietà
privata, ripristinando ad ampio raggio i beni comuni fra i temi del diritto
costituzionale e delle dimensioni ontologiche che pertengono a questa
materia nel nuovo costituzionalismo latinoamericano.
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205
2. Vulnerabilità dell’acqua come bene comune tra diritti e garanzie
Inquinamento dell’acqua, alterazione degli ecosistemi, privatizzazione delle risorse idriche e politiche socialmente irresponsabili ledono diritti e garanzie che in America Latina sono affermate nello specifico a
livello costituzionale (Mezzetti, 2012: 554). Invero, il costituzionalismo
latinoamericano recente denota sviluppi importanti in relazione al riconoscimento del diritto all’acqua: acqua non solo come bene costituzionale autonomo ma anche come bene incisivo nel quadro di più ampie
garanzie precedentemente riconosciute. Il diritto al medio ambiente, già
ampiamente tutelato nelle nuove costituzioni latinoamericane dagli anni
‘80 in poi (ad esempio, art. 225 caput del Brasile/1988, art. 268 del Paraguay/1992, art. 41 dell’Argentina/1994, art. 47 dell’Uruguay/1997; art.
Vulnerabilità del bene comune acqua
Sabrina Lanni
4 del Messico/1999), trova nell’ultimo decennio un ulteriore supporto e
specificazione nel riconoscimento normativo dei diritti indigeni e della
tradizione ctonia che pertiene al buen vivir (nello specifico, artt. 12-34
dell’Ecuador/2008, artt. 9 e 30 Bolivia/2009).
L’acqua è parte del buen vivir, pertanto essa sottende un valore assiologico ed un disegno programmatico che muovono congiuntamente
dal piano internazionale a quello municipale senza soluzione di continuità. Se l’acqua come bene comune pertiene a tutti i popoli, a tutte le
persone, a tutte le generazioni, è allora evidente che l’acqua rappresenta
un bene giuridico globale. Invero, benché riunisca le caratteristiche che
si attribuiscono ai beni privati – il suo consumo per una persona o per
un gruppo diminuisce la disponibilità del bene stesso da parte di altri,
oppure una persona o un gruppo possono escludere altri dal consumo
– l’acqua emerge nel panorama giuridico internazionale come un bene
sovrastatale.
È un percorso snodato in molteplici tappe: dalla conferenza di Rio de
Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo (1992), alla Dichiarazione dell’Unesco sulle responsabilità per le generazioni presenti verso le generazioni
future (1997), fino alla Dichiarazione di Montevideo sulla cittadinanza
ambientale del Parlamento latinoamericano (2007) e alla Risoluzione
dell’Assemblea dell’Onu sul diritto umano all’acqua e ai servizi igienicosanitari di base (2010), che congiuntamente promuovono l’acqua come
bene comune e il riconoscimento del ripristino ecologico come pretesa
specifica della natura. Si tratta di un percorso fondamentale nella prospettiva giuridica latinoamericana, dove appare utile rimarcare come il
passaggio dal pluralismo sociale allo Stato plurinazionale promuova autonomamente l’allocazione della natura da oggetto a soggetto titolare di
diritti (Baldin, 2014).
L’incidenza della normativa gius-internazionalistica sul tema dell’acqua non vuol dire che l’accesso e l’effettività del bene stesso incombano
sul piano esclusivamente internazionale. Certamente l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nella risoluzione 64/292 del 28 luglio 2010, riconosce il diritto all’acqua potabile e al suo risanamento come un diritto
umano fondamentale, per il pieno svolgimento della vita e per la realizzazione di tutti i diritti umani. Essa esorta gli Stati e le organizzazioni
internazionali affinché intensifichino i loro sforzi per garantire a tutta la
popolazione l’accesso all’acqua potabile e alla sua tutela. Diritto all’uso
dell’acqua e diritto alla bonifica dell’acqua pubblica costituiscono la base
su cui è stato incardinato a livello internazionale il quadro giuridico del
diritto all’acqua. Dalla Convenzione internazionale sui diritti del bambino del 1989 (art. 24) al Patto internazionale dei diritti economici, sociali e
culturali del 2002 (artt. 11 e 12) emerge una linea di pensiero che rimarca
due aspetti fondamentali del diritto in questione, vale a dire: l’acqua è
una risorsa naturale limitata; l’acqua è un bene pubblico fondamentale
per la vita e la salute (Cescr, 2003: Introduction).
Il riconoscimento internazionalistico del diritto all’acqua ha spronato
le singole esperienze giuridiche sul piano sostanziale e nello specifico ha
dato forza a quelle latinoamericane. In quest’ultime, il diritto stesso già
muoveva da comuni dinamiche endogene, sebbene il quadro normativo
di riferimento rifletta tuttora una varietà di tecniche legislative adottate
in sede nazionale: alcuni ordinamenti sono dotati di una legge generale
sulla gestione del patrimonio idrico (Argentina, Bolivia, Brasile, Ecuador, Messico, Perù, Paraguay), che si configura talvolta come normativa
settoriale rispetto alla legislazione generale in materia ambientale (così in
Bolivia, Cile, Colombia, Messico, Uruguay, Venezuela); altri ordinamenti
hanno optato per la collocazione del regime delle acque in un codice di
settore (Brasile, Cile, Uruguay). L’analisi comparatistica dell’approccio
metodologico prescelto dalle varie esperienze giuridiche sottolinea come
gli Stati appaiano comunemente richiamati su tre fronti: accesso all’uso
dell’acqua e alla soddisfazione delle necessità vitali; diritto alla somministrazione domiciliare di acqua potabile; preservazione della qualità e
della quantità del bene per tutte le persone. Si tratta di un’impostazione affine a quella delle esperienze giuridiche europee, dove si denotano
sforzi in tal senso anche a livello di aree giuridiche sub-regionali: nell’Unione Europea non mancano normative di supporto, come ad esempio la
direttiva 2000/60/CE, dove la preoccupazione per la qualità dell’acqua
assume carattere prevalente.
Più accentuato è il panorama latinoamericano dove il recepimento
della normativa internazionale e la virata biocentrica del nuovo costituzionalismo (Gudynas, 2009: 34) incidono sui doveri di precauzione verso
il bene acqua e di ripristino verso la sua integrità. L’acqua, quale diritto
umano recepito nel contesto giuridico latinoamericano, nonché quale
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Vulnerabilità del bene comune acqua
Sabrina Lanni
elemento basilare della cosmovisione indigena, impone tre obbligazioni
agli Stati, vale a dire respetar, proteger e cumplir. In questa prospettiva
prendono operatività le osservazioni generali sul derecho al agua del Comité de Derechos Ecónomicos Sociales y Culturales (Ginevra 2002, parr.
20-38). È come dire che l’acqua determina nei singoli ordinamenti giuridici latinoamericani – in quanto bene costituzionalmente garantito a più
livelli: a) bene acqua in sé e per sé tutelato; b) bene acqua quale parte del
medio ambiente; c) bene acqua quale parte del buen vivir –, per un verso,
il diritto alla preservazione dell’acqua come bene intrinseco della natura,
che dunque prevale rispetto agli interessi dei singoli; per un altro verso,
lo spostamento del baricentro dell’impegno statuale, che muove dal momento riparatorio a quello precauzionale. Significativo è il richiamo agli
artt. 72 e 73 della nuova costituzione ecuadoriana, dove si riconosce il
diritto al ripristino della natura nonché alla precauzione e alla restrizione
dell’alterazione dei cicli naturali e della distruzione degli ecosistemi.
capolino l’esigenza dei cittadini di gestire in modo integrato le risorse
idriche, o quella dei popoli indigeni di favorire la loro partecipazione
nelle decisioni dello Stato sulla gestione del bene comune, nonché quella
degli uni e degli altri di eticizzare maggiormente il bene acqua, o in altre
parole di preservare quella che la mitologia incas chiama complessivamente la Mama Qocha. Sullo sfondo appare una consapevolezza comune:
la gobernabilidad del agua è in crisi. Il punto della questione da circa un
decennio è stato focalizzato nitidamente dal Cepal nel precisare che «se
habla de la crisis de gobernabilidad en la gestión del agua porque los conflictos por el uso del agua, siguen agravándose, mientras que la capacidad
de solucionarlas empeora» (Cepal: 2001: 10).
Alla consapevolezza summenzionata se ne aggiunge un’altra in modo
strettamente connesso: la ricerca di una giustizia per l’acqua è fondamentale per realizzare una giustizia per la natura o per la Pachamama. La
prospettiva biocentrica dei popoli indigeni, a cui ha dato formalmente
voce il nuovo costituzionalismo latinoamericano, pervade la concezione
dell’acqua come vincolo di tutti i fenomeni della vita (Bogantes, Muiser,
2011: 8).
Viene da chiedersi cosa favorisca il permanere della crisi dell’acqua
a fronte di assetti normativi internazionali, nazionali e municipali via via
sempre più attenti al tema dell’acqua come bene comune. È possibile
individuare una matrice comune rispetto alle molteplici cause della crisi
sicuramente di natura poliedrica? La risposta a queste domande rappresenterebbe di per sé un primo tentativo di soluzione, e non a caso essa
rappresenta il punto di partenza dell’operatività di una significativa istituzione di giustizia alternativa, il Tribunal Latinoamericano del Agua, a
cui è dedicata attenzione nel paragrafo successivo.
Per motivi di sintesi, in questa sede appare preferibile individuare
due ordini di ragioni (l’uno ex ante e l’altro ex post) che incidono sulla persistenza della crisi dell’acqua e della sua vulnerabilità giuridica. Il
primo è inerente alla gestione pubblico-privata dell’acqua e delle risorse
idriche, e quindi al ruolo latinoamericano della volontà popolare, quale
portatrice di un potere politico non delegato ai rappresentanti (gli elettori in un’impostazione di matrice rousseauniana sono anche legislatori
e amministratori della res publica nell’interesse della collettività), soprattutto quando la privatizzazione o meno di un bene comune incida sulla
208
3. Crisis del agua a fronte dell’impegno delle esperienze giuridiche
latinoamericane
Il crescente impegno gius-internazionalistico e i doveri emersi nel sistema giuridico latinoamericano a favore dell’acqua come bene comune
non arginano le sue molteplici vulnerabilità. A fronte di un’area geografica dove è localizzato il 31% di tutte le risorse idriche del mondo,
emergono problemi legati alla desertificazione di alcune regioni (in modo
particolare in Messico, in Cile, nella costa del Perù, nella pampa dell’Argentina), così come all’uso sproporzionato del bene acqua in alcuni paesi
rispetto agli altri della stessa regione (ad es. il Messico diversamente dal
Brasile), o anche alla deregolamentazione delle monocolture intensive (e
quindi alle forme di inquinamento idrico mediato dalle alterazioni biologiche del suolo), nonché all’invadenza dei progetti idroelettrici plasmati
sulle esigenze delle metropoli (e sulla globalizzazione delle esigenze), e
non da ultimo alle economie di mercato che sono favorite dai trattati di
libero commercio (a cui la normativa di protezione ambientale soggiace
per essere la prima di gerarchia superiore).
Cresce l’esigenza di riportare la ley al servizio del poder: qua e là fanno
209
Vulnerabilità del bene comune acqua
Sabrina Lanni
gestione e sulla gobernanza del bene stesso. Sullo sfondo si percepisce
il timore per la privatizzazione: in molti ordinamenti latinoamericani si
paventa la conversione dell’acqua in un bene di mercato, che sia retto
dalle leggi dell’offerta e della domanda, sulla scia dell’esperienza cilena
culminata nella promulgazione del código de aguas del 1981, quale frutto
di una politica estremista (oggi storicamente datata) che ha favorito la
mercificazione del bene stesso, la lesione del diritto umano all’acqua e
la creazione di molteplici conflitti socio-ambientali (ad es. in Petorca,
Caimanes, Copiapó). Nello stesso Cile si cerca di tornare sui propri passi: più parti spingono il legislatore cileno ad una revisione del código, al
fine di stabilire le priorità nell’uso e nella gestione dell’acqua, e limitare
la prevalenza delle esigenze del mercato e delle parti forti sui cittadini e
le parti deboli.
Quelli cileni sono timori noti all’osservatore dell’esperienza giuridica
italiana, dove lo svilimento del concetto di acqua come bene pubblico
ha favorito nell’ultimo trentennio un consolidato trait d’union tra la cosiddetta legge Galli sulle disposizioni in materia di risorse idriche (legge
nr. 36 del 1994), il pensiero della corte costituzionale italiana sull’acqua
come diritto fondamentale (sent. nr. 259 del 19/7/1996) e il nuovo codice
dell’ambiente in relazione al riconoscimento della demanialità di tutte le
acque e alla subordinazione ecosostenibile del loro uso (2006). Si tratta
di un percorso tracciato da più formanti che può creare un dialogo con
l’esperienza giuridica cilena, sia al fine di consentire in quel contesto la
riaffermazione della pubblicità dell’acqua e la sua sottrazione a regimi
meramente privatistici, come pure la promozione di una tutela integrata e comprensiva dell’intero ciclo delle acque, sia al fine di consentire
una riflessione approfondita da parte del legislatore italiano sugli effetti
connessi alla qualificazione dell’acqua come bene patrimoniale dotato di
valore monetario (a cui né la legge Galli né il codice dell’ambiente sono
riusciti ad ovviare).
Il secondo ordine di ragioni sopra richiamate incide ex post sulla vulnerabilità dell’acqua: la legittimazione, o meglio la frammentarietà della
legittimazione ad agire a tutela dell’acqua, rappresenta il punto cruciale
degli assetti normativi delineati a livello formale. Come evidenziato dagli studiosi intervenuti sul tema, la problematica connessa ad un tratto
singolo di un fiume latinoamericano può richiamare la competenza e la
legittimazione ad agire di circa centocinquanta attori differenti, tra i quali
i municipi, le segreterie regionali, i ministeri, i pubblici ministeri, le imprese pubbliche, e gli utenti senza che essi comunichino tra di loro o coordinino le proprie azioni (Bogantes, Muiser, 2011: 10). Come dire che la
gestione politica dell’acqua, non solo fa affidamento su una frammentata
legittimazione, ma è anche strutturalmente poco efficiente.
Entrambe le ragioni esposte indicano la presenza di due forze, che si
contendono la visione dell’acqua come bene e conseguentemente della
sua gestione, e che quindi suggeriscono la necessità di un bilanciamento
tra le istanze dei portatori di grandi interessi economici (gruppi imprenditoriali nazionali e/o stranieri), volte alla ricerca di alleanze politiche
ed economiche con i governi in carica (il diritto a servizio degli interessi
economici), e tra le istanze degli utenti (singoli, collettività, popoli) e i
loro rappresentanti (defensorías, ministeri della salute e dell’ambiente o,
in senso lato, rappresentanti della tutela del medio ambiente), volte al
rispetto del diritto all’acqua ed al rispetto dell’acqua come bene comune
(il diritto a servizio dell’uomo e del pianeta).
L’esigenza di questo equilibrio non solo è giuridica ma anche sociale.
Il derecho a la consulta previa (cfr. ad esempio artt. 79, 80 e 330 cost. Colombia; art. 56, lett. f, cost. Ecuador; art. 30, c. II, p.to 15, cost. Bolivia)
e le garanzie che ad esso pertengono, nel quadro della virata biocentrica
del sistema giuridico latinoamericano, riassettano le forze di cui sopra
nell’imposizione di una nuova lettura dell’agua como bien público. A questa lettura, che trova molteplici appigli a livello del diritto internazionale,
sono chiamate in modo impellente le singole esperienze giuridiche latinoamericane, anche in considerazione dei punti comuni già formalizzati in
sede di redazione della Declaración Latinoamericana del Agua.
Molteplici manifesti politici sull’acqua, rivoluzioni cittadine (Bolivia,
2000), rivoluzioni democratiche (Messico, 2010; Cile, 2014), proposte di
riforme e di integrazioni costituzionali sul diritto all’acqua (Costa Rica,
art. 50), progetti di legge attuativi dei riconoscimenti internazionali sul
tema (Perù, legge nr. 1456 del 2012): un fermento di idee e attività caratterizza nell’area latinoamericana la rivisitazione dell’acqua come bene
comune o come bene globale. Si tratta di un fermento che dà conto di
una società evoluta e in fase di operosa trasformazione culturale nonché
giuridica, dove prende piede diffusamente una ética ambiental exigente
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211
Vulnerabilità del bene comune acqua
Sabrina Lanni
come forma di risposta alla crisi socio-ambientale del pianeta. Proprio a
questo riguardo merita attenzione specifica l’istituzione e la promozione
di un organo ad hoc, che in chiave transdisciplinare considera il bene
acqua quale mixtum compositum, in un sistema assiologico dove l’oggettivazione e la soggettivazione del bene stesso non presentano soluzione
di continuità.
idrico (con riferimento all’esperienza messicana), ed un ultimo legato ai
riflessi ambientali che presenta la costruzione di imprese nell’Amazzonia
brasiliana (con attinenza allo sfruttamento del fiume Madeira).
L’analisi dei casi affrontati dal Tla mostra una valenza transdisciplinare del suo impegno. Si tratta di un impegno che non è meramente
giuridico: esso mostra una forte valenza etica, dialogica e precauzionale.
Il processo è inteso come un’azione sovranazionale, che fa perno sul riconoscimento di valori etico-ambientali, espressi in testi normativi, siano
essi convenzioni o trattati o leggi nazionali, a prescindere dalla schematizzazione di matrice statuale-legalista, e dal suo riverbero nel vaglio della
efficacia e della effettività delle regole giuridiche.
Dal punto di vista procedimentale, abilitata a proporre azione è la
parte (singolo, collettività di persone, popolo indigeno) che ritenga leso
dall’azione od omissione di un’altra parte (persone, governi, imprese) un
interesse ultraindividuale di particolare rilevanza per la crisi di governabilità dell’acqua, e quindi per la preservazione della vita e degli ecosistemi. Il procedimento termina con un verdetto, che è proposto sulla
base di alcuni principi comuni dell’operare del Tla (l’analisi sistematica
dei casi sottoposti, l’individuazione di principi ecocentrici, l’accettazione
della prova giudiziaria, l’inversione dell’onere della prova, l’applicazione
del principio precauzionale), e che a sua volta contiene oltre alla formulazione della sentenza le raccomandazioni proposte dal Jurado.
Si tratta di un carattere di spicco nella dinamica dei sistemi giuridici e
della circolazione delle idee. Il processo non si arresta con l’emanazione
del verdetto. La soluzione del caso concreto suggerisce all’osservatore
straniero un valore ultra partes nel senso che è finalizzata a favorire un
consenso politico e sociale di lungo periodo, in modo da favorire la comprensione e la condivisione del cambiamento di un paradigma, grazie
al quale l’uomo e il politico dismettano la veste di “predatori” dell’acqua, per guardare oltre i confini egoistici dei propri interessi. Viene fatta
salva la logica dell’impegno intergenerazionale: in questa prospettiva è
incisiva la Declaración del agua proposta dallo stesso Tla quale sintesi
della cosmovisione dei popoli indigeni e delle normative etico-giuridiche
di matrice internazionale (dalla Convenzione di Ginevra del 1923 sullo
sviluppo di opere idroelettriche che riguardino più di uno Stato, alla Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992 sull’ambiente e sullo sviluppo).
212
4. A favore di una giustizia alternativa: il Tribunal Latinoamericano del
Agua
Il Tribunal Latinoamericano del Agua (Tla) rappresenta una forma di
risposta alle diffuse istanze di giustizia alternativa e di soluzioni fattive
per la lesione degli interessi pubblici e sociali connessi all’acqua. Si tratta
di un’istituzione che dalla sua prima riunione (San José di Costa Rica,
2000) si è ispirata ad un modello di giustizia improntato all’ética exigente, vale a dire ad una morale ambientale finalizzata alla protezione della
vita nel pianeta. I circa cinquanta verdetti finora emanati si collocano in
questa prospettiva. Benché l’obiettivo specifico del Tla sia quello di favorire nell’area latinoamericana il recepimento e l’applicazione di norme
e principi internazionali per la sostenibilità idrica, ad esso si affianca anche un obiettivo globale che pone la questione idrica all’attenzione degli
operatori dell’istituzione stessa a prescindere dalle ripercussioni latinoamericane o meno che il singolo problema possa avere. L’enfasi sul diritto
umano all’acqua, sulla tutela dell’acqua come tutela della salute e sulla
divulgazione degli effetti nocivi di alcune politiche idriche rappresentano
tre obiettivi che enfatizzano la centralità della persona nella logica del
sistema giuridico latinoamericano (Catalano, 1990: 116).
Dunque, acqua non solo come bene comune latinoamericano, ma
anche come bene globale degli uomini. In questa prospettiva si colloca
un graduale coinvolgimento del Tla nelle problematiche di altri paesi:
invero, ad Istanbul sono stati giudicati a partire dal 2009 cinque conflitti,
dei quali tre connessi alla ponderazione tra costi e benefici che emerge in
sede di sviluppo dei progetti idroelettrici (con attenzione a quelli dei fiumi Tigre, Eufrate e Çoruh), un altro relativo all’impatto socio-ambientale
ad ampio raggio che possono avere le politiche statali di sfruttamento
213
Vulnerabilità del bene comune acqua
Sabrina Lanni
La vulnerabilità del bene acqua in sé e per sé considerato, così come il
cambiamento di prospettiva strategica di cui esso necessita, vede i popoli
indigeni promotori naturali delle singole istanze di giustizia di fronte al
Tla. Uno degli esempi possibili è quello offerto dai mazahua, il popolo
indigeno più numeroso dello Stato del Messico, che ha posto all’attenzione della società latinoamericana i riflessi nefasti connessi, in parte alla
costruzione della diga Cutzamala, e quindi all’impatto delle dighe sull’equilibrio ecologico, in parte al depauperamento idrico del loro territorio,
e quindi all’alterazione ambientale dei territori indigeni, a favore dell’estensione e delle esigenze delle città-megalopoli (Bogantes, Muiser, 2011:
83).
Possono trovare una risposta esauriente nel risarcimento dei danni
subiti e nelle azioni inibitorie le alterazioni dei territori indigeni, come
pure la violazione delle identità culturali, o anche le logiche capitalistiche
usurpatrici dei diritti umani, nonché le migrazioni indigene e contadine
e la creazione di nuovi poveri? La lotta del frente mazahua per il diritto
all’acqua svela quanto la risposta sarebbe pleonastica e palesa il problema stesso non solo in chiave risarcitoria ma anche in chiave costruttiva.
Invero, quello dei mazahua non è un caso isolato, poiché essi insieme alle
nazioni indigene coadiuvate dal Consejo Nacional de Ayllus y Markas del
Qullasuyu (della Bolivia) e, tra gli altri, ai boruca e teribe (del Costa Rica),
hanno posto comunemente all’attenzione della comunità internazionale
la necessità di rivalutare l’acqua secondo logiche ctonie, vale a dire: rivisitazione delle politiche economiche nazionali (limite alla monetizzazione
di beni comuni), rivalutazione della transgenerazionalità (margine allo
sfruttamento temporale dei beni comuni), incentivo dei sistemi di sviluppo ecocompatibili (finanziamento di progetti idrici per il riciclo e/o l’uso
delle acque piovane).
Concludendo, il Tla irrompe nella tendenza del monismo giuridico e
stravolge la pericolosa visione statal-legalista dell’acqua come bene pubblico, come bene lucrativo o produttivo di pertinenza dello Stato, anziché
come bene comune degli uomini o come bene a valenza etica e sociale per
tutti gli uomini. L’acqua bene comune, che è calata per definizione in una
dimensione diacronica, non coincide e non potrebbe coincidere con la
somma dei “beni particolari”, poiché si colloca sul piano della convergenza di una pluralità di elementi qualitativi e quantitativi differenziati:
le parti non si sommano ma si incorporano su un tutto organizzato nel
quale si ha una specificazione di qualità e relativa integrazione. I singoli
poteri giurisdizionali degli ordinamenti latinoamericani appaiono tendenzialmente spogliati delle loro prerogative di giudizio e di condanna a
favore del Tribunal Latinoamericano del Agua, un’istituzione multiculturale e interdisciplinare dove emerge un’ampia partecipazione (operatori
del diritto, contadini, indigeni, politici) ed una competenza multilivello
(ambientale, giuridica, economica, antropologica ed epidemiologica),
che rendono l’obiettivo cui mira la nuova percezione ambientale.
214
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216
Abstract: This article aims to investigate the “use” and the “participation” in water management. These are peculiar features of a fundamental right largely recognized in Latin American Countries.
As a matter of fact, water as a common good is a constitutional
right guaranteed at multiple levels. The identification of this right
Keywords: Water, Environmental law, Rights of nature, Alternative
dispute resolution.
217
Food Sovereignty: processi di democratizzazione
dei sistemi alimentari in America Latina
di Angelo Rinella21*
SOMMARIO: 1. Cenni introduttivi. – 2. La sovranità alimentare di fronte
all’attuale governance del “global food system”. – 3. Il radicamento
della sovranità alimentare in America Latina. – 4. La costituzionalizzazione della sovranità alimentare. Tre casi di studio: Venezuela,
Ecuador e Bolivia. – 4.1. La costituzione bolivariana del Venezuela
(1999). – 4.2. La costituzione dell’Ecuador (2008). – 4.3. La costituzione della Bolivia (2009). – 5. Cenni conclusivi.
1. Cenni introduttivi
«Chi esercita il governo e il controllo sul cibo, governa il popolo; chi
esercita il controllo sul petrolio e sulle risorse energetiche, controlla le
nazioni». Questa visione veniva rappresentata da Henry Kissinger, ex
segretario di Stato americano negli anni ‘70, nel prospettare gli scenari
globali del prossimo futuro. Una visione in qualche modo profetica che
anticipava la centralità dei problemi relativi al governo e al controllo dei
processi di produzione e distribuzione del cibo. Questioni che hanno
assunto posizioni nevralgiche in relazione alla diffusione globale dei fenomeni di malnutrizione e di carenza di cibo che colpiscono una parte
sempre più vasta della popolazione mondiale.
È in relazione a questo complesso e articolato aggrovigliarsi di problemi che si è andata sviluppando l’idea della food sovereignty. Intorno a
questa idea si è raccolta l’attenzione e l’interesse di diversi soggetti: ovviamente le organizzazioni degli agricoltori, degli allevatori, dei pescatori;
ma anche le organizzazioni rappresentative dei popoli indigeni, le ong, le
organizzazioni della società civile. Una rete di soggetti e movimenti so*
Professore ordinario di Diritto pubblico comparato nell’Università Lumsa di Roma.
Food Sovereignty
Angelo Rinella
ciali che, ispirandosi al concetto e all’idea di food sovereignty hanno dato
vita ad una rete globale di movimenti e ad una serie di conferenze, forum
e dichiarazioni che hanno assunto rilevanza internazionale. Agli inizi degli anni ‘90, il movimento latinoamericano La Vía Campesina, un movimento di agricoltori su scala locale, aveva promosso e sviluppato l’idea di
sovranità alimentare con l’intento di promuovere politiche innovative e
alternative rispetto alle dominanti politiche neoliberali per conseguire gli
obiettivi della food security. In occasione del World Food Summit del 1996
(Roma), fu lanciata l’idea di includere sotto il concetto di food sovereignty
un insieme di politiche che su scala internazionale avrebbero potuto far
fronte ai fenomeni di malnutrizione e di povertà che, specialmente nelle
aree rurali più povere del globo, rappresentavano una sfida e, al tempo
stesso, una provocazione per i protagonisti della politica internazionale.
Per quanto il tema avesse attirato l’attenzione della comunità internazionale, diventando oggetto, ad esempio, della Dichiarazione di Roma
del 1996 (World Food Summit) che impegnava gli Stati partecipanti a
contribuire a una riduzione significativa della popolazione mondiale
povera e affamata entro il 2015; per quanto fosse stato indicato tra gli
obiettivi dei programmi di sviluppo del nuovo millennio, sia nell’ambito
di accordi bilaterali che multilaterali; malgrado tutto ciò, gli approcci
tradizionali ai temi richiamati dalla sovranità alimentare si sono rivelati
fallimentari. Tanto è vero che, come risulta dai dati elaborati dalla Fao,
la popolazione povera e malnutrita rappresenta oramai una componente
cronica della popolazione mondiale e conosce un incremento costante
pari a cinque milioni di individui per anno. Dunque, il concetto di food
sovereignty pone una questione di ordine globale che vede da un lato il
ruolo che viene svolto da quella rete internazionale di soggetti governanti
l’economia globale (World Trade Organization, International Monetary
Fund, World Bank) secondo categorie neoliberali, e dall’altra il dilagante
problema della fame, della malnutrizione e della povertà che minaccia in
prospettiva, specie per le sue implicazioni sociali e demografiche, anche
le nazioni ricche. Per altro verso, la food sovereignty richiama l’attenzione
anche su quelle politiche nazionali che possono essere rivolte a ridurre la
povertà nelle aree rurali e a eliminare la malnutrizione e la fame. In linea
di principio, il riconoscimento e la corretta applicazione del “diritto al
cibo” costituisce uno strumento giuridico in grado di assicurare, all’inter-
no di uno Stato, standard legali e misure politiche di contrasto alla fame
e alla malnutrizione. Dunque, il concetto di sovranità alimentare richiama necessariamente la questione del diritto al cibo, inteso come fondamentale diritto umano dal quale scaturiscono, anche in virtù dei trattati
internazionali sui diritti umani, una serie di obblighi a carico degli Stati.
Si stima che per i prossimi quattro decenni la maggioranza della popolazione povera mondiale continuerà a vivere nelle aree rurali. Le politiche
coerenti con l’idea di sovranità alimentare rappresentano dunque un importante contributo alla ricerca di vie alternative e innovative per contrastare il fenomeno della fame e della malnutrizione. Il punto di partenza
comune rinvenibile nel dibattito internazionale sulla food sovereignty sta
nella potenziale idoneità delle politiche correlate a questo concetto a far
fronte alla fame e alla povertà nelle aree rurali. Il tema vede coinvolti
soggetti della società civile e istituzioni internazionali, oltre che esponenti
del mondo scientifico impegnati a ricercare risposte credibili alle questioni emergenti. La ricchezza del dibattito in corso e delle sollecitazioni provenienti da attori nazionali e internazionali, le interpretazioni e le
espressioni delle politiche agricole praticate in varie parti del mondo che
pure si ispirano all’idea della food sovereignty, rappresentano ancora oggi
una sorta di caleidoscopio che non consente di definire un modello unitario di sovranità alimentare; appare piuttosto un concetto dinamico, che
può fare da incubatore per nuove idee e da motivo ispiratore per nuove
politiche.
220
221
2. La sovranità alimentare di fronte all’attuale governance del “global
food system”
La crisi alimentare nel 2007 ha messo in luce come l’attuale regime
dei processi di produzione e distribuzione del cibo (food system) a livello
globale presenti un accentuato grado di volatilità, di imprevedibilità, di
rischio per le popolazioni povere e, in definitiva, di iniquità. Alla radice
dei movimenti che si ispirano all’idea della sovranità alimentare sta la
convinzione che il cibo non può essere trattato come un qualunque altro
bene di consumo. L’attuale sistema di produzione del cibo a livello globale nasce all’indomani della seconda guerra mondiale ed è, al momento,
Food Sovereignty
Angelo Rinella
sotto il controllo delle multinazionali agro-alimentari e del Wto. Questo
assetto ha determinato condizioni di iniquità su scala mondiale.
In primo luogo, l’attuale sistema attribuisce ai paesi cosiddetti sviluppati e industrializzati una serie di vantaggi sproporzionati; questi paesi
sostengono in modo consistente i propri agricoltori a differenza di quanto avviene nei paesi in via di sviluppo dove gli agricoltori, per carenza
delle risorse, non ricevono alcun supporto dai propri Stati nazionali e
dunque non riescono a mettere in campo azioni adeguate per controbilanciare la situazione di squilibrio. Questo sistema tende a penalizzare e
a emarginare i piccoli produttori e i paesi non industrializzati. Da parte
sua, inoltre, il Wto esercita un potere di interferenza e di influenza sulle
politiche agricole statali che appare obiettivamente abnorme. La regolamentazione dettata dal Wto favorisce le multinazionali del settore agroalimentare a danno dei produttori che operano su piccola scala. Infine,
la produzione agricola intensiva sostenuta, soprattutto nei riguardi dei
paesi in via di sviluppo, dagli organismi internazionali che governano i
flussi finanziari, danneggia la biodiversità e presenta forti implicazioni
negative per l’ambiente e la salute umana.
Contro questo regime, i promotori della sovranità alimentare ne mettono in luce i numerosi fallimenti e la necessità di una radicale riforma. In
estrema sintesi i punti che emergono dal dibattito attuale sono i seguenti
(Issaoui-Mansouri, 2011; Ariate, 2011; Fabe, 2011):
- quanto alla produzione, la prima questione da definire riguarda le politiche commerciali che hanno ad oggetto prodotti alimentari. Il cibo
non può essere assoggettato agli stessi accordi di commercio internazionale che governano il commercio degli altri beni di consumo;
l’accesso al cibo è un bisogno essenziale ed è un diritto fondamentale.
- Allo stato attuale, gli accordi internazionali privilegiano la quantità
rispetto alla qualità e alla biodiversità (la varietà dei prodotti). Un
sistema ispirato ai principi della sovranità alimentare pone al primo
posto nella gerarchia dei valori da preservare la biodiversità, la tutela
dell’ambiente e della salute umana, la giustizia sociale. Il cibo, per
le funzioni che assolve, non può ricadere sotto le ordinarie norme
regolamentari che disciplinano il commercio internazionale; si deve
riconoscere la sua condizione speciale e conseguentemente sottoporlo
ad una disciplina speciale.
- I sostenitori della sovranità alimentare richiamano anche il principio
di sussidiarietà. Essi, infatti, criticano l’enorme potere che al momento è riconosciuto al Wto e alle multinazionali del settore agroalimentare (Monsanto, Cargill, ecc.); sostengono la necessità che la governance del cibo venga restituita ai livelli di governo locale, affinché siano
preferite politiche di sostegno alla produzione locale commisurata ai
bisogni locali, piuttosto che alle colture intensive e devastanti del territorio.
- Affermare il principio di sussidiarietà non significa sostenere l’autarchia; piuttosto si guarda ad un sistema sostenibile che tenda a trasferire il potere decisionale al livello di governo più prossimo ai cittadini.
- Le politiche di liberalizzazione degli scambi commerciali perseguite
dal Wto e sostenute dalla WB e dal Imf hanno messo in ginocchio le
economie agricole dei paesi più deboli. Infatti, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale hanno orientato i loro finanziamenti
in modo da indurre i governi dei paesi del Sud del mondo a smantellare le politiche di sostegno all’agricoltura locale, ad aprire i mercati nazionali a operatori internazionali, a meccanizzare la produzione agricola per intensificare la produzione e favorire l’esportazione a basso
costo; in definitiva, hanno sostenuto riforme che gradualmente hanno
emarginato quelle iniziative economiche agricole di piccola dimensione o familiari che garantivano alle popolazioni locali l’accesso al cibo.
- Per quanto riguarda la distribuzione dei prodotti agroalimentari, i
movimenti sostenitori della sovranità alimentare promuovono una
semplificazione della catena distributiva, basata sulla riduzione degli
intermediari tra produttori e consumatori, il contenimento dell’influenza (oggi eccessiva) delle aziende della grande distribuzione e il
diritto ad una informazione corretta sul cibo a favore dei consumatori
(obbligo di apporre l’etichetta sui prodotti).
- Infine, la crescente dipendenza dei consumatori dai prodotti altamente trasformati dovrebbe essere contrastata per restituire una posizione
primaria ai cibi organici e non trasformati.
In definitiva, il regime agroalimentare tuttora vigente a livello globale
è un regime senza coltivatori (McMichael, 2013). I movimenti che promuovono la sovranità alimentare denunciano alla comunità internazionale: a) la necessità di riportare al centro del sistema il diritto al cibo;
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Food Sovereignty
Angelo Rinella
b) il contrasto all’ingannevole affermazione secondo cui per assicurare
il nutrimento per la popolazione mondiale si deve garantire la food security, attraverso un sistema di mercato cui solo una minoranza dei popoli
a livello mondiale partecipa; c) la ricerca di soluzioni democratiche per
la food security, che garantiscano la tutela della salute umana e dell’ambiente.
stema agroalimentare. Nel suo significato originale, l’idea della sovranità
alimentare richiama il ruolo centrale delle popolazioni rurali e indigene
nel controllare e gestire i processi di produzione del cibo in modo ecologicamente sostenibile e culturalmente adeguato. Al tempo stesso, queste
popolazioni non possono fare a meno dell’intervento dello Stato che è
chiamato a svolgere pienamente le sue funzioni soprattutto nei confronti
del sistema agroalimentare globale; allo Stato spetta infatti smantellare le
strutture che determinano condizioni inique nel sistema rurale e riconoscere alle comunità locali la piena autonomia nella gestione del proprio
micro sistema agroalimentare.
Si ritiene comunemente che la sovranità alimentare comporti una trasformazione radicale del sistema economico e sociale di un paese; perché
questa si realizzi efficacemente è indispensabile che si stabilisca una alleanza collaborativa tra lo Stato e gli attori della società civile per rimuovere i condizionamenti di potere che impediscono un libero accesso alle
risorse naturali ed una partecipazione attiva dei cittadini interessati ai
processi decisionali. In questo senso, l’esperienza dei paesi dell’America Latina appare piuttosto significativa. D’altra parte è in questa area
del mondo che l’idea di sovranità alimentare ha assunto le sue prime
forme espressive con la Declaration on Food Sovereignty presentata dal
movimento La Vía Campesina, in occasione del World Food Summit della
Fao del 1996. La Dichiarazione voleva rappresentare una prima reazione
all’inclusione del settore agricolo nel Wto con l’Agreement on Agriculture. Questo accordo ha facilitato l’invasione dei mercati agricoli dei paesi
in via di sviluppo da parte delle aziende statunitensi e europee, sostenute
da sussidi pubblici rilevanti, grazie ad alcune clausole inserite negli allegati dell’accordo. Di fatto, per quanto l’accordo nel 1994 mirasse a eliminare i fattori di distorsione del mercato agricolo a livello globale, compresa l’incidenza dei sussidi pubblici alle aziende del settore, esso ha finito
per istituzionalizzare una competizione monopolistica tra Stati Uniti e
Unione Europea nel settore agroindustriale; grazie ai rilevanti sussidi
che queste aziende ricevono dai rispettivi governi, sono in condizione di
esportare mais ad un prezzo pari al 20% in meno dei costi di produzione
e grano ad un prezzo inferiore del 46% dei costi. È del tutto evidente che
i produttori che hanno risorse povere e operano su piccola scala non possono che essere estromessi dal mercato (Jawara, Kwa, 2004; Bello, 2005).
224
3. Il radicamento della sovranità alimentare in America Latina
Il concetto di sovranità alimentare, e le implicazioni che da esso derivano sul piano anzitutto politico, ma anche sociale, economico e giuridico,
hanno trovato accoglienza e riconoscimento in alcune carte costituzionali
per effetto della pressione dei movimenti nazionali promotori di questo
ideale. Tra i paesi che hanno aperto il loro ordinamento costituzionale al
principio della sovranità alimentare si segnalano in particolare tre paesi
dell’America Latina: Ecuador, Bolivia e Venezuela.
Come si avrà modo di esaminare, le ragioni che hanno spinto i governanti di questi paesi a includere nelle nuove costituzioni la sovranità
alimentare sono assai diverse: da un lato, Ecuador e Bolivia hanno inteso disegnare un diverso modo di intendere l’economia nazionale ed
il complesso “regime del cibo” ispirandosi al principio della tradizione
indigena del buen vivir/sumak kawsay (Bagni, 2013); dall’altro, il Venezuela ha avviato una radicale riforma agraria basata sulla redistribuzione
delle terre e la creazione di organismi decentrati (consigli comunali) che
assicurano la partecipazione del popolo al governo delle terre.
Questi tre paesi rappresentano interessanti casi di studio relativamente ai percorsi che possono essere perseguiti a livello nazionale da parte
delle istituzioni pubbliche per realizzare gli obiettivi della sovranità alimentare. D’altra parte, trattandosi di un concetto eminentemente politico, l’idea di sovranità alimentare può essere facilmente manipolata o
mal interpretata. Essa si presta ad essere strumentalizzata per acquisire
consenso elettorale; si presta ad essere banalizzata fino al punto da negare
l’importanza di recuperare un approccio culturale e tradizionale al sistema agroalimentare; oppure, essa può essere correttamente interpretata e
applicata per sostenere trasformazioni strutturali e democratiche del si-
225
Food Sovereignty
Angelo Rinella
Ad aggravare le condizioni ha contribuito anche il Trade-Related Aspects
of Intellectual Property Rights (TRIPs) Agreement, in base al quale sono
stati riconosciuti i diritti di proprietà intellettuale su sementi, organismi
genetici, farmaci, ecc., a favore delle multinazionali del settore agroindustriale che hanno così visto consolidato il loro controllo sull’intera catena
produttiva, dalle sementi alla grande distribuzione commerciale.
È in questo contesto manifestamente aggressivo nei confronti dei
piccoli agricoltori e delle popolazioni indigene che i principi e gli ideali
della sovranità alimentare prendono corpo e, gradualmente, assumono
contorni sempre più definiti. Nel 2001, La Vía Campesina riprende la
Dichiarazione del 1996 per ridefinire alcuni concetti della sovranità alimentare, sottolineando «il diritto dei popoli di stabilire le loro politiche
agroalimentari, regolare e tutelare la produzione agricola locale e stabilire gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile» (La Vía Campesina, 2001).
Nel 2007, nella Declaration of Nyéléni adottata in occasione dell’International Forum on food sovereignty (Mali), ulteriori elementi arricchiscono
il significato della sovranità alimentare; in particolare si definiscono gli
obiettivi da perseguire sulla base di sei fattori chiave: (i) cibo sufficiente,
sano, nutriente e culturalmente appropriato per tutti; (ii) valorizzare e
sostenere in modo particolare i piccoli coltivatori e le aziende agricole
familiari che operano su piccola scala; (iii) promuovere sistemi alimentari
localizzati; (iv) assicurare il libero accesso ed il controllo delle risorse
della terra su base locale; (v) promuovere le competenze e le conoscenze
rurali su base locale; (vi) promuovere la produzione secondo il modello
agroecologico.
un cibo quantitativamente e qualitativamente sufficiente, sano e culturalmente appropriato alla comunità locale. Per consentire alle popolazioni rurali e indigene l’effettivo godimento del diritto al cibo è necessario
che lo Stato agevoli l’accesso alle risorse naturali della terra. Un ruolo
determinante spetta dunque anche allo Stato non soltanto in termini di
politiche agricole giuste e capaci di valorizzare il ruolo dei piccoli agricoltori e delle aziende agricole di tipo familiare; ma anche in termini di
consolidamento sul piano giuridico e normativo dei diritti connessi alla
sovranità alimentare.
La costituzionalizzazione della sovranità alimentare e del diritto al
cibo rappresenta un passaggio rilevante in quanto pone lo Stato in una
posizione di non ritorno rispetto agli impegni e agli obblighi assunti per
il perseguimento delle finalità contemplate dall’idea di sovranità alimentare. Includere la sovranità alimentare nella propria costituzione significa
conferire carattere costituzionale al diritto di accesso alle risorse necessarie a produrre il proprio cibo, al diritto di governare e conservare le
proprie colture e le proprie tradizioni alimentari; in definitiva, si tratta di
restituire alla sovranità nazionale anche quella componente della sovranità che attiene al governo del cibo.
È del tutto evidente che il fatto che il principio della sovranità alimentare sia scritto nella costituzione o nominato nelle leggi, citato nel
programma di governo o inquadrato in un dicastero, non è di per sé sufficiente a renderlo effettivo. Alla costituzionalizzazione devono seguire
precise politiche in adempimento degli obblighi che dal principio della
sovranità alimentare derivano in capo allo Stato. Il principio della sovranità alimentare è stato richiamato nelle costituzioni del Mali, del Senegal,
del Venezuela, dell’Ecuador e della Bolivia; in altri ordinamenti le costituzioni richiamano il problema dello sviluppo dell’agricoltura pur senza
esplicitamente citare la sovranità alimentare; numerosissime costituzioni,
invece, hanno sancito il diritto al cibo che, come è emerso dalle considerazioni fin qui svolte, rappresenta la componente più strettamente giuridica su cui si fonda il concetto di sovranità alimentare.
L’America Latina, dunque, si presta a fornire indicazioni dal punto di
vista politico-costituzionale riguardo agli effetti del riconoscimento in costituzione della sovranità alimentare. Lo scenario politico che caratterizza alcuni dei più importanti paesi latinoamericani sul finire degli anni ‘90
226
4. La costituzionalizzazione della sovranità alimentare. Tre casi di
studio: Venezuela, Ecuador e Bolivia
Si è visto nelle pagine precedenti come il concetto di sovranità alimentare si sia andato definendo nel tempo anche con riferimento alla sua
qualificazione come complesso di diritti, e in particolare di diritti umani.
In tale concetto sono inclusi il diritto a produrre cibo sostenibile, il diritto di accedere alle risorse naturali come la terra, l’acqua, le sementi, la
biodiversità; ma soprattutto il diritto al cibo come diritto fondamentale:
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Food Sovereignty
Angelo Rinella
e l’inizio degli anni 2000 è la svolta anti-imperialista e controegemonica,
che si esprime principalmente nei confronti degli Stati Uniti, che scaturisce dalle urne elettorali: nel 1998 Ugo Chávez viene eletto presidente
del Venezuela; successivamente in Ecuador viene eletto Rafael Correa, in
Bolivia Evo Morales, in Nicaragua Daniel Ortega, in Paraguay Fernando
Lugo, in Brasile Inácio Lula da Silva. Si tratta come è noto di leader politici eletti con il sostegno di quella parte della società civile più sensibile
alle scelte anti-imperialiste, particolarmente evidenti in occasione della
diffusa protesta contro il Free Trade of the Americas (Cockcroft, 2006;
Lomnitz, 2006; Shefner, 2011).
Le nuove costituzioni del Venezuela (1999), e soprattutto quella
dell’Ecuador (2008) e quella della Bolivia (2009) si inquadrano in quel
filone emergente noto come nuovo costituzionalismo andino (Maratan
Ruiz, López Castellano, 2011). La novità di queste costituzioni sta principalmente in un modo nuovo di intendere il significato e il valore delle
carte costituzionali; costituzioni che traggono il loro Dna dalle identità
autoctone del proprio territorio, del proprio popolo indigeno; e non dunque ereditati nella loro struttura portante dalla colonizzazione spagnola.
Il fulcro di questo nuovo costituzionalismo sta nel fatto che con esso
si vuole siglare un patto nuovo tra le persone (singolarmente intese e in
quanto comunità locali o nazionali) e la natura. In tal modo, il nuovo
costituzionalismo andino si libera della presunzione di superiorità della
civiltà europea e rivendica l’attualità e la modernità di quei modelli sociali che si pongono in armonia con il contesto ambientale e valorizzano una
dimensione della socialità che non pone al centro lo Stato, ma la persona,
la sua dignità, la sua identità, in relazione alla natura. La natura non è
identificata come oggetto dell’azione umana; materia di cui l’uomo può
appropriarsi e disporre a suo piacimento; piuttosto la natura è considerata come l’entità che nutre e alimenta gli esseri umani.
Si tratta di un costituzionalismo che, pur senza tranciare ogni relazione con il costituzionalismo di matrice liberale, presenta una sua originalità anzitutto nella estensione del testo, dovuta alla necessità di includere la tradizione giuridica indigena; in secondo luogo, nell’utilizzo di un
linguaggio accessibile e non sempre giuridicamente proprio, dovuto alla
apertura verso le formule linguistiche proprie delle comunità indigene; in
terzo luogo, nel rafforzamento delle forme di partecipazione della società
intera all’esercizio del potere politico, nel rifiuto di divisioni di ordine sociale e nella valorizzazione dei meccanismi di integrazione interculturale
funzionali al dialogo fra tradizioni giuridiche diverse (Carducci, 2012 e
2013; Schilling-Vacaflor, 2011).
L’avvento delle nuove costituzioni in questi paesi ha portato con sé
politiche fortemente ispirate alle esigenze della giustizia sociale. Le industrie chiave nelle rispettive economie furono nazionalizzate, fu rafforzato il controllo governativo sull’economia, la spesa sociale conobbe un
significativo incremento, diverse disposizioni normative per la tutela dei
diritti umani furono adottate all’indomani delle riforme costituzionali;
malgrado ciò, i principi del libero mercato non furono completamente
sacrificati sull’altare dell’anticapitalismo. Nel quadro di questi rivolgimenti normativi, politici e sociali, un particolare peso ebbero (e hanno)
le misure volte a dar seguito alla costituzionalizzazione della sovranità
alimentare.
228
229
4.1. La costituzione bolivariana del Venezuela (1999)
Con riferimento alla sovranità alimentare, la costituzione del 1999
introdusse diversi elementi costitutivi di questo principio, per quanto
allora non fosse ancora compiutamente definito. In particolare, sotto il
Titolo VI: Del sistema socioeconomico, Capitolo I: Del regime socioeconomico e della funzione dello Stato, troviamo anzitutto l’art. 305 che
stabilisce quanto segue: «Lo Stato promuove l’agricoltura sostenibile
come base strategica dello sviluppo rurale integrale al fine di garantire la
sicurezza alimentare della popolazione; intesa come la disponibilità sufficiente e stabile di alimenti nell’ambito nazionale e l’accesso adeguato
e permanente a questi da parte del pubblico consumatore. La sicurezza
alimentare deve essere raggiunta sviluppando e privilegiando la produzione agricola e l’allevamento interni, venendo intesa come tale quella
proveniente da attività agricole, di pastorizia e di pesca. La produzione
di alimenti è di interesse nazionale e fondamentale per lo sviluppo economico e sociale della Nazione. A tal fine, lo Stato detta le misure di
ordine finanziario, commerciale, di trasferimento di tecnologia, possesso
della terra, infrastrutture, formazione di manodopera ed altre necessarie
Food Sovereignty
Angelo Rinella
per raggiungere livelli strategici di autosufficienza. Inoltre, promuove le
azioni nell’interesse dell’economia nazionale ed internazionale per compensare gli svantaggi derivati dall’attività agricola. Lo Stato protegge gli
insediamenti e le comunità di pescatori artigianali, così come i loro luoghi
di calata delle reti da pesca in acque continentali ed in quelle prossime
alla linea di costa indicate dalla legge».
Nei successivi artt. 306 e 307 la costituzione sviluppa ulteriormente
la visione politica sull’agricoltura e sul relativo regime. L’art. 306 affida
allo Stato il compito di promuovere «le condizioni per lo sviluppo rurale
integrale, col proposito di generare impiego e garantire alla popolazione contadina un livello adeguato di benessere, come la sua integrazione
allo sviluppo nazionale. Ugualmente promuove l’attività agricola e l’uso
efficace della terra mediante la dotazione di infrastrutture, credito, formazione professionale e assistenza tecnica». Con l’art. 307 si colpisce il
precedente regime latifondista che la costituzione riconosce come «contrario all’interesse sociale». La legge dispone le misure tributarie appropriate per gravare le terre improduttive e stabilisce le misure necessarie
per la loro trasformazione in unità economiche produttive, riscattando
ugualmente le terre di vocazione agricola. I contadini ed altri produttori
agricoli e allevatori hanno diritto alla proprietà della terra, nei casi e nelle
forme specificate dalla legge. Lo Stato tutela e promuove le forme associative ed originali di proprietà della terra per garantire la produzione
agricola. Lo Stato protegge l’utilizzo sostenibile delle terre a vocazione
agricola per garantire il loro potenziale agroalimentare.
nali che ancora operavano all’interno del Parlamento, grazie ad una consultazione popolare, Correa riuscì a istituire l’Assemblea costituente che
dette vita alla nuova costituzione dell’Ecuador, che entrò in vigore nel
2008 (Ramírez Gallegos, 2013). I lavori dell’Assemblea costituente furono caratterizzati da interessanti forme di partecipazione popolare; tra le
istanze che furono rivolte ai membri dell’Assemblea, le richieste di una
riforma agraria e del riconoscimento a livello costituzionale del diritto al
cibo e della sovranità alimentare ricevettero un ampio sostegno popolare.
La costituzione stabilisce all’art. 281, c. 1, che «la sovranità alimentare è un obiettivo strategico e rappresenta un obbligazione per lo Stato
affinché garantisca che le persone, le comunità, i popoli e le nazioni raggiungano una permanente autosufficienza nell’accesso ad un cibo sano e
culturalmente appropriato». In base a questa definizione la stessa costituzione (art. 281, c. 2) declina ben quattordici obiettivi che è responsabilità
dello Stato realizzare nel quadro delle azioni destinate a tradurre in pratica la sovranità alimentare: promuovere la produzione agroalimentare da
parte di aziende agricole di piccola e media dimensione, dell’economia
sociale e solidale; adottare politiche fiscali e tariffarie per proteggere il
settore agroalimentare e della pesca nazionale e per evitare dipendenza
dall’importazione di alimenti; rafforzare la diversificazione e l’introduzione di tecnologie ecologiche; promuovere politiche di redistribuzione
delle terre che consentano il libero accesso degli agricoltori alle terre incolte, all’acqua e alle altre risorse naturali; promuovere la preservazione
e il recupero dell’agro-biodiversità e delle conoscenze ancestrali ad essa
connesse, così come l’utilizzo, la conservazione e il libero scambio delle
sementi; garantire che gli animali destinati alla alimentazione dell’uomo
siano sani e allevati in un ambiente sano; assicurare lo sviluppo della ricerca scientifica e della innovazione tecnologica per garantire la sovranità alimentare; promuovere lo sviluppo di organizzazioni di produttori
e consumatori per la commercializzazione e distribuzione dei prodotti
alimentari secondo principi di equità tra aree rurali e aree urbane; generare sistemi equi e solidali di distribuzione e commercializzazione dei
prodotti alimentari; impedire pratiche monopolistiche e qualunque tipo
di speculazione sui prodotti alimentari; fornire alimenti sufficienti alle
popolazioni vittime di disastri naturali o antropici che abbiano posto a
rischio l’accesso al cibo; prevenire e impedire il consumo di alimenti con-
230
4.2. La costituzione dell’Ecuador (2008)
L’elezione di Rafael Correa nel 2007 segnò la vittoria del movimento
Alianza Paìs e l’avvio di un processo di radicale cambiamento di natura
politica, sociale e istituzionale. La Revolución ciudadana voluta dal movimento di Correa, che aveva raccolto così ampi consensi, aveva indicato
come momento determinante del nuovo corso l’istituzione di una Assemblea costituente per l’elaborazione di una nuova costituzione ecuadoriana, che avrebbe dovuto estendere i diritti dei cittadini e ridefinire gli
obiettivi di sviluppo del paese. Malgrado la resistenza dei partiti tradizio-
231
232
Food Sovereignty
taminati o che mettano a rischio la salute della popolazione o alimenti rispetto ai quali le conoscenze scientifiche mostrino incertezza a proposito
dei loro effetti sulla salute umana. Si tratta, come si vede, di un complesso
di obiettivi piuttosto ricco e articolato che l’Assemblea costituente ha
demandato al governo nazionale ecuadoriano per dar seguito alla costituzionalizzazione della sovranità alimentare.
Il successivo art. 282, in stretta correlazione con i principi menzionati nell’articolo precedente, stabilisce che lo Stato deve disciplinare l’uso
e l’accesso alla terra secondo criteri coerenti con le finalità sociali e la
tutela dell’ambiente. Per consentire questo processo di redistribuzione,
la legge dovrà istituire un Fondo Nacional de Tierra con il compito di
disciplinare in modo equo l’accesso dei coltivatori e delle coltivatrici alla
terra. Lo Stato, quindi, ai sensi della costituzione, governa direttamente
le politiche di accesso e controllo delle terre coltivabili; nulla dice invece
la costituzione a proposito delle modalità con cui il complesso processo
di riforma agraria dovrebbe essere messo in pratica, quali soggetti verrebbero coinvolti e quali terre dovrebbero essere oggetto di redistribuzione. Nello stesso art. 282 si stabilisce il divieto del latifondo e della
concentrazione delle terre, nonché il divieto dell’accaparramento e della
privatizzazione dell’acqua e delle sue sorgenti. Lo Stato disciplinerà l’uso
e la gestione dell’acqua per la produzione alimentare, secondo principi di
equità, efficienza e sostenibilità.
L’impianto costituzionale sulla sovranità alimentare in Ecuador assegna allo Stato il ruolo centrale nella promozione e attuazione delle politiche connesse; in tal modo si contraddice quanto auspicato dai movimenti
sostenitori della sovranità alimentare circa la necessità di coinvolgere le
organizzazioni degli agricoltori e della società civile nei processi decisionali. In base alla Dichiarazione di Cuba sulla sovranità alimentare (2001),
le riforme agrarie dovrebbero «anzitutto costituire un obbligo per i governi nazionali … da attuare nell’ambito delle politiche di tutela dei diritti umani e di contrasto alla povertà. I processi delle riforme agrarie
dovrebbero inoltre essere controllati dalle organizzazioni dei contadini».
Sotto questo profilo, dunque, la costituzione dell’Ecuador appare insufficiente.
Angelo Rinella
233
4.3. La costituzione della Bolivia (2009)
All’indomani della sua elezione, con non poche resistenze, il presidente Morales promosse l’avvio dei lavori dell’Assemblea costituente con
l’obiettivo di dare al paese una nuova carta costituzionale che recepisse
i valori e le proposte maturate in seno al movimento. La nuova costituzione era destinata dunque a rifondare lo Stato sulla base di un impianto
alternativo a quello dello Stato liberale e capitalista: uno Stato sociale
plurinazionale, democratico e comunitario (González 2013; Chávez,
Mokrani, 2007; Shilling-Vacaflor, 2011). In questo contesto, il ruolo dello
Stato muta radicalmente: non più uno Stato apparato quale strumento di
dominazione, ma piuttosto uno Stato che nella relazione con i governati,
i popoli boliviani, persegue le condizioni di uguaglianza sociale attraverso la democrazia, il decentramento del potere e la redistribuzione della
ricchezza.
La costituzione del 2009 contiene espliciti riferimenti alla sovranità
alimentare, che tuttavia vanno inquadrati e interpretati alla luce dei principi in tema di diritti fondamentali, cui si riferisce l’art. 16, in base al
quale «Ogni persona ha diritto all’acqua e all’alimentazione. Lo Stato ha
l’obbligo di garantire la sicurezza alimentare, tramite un’alimentazione
sana, adeguata e sufficiente per tutta la popolazione». Ma è all’art. 407
che il costituente ha inteso declinare gli obiettivi della politica di sviluppo rurale integrale dello Stato, in coordinazione con gli enti territoriali
autonomi e decentrati: 1. Garantire la sovranità e la sicurezza alimentari,
dando priorità alla produzione e al consumo di alimenti di origine rurale
prodotti nel territorio boliviano. 2. Stabilire meccanismi di protezione
della produzione agricola boliviana. 3. Promuovere la produzione e la
commercializzazione di prodotti agricoli ecologici. 4. Proteggere la produzione rurale ed agroindustriale prevenendo i disastri naturali e gli incidenti climatici, geologici e antropici. 5. Implementare e sviluppare l’educazione agricola produttiva ed ecologica a tutti i livelli e con ogni modalità. 6. Stabilire politiche e progetti sostenibili, curando la conservazione
ed il recupero dei suoli. 7. Promuovere sistemi di irrigazione finalizzati a
garantire la produzione rurale. 8. Garantire l’assistenza tecnica e stabilire
meccanismi di innovazione e trasferimento tecnologico in tutta la catena
produttiva rurale. 9. Istituire la banca dei semi e i centri di ricerca gene-
Food Sovereignty
Angelo Rinella
tica. 10. Stabilire politiche di promozione e sostegno a settori produttivi
rurali naturalmente deboli dal punto di vista strutturale. 11. Controllare
l’ingresso e l’uscita dal paese di risorse biologiche e genetiche. 12. Stabilire politiche e programmi volti a garantire la sanità rurale alimentare e
dei prodotti rurali. 13. Provvedere all’infrastruttura produttiva, manifatturiera ed industriale ed ai servizi di base del settore agricolo. Si tratta,
com’è evidente, di un impianto di obiettivi e finalità che sembrano aver
pienamente incorporato i principi e i valori della sovranità alimentare.
mentare. In quanto produttori agricoli, dobbiamo rispettare, garantire e
preservare le produzioni agricole dei nostri antenati. Questo non significa che siamo contro la tecnologia, ma piuttosto che facciamo principalmente uso delle nostre conoscenze e delle risorse naturali; in quanto
consumatori reclamiamo che la produzione e la distribuzione dei prodotti alimentari avvenga in armonia con la natura e all’interno del nostro
territorio, per garantire un cibo sano e sufficiente».
La costituzionalizzazione della sovranità alimentare negli ordinamenti
del Venezuela, dell’Ecuador e della Bolivia richiama, come si è potuto
osservare, in termini pressoché esaustivi i concetti chiave e i principi fondanti la sovranità alimentare secondo la definizione elaborata dalle organizzazioni internazionali impegnate su questo fronte (in primo luogo La
Vía Campesina). Tuttavia, le forze politiche e sociali che all’interno dei tre
diversi sistemi ricoprono una posizione dominante hanno manifestato rilevanti differenze nel modo di intendere e attuare la sovranità alimentare.
Come risulta chiaro dai documenti dei movimenti sociali che sostengono la sovranità alimentare, essa richiede una radicale riforma del sistema politico e, in modo correlato, dei sistemi economici, sociali e istituzionali. In particolare, punto centrale del programma di realizzazione della
sovranità alimentare è garantire il libero accesso alle risorse naturali in
modo equo e sostenibile, affinché ciascuno possa organizzare la propria
attività di produzione agricola e di distribuzione dei prodotti agricoli nella misura necessaria a rispondere alla domanda dei consumatori. Questo
sistema presuppone condizioni di democrazia che devono pre-esistere
all’attuazione della sovranità alimentare.
234
5. Cenni conclusivi
Ramiro Téllez, esponente di spicco del movimento La Vía Campesina,
nel 2007 – mentre si elaborava il testo della nuova costituzione della Bolivia – osservò che non sarebbe stato sufficiente scrivere i principi della
sovranità alimentare nella nuova costituzione, né sarebbe bastato che fosse nominata nelle nuove leggi, nei nuovi programmi di governo o addirittura se si fosse istituito un apposito ministero per la sovranità alimentare.
Ciò che veramente conta, in termini concreti, è dare avvio ad una vera riforma agraria, garantire la salvaguardia e la tutela delle sementi ancestrali
attraverso il divieto di introduzione dei semi geneticamente modificati,
assicurare il sostegno dei piccoli e medi produttori agricoli e rafforzare la
lotta alle monoculture che causano gravi danni all’ambiente e alla salute
dell’uomo. Inoltre, sosteneva Téllez, è necessario garantire l’accesso dei
contadini e degli indigeni ad un mercato equo, dove possano vendere al
giusto prezzo i loro prodotti. Ma alla radice di tutto sta una nuova visione
della società, che pone al centro l’uomo e la natura e affida allo stato il
compito di offrire alle popolazioni adeguati servizi sociali, in particolare
nel campo della salute e dell’educazione, e l’accesso al cibo sufficiente e
adeguato alla loro cultura.
Lo spessore e la qualità del principio della sovranità alimentare si coglie poi in un passaggio ulteriore del discorso di Ramiro Téllez (2007): «a
tutto quanto si è detto deve aggiungersi un elemento fondamentale, vale
a dire che il popolo o la società civile non deve aspettarsi tutto questo
dallo Stato. Ciascuno deve contribuire al proprio meglio per difendere
la sovranità nazionale anche attraverso l’affermazione della sovranità ali-
235
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Angelo Rinella
Abstract: After introducing briefly the concept of food sovereignty,
this paper examines the contrasting elements of the idea of food
sovereignty with respect to the “global food system”. The second
part of the paper is devoted to the roots of food sovereignty in
Latin America and, more particularly, to the constitutionalisation
of the principle in question in the constitutions of Venezuela, Ecuador and Bolivia.
Keywords: Food sovereignty, Food security, Global food system, Latin
American Constitutionalism.
237
Pachamanka e sovranità alimentare in Ecuador:
due spazi di “cottura”
di Paolo Corvo22* e Claudia García23**
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La pachamanka e il principio dell’ayni. –
3. Ambiente, cibo, sovranità alimentare nella nuova costituzione.
– 4. Tra buone pratiche e problemi.
1. Premessa
Le pratiche quotidiane nelle Ande, come la cucina o l’agricoltura,
hanno un carattere epistemologico in quanto spazi di interazione comunitari (Milla, 2003). Di conseguenza, si utilizzeranno due livelli multidisciplinari del sistema alimentare, come punto di partenza e filo conduttore di questo testo: la pachamanka – tecnica andina di cottura degli
alimenti sotto terra – e il principio della sovranità alimentare. Questi non
sono considerati esempi casuali: la maniera di preparare e consumare gli
alimenti è il riflesso della cultura e dell’ambiente di un certo contesto. La
frase «siamo ciò che mangiamo» del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach
(1862) ha un suo significato in questo senso perché «ciò che mangiamo (e
come) risponde ad un’intenzionalità condizionata dalla maniera di pensare, sentire e fare dentro una matrice socio-culturale» (Viera, 2005). Il
sistema agro-alimentare rappresenta il rapporto che si ha con se stessi, ma
simbolizza anche il rapporto che si ha con gli altri, come una strategia di
sopravvivenza e di benessere individuale e collettivo.
Nella nuova costituzione dell’Ecuador (2008) si inserisce il sumak
*
Paolo Corvo è ricercatore di Sociologia generale, dei consumi e del territorio e professore aggregato nell’Università di Scienze Gastronomiche di Bra-Pollenzo.
**
Claudia García svolge attività di produzione agroecologica in Ecuador ed è promotrice
di campagne di consumo responsabile.
Pachamanka e sovranità alimentare in Ecuador
Paolo Corvo - Claudia García
kawsay o buen vivir come principio ordinatore dello Stato. Si affermano
un nuovo rapporto con la natura, accettando che essa è soggetto di diritti
e quindi di rispetto, un nuovo orizzonte di convivenza nell’ambito della
plurinazionalità, un nuovo modello economico basato nella solidarietà e
l’equità e un nuovo modello di democrazia basato sul rafforzamento della partecipazione cittadina. In questo contesto, la sovranità alimentare,
diritto di un popolo a decidere sulla propria alimentazione, diventa un
obiettivo strategico di carattere multidisciplinare in quanto piattaforma
per lo sviluppo di politiche pubbliche finalizzate ad invertire la logica distruttiva del modello agro-alimentare dominante e a raggiungere il sumak
kawsay (Acosta, Martínez, 2009).
Sia la pachamanka sia la sovranità alimentare sono spazi di “cottura”:
di alimenti e di idee. Questi sistemi alimentari funzionano in base al principio della reciprocità comunitaria e rappresentano due livelli epistemologici, non solo per capire, ma per “allevare” il sumak kawsay.
argentini, cileni e paraguaiani. La pachamanka non è soltanto una modalità di preparazione degli alimenti con basso consumo di energia; è una
forma culturale alla base della proposta del sumak kawsay o buen vivir.
La società, nella cosmovisione andina, non comprende unicamente
l’aggregato di persone che vivono insieme in una comunità più o meno
ordinata, ma comprende anche gli esseri non umani, cioè la natura nella
sua totalità: questa è la comunità, la “comune-unità”. Le persone non
sono fuori dal tessuto di connessioni costituito dal cosmo e dalla natura e
dove l’uomo non occupa un posto privilegiato. Tutto viene da due fonti:
Pachatata che significa padre cosmo, energia o forza cosmica, e Pachamama che è la natura, la madre terra, energia o forze telluriche. Questi
generano la forza dell’esistenza di tutto il creato (Huanacuni Mamani,
2010). Si osservi come dal vocabolario utilizzato per riferirsi alla natura
esca fuori un senso di parentela: la natura è la madre e il cosmo è il padre,
esiste appunto ciò che Shapin (1996) chiama una “epistemologia intima”
nella relazione uomo-natura. Infatti, nel mondo andino tutto vive, tutto
sente, tutto pensa e parla e le piante, animali o pietre sono lo stato transitorio attraverso cui tutti devono passare (Milla, 2003: 148).
Con una natura viva e animata gli alimenti sono considerati altrettanto vivi e meritano di essere apprezzati come tali, almeno con rispetto e
affetto, altrimenti possono originare effetti contrari; invece di alimentare
possono generare malattie (Cachiguango, 2010). Il carattere animato della natura è manifestato nella pratica agricola e culinaria ancestrale: nella
pachamanka «trattare bene i grani nella pratica significa utilizzare i prodotti in piena maturità, non interrompere il processo di cottura, perché
altrimenti rimangono feriti, piangono e soffrono» (Viera, 2005).
I popoli indigeni hanno costruito i principi di sopravvivenza e convivenza in sintonia con le leggi della natura, vivendo in una comunità dove
si pratica la reciprocità, la dualità e la complementarietà. L’ayni – in kichwa – o legge della reciprocità simmetrica costruttiva (Milla, 2003: 146)
è il principio considerato il più utile per la vita quotidiana e si applica
nelle comunità amerindie per ottenere una produzione e una ridistribuzione degli eccedenti dell’economia collettiva al fine di mantenere un’alta qualità della vita in funzione dell’interesse di tutti i membri. Questo
intende uno scambio, un dare e ricevere, non solo tra i singoli individui,
ma all’interno di tutta la comunità, tutto l’ayllu (la comunità familiare
240
2. La pachamanka e il principio dell’ayni
Nella cosmovisione andina la cucina ha una sua identità e complessità.
Le Ande sono una delle catene montuose con i climi e microclimi più
diversi del pianeta e che presenta un’ampia biodiversità. Sembrerebbe
semplice la sopravvivenza umana in queste condizioni vantaggiose, tuttavia, è difficile e complessa proprio per via dei periodici cambiamenti
climatici. La pachamanka è un antichissimo metodo di cottura degli alimenti – capace di cuocere grandi quantità di alimenti con poco legname
– fatto in una fossa aperta nella terra e che utilizza il calore emesso da
pietre inizialmente sottoposte ad alte temperature. Gli alimenti e le pietre
sono collocati a strati e coperti ermeticamente con terra per evitare che
il vapore esca. Pachamanka, in lingua kichwa, significa pentola di terra.
L’origine e la pratica di questa pentola naturale si sviluppano in aree
culturalmente forti o considerate poli dello sviluppo dell’odierno continente sudamericano: attorno al lago Titicaca in Bolivia e Perù, nella
valle del Cusco, Mantaro e Arequipa. In Ecuador si pratica nelle parti
alte della provincia di Tungurahua, Imbabura e Loja. La pachamanka si
sviluppa anche tra i popoli mapuches, guaranies, aymaras e quechuas
241
Pachamanka e sovranità alimentare in Ecuador
Paolo Corvo - Claudia García
estesa), ovviamente Pachamama compresa. «Il dono alla Pachamama è
come la restituzione dell’ayni che lei ci dà tramite le piante silvestri e coltivate che ci alimentano e ci curano» (Milla, 2003: 120). La pachamanka,
ad esempio, è una forma di vivere l’ayni, è in essenza un atto comunitario, un atto di ringraziamento ai lavori collettivi, alle persone ma anche
alla Pachamama. In questi atti collettivi di preparazione delle pietanze si
prestano le mani e si scambiano le mani in beneficio delle famiglie, delle
comunità, dell’ayllu.
Nella pachamanka tutti gli elementi sono complementari nella loro
diversità di forma ed esistono in funzione di un equilibrio organico, ossia
in funzione dell’armonia del tutto. Il fuoco e il riscaldamento delle pietre
garantiscono che gli alimenti non siano inquinati dalle energie negative
delle deità cattive, purificando gli alimenti e offrendo una “contaminazione positiva”. Oltre al fuoco, per mantenere gli spiriti cattivi bloccati
nelle pietre si completa la pentola con aji (peperoncino), aglio e sale che,
aggiunti al cibo, servono anche per spaventarli. Anche il benessere fisiologico dipende dal buon equilibrio tra alimenti e bevande fredde e calde.
Questa vitalità si tradurrebbe nel buon vivere, buon lavorare, buon amare, buon pensare, buon parlare, ossia nella vita dell’essere runa (l’essere
umano consapevole di esistere), famiglia, comunità (Viera, 2005).
Il benessere individuale nel mondo andino non è scollegato dal benessere collettivo. Nell’idioma kichwa, ad esempio, l’equivalente del termine
salute è il sumak kawsay stesso. Si indica così che la salute non è solamente relazionata al benessere del corpo umano o benessere personale
ma anche a tutto l’ambiente circostante, materiale e spirituale, cioè, un
ben-essere e un ben-stare insieme alla totalità. La vita armonica o paradigma comunitario del sumak kawsay invita a non consumare più di ciò
che l’ecosistema può supportare e ad evitare i rifiuti che non si possono
assorbire con sicurezza. Incita anche a riutilizzare e riciclare tutto ciò
che è già stato utilizzato e non può essere concepito senza la comunità.
Contraddice la logica capitalista, l’individualismo, la monetizzazione della vita, lo snaturamento dell’essere umano e la visione della natura come
una risorsa che può essere sfruttata come un oggetto inanimato (Huanacuni Mamani, 2010: 51).
L’economia è così la forma con cui i popoli decidono di entrare in
relazione con tutte le forme esistenti e, in questo caso, non ha come fine
l’accumulazione, ma l’equilibrio della vita. I popoli andini partono dalla
coscienza che tutto è interconnesso e tutti hanno un ruolo complementare. Ognuno ha il diritto di relazione con la Madre Terra che vuol dire che
si dà e si riceve in accordo con i bisogni e le responsabilità: la natura non
è più vista come un fattore produttivo ma come parte integrante il corpo
sociale e la complementarietà genera la distribuzione secondo il bisogno
del momento (Huanacuni Mamani, 2010: 58). Non esistono, infatti, le
gerarchie ma le responsabilità naturali complementari, come l’albero che
produce ossigeno e assorbe anidride carbonica o le pietre che cuociono i
cibi grazie al calore fornito dal fuoco.
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243
3. Ambiente, cibo, sovranità alimentare nella nuova costituzione
La stesura della costituzione ecuadoriana del 2008 è il risultato di
varie rotture di fronte ad una cultura neoliberale che marca una delle
più profonde crisi economiche che causò la migrazione di più di due
milioni di persone dal paese nell’ultimo decennio. Le popolazioni indigene con la proposta della plurinazionalità, il movimento contadino per
la rivendicazione della terra, dell’acqua, per la difesa della produzione di
cibo a livello locale e nazionale di fronte ai trattati di commercio libero e
la costante mobilitazione per educazione, salute e mercati, costituirono
un’ampissima partecipazione sociale e politica, non solo “per rivendicare
il campo” ma contro un modello neoliberale e l’oligarchia che lo costituivano.
La nuova costituzione nasce dalla volontà di tradurre il senso e principi di benessere comunitario del sumak kawsay introducendo nuovi
ambiti di diritto legati al buen vivir e nuovi soggetti di diritto. Nella costituzione la natura diventa soggetto di diritti: «La natura o Pachamama,
dove si riproduce e realizza la vita, ha diritto al rispetto integro della sua
esistenza, mantenimento e rigenerazione dei suoi cicli vitali, struttura,
funzioni e processi evolutivi» (art. 71).
Oltre al riconoscimento giuridico della natura, la costituzione contempla il diritto all’accesso all’acqua, patrimonio nazionale strategico di
uso pubblico, inalienabile, imprescrittibile, irrinunciabile ed essenziale
per la vita (art. 12) e il diritto ad alimenti sani, sufficienti e nutrienti; pre-
Pachamanka e sovranità alimentare in Ecuador
Paolo Corvo - Claudia García
feribilmente prodotti a livello locale (art. 13). Questi diritti devono garantire alle popolazioni di vivere in un ambiente sano ed ecologicamente
equilibrato dove viene dichiarato d’interesse pubblico la preservazione
dell’ambiente, la conservazione degli ecosistemi, la biodiversità, l’integrità del patrimonio genetico del paese, la prevenzione del danno ambientale e il recupero degli spazi naturali degradati (art. 14). Lo Stato, inoltre, si
impegna a promuovere, nel settore pubblico e privato, l’uso di tecnologie
ambientalmente pulite e di fonti di energia alternative non contaminanti
e a basso impatto e a proibire tecnologie, agenti, prodotti agro-chimici o
organismi nocivi per la salute umana o per gli ecosistemi (art. 15).
La costituzione sviluppa anche una visione del sistema economico che
prende le distanze dal mercato e dalla centralità del capitale, innescando
una prospettiva umanista ed ecologista nell’ambito del sumak kawsay.
Viene proposto un ruolo determinante per lo Stato ed apre le porte ad
una presenza attiva della società: «Il sistema economico è sociale e solidale; riconosce l’essere umano come soggetto e fine; tende a una relazione dinamica ed equilibrata tra società, Stato e mercato, in armonia con la natura;
e ha l’obiettivo di garantire la produzione e riproduzione delle condizioni
materiali ed immateriali che consentano il buon vivere» (art. 283).
Si afferma anche l’importanza del mercato nazionale su quello internazionale, si accetta la necessità di processi di ridistribuzione della ricchezza, riconoscendo il ruolo delle economie popolari e collocando al
centro la questione della natura e costituzionalizzando la domanda delle
organizzazioni contadine e dei movimenti sociali con la visione della sovranità alimentare.
Quest’ultimo concetto – sottolineato nell’art. 13 dove si enuncia che
lo Stato promuoverà la sovranità alimentare – è stato sviluppato in un
contesto internazionale già da prima del processo costituente come atto
di resistenza e denuncia alle politiche imposte dal modello neoliberale e
la conseguente perdita dei diritti legati alla terra, al mare e alla produzione alimentare su piccola scala (Conferenza internazionale della Coalizione internazionale Vía Campesina, Tlaxcala, Messico, 1996). La sovranità alimentare va al di là della sicurezza alimentare (Vertice Fao, 1996)
poiché non si tratta solo di garantire la sufficienza del cibo ma di andare
d’accordo con la qualità e la volontà popolare nel controllare i fattori di
produzione e commercializzazione.
La considerazione della sovranità alimentare nella costituzione rappresenta un passo importante nel riconoscimento della produzione
contadina come ente articolante dello sviluppo rurale. La sovranità alimentare costituisce un obiettivo strategico e un obbligo dello Stato per
garantire che persone, comunità, popoli e nazionalità raggiungano l’autosufficienza di alimenti sani e culturalmente appropriati in maniera permanente (art. 281).
Diventa quindi il conduttore delle politiche agrarie e di recupero della biodiversità, prendendo in considerazione che oltre all’accumulo di
potere e alla distruzione delle economie locali, il danno che l’agricoltura
convenzionale rappresenta per la agrobiodiversità sarebbe molto rilevante, perché crea dei problemi gravi di esaurimento del suolo dovuto alla
monocultura, all’uso di agrochimici e fertilizzanti tossici, causando anche
la perdita dell’acqua e la perdita della diversità, aspetti che, disgiunti,
spezzano l’equilibrio ecologico e riducono la capacità degli ecosistemi
nel sostenere la vita.
Nella Ley Orgánica del Régimen de la Soberanía Alimentaria (Lorsa), approvata nel 2009, si promuove ampiamente l’agroecologia come
meccanismo di produzione di cibo per contrastare la crisi del sistema
alimentare attuale. La Lorsa ha come scopo di stabilire i meccanismi mediante i quali lo Stato compia il suo obbligo e obiettivo strategico (come
stabilito nell’art. 281 cost.) di garantire alle persone, comunità e popoli
l’autosufficienza di alimenti sani, nutrienti e culturalmente appropriati
in maniera permanente: «Il regime della sovranità alimentare è costituito
dall’insieme di norme connesse, destinate a stabilire in maniera sovrana le politiche pubbliche agro-alimentari per fomentare la produzione
sufficiente e l’appropriata conservazione, scambio, trasformazione, commercializzazione e consumo di alimenti sani, nutritivi, preferibilmente
provenienti dalla mediana, piccola e micro produzione contadina, dalle
organizzazioni economiche popolari e dalla pesca artigianale cosi come
dalle micro-aziende e artigianato; rispettando e proteggendo l’agro-biodiversità, le conoscenze e le forme di produzione tradizionali e ancestrali,
sotto i principi di equità, solidarietà, inclusione, sostenibilità sociale ed
ambientale» (art. 1 Lorsa).
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Pachamanka e sovranità alimentare in Ecuador
4. Tra buone pratiche e problemi
Con la sovranità alimentare si vogliono articolare relazioni di produzione, distribuzione e consumo consapevoli e sostenibili tramite la messa
in rete degli attori coinvolti nelle diverse fasi di lavorazione. Le esperienze
di economia comunitaria sono esempi interessanti di questa dinamica di
interrelazione. Molte di queste nascono dall’articolazione dei movimenti
sociali e, allo stesso tempo, sono l’origine per nuovi movimenti e nuovi
scambi ed articolazioni, rendendo l’economia più organica e diversa, cioè
più comunitaria.
C’è, ad esempio, il caso della Red Nacional Mar, Tierra y Canasta, una
rete di 900 famiglie di 18 località ecuadoriane che si integrano in gruppi di agricoltori, pescatori e consumatori e si organizzano per garantire
la commercializzazione di alimenti in maniera solidale, con la modalità
di canastas comunitarias o cestino comunitario. La rete è un referente
nazionale simbolico interessante perché articola una produzione agroecologica, una distribuzione democratica di cibo ed un consumo sano
e responsabile, accompagnati da una riflessione costante e consistente
sulla capacità di incidenza nelle politiche pubbliche e dallo scambio di
esperienze a livello nazionale ed internazionale.
La rete fa a sua volta parte del Movimiento de Economía Social y Solidaria del Ecuador, collettivo che articola esperienze di economia solidale del
paese. Si dialoga sulle pratiche, sui saperi e sulle esperienze delle diverse
imprese familiari concernenti gli aspetti di produzione, distribuzione e
consumo. Il Movimento fa anche parte del Colectivo Agroecológico una
rete di reti che include dei produttori biologici, la Red de Guardianes de
Semillas (rete di guardiani dei semi), associazioni di produttori biologici
ed altri. Quest’ultima è formata da 80 famiglie di guardiani di semi e cento soci produttori occasionali e non produttori che lavorano da Nariño
e Putumayo al Sud della Colombia, fino a Loja, al Sud dell’Ecuador. Si
dedicano, oltre a produrre e a promuovere delle varietà vegetali ed animali contadine, native o meticce, alle pratiche agroecologiche e alla gestione di spazi di commercio solidale orientati alla sovranità alimentare.
L’esistenza di tutte queste realtà collegate rende percepibile la lotta per
un’economia comunitaria e per una sovranità alimentare, dove l’obiettivo
è il benessere comunitario.
Un intento di diffusione sociale del sumak kawsay è stata la campagna
Paolo Corvo - Claudia García
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nazionale per la sovranità alimentare “Come Sano, Seguro y Soberano”.
Questa campagna di appropriazione pubblica ha origine dall’interesse
collettivo per cambiare il sistema alimentale convenzionale e rappresenta il rafforzamento della lotta per una sovranità alimentare incorporata
politicamente nella nuova costituzione. La campagna è stata l’opportunità per riunire i diversi movimenti sociali coinvolti in attività affini e
connettere idee per rendere consapevole la cittadinanza riguardo i nuovi
diritti e le responsabilità attinenti. La campagna trattava precisamente la
promozione e l’educazione agroecologica come alternativa all’agricoltura convenzionale moderna, ritenuta causa di gravi problemi contro gli
ecosistemi e i cicli naturali. Lo scopo è stato di informare e invitare a
partecipare tutti quanti con pratiche quotidiane che rendano possibile
il buon vivere. La campagna è stata promossa in fiere agroecologiche o
mercati contadini a livello nazionale, in scuole e altri spazi comunitari. Le
alleanze create tra alcuni movimenti si rafforzarono ma, al contempo, ci si
rese conto che mancava ancora un vero cambiamento di sostanza: «Non
servono solo delle campagne e dei progetti internazionali per convincere su come agire di fronte al problema alimentare; servono soprattutto
dei cambiamenti strutturali nelle politiche pubbliche che restituiscano
ai popoli dei diritti a decidere sulla loro maniera di vivere» (Onorati,
2009). In effetti, il buen vivir, per la sua natura comunitaria, invita alla
partecipazione politica e nella costituzione in vigore si stabilisce che le
cittadine e i cittadini in maniera individuale e collettiva parteciperanno
come protagonisti alla presa di decisioni, alla pianificazione e alla gestione degli affari pubblici e al controllo popolare delle istituzioni dello Stato
della società, e dei suoi rappresentanti, in un processo permanente di
costituzione del potere cittadino sulla base dei principi di uguaglianza,
autonomia, deliberazione pubblica, rispetto della diversità, controllo popolare, solidarietà e interculturalità (art. 95).
La sovranità alimentare è un principio attorno al quale ogni popolo
costruisce le proprie strategie e metodologie di produzione, distribuzione
e consumo di alimenti. Non è un modello di agricoltura e alimentazione
ma una piattaforma di lotta che le organizzazioni dei piccoli produttori
di cibo (nelle diverse declinazioni) si danno e costruiscono per imporre politiche pubbliche che li sostengano e che tolgano infine il sostegno
all’agricoltura dominante.
Nel 2009 nasce la Conferencia Nacional por la Soberanía Alimentaria,
Pachamanka e sovranità alimentare in Ecuador
Paolo Corvo - Claudia García
un meccanismo autonomo ed indipendente, istituito dalla Lorsa, come
uno spazio di potere cittadino per il dibattito, la deliberazione e la generazione di proposte da parte delle organizzazioni e degli attori della
società civile. L’obiettivo della Conferencia è appunto gettare le basi giuridiche per trasformare il sistema agrario ed alimentare dell’Ecuador sotto
il nuovo paradigma della sovranità alimentare (Manifesto pubblico). La
Conferencia, unico ente di avvicinamento delle istituzioni pubbliche con
la cittadinanza, entra in funzione nell’agosto del 2009 ma rimane privo di
fondi per un anno. Mentre questo meccanismo rimane a tutt’oggi debole,
il grande privato agroindustriale si sta avvicinando alla politica del paese
con delle proposte di legge ambigue, approfittando delle contraddizioni
e confusioni interne. Si comprende che, in termini concreti e quotidiani,
negli ultimi anni, la situazione stia peggiorando: si starebbe perdendo la
sovranità alimentare velocemente. Ad esempio, i sussidi statali per l’agrobusiness sono aumentati e l’accesso ai crediti per i piccoli contadini è
ancora basso. Si sta promuovendo, invece, la monocultura intensiva di
cereali, come il mais e il riso, e anche le piantagioni forestali di palma
(lungo la Costa e nell’Amazzonia) e si sta allargando il confine agricolo
verso ecosistemi sensibili (i páramos) nelle Ande.
Il Programma di Negocios Inclusivos che applica Pronaca, azienda di
produzione industriale di alimenti, ad esempio, comprende la consegna
delle sementi di miglior qualità certificate, input agricoli, formazione, assistenza tecnica e acquista tutto il raccolto ai produttori registrati nell’iniziativa. Con questo programma, dai 40q di mais raccolti per ettaro si
è passati a 120q, triplicando quindi la produzione. Poiché la consegna
delle sementi e il servizio di assistenza tecnica si realizzano in base ad un
credito – ad interessi bassi – che l’impresa concede ai produttori, questi si
impegnano a consegnare tutta la loro produzione all’azienda. Ovviamente, di fronte al rischio di perdite, i contadini accettano qualsiasi suggerimento per evitarlo, diminuendo il loro controllo e la capacità di decisione
sulle materie prime e i processi che utilizzano. L’aspetto importante da
sottolineare è che prima questa opzione si realizzava in maniera privata,
quindi i crediti che si davano ai contadini venivano esclusivamente dall’azienda – pratica comunque criticata; ora, in nome della sovranità alimentare, l’accordo è che i contadini possono entrare in questo business inclusivo, attraverso un credito della Banca Nazionale di Fomento, o la
Corporazione Finanziaria Nazionale, entrambi enti statali, che darebbero
i fondi direttamente all’azienda. Anche se i crediti, così controllati, sono
in apparenza economicamente più sicuri, il principio di equità, sostenibilità e democrazia della sovranità alimentare e l’economia dell’affetto del
sumak kawsay vengono ignorati.
Ci sono, inoltre, dei programmi per l’introduzione di agrocombustibili nel Sud e lungo la costa del paese ed è oggetto di dibattito un regolamento di bio-sicurezza per la liberazione di organismi geneticamente
modificati, in entrambi i casi aggirando le proibizioni espresse e segnalate
in costituzione. Inoltre, l’industria dei gamberi, allevamento che cancellò
il 70% delle foreste di mangrovie nel litorale del paese, da attività illegale,
oggi è in piena regola, senza che si siano modificate le nocive pratiche
ambientali o rimediato al danno causato, contravvenendo il dettato costituzionale dove, all’art. 72 si rimarca che «la natura ha diritto ad interventi
di ripristino. Tali interventi saranno indipendenti dall’obbligo che hanno
lo Stato e le persone fisiche e giuridiche di risarcire gli individui e i collettivi che dipendono dai sistemi naturali danneggiati». I popoli raccoglitori
e pescatori, espulsi delle loro terre, non hanno visto alcun beneficio né
hanno ricevuto alcun risarcimento per la perdita delle loro attività.
Perciò, gli attori dei movimenti sociali non vedono chiari i segnali a
favore dell’agricoltura familiare e contadina di orientamento agroecologico, unica via verso una sovranità alimentare. Si osserva che le buone
intenzioni e le dichiarazioni politiche non hanno avuto un effetto coerente sulla quotidianità il modello alimentare e culturale è lo stesso di
prima. Un conto è la necessità di mantenere i livelli di produzione per
l’autoconsumo e la commercializzazione, altra cosa è, però, l’inversione
per l’arricchimento delle industrie agroalimentari. Queste decisioni pubbliche in contraddizione ai principi ordinatori del sumak kawsay, sono
da un lato frutto della pressione delle transnazionali espresse tramite le
Camere della produzione, ma sono anche frutto della superficialità con
cui si utilizzano slogan e concetti nuovi riflessi in politiche che orientano
la produzione ai mercati esterni e la sottomissione dei piccoli e medi produttori alle grosse catene agro-industriali.
Nonostante la ribalta concettuale sia stata molto intrusiva con l’inserimento della cosmovisione indigena del sumak kawsay e la traduzione
dei suoi principi ordinatori di reciprocità, complementarietà e circolarità
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Pachamanka e sovranità alimentare in Ecuador
Paolo Corvo - Claudia García
ad istanze costituzionali, la mancanza di approfondimento, soprattutto
per quanto riguarda i metodi di implementazione, rendono questi concetti e queste visioni non solo poco efficaci ma addirittura rischiose per
il benessere comunitario. Sia la pachamanka che la sovranità alimentare
rappresentano due livelli epistemologici, non solo per capire, ma per “allevare” il sumak kawsay: dalle esperienze di economia sociale e solidale
dentro l’ambito della sovranità alimentare si ripropongono i soggetti sociali, non solo come utenti, ma come partecipi della costruzione di una
comunità conviviale. In particolare, la sovranità alimentare rappresenta
un’opportunità per invertire la logica distruttiva dell’industria agroalimentare convenzionale. Tuttavia, quando i concetti diventano “moda”
rimangono, non solo deboli e provvisori, ma esposti alla trasfigurazione
del senso, manovra che l’industria del consumo è esperta a fare: non dovremmo stupirci se un giorno trovassimo tra gli scaffali dei supermercati
la “Nuova Pachamanka pronta” o il “Sumak Kawsay, nuovo preparato
surgelato di produzione nazionale”.
lationship with nature, a new economic model based on solidarity
and equity, and a new model of democracy based on the strengthening of citizens participation. In this context, food sovereignty
becomes a strategic goal of multi-disciplinary character, as a platform for the development of public policies aimed at reversing the
destructive logic of the dominant agri-food model. This is showed
also in the practice of pachamanka, a space for cooking food and
ideas.
250
Bibliografia
Acosta A., Martínez E. (comp.) (2009), El buen vivir. Una vía para el desarrollo,
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Viera M. (2005), La Pachamanka, Universidad Intercultural Amawtay Wasi.
Abstract: In the new Constitution of Ecuador (2008) sumak kawsay or
buen vivir is the ordering principle of the State. There’s a new re-
Keywords: Buen vivir, Pachamanka, Food sovereignty, Cooking.
251
Agroecologia e buen vivir.
Come far giocare l’uomo e l’ambiente
di Giorgio Osti24*
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Buen vivir: le dimensioni di fondo. – 3.
Sovranità alimentare versus sicurezza. – 4. Buen vivir e agroecologia. – 5. Buen vivir, agroecologia, gioco. – 6. Conclusioni.
1. Premessa
Il contributo ha lo scopo di verificare se e come l’approccio derivante
dal buen vivir ispiri una nuova e più illuminante rappresentazione del
rapporto fra uomo e natura, utilizzando come banco di prova l’ambito
che rappresenta la mediazione per eccellenza fra l’uno e l’altra: l’agricoltura. L’esigenza di una simile verifica nasce, da un lato, dalle promettenti
prospettive del buen vivir, che proprio su agricoltura e natura pone grande attenzione; dall’altro, dall’insoddisfazione per il dualismo antropocentrismo-biocentrismo, con cui spesso si raffigura la questione ambientale
e le sue origini. A questo proposito, gli elementi “fusionisti” fra natura e
cultura presenti nelle filosofie andine che ispirano il buen vivir fanno ben
sperare che vi siano elementi che vadano oltre lo stantio dibattito pro e
contro la posizione privilegiata dell’homo sapiens. Lo sbocco del discorso
sarà un accento sulla relazione fra uomo e ambiente, basata sulla metafora del gioco. L’agricoltura stessa potrebbe essere a buon diritto inserita
in tale gioco fra le parti. Per arrivare ad un simile approdo si seguiranno
quattro tappe: le dimensioni del buen vivir utili al nostro percorso, il
tema della sovranità alimentare, l’agroecologia e, infine, gioco e agricol-
*
Professore associato di Sociologia dell’ambiente e del territorio nell’Università di Trieste.
Agroecologia e buen vivir
Giorgio Osti
tura biologica. La filosofia del buen vivir sembra per ora funzionare bene
come modello politico ossia ispiratrice di mete alte di una comunità politica, seguendo una intermittente tradizione rivoluzionaria dell’America
Latina. Sul versante epistemologico – modalità di conoscere il rapporto
fra uomo e natura – è forse più proficua la sinergia fra la tradizione andina e il pensiero di alcuni studiosi della teoria dei sistemi.
alti livelli di civiltà: società e natura erano e sono una totalità; concepirsi
‘parte di’ non era sinonimo di barbarie. Abya Ayala, non era un continente ricco, bensì ‘la terra di abbondante vita’, la natura non era una risorsa,
ma rappresentava la Pachamama, ossia, la ‘madre’ di tutto l’esistente»
(Benalcázar Alarcón, 2009: 327).
Il mistero viene sciolto; viene riconosciuta una origine. Come è noto,
il racconto sull’origine sta alla base dei miti fondativi dei popoli (Eliade,
1966); si tratta di un discorso nel quale si accomunano elementi geografici
(il luogo di nascita), genetici (discendenza) e storici (percorso condiviso)
di un popolo. Inoltre, viene indicato un elemento unificante, la vita. La
terra, intesa come ventre fecondato dal seme, dona la vita, permette di venire alla luce; è quel substrato dal quale trae origine ciò che ha esistenza
biologica, un mito poi razionalizzato nelle pratiche agricole. Dalla terra
emergono tutte le forme di vita, compresa quella umana nella misura in
cui per esistere l’uomo deve nutrirsi dei frutti della terra.
In tutto questo vi è già un riferimento preciso alla coltivazione della
terra e all’allevamento degli animali. Ma prima di addentrarci nel versante agricolo del buen vivir, è utile mettere in luce un altro aspetto centrale:
il rapporto fra parte e tutto. Società e natura sono da sempre (“erano e
sono”) una totalità; uomo e natura sono intimamente uniti, più precisamente l’uno è parte dell’altra. Volendo interpretare, si può dire che la
natura umana è inserita, inglobata in quella più generale che prende le
sembianze della Madre Terra. Siamo di fronte ad un rovesciamento completo del cosiddetto antropocentrismo degli anni ‘70 del secolo scorso ritenuto la prospettiva culturale da cui è scaturita la crisi ecologica (Catton,
Dunlap, 1978). «Per molti popoli del Sud e per i soggetti del campo delle
nuove soggettività, ed in passato anche per i popoli del Nord, la Terra è
invece nostra madre e genera la vita di cui siamo solo una parte, seppur
rilevante. … (È all’opera un) principio di relazionalità, per descrivere la
costruzione teorica che vede la natura come soggetto di diritto. Secondo la cosmovisione indigena tutti gli esseri della natura hanno energia,
chiamata samai. Un fiume, una pianta, una montagna, una pietra fanno
parte allo stesso tempo della vita, si legano ad essa e mettono in moto un
meccanismo di relazioni che investe in maniera interdipendente e complementare anche gli umani su questo pianeta» (De Marzo, 2009: 153).
Negli scritti sul buen vivir vi è una presa di distanza dalla concezione
254
2. Buen vivir: le dimensioni di fondo
Nella loro antologia su Futuro indigeno. La sfida delle Americhe, Martufi e Vasapollo (2009: 22) inseriscono una citazione sulla spiritualità
della terra dei popoli naturali: «I popoli naturali hanno riferimento esperienziale nei valori intrinseci della Natura, intesa come manifestazione
di un Mistero che è all’origine dell’esistenza dell’uomo e dell’universo.
Una cultura scaturita da una spiritualità formata sul rapporto diretto e
pragmatico tra l’uomo e i fenomeni della Natura. Riferimento non rivolto solamente ai ritmi e ai valori pragmatici della Natura intesa come
habitat, bensì indirizzato essenzialmente alla qualità della caratteristica
esistenziale che esprime la Natura come di esistenza di per sé, e che viene
interpretata nel concetto e nella mistica del Mistero».
La citazione serve a dare indicazioni sugli elementi genetici più profondi del buen vivir: siamo di fronte a una “mistica della terra”, della quale vi sono e vi sono state nella storia diverse manifestazioni (Thompson,
1995). Probabilmente, questi elementi non saranno riconosciuti da tutti
i pensatori del movimento del buen vivir, dato che i riferimenti parareligiosi al mistero sono considerati troppo forti e comunque presuntivamente in contrasto con una visione laica delle istituzioni. Ciò che invece
si trova più esplicitamente espresso è il termine Madre Terra; da questa
sono scomparsi i riferimenti misticheggianti e prevalgono decisamente
quelli culturali e politici: «Il fondamento capitale della filosofia occidentale è concepire l’essere umano come entità separata dalla natura; una
società è più civilizzata quanto più lontana si trova dal mondo natura, la
natura è la sua contrapposizione che bisogna controllare e sottomettere
come mero oggetto di sfruttamento. Ma altri popoli del mondo ebbero
(e hanno) altre concezioni che si avvicinano alla natura per raggiungere
255
Agroecologia e buen vivir
Giorgio Osti
strumentale della natura, anche il linguaggio viene criticato, giustamente:
la natura non è una mera risorsa al servizio dell’uomo. Se la presa di distanza dall’antropocentrismo è chiara e netta, non altrettanto si può dire
per la parte affermativa del discorso. Madre Terra indica, infatti, qualcosa – forzando un po’ il concetto – che genera con passione la vita; ma
poi le forme di vita si rendono autonome. Autonomia significa capacità
di normare da sé, ossia di darsi un senso e una direzione relativamente
indipendenti dai vincoli o dalle esigenze dell’entità che ti ha generato e
che ti contiene. Non a caso si assiste a finalità contrapposte fra specie e
fra individui della stessa specie, che possono sfociare in conflitti e nella
soppressione dell’altro.
Da questo punto comincia una speculazione più ardua; dalla quale si
dipanano tre strade; la prima consiste nel ritorno ad una visione mistica o
panteistica della Terra (Lovelock, 1991); la seconda, quella probabilmente più battuta, va in direzione di un generico riferimento culturale alla
Terra Madre senza entrare nello specifico delle questioni; la terza percorre la strada di una chiarificazione di quali siano le modalità di interazione
fra la natura e le sue parti. Quest’ultima è ciò che interessa maggiormente
l’agricoltura, pensata con un ruolo speciale dentro la filosofia e le pratiche del buen vivir. La connessione più rilevante fra buen vivir e agricoltura è riferita alla sovranità alimentare. Più etereo appare il legame con
i metodi di coltivazione, rispetto ai quali però si registra un’importante
omologia strutturale. Essa va sotto il nome di agroecologia.
27% in meno che la sua controparte non indigena con lo stesso livello di
educazione; le donne hanno due volte più possibilità di essere analfabete
che gli uomini» (Leoni, 2011). A livello commerciale, sempre per restare
alla Bolivia, le condizioni sono quelle tipiche descritte nella teoria della
dependencia: grandi risorse naturali, ivi comprese quelle agricole, sfruttate (iniquamente) da imprese straniere senza un’industria di trasformazione interna, con la complicità di élites nazionali corrotte e parassitarie
(Scidà, 2004).
A fronte di questa drammatica situazione Ecuador e Bolivia propugnano la sovranità alimentare ossia un controllo interno dei regimi fondiari,
dei processi produttivi, dell’interscambio commerciale. Il bersaglio polemico è l’agricoltura industriale frutto della miscela di tre fattori: aziende
agricole di grandi dimensioni, monoculture estensive per l’esportazione,
mezzi (fra cui i semi geneticamente modificati, ogm) forniti in via esclusiva da multinazionali, aventi comunque la testa in paesi del Nord del mondo. È evidente poi che una siffatta struttura produttiva si interfaccia con
relazioni di produzione di tipo capitalistico, con i pochi detentori dei vari
tipi di capitale e i molti “senza terra” costretti a lavorare per i primi, così
come emerge sin dagli inizi del Novecento251. Il buen vivir, invece, si ispira
ai modelli comunitari di coltivazione della terra, tipici delle popolazioni
autoctone: proprietà collettiva dei terreni e/o assegnazione di questi a rotazione, collaborazione fra famiglie per i lavori agricoli, produzioni volte
prioritariamente al fabbisogno alimentare interno.
I tentativi di ridistribuire le terre, secondo la formula delle riforme
agrarie storiche, sono stati molto timidi (cfr. Giunta, Vitale, 2013). Le
cose cambieranno, a partire dagli anni ‘90, con il riconoscimento costituzionale dei diritti collettivi dei popoli indigeni. Entra qui in gioco il
diritto alla fruizione della terra che deriva dall’abitare i luoghi e dalla
consuetudine a prelevare in maniera sostenibile risorse di sostentamento.
È agevole notare che siamo di fronte ad una rinnovata attenzione a sancire giuridicamente l’esistenza di proprietà collettive (Costato, 1968), mo-
256
3. Sovranità alimentare versus sicurezza
La sovranità alimentare è forse il risvolto più rilevante del buen vivir
in quanto comporta il cambiamento di importanti strutture socio-economiche. Bisogna tener conto del contesto in cui nasce il richiamo al buen
vivir e la relativa piattaforma politica: paesi latinoamericani da sempre
sottoposti a forti squilibri dentro la società e nei termini del commercio
con l’estero. «Secondo i dati dell’Istituto Nazionale di Statistica boliviano, il 10% dei proprietari agricoli controlla il 90% della terra; un indigeno dell’area rurale ha il 70% in più di probabilità di vivere in estrema
povertà di uno che non lo è; una persona indigena in media guadagna
1
257
«L’agricoltura ecuadoriana del primo Novecento è essenzialmente articolata sulle due
strutture dell’hacienda e della piantagione: l’hacienda, istituto di matrice coloniale e concentrato nella zona geografica della Sierra, produce per il mercato interno attraverso un
sistema che lega i contadini e le loro famiglie in cambio di una parcella di terra per la
sopravvivenza» (Giunta, Vitale, 2013: 81).
258
Agroecologia e buen vivir
vimento assai diverso dalle riforme agrarie storiche, fortemente inserite
dentro lo schema della proprietà privata dei fondi agricoli.
Comunque si realizzi l’accesso e la fruizione della terra, è evidente
che nell’attività agricola contano molto i mezzi tecnici di produzione e
i canali di commercializzazione. Nel movimento del buen vivir vi sono
riferimenti alla formazione di cooperative agricole per gestire sia gli input
(mezzi, concimi, saperi) sia gli output (strutture di stoccaggio, trasformazione e commercializzazione dei prodotti) delle unità produttive. In questo senso il riferimento principale è all’agricoltura contadina. Essa stessa
è da considerarsi sia un movimento sociale – si veda, ad esempio, La Vía
Campesina (Corrado 2010) – sia un modello agronomico, contrapposto a
quello dell’agricoltura industriale o capitalistica. Secondo van der Ploeg
(2013a), il peasant farming presenta numerosi vantaggi rispetto all’agricoltura tradizionale. Alla lunga, esso risulta economicamente più efficiente e maggiormente compatibile con la salvaguardia della natura (Unctad,
2013). Il modello di agricoltura contadina ha alcuni caratteri tipici della
conduzione diretta dell’azienda: base familiare della manodopera, più
alto ricorso a fattori produttivi interni, minore esasperazione delle rese.
In altre parole, un’azienda agricola più autosufficiente, meno orientata al
profitto, più attenta a cogliere le opportunità locali.
La sovranità alimentare viene dunque declinata ad almeno tre livelli: quello nazionale, quello comunitario e quello aziendale-familiare. Bisognerebbe aggiungere anche un livello internazionale se solo si pensa
all’intenso lavoro di rete svolto da La Vía Campesina sia in America che
in Europa. Ma va considerata anche la saldatura continentale fra diversi
leader latinoamericani di nuova generazione, accomunati dall’avversione
al turbo-capitalismo di marca statunitense. Il buen vivir ha dunque funzionato da cerniera fra livelli di azione e fra territori, una sorta di suggello
dei movimenti contadini che lottavano per la sovranità alimentare. Esso,
recepito nelle costituzioni di Ecuador e Bolivia, è diventato un punto di
riferimento culturale per un vasto movimento transnazionale nel quale
per la prima volta l’attività agricola assume un ruolo primario; diventa
il simbolo dell’indipendenza dall’oppressione economica delle imprese
multinazionali.
Giorgio Osti
259
4. Buen vivir e agroecologia
Se è indubbio il ruolo catalizzatore del buen vivir sulle istanze più
politiche dell’agricoltura, più difficile è stabilire un nesso con i metodi di
coltivazione. Il punto di convergenza è ancora una volta la costituzione
boliviana. «El ejemplo más notorio es el de Bolivia, donde la filosofía
del buen vivir, llevada a la Constitución por el poderoso movimiento
indígena, se combina con la decisión del presidente Evo Morales de situar la agricultura ecológica como uno de los objetivos centrales de su
gobierno» (Toledo, 2012). Dai testi e dagli interventi concernenti il buen
vivir non vi sono molti riferimenti puntuali all’agroecologia; si parla di
un vasto movimento latinoamericano di praticanti e studiosi, che sembra rimandare genericamente a quella che in Europa è codificata come
agricoltura biologica od organica, per usare una traduzione letterale del
corrispondente termine inglese.
In realtà, agroecologia sembra una categoria più vasta di agricoltura
biologica in quanto rimanda non solo all’uso benefico ed esclusivo di
mezzi naturali nella coltivazione dei campi ma anche agli effetti indiretti
che un ambiente naturale sano e vario può avere sia per l’agricoltura che
per i residenti nelle aree rurali (Kremen et al., 2012). Per capirci non si
tratta solo di approntare mezzi per contrastare un certo parassita di una
coltura con l’inserimento nell’ambiente di una specie antagonista (la cosiddetta lotta biologica), ma di riservare una consistente parte dei terreni
a manifestazioni spontanee della natura (boschi o macchie ad esempio)
con la precisa convinzione che la varietà degli ecosistemi favorisce in ultima istanza il lavoro agricolo e l’equilibrio complessivo degli ecosistemi.
Agroecologia, in altri termini, rimanda a un più alto e complesso rapporto fra uomo e ambiente da raggiungere con una miscela di elementi
artificiali e naturali più spostata sui secondi. È evidente, infatti, che se
ogni agricoltore o la comunità agricolo-rurale riserva una quota parte
più consistente dei terreni a bosco, a palude o semplicemente all’incolto,
sottrae almeno sul breve periodo valore alla produzione. Ma – ragionamento agroecologico – tale limitazione, aumentando il tasso di biodiversità totale dell’area, finisce per creare un equilibrio che si rivela sul lungo
periodo più confacente alla stessa produzione agricola.
Agroecologia e buen vivir
Giorgio Osti
Ciò viene spiegato in termini ecologici: se un ambiente è più ricco
di biodiversità risponde meglio agli eventi estremi siano essi interni al
sistema agricolo stesso – come la diffusione abnorme di un parassita – o
esterni, come un’alluvione o lo spandimento accidentale di un inquinante
industriale. La complessità biologica avrebbe la funzione di rendere più
elastico o resiliente un sistema ecoagricolo (Koohafkan et al., 2012). Ciò
ovviamente ha valore su una scala pluriennale, quella che permette di fare
una media fra le rese agricole di una serie storica abbastanza lunga nella
quale annate buone e meno buone si compensano. La dimensione temporale è fondamentale negli approcci agroecologici; in questi si sostiene, infatti, che i risultati dell’agricoltura industriale sono buoni solo sul
breve periodo in quanto non tengono conto: a) del lento ma progressivo
impoverimento dei terreni, b) del crescente costo e scarsità degli input
artificiali che, nel breve periodo, sostengono le alte rese dell’agricoltura
industriale, c) dello sviluppo, sul lungo periodo, di parassiti resistenti ai
pesticidi innescando, così, una incessante e costosa corsa all’aggiornamento dei trattamenti fitosanitari.
Il discorso a sostegno dell’agroecologia è ancora più articolato perché
riguarda anche il benessere delle comunità umane. Una sintesi più alta
e complessa fra elementi artificiali e naturali nell’attività agricola porta
benefici indiretti all’uomo inurbato (Bocchi, Maggi, 2014). Infatti, un’agricoltura ben congegnata con i principi dell’ecologia può diluire i reflui
umani e industriali, può favorire l’autodepurazione dell’acqua destinata
alla popolazione, può ridurre l’impatto di eventi alluvionali, può salvaguardare aree boscate in grado di assorbire in maniera più efficiente anidride carbonica, causa primaria dell’effetto serra. Tutte queste funzioni
vengono anche dette ecoservizi delle attività agrosilvopastorali. Su di esse
esiste già una corposa letteratura, soprattutto di stampo economico, volta
a stabilire quale potrebbe essere il valore di detti servizi e la distribuzione
del loro costo fra i beneficiari (Marino et al., 2012).
Il rapporto fra agroecologia e agricoltura biologica è dunque di inclusione della seconda nella prima, soprattutto se quella “organica” tende
ad organizzarsi in senso industriale, rientrando così nell’alveo dell’agricoltura tradizionale. Vi è infatti dibattito fra quello che viene definito
il metodo biologico di sostituzione e una funzione più ampia assegnata
all’agricoltura biologica o organica (Abitabile, Povellato, 2009). Nel pri-
mo caso ci si limita a sostituire input chimici (concimi e antiparassitari)
con input organici senza una reale reimpostazione in senso ecologico di
tutta l’azienda agricola, secondo quella logica di incremento della biodiversità presente nell’agroecologia. Dunque, potremmo concludere dicendo che agroecologia e agricoltura biologica coincidono quando la seconda adotta una visione sistemica allargata. Essa implica l’inclusione di un
maggior numero di specie e di relazioni fra queste nell’attività agricola.
Questo, però, non aiuta più di tanto; il nuovo equilibrio ecosistemico
dell’azienda agricola dovrebbe includere la protezione della biodiversità
e la fornitura di ecoservizi. Ma vi sono ulteriori elementi dirimenti? E,
soprattutto, la filosofia del buen vivir può aiutare in questo? Da quanto
si apprende da Yolanda Parra (2013), vi è un comune elemento tra filosofie dei popoli originari dell’America Latina e pensatori europei come
Edgard Morin nel cogliere un senso di unità di destino per tutte le specie
a partire dalla Terra: “Terra-Patria” la chiama infatti Morin. «La dimensione “Territorio” è stata una delle mie priorità in termini di ricerche
bibliografiche, cercando di arrivare a studi che andassero oltre lo studio
della geografia fisica e che mi permettessero di mettere in relazione il
“sentire” e l’“esserci” in una dimensione Spazio/Tempo comune a tutti
gli esseri viventi, nell’intenzione di connettere quella “Identità Terrestre”
di cui ci parla Morin, o la “Coscienza di Specie” di Toledo con il “Buen
Vivir” dei Popoli Originari e con la “Progettualità Esistenziale” di G.M.
Bertin e M. Contini» (Parra, 2013: 281).
Non è facile catalogare o interpretare questi elementi; analiticamente
ne possiamo individuare almeno tre: 1) un elemento olistico, un tutto
interrelato avente un proprio equilibrio e senso; 2) un elemento di trasporto o attrazione verso il tutto e le sue parti, un sentimento di unità che
si indirizza verso la Terra Madre; 3) un modo di pensare, apprendere e
agire conforme, per cui si crea congiunzione piuttosto che disgiunzione,
rapporto organico parti-tutto, apprendimento attraverso contesti, vissuti,
luoghi; in sintesi, azioni conseguenti ai punti 1 e 2 che mirano a creare
una fratellanza universale inclusiva delle specie viventi e del mondo inanimato.
Anche il buen vivir, per quanto carico di una visione nuova del rapporto fra specie umana e terra, non fornisce in maniera diretta elementi
per quell’enorme spazio di mediazione che è l’agricoltura. Le diverse fi-
260
261
Agroecologia e buen vivir
Giorgio Osti
losofie del biologico sembrano già racchiudere gli elementi enfatizzati nel
buen vivir. Nulla di nuovo sotto il sole, dunque? In effetti, parrebbero
aperte solo due strade, già menzionate: o un rispetto degli ecosistemi in
forza di una loro sacralizzazione spinta o una coscienza ecologica più
sviluppata che riconosca l’interdipendenza di tutte le parti e quindi il
bisogno di raggiungere equilibri più complessi fra queste. La prima via
è poco praticabile in un mondo secolarizzato nel quale i simboli religiosi
finiscono per entrare in competizione gli uni con gli altri. In altri termini,
sarebbe assai arduo cercare di diffondere principi e metodi di agroecologia attraverso una legittimazione di tipo religioso; si rischierebbe una
babele (incomunicabilità) e molte manipolazioni, oltre che una buona
dose di critiche da parte dei non credenti.
La seconda strada – una migliore cognizione dei nessi – sembra più
percorribile. Le filosofie richiamate, compresa quella andina originaria,
sembrano però sottovalutare la specialità umana che, proprio nell’agricoltura, si manifesta in tutta la sua ambiguità: si ama e si rispetta la natura
ma solo nella misura che è piegabile al fine di produrre alimenti per la
specie umana. Come dice Jairo Restrepo Rivera (in Pellegrini, 2012: 27),
non si può scindere il suffisso “coltura” dal prefisso “agri”. Tornano allora le visioni paternaliste della wilderness stewardship, dell’amministrazione saggia, dell’antropocentrismo responsabile che pure affiorano nel
caleidoscopio del buen vivir (De Marzo, 2009: 147). Queste finiscono
per riproporre un dualismo fra attore e sistema che le scienze sociali ben
conoscono. Ma così il discorso si incaglia nuovamente.
questione di diversa posizione o ricchezza di risorse umane o ambientali,
ma di una relazione per forza di cose asimmetrica, nella quale vi è un
potere sull’altro sbilanciato. L’agricoltore, anche quando segue i principi
alti dell’agroecologia, mantiene una lieve supremazia. Questa, però, non
è dettata da una qualche legittimazione culturale (superiorità della specie
umana o dettato divino), ma da un costante interscambio uomo-natura
che da luogo ad una prassi relazionale senza interruzioni.
Una siffatta asimmetria relazionale è particolarmente evidente proprio
nell’agricoltura biologica; in essa, infatti, l’agricoltore si mette in ascolto
delle tendenze (ad es. diffusione di un parassita) e adotta la strategia che
minimizza i danni a sé, alle colture e all’ambiente circostante. Il punto
cruciale è quel “minimizza”, ossia l’accettazione di un danno relativo su
un singolo aspetto al fine di mantenere un equilibrio e una produttività
dell’insieme. Gli elementi fondamentali sono dunque due: una relazione
reiterata e soglie di intervento non stabilite a priori, ma scaturenti dalla
relazione stessa. L’intervento con una sostanza di contrasto artificiale o
naturale che sia, il suo dosaggio, la modalità di irrorazione deriveranno
dall’interazione fra attore – l’agricoltore – ed ecosistema agricolo. Vi è
un dominus, un padrone della casa; ma questo interviene inserendosi in
una sequenza di eventi: ascolto, valutazione, intervento, di nuovo ascolto
e, eventuale, ricalibratura dell’intervento. Questa sequenza ha un nome
nella metodologia delle scienze sociali: si chiama pratica, cui aggiungeremo agronomica.
La stessa sequenza ha un nome anche negli studi epistemologici: si
chiama teoria del gioco e ha molti addentellati con la filosofia olistica del
buen vivir. Edgard Morin quando scrive che «la complessità … non vuole
tanto strappare all’universo ciò che può venir determinato in maniera
chiara, con precisione ed esattezza, come erano le leggi della natura, ma
entrare nel gioco fra chiarezza e oscurità, gioco in cui si assiste a quello
strano dialogo dove l’organizzazione emerge solo nel confronto e nella
continua oscillazione fra l’ordine e il caos. Fra chiarezza e oscurità, come
fra ordine e caos, si situa dunque non una legge ma un gioco: e in effetti il
“paradigma della complessità” sostituisce al punto di vista del controllo il
punto di vista del gioco» (in Marchetti, 2008: 8). Laura Marchetti riprende a riguardo del gioco anche il pensiero di Mauro Ceruti. Il decorso del
gioco avviene sempre, infatti, «nell’interazione fra le regole poste come
262
5. Buen vivir, agroecologia, gioco
Una modalità per cercare di uscire dall’impasse determinato dall’alternativa secca fra azione paternalista verso la natura e immersione totale
nelle interdipendenze funzionali della stessa è quella di esplorare l’asimmetria che si crea proprio in agricoltura fra uomo e ambiente262. Non è una
2
Vi è un altro percorso teorico grazie al quale si cerca di uscire dal dualismo di uomonatura; esso fa capo a termini come co-evoluzione e co-produzione (Pellizzoni, 2010),
riscontrabili in contesti speculativi diversi, ivi compresi quelli dell’agricoltura (Ploeg,
2013b).
263
Agroecologia e buen vivir
Giorgio Osti
vincoli e come costitutive del gioco, il caso e la contingenza di particolari
eventi e di particolari scelte, e le strategie dei giocatori volte a utilizzare
le regole e il caso per costruire nuovi scenari e nuove possibilità» (ibid.).
Vi sono antecedenti illustri come Levi-Strauss, per il quale il gioco
rappresenta la struttura; non già un’istituzione fissata una volta per tutte,
ma l’insieme degli incontri fra caso, regole e strategie dei giocatori. Tale
struttura va oltre la cosiddetta teoria dei giochi (Festa, 2007), la quale
insiste esclusivamente sulle strategie di stampo razionale degli attori. Secondo questa tradizione, le norme non sono valori assoluti ma semplici
vincoli entro i quali massimizzare le proprie preferenze. Il gioco, invece,
è praticato per costruire nuove possibilità fra cui quella di interpretare
le norme a fronte di contingenze. A questo punto, il gioco come metafora volta a superare il dualismo attore sistema dovrebbe funzionare
bene. Non solo perché coniuga elementi di agency con vincoli esterni,
ma anche perché rappresenta assai efficacemente il senso dell’agricoltura
biologica: essa si presenta come una sfida ad estrarre dalla natura ciò che
all’uomo serve e piace (il cibo); l’uomo conserva un margine di vantaggio;
conosce sempre meglio le regole di funzionamento della natura; le può
piegare al proprio scopo, sapendo però che non può farlo oltre un certo
limite, pena la distruzione dell’avversario (l’ambiente naturale). Se bara,
può vincere alcune partite, ma finisce per distruggere l’esistenza stessa
dell’avversario; in tal modo si precludono il piacere e la funzionalità del
gioco per le partite successive. Sempre dentro la metafora, un buon giocatore ama avere avversari forti, reattivi, capaci seriamente di vincere.
In altri termini, più che richiami a presunti stati di armonia ancestrale
tra uomo e natura da recuperare, appare più realistico ammettere sia la
lieve superiorità relazionale dell’uomo sia la competizione che si accende
fra questo e la natura. Il gioco esce in questo caso dal puro significato
espressivo entro il quale viene generalmente visto per assumere, invece,
una natura ibrida: vi è un intimo piacere nel giocare (questo è indubbiamente l’aspetto espressivo, intrinseco), ma ciò produce anche utilità
sia sul piano della conoscenza (imparo dall’altro) sia sul piano materiale
(ricevo dall’altro fonti di nutrimento). Difficile negare, sentendo un agricoltore biologico esprimersi, il sottile piacere che deriva dal capire le regole più intime della natura e dal piegarle con dolcezza ai propri fini. Vi è
una componente agonistica nel rapporto fra uomo e natura, non estranea
per altro a manifestazioni di affetto verso l’avversario laddove si parla, ad
esempio, di dono agonistico (potlach) o dell’escalation di stupore che due
amanti cercano di procurarsi vicendevolmente attraverso lo scambio di
doni (Godbout, 2007). Pensando alle relazioni con la natura, mediate attraverso l’agricoltura, appare appropriato parlare di reciprocità asimmetrica, un dare, ricevere e contraccambiare, che tende a rimanere sbilanciato verso uno dei contendenti. Anche nell’agricoltura industriale esiste
un gioco con la natura, ma è decisamente più sbilanciato; l’agricoltore
tradizionale è indifferente all’ambiente che è solo un fattore di produzione, da usare in senso puramente strumentale, oggettivo. Nella metafora
del gioco egli è disinteressato all’avversario e vuole stravincere273. Invece, il
rapporto con la natura e la terra emerge in forma di dialogo appassionato
e dolce: «Ho imparato moltissimo da quando la mia vita ha virato verso
la terra. Ma l’insegnamento più duro è stato questo: più trasformi la terra
coltivandola, più la terra trasforma te … Cominci a dare spontaneamente, poi dai un po’ di più, poi dai il massimo, e allora, solo allora, avrai un
ritorno così generoso che riempirà la tua cantina fino a farla traboccare,
ma soprattutto farà rinascere quel fazzoletto di terra riarsa e infestata di
erbacce che chiamiamo anima» (Kimball, 2012: 10).
Il gioco, al pari dell’anima, si presenta come un’astrazione dalla vita
reale. Tuttavia, sostiene Caillois (1981), conserva la matrice delle funzioni
vitali, fornendo per ogni società un parallelo fra le attività in genere riservate ai bambini e ai momenti di relax e le azioni materiali che servono a
garantire la sopravvivenza. I paralleli notoriamente non si incontrano, ma
di certo si possono cogliere le loro analogie, nella fattispecie giocare con
la natura e trovare allo stesso tempo in essa la fonte del sostentamento.
264
265
6. Conclusioni
Il buen vivir è in bilico fra concezioni parareligiose della natura (la
3
Da ultimo, va ricordato un parallelo con la caccia: il rapporto con la selvaggina, termine
che in inglese si rende con game, è improntato a conservare un certo equilibrio fra le
parti; esso viene interpretato come una ritualità che esorcizza la ferita inferta alla natura
(Dalla Bernardina, 1988). In realtà, è qualcosa di più: è anche una relazione nella quale
il cacciatore, indubbiamente da una posizione di forza, vuole giocare con la preda.
Agroecologia e buen vivir
Giorgio Osti
mistica della terra) e paradigma della complessità, in ciò risultando una
filosofia molto vicina a pensatori cosmopoliti come Morin, Bateson, Maturana e Varela, Ceruti. È una filosofia che funziona bene sul versante politico, laddove raccoglie le istanze del movimento per la sovranità alimentare. Diventa meno pregnante e originale sul versante epistemologico o
più specificamente sul versante della riflessione sui metodi di coltivazione
ecocompatibili. Ciononostante, lo sbocco di tale frame filosofico verso
l’agroecologia come gioco appare promettente perché tiene assieme, con
un certo realismo, la parte strumentale e quella espressiva del lavoro agricolo, la materialità e la spiritualità della terra, l’intrinseco piacere di giocare con la dura necessità di procacciarsi i mezzi di sostentamento. Sono
tutte coppie che un certo pensiero riduzionista, ampiamente diffuso anche fra le scienze sociali, ha preteso di tenere rigorosamente separate e
gerarchicamente ordinate. Non si tratta, però, di fondere tutto nel grande
ventre della Madre Terra, ma di scovare nuove distinzioni, cogliere nuove relazioni fra oggetti e semmai abbandonare dicotomie ormai usurate.
Sarebbe un bel guaio anche per l’agroecologia se approdasse ad un tutto
indistinto senza nessun principio né fine.
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Abstract: The paper aims to see whether and how there is a link between the social movements inspired to the philosophy of buen
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267
268
Agroecologia e buen vivir
the label of agroecology. The connection exists and happens at
three levels: the idea of Pachamama that gives a central place to
land cultivation, the emphasis on communitarian rights and land
ownership, that interrupts the traditional labour-capital relationships imposed in the countryside, and the respectful of the nature
that invites for softer cultivation methods. The last point remains
the most eluded, not only in Latin America, where the buen vivir
philosophy has born, but also in Western Countries, in which the
agriculture is even more industrialized. Because of this elusion, the
metaphor of game is proposed for a new interpretation of agroecology and, more generally, of relationships between environment and human action.
Keywords: Agroecology, Game theory, Environment protection, Land
ownership.
PARTE III
IL BENESSERE E LE SUE MISURAZIONI
Il buen vivir tra economia e società
di Gabriele Blasutig28*
SOMMARIO: 1. Il buen vivir e la messa in discussione del rapporto tra
economia e società. – 2. L’economia come fenomeno plurale. – 3.
L’azione economica come azione sociale. – 4. Il buen vivir nello
scenario della globalizzazione economica.
1. Il buen vivir e la messa in discussione del rapporto tra economia e
società
Come evidenziano vari contributi contenuti in questa collettanea, il
buen vivir non è solo un programma di cambiamento della società, ma
anche un paradigma, una visione del mondo, che sfida in maniera sostanziale le categorie ed i modelli della modernità. Tra i vari aspetti messi in
discussione, uno dei più rilevanti riguarda il rapporto tra l’economia e la
società (Prada Alcoreza, 2013; Ruttemberg, 2013; Walsh, 2010). Viene
confutata l’idea che l’economia costituisca un sottosistema separato, basato su principi, sistemi di regolazione, meccanismi di funzionamento e
logiche di comportamento sostanzialmente differenziati rispetto a quelli
intercorrenti nelle altre sfere. In effetti, il buen vivir può essere considerato un disegno di reincorporazione dell’economico nel sociale (Laville,
2013), delineabile in relazione ai quattro principali aspetti in cui si articola la realtà economica: la produzione, lo scambio, la distribuzione, il
consumo.
Per quanto riguarda il primo aspetto, nella concezione modernista,
il sistema di produzione viene sostanzialmente parametrato in base alle
*
Ricercatore di Sociologia dei processi economici e del lavoro e professore aggregato
nell’Università di Trieste.
Il buen vivir tra economia e società
Gabriele Blasutig
capacità di remunerazione del capitale. Le altre risorse impiegate nel
processo produttivo, a cominciare dalle risorse naturali e dal lavoro, assumono un ruolo strumentale. La prospettiva del buen vivir, invece, attribuisce a tutte le risorse pari “cittadinanza”. Il parametro di riferimento è
rappresentato dal valore prodotto da e per l’insieme dei soggetti direttamente o indirettamente coinvolti: i lavoratori e le loro organizzazioni, le
istituzioni pubbliche, le comunità locali, i movimenti politici e culturali,
le associazioni di consumo, ecc. I detentori del capitale sono una tra le
componenti, non necessariamente la principale (Prada Alcoreza, 2013).
Si consideri, oltretutto, che il modello del buen vivir predilige le forme di
imprenditorialità collettive e senza fine di lucro, in particolare le forme
cooperative, associative e consortili (Bateman, 2013; Ruttemberg, 2013).
Il secondo aspetto da prendere in considerazione è quello dello scambio. Nella prospettiva modernista il mercato costituisce l’unico contenitore degli scambi economicamente rilevanti. Questi ultimi vengono spogliati di ogni contenuto relazionale, data l’irrilevanza dell’identità sociale
dei soggetti coinvolti (Barbera, Negri, 2008). Al contrario, il paradigma
del buen vivir attribuisce all’aspetto relazionale un’assoluta centralità.
Gli scambi economici prendono forma, infatti, all’interno di una rete di
relazioni densa, improntata dalle dimensioni comunitaria ed associativa. Inoltre, un ruolo cruciale è attribuito alla c.d. economia informale.
Parliamo, a questo proposito, di beni e servizi che vengono scambiati
non su base monetaria o contrattuale, ma come modalità di riproduzione
dei rapporti sociali (parentali, di vicinato, comunitari, etnici, associativi,
ecc.) (Portes, 2010: cap. 7). Nella prospettiva del buen vivir, l’economia
informale non è più un corpo estraneo o un settore interstiziale, bensì
una parte integrante della vita economica.
Un terzo fondamentale aspetto riguarda la distribuzione dei benefici
generati dal funzionamento dell’economia. La chiave di lettura modernista è basata sulla cosiddetta “mano invisibile”. Questo concetto sottende
la presenza di un meccanismo competitivo che, funzionando in maniera
pressoché automatica, è in grado di premiare i comportamenti e gli attori
più efficienti. Le società moderne hanno altresì congegnato dei rimedi
ai fallimenti distributivi del mercato, istituendo i sistemi di welfare state
a protezione delle categorie sociali perdenti o escluse. Il paradigma del
buen vivir supera non solo il concetto di “mano invisibile”, ma anche
quello di welfare state, assumendo il principio della solidarietà, della reciprocità e dell’uguaglianza su base comunitaria come criterio guida che
precede, nel modello di società ideale, quello dell’efficienza economica
e della capacità di risposta all’interesse individuale (Monni, Pallottino,
2013: 8).
Il quarto e ultimo aspetto da considerare attiene il rapporto tra i bisogni e i consumi. Il programma del buen vivir si propone di superare
una concezione riduttiva del benessere legata all’accumulazione di beni
materiali, in base a strategie di massimizzazione delle funzioni di utilità
attuate dai singoli individui. Viceversa, il benessere viene ricondotto ad
una sfera di bisogni più articolata e complessa che comprende la dimensione psicologica, identitaria, valoriale e relazionale (Ruttemberg, 2013).
Questo tipo di impostazione sposta quindi gli equilibri del benessere dalla componente materiale a quella immateriale, dal quantitativo al qualitativo, dall’edonismo all’integrità psicologica, dall’individuale al collettivo,
dalla razionalità strumentale a quella assiologica. L’economia del benessere (ibid.) si arricchisce dunque di sfumature, dimensioni e componenti
segnati da un’impronta marcatamente sociale.
Il buen vivir è, pertanto, un paradigma che sfida in maniera profonda
le categorie della modernità riferite alla realtà economica. Al contempo,
fornisce materiali di varia natura (quadri analitici, modelli, codici normativi, esperienze empiriche) molto utili al dibattito in corso da alcuni decenni sul capitalismo e sul rapporto tra l’economia e la società (Barbera,
Negri, 2008; Regini, Ballarino, 2007; Smelser, Swedberg, 2005; Trigilia,
2009). Un dibattito nel quale la sociologia economica ha avuto ed ha un
ruolo centrale e che ruota attorno a due principali ipotesi: a) l’ipotesi
che il capitalismo costituisca un fenomeno plurale e che quindi i sentieri
dello sviluppo si possano diversificare in funzione delle caratteristiche
del contesto sociale (Blasutig, 2001); b) l’ipotesi che l’azione economica
sia e vada interpretata come una forma di azione sociale (Magatti, 2000).
I prossimi due paragrafi saranno dedicati a queste due ipotesi. Si darà
sinteticamente conto dei quadri interpretativi elaborati dal pensiero socio-economico. Si tratta di analisi che, per un verso, vengono illuminate e
corroborate dai materiali messi a disposizione dal buen vivir e, per l’altro
verso, possono fornire a questo modello fondamenti di tipo teorico e
concettuale.
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273
274
Il buen vivir tra economia e società
2. L’economia come fenomeno plurale
Per illustrare l’idea del capitalismo come fenomeno plurale è utile partire dalla distinzione proposta da Karl Polanyi tra la concezione formale e
la concezione sostanziale dell’economia (v. Trigilia, 2009: 13 ss.).
La concezione formale coincide con i modelli della teoria economica,
in particolare quelli ispirati dalla dottrina neoclassica. Questi stabiliscono i principi in base ai quali, date le tecnologie disponibili (intese come
insieme di conoscenze, metodi e strumenti), il sistema è in grado, in un
determinato momento, di impiegare in maniera massimamente efficiente
le risorse scarse a disposizione, in relazione ai bisogni, alle necessità ed ai
gusti degli attori sociali nella loro veste di consumatori. Per come sono
concepiti e costruiti (secondo un procedimento rigorosamente analitico-deduttivo) e per le finalità che si propongono, i modelli così definiti risultano fortemente stilizzati e si connotano per un elevato livello di
astrazione. Di qui il riferimento alla loro natura formale. La concezione
sostanziale dell’economia, invece, è più vicina ad una sensibilità di tipo
sociologico. Fa riferimento alle attività attraverso le quali, in un determinato contesto sociale, l’uomo risponde alle esigenze di sussistenza in
relazione alle risorse fornite dall’ambiente naturale ed alle necessità di
convivenza con gli altri uomini. Il sistema economico in questo caso non
viene interpretato in funzione dell’efficienza allocativa, bensì in funzione
del contesto ambientale, sociale ed istituzionale di riferimento. La “forma” assunta dall’economia, ossia il modo in cui le diverse attività economicamente rilevanti vengono coordinate tra loro, dipende dalle istituzioni sociali, cioè dall’insieme di credenze, valori, norme, e relative sanzioni
che orientano e delimitano il campo d’azione degli attori sociali.
La lettura in chiave sostanziale dell’economia, sostenuta da un approccio metodologico di tipo induttivo e idiografico, significa identificare
le diverse forme e modalità che le attività economiche possono assumere
nello spazio e nel tempo. Si profila, pertanto, un fondamentale passaggio
da un paradigma dell’uniformità ad un paradigma della varietà dell’economia (Blasutig, 2001). Nel primo caso, si fa riferimento a leggi universali
fondate su forme di razionalità standard, indipendenti dagli specifici contesti socio-istituzionali e culturali. Nel secondo caso, invece, l’economia
viene intesa come un fenomeno plurale, manifestandosi in forme e mo-
Gabriele Blasutig
275
dalità diversificate (Laville, 2013: 1; Trigilia, 2009: 17). In questo modo
si prendono le distanze dall’idea che i sistemi economici si comportino
e vadano analizzati in base al principio del one best way, secondo cui ad
ogni problema corrisponde una ed una sola soluzione ottimale verso cui
i sistemi inevitabilmente tendono (uniformandosi gli uni agli altri). Viceversa, si assume il principio dell’equifinalità secondo il quale è possibile
raggiungere (individualmente e collettivamente) lo stesso fine attraverso
una pluralità di percorsi, modalità, forme e soluzioni (Blasutig, 2001: 23).
Questo tipo di prospettiva contrasta in maniera sostanziale i tradizionali modelli con cui sono concepiti la modernizzazione e lo sviluppo
delle società economicamente più arretrate, fondati su un principio di
unidirezionalità e convergenza. Viene invece avanzata l’idea della pluralizzazione, multidirezionalità e diversificazione dei percorsi di transizione. L’aspetto fondamentale che caratterizza questa lettura è rappresentato dal fatto che gli elementi tradizionali della società, ad esempio i
valori religiosi o i legami familiari/comunitari, vengono a formare delle
combinazioni variabili con i caratteri moderni della società e che tali mix
variabili di tradizione e modernità costituiscano una chiave analitica fondamentale nell’interpretazione dei percorsi di transizione economica a
sociale (Mutti, 2007; Trigilia, 2009: cap. 2).
Pertanto, l’economia e i sistemi produttivi si caratterizzano per essere
dei processi differenziati in funzione del contesto in cui sono situati: «ciascun luogo mobilita nella produzione la propria conformazione naturale,
la propria storia, la propria cultura, la propria organizzazione sociale: tutte risorse e circostanze che, prese nella loro combinazione, sono diverse
da quelle che possono venire mobilitate da ogni altro luogo» (Bacattini,
Rullani, 1994: 320). Da questo punto di vista, la componente cognitiva,
attraverso continue rielaborazioni delle conoscenze contestuali, diviene
un elemento centrale. I contesti locali, infatti, non sono solo e semplicemente dei contenitori di varietà storiche, «ma costituiscono dei veri e
propri laboratori cognitivi, in cui nuove varietà vengono continuamente
sperimentate, selezionate, conservate» (ibid.: 323). Si determinano dei
cicli di apprendimento in cui la conoscenza si produce e riproduce, utilizzando i saperi, gli schemi, i frame formatisi nel corso dell’esperienza
storica e conservati nella memoria collettiva nei diversi contesti.
Viene pertanto messa radicalmente in discussione l’idea dello svi-
Il buen vivir tra economia e società
Gabriele Blasutig
luppo economico come un processo lineare, unidirezionale, scandito da
tappe predeterminate, fondato sul mito del progresso, inteso come crescita economica, plasmato essenzialmente da forze esogene e, in qualche
misura, pilotato dall’alto. Si tratta di una lettura critica in forte sintonia
con le riflessioni e le indicazioni provenienti dal paradigma del buen vivir secondo cui lo sviluppo socioeconomico viene plasmato in base alle
peculiarità sociali, culturali ed ambientali del contesto in cui si innesta
(Monni, Pallottino, 2013). Lo sviluppo non è più concepito al servizio del
benessere materiale e della crescita della ricchezza, ma al servizio delle
opportunità offerte, da un lato, agli individui di accrescere le capacità necessarie per esercitare la propria libertà di azione nelle diverse sfere (Sen,
1999) e, dall’altro lato, alle comunità locali di riprodurre e valorizzare le
proprie identità, peculiarità e tradizioni, anche di tipo produttivo (Prada
Alcoreza, 2013; Monni, Pallottino, 2013; Ruttemberg, 2013).
centro politico-amministrativo che detiene il potere di normazione, decisione, comando nei confronti degli attori assoggettati a tale autorità.
Si possono trarre molteplici esempi dalla storia antica (i grandi imperi)
e recente (le economie pianificate dei regimi comunisti), ma anche dalla contemporaneità (i sistemi di welfare state). Infine, il terzo principio,
quello della reciprocità, si riferisce alla regolazione degli scambi, della
produzione e distribuzione dei beni in base alle norme sociali che regolano le obbligazioni reciproche tra attori, da intendere come flussi di doni
e controdoni che circolano nelle reti di relazioni sociali in cui prendono
forma, a diversi livelli, le diverse identità collettive: famiglia, comunità
locali, gruppi etnico-nazionali, comunità professionali, movimenti civili o religiosi, ecc. In questo caso, il comportamento degli attori deriva
da codici morali interiorizzati e dall’istanza di riconoscimento sociale. È
prevalente un atteggiamento solidaristico, collaborativo, partecipativo e
fiduciario.
Lo schema tripartito inizialmente proposto da Polanyi è stato ripreso
in numerose occasioni da diversi studiosi dei fenomeni socio-economici,
con varie declinazioni terminologiche che lo hanno arricchito di sfumature. Ciò si riscontra soprattutto con riferimento al concetto di reciprocità
rispetto al quale sono rilevabili in letteratura alcune interessanti varianti
che concorrono a chiarirne maggiormente il significato: comunità, solidarietà, clan, rete (Blasutig, 2001: 149).
L’aspetto più interessante, alla luce del concetto e della progettualità
sociale del movimento del buen vivir, riguarda il rapporto che assumono
le tre forme di integrazione dell’economia, il modo in cui queste si combinano tra loro, in un prospettiva diacronica e sincronica.
In una prospettiva diacronica, Laville riprende la lezione polanyiana, dipingendo un quadro evolutivo della società moderna caratterizzato
dalla successione di ondate di disembedding (scorporamento) e di reembedding (reincorporazione) dell’economia dalla e nella società, esito
di una costante tensione discrasica tra questi due “movimenti” (Laville,
2009 e 2013). Il primo movimento deriva dalla prevalenza delle forze
che spingono l’economia verso l’autoregolazione sulla base delle leggi
del mercato competitivo. Il secondo movimento è dato dalle forze di reembedding che sono sostenute dai principi della redistribuzione e della
reciprocità.
276
3. L’azione economica come azione sociale
Per quanto concerne l’ipotesi dell’azione economica come azione sociale, la sociologia economica, rivitalizzata negli ultimi decenni nel quadro della c.d. nuova sociologia economica, ha fornito importanti contributi analitici (Smelser, Swedberg, 2005; Steiner, 2001; Trigilia, 2009;
Portes, 2010). Un utile punto di partenza può essere rappresentato dal
modello di Polanyi sulle tre forme di integrazione dell’economia, intese
come principi fondamentali di regolazione delle attività di produzione,
distribuzione e scambio dei beni (Cella, 1997). I tre principi sono, com’è
noto, lo scambio di mercato, la redistribuzione e la reciprocità.
Il primo, lo scambio di mercato, è caratterizzato dal fatto che la regolazione principale è affidata al sistema dei prezzi, determinati in base
al libero gioco della domanda e dell’offerta. In questo contesto gli attori
agiscono secondo una logica di razionalità strumentale, motivati esclusivamente dalla massimizzazione dell’interesse individuale. Pertanto, la
dimensione relazionale si esaurisce nel rapporto di mercanteggiamento e
nel conseguente accordo contrattuale. Il principio della redistribuzione,
invece, riguarda la regolazione delle attività economiche (quanto, cosa,
come e per chi produrre) fondata su regole e disposizioni dettate da un
277
Il buen vivir tra economia e società
Gabriele Blasutig
Questi mobilitano una serie di meccanismi di “autodifesa della società”: riducendo le disuguaglianze e le situazioni di esclusione sociale
prodotte dal mercato; incapsulando le forze competitive entro stringenti quadri regolativi (formali ed informali) che limitano le situazioni di
sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura; estendendo
il concetto di interesse rispetto a esigenze non solo inerenti il benessere
materiale e non solo relative ai singoli individui.
Nel lungo periodo si sono storicamente alternate fasi di disembedding
e di re-embedding. Fasi del primo tipo si sono prodotte nel corso delle
stagioni dominate dall’ideologia liberista, all’inizio ed alla fine del secolo
scorso. La parte centrale del Novecento è stata connotata invece da un
incisivo e prolungato movimento opposto, descritto da Polanyi nella sua
opera maggiore, La grande trasformazione. Laville (2009 e 2013) ravvisa
nella lettura della contemporaneità alcuni segnali di una ripresa di tale
contromovimento, osservando l’emergere di una nuova economia sociale e solidale le cui protagoniste sono organizzazioni senza fine di lucro,
gestite prevalentemente in forma associata e cooperativa e operanti in
settori a forte impatto socio-ambientale (servizi alla persona, cultura,
consumo critico e solidale, energie rinnovabili, ambiente, ecc.). Nell’evidenziare tali spinte di opposizione all’ondata neoliberista degli anni
‘80 del secolo scorso, Laville sottolinea la necessità che il principio della
redistribuzione sia costantemente bilanciato da quello della reciprocità,
per evitare le derive totalitarie che si sono prodotte in passato. Da questo
punto di vista risulta fondamentale il rafforzamento dei meccanismi democratici (a tutti i livelli) in particolare attraverso il potenziamento delle
forme più partecipative (Ruttemberg, 2013).
Come scritto poc’anzi, l’analisi dell’interazione tra le tre forme di integrazione dell’economia può essere sviluppata anche in un’ottica sincronica, osservando le forme, gli assetti ed i meccanismi di funzionamento dei
sistemi economici alla luce di tale interazione. La letteratura ha evidenziato alcune chiavi di lettura che risultano particolarmente interessanti
nella prospettiva del buen vivir.
Il primo riguarda l’idea che la vita economica funzioni ineludibilmente sulla base dell’interazione dei tre meccanismi di integrazione. Questi
interagiscono sempre tra loro, dando vita a combinazioni e composizioni
variabili, definibili come mix regolativi (Blasutig, 2001: 149). Vengono
così a formarsi specifici setting istituzionali legati soprattutto al comportamento degli attori collettivi: ad esempio, istituzioni pubbliche, imprese,
organizzazioni, partiti politici, associazioni di interessi, movimenti d’opinione, comunità locali, mass media, ecc. Tale comportamento dipende dalle norme formali che il sistema si è dato, ma viene plasmato in
particolar modo dalle culture e subculture presenti in quel determinato
contesto sociale. Su questo terreno analitico si può riscontrare una certa
convergenza di molteplici filoni: dal tradizionale filone di studi della political economy (Regini, Ballarino, 2007), alla scuola regolazionista francese (Boyer, Saillard, 1995), all’approccio neoistituzionalista elaborato sia
sul versante sociologico (Powell, DiMaggio, 1991) che su quello delle
scienze economiche (North, 1994).
La seconda chiave di lettura riguarda quelle prospettive d’analisi in
cui l’interazione tra le tre forme di integrazione si spinge fino al punto in
cui il mercato diviene “un fenomeno sociale in sé”. Ovverosia, «qualsiasi
scambio … è da considerarsi intrinsecamente sociale e politico» (Barbera,
Negri, 2008: 43). Si tratta dell’elemento cardine su cui si basa la cosiddetta nuova sociologia economica (Granovetter, 1985) e che si esprime
analiticamente attraverso l’ipotesi dell’azione economica come azione sociale (Magatti, 2000). Il presupposto fondamentale è che «gli elementi sociali entrano in modo costituitivo nel funzionamento del mercato» e che
le attività economiche hanno una «intrinseca valenza sociale, culturale e
politica» (Barbera, Negri, 2008: 56).
Gli scambi generano una trama di relazioni (costituite da legami forti
o deboli, simmetrici o asimmetrici, ecc.) da cui gli attori traggono informazioni, sostegni, credenze, schemi cognitivi, regole pratiche che supportano in maniera imprescindibile la loro azione. E, soprattutto, i network sociali producono i vincoli di reciprocità necessari a controbilanciare le tendenze opportunistiche dell’azione sociale (dettata in particolare
dalla matrice razionale e strumentale della stessa) e a fornire quindi le
risorse fiduciarie necessarie per risolvere problemi ampiamente studiati
come quello del dilemma del prigioniero nella teoria dei giochi o del free
riding nell’azione collettiva, a sostegno della gestione o produzione di
beni pubblici (Parri, 2004). È a partire da questa fondamentale proprietà
delle relazioni sociali che si è sviluppata la vastissima letteratura sul capitale sociale (Portes, 2010), un concetto che negli ultimi anni ha concorso
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279
Il buen vivir tra economia e società
Gabriele Blasutig
in maniera decisiva a spiegare molteplici fenomeni economici, come ad
esempio il funzionamento dei mercati del lavoro, il ruolo dei network
sociali nella “costruzione” dei mercati finanziari, i distretti industriali e
le economie locali, le economie etniche o le esperienze di produzione di
beni pubblici e di gestione dei beni comuni (Aoki, Hayami, 2001; Grootaert, Van Bastelaer, 2002).
derivanti da una divisione internazionale del lavoro sempre più spinta e
costantemente in divenire (ibid.). Pertanto, il quadro è caratterizzato da
una decisa intensificazione del livello di interdipendenza: qualsiasi tipo
di politica locale o nazionale deve fare i conti con le dinamiche della globalizzazione, adottando strategie che non siano esclusivamente reattive
in senso oppositivo.
Peraltro, è sotto gli occhi di tutti che la partecipazione ai benefici della globalizzazione è stata distribuita in maniera fortemente squilibrata.
Anche quando la partecipazione dei paesi cosiddetti emergenti al sistema
di produzione globale determina un upgrading sul piano economico (capacità di apportare un maggiore valore aggiunto alla catena globale del
valore) quasi sempre non si verifica un parallelo processo di upgrading
sul piano sociale. Non si ravvisano, infatti, sostanziali ricadute positive
rispetto ai diritti umani, agli standard di lavoro, al livello di sostenibilità ambientale ed alla lotta alla povertà (Barrientos et al., 2011). Questi
mancati effetti benefici della globalizzazione sono da imputare sia alla
innata vocazione “predatoria” delle imprese transnazionali (data la logica
di massimizzazione del profitto che le muove) sia agli indirizzi d’azione
di impronta marcatamente neoliberista assunti dalle organizzazioni internazionali deputate alla regolazione dell’economia globale, come il Fondo
monetario internazionale o l’Organizzazione mondiale del commercio
(Gereffi, 2005).
Riconoscendo pienamente il peso, l’intensità e la cogenza delle forze
che agiscono su scala globale, risulta abbastanza evidente che se le spinte verso la reincorporazione dell’economia nella società si limitassero ad
agire a livello di comunità locali o, tuttalpiù, nazionali, probabilmente
questi tentativi di resistenza rischierebbero di restare schiacciati sotto
il peso della globalizzazione. Sembra pertanto necessario che le buone
pratiche fondate sulla valorizzazione della dimensione collettiva, dei rapporti di reciprocità e dei processi partecipativi aspirino a diventare sempre più questioni di «dominio pubblico globale» (Gereffi, 2005: 176).
Da questo punto di vista si possono rilevare alcuni segnali incoraggianti.
Emergono, infatti, soggetti, strumenti e soluzioni (ad es., codici di condotta, sistemi di certificazione e controllo, accordi e forme di regolazione, ecc.) che spingono le relazioni economiche transnazionali sul terreno
della responsabilità sociale ed ambientale (ibid.). In tutto questo un ruolo
280
4. Il buen vivir nello scenario della globalizzazione economica
Il buen vivir è un paradigma, un movimento e un programma di cambiamento sociale innescatosi in una chiave reattiva rispetto ai modelli neoliberisti che hanno dominato lo scenario mondiale a partire dagli anni
‘80. Come abbiamo evidenziato in precedenza, ciò corrisponde ad un
disegno di reincorporazione dell’economia nella società. Una questione
su cui si interrogano gli studiosi è fino a che punto questo disegno possa
rivelarsi incisivo in senso sostanziale. Si paventa, infatti, il rischio che
tale sistema di idee resti vincolato al piano ottativo, a quello dei principi
giuridici o, peggio, a quello delle retoriche (Walsh, 2010). Se questo fosse
vero, la portata del cambiamento stimolato e generato dal buen vivir risulterebbe limitata. Nei casi peggiori corrisponderebbe, infatti, a operazioni
superficiali e di facciata; in quelli migliori, ad esperienze identificabili
come buone pratiche, significative, innovative e coerenti con il sistema di
valori di riferimento, ma circoscritte e limitate in termini di capacità di
radicamento, diffusione e disseminazione dei modelli d’intervento e dei
risultati conseguiti.
I diversi esiti possibili sul piano delle realizzazioni concrete sembrano
dipendere in maniera significativa da come il movimento del buen vivir
riuscirà a rapportarsi alle dinamiche ed alle le forze che si esprimono su
scala globale. Com’è noto, la globalizzazione negli ultimi decenni si è
fortemente intensificata ed ha cambiato volto rispetto alle fasi precedenti
(Gereffi, 2005). In particolare, sono notevolmente cresciuti i flussi internazionali corrispondenti agli scambi di capitali, merci, lavoro, tecnologie
e conoscenze. Inoltre, l’assetto del sistema risulta molto più frammentato, essendo strutturato sulla base di catene globali del valore configurate come reti di scambi transnazionali articolate, complesse e dinamiche,
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Il buen vivir tra economia e società
Gabriele Blasutig
fondamentale viene assunto dai soggetti organizzati (organizzazioni non
governative, movimenti d’opinione, associazioni di rappresentanza della
società civile, ecc.), che sono in grado di veicolare e proiettare le istanze
della socialità, della reciprocità e dell’equità su una scala e su un orizzonte globale.
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Abstract: The paradigm of buen vivir calls into question the idea, central to modernity, that market economy is a self-regulating system,
separate from society. This view is countered by the attempt of reembedding the economy in society. In relation to this perspective,
the paper discusses two hypotheses widely debated by contemporary economic sociology, closely related to the buen vivir model.
The first hypothesis argues that capitalism constitutes a plural
283
284
Il buen vivir tra economia e società
Altre economie e buen vivir
phenomenon, the second that economic action is a form of social
action. The last comments concern the possible impact of the buen
vivir model in relation to the intensification of economic globalization in recent decades.
di Chiara Zanetti29*
Keywords: Buen vivir and economic reality, Economy and society,
Economic sociology, Social and solidarity economy, Varieties of
capitalism.
«Ci troviamo al bivio tra due scelte alternative: tentare di perfezionare e prolungare la via della sviluppo, cercando di fronteggiare con più raffinate tecniche di dominio della natura e degli uomini le contraddizioni sempre più gravi
che emergono … o invece tentare di … rielaborare gli elementi di una civiltà
più ‘moderata’ (più frugale, forse, più semplice, meno avida) e più tollerante
nel suo impatto verso la natura, verso i settori poveri dell’umanità, verso le
future generazioni e verso la stessa ‘biodiversità’ (anche culturale) degli esseri
viventi» (Langer, 1991: 126 s.).
SOMMARIO: 1. Economia e buen vivir. – 2. Echi dal Sud del mondo:
una prospettiva emergente. – 3. Pratiche di economia solidale nel
contesto occidentale.
1. Economia e buen vivir
Nel contesto latinoamericano la contraddizione tra uno sviluppo economico, indirizzato al massimo vantaggio possibile, ma al contempo incapace di risolvere fenomeni quali la povertà estrema, la fame, la disoccupazione e il degrado ambientale ha portato alla definizione del buen vivir
come un’alternativa all’idea di sviluppo occidentale. Questo si costituisce
non solo come un frame teorico, ma anche come un insieme di pratiche e
di esperienze concrete.
Dal punto di vista filosofico, il buen vivir rappresenta una cosmovisione ovvero una concezione globale della vita che mette al centro i diritti
e la responsabilità di ciascuno nei confronti della collettività, nonché la
ricerca di armonia con la natura e del benessere collettivo (Acosta, 2010).
Esso costituisce il tentativo di disegnare una nuova prospettiva di cambiamento sociale, a partire da una visione plurinazionale e interculturale
*
Dottoressa di ricerca in Politiche transfrontaliere per la vita quotidiana nell’Università
di Trieste.
Altre economie e buen vivir
Chiara Zanetti
che, traendo spunto dalle esperienze delle comunità indigene, pone una
particolare attenzione all’ambiente naturale, definito come Terra Madre
(Bagni, 2013). Cambia, quindi, l’approccio con cui ci si pone in relazione
con la natura: essa non costituisce un insieme di risorse da accumulare
per raggiungere uno scopo, ma fa parte di un ideale di vita armonico in
cui rientra anche l’esistenza umana. Questo porta a un’idea diversa di
sviluppo ove il fine non è l’accumulazione continua di ricchezza, quanto il garantire alla popolazione la soddisfazione dei bisogni essenziali, in
un’ottica di giustizia sociale e ambientale. Attualmente, la crisi economica, culturale, valoriale e identitaria che sta vivendo il mondo occidentale
pone degli interrogativi circa la sostenibilità del modello consumista su
cui esso si fonda. Da questo punto di vista, molti autori evidenziano come
l’attuale crisi occidentale sia una crisi di tipo strutturale: in questo contesto le risposte alle tensioni e alle crescenti disuguaglianze sociali appaiono sempre più complesse, poco definibili, deboli e limitate (De Marzo,
2009). Al contrario, gli stimoli provenienti dal mondo andino suggeriscono l’emergere di pratiche politiche e sociali in grado di cogliere tale
complessità, mirando a ridurre la frattura tra sviluppo umano e ambiente
e costituendo un’ispirazione anche per il mondo occidentale.
A tal proposito, Gudynas (2011) sottolinea come questa visione del
mondo sia saldamente ancorata ai saperi e alle tradizioni indigene –
collegati dalla credenza nella Pachamama, che gioca un ruolo centrale
diventando a tutti gli effetti portatrice di un diritto di tutela – e come
tale si propone di conservare una spiritualità che riesca a rafforzare il
rapporto tra la natura, l’universo e gli esseri umani, in cui trova spazio
un’economia di tipo sostenibile. In questo senso, la riflessione sul buen
vivir si incentra su una decostruzione radicale della base culturale dello
sviluppo occidentale quale risposta dei popoli indigeni al processo di decolonizzazione. Come sottolinea Prada Alcoreza (2013), a partire dagli
anni ‘90, i popoli indigeni si sono interrogati sul concetto di sviluppo e di
progresso così come inteso nell’ideale liberista. Infatti, nella letteratura di
riferimento spesso si sottolinea come il concetto di sviluppo lineare non
trovi piena corrispondenza semantica nelle lingue amerinde. Gudynas
(2011), ad esempio, mette in luce la mancanza di un vocabolo analogo
che esprima l’idea di sviluppo orientato alla sempre maggiore accumulazione di capitale che, a sua volta, permette un’espansione continua dei
consumi e un’accumulazione incrementale dei beni materiali. Non è un
caso, quindi, che il buen vivir compaia nel movimento indigeno nel 1992
in occasione dei “500 anni della conquista e della resistenza indigena”
in contrasto all’estrattivismo, responsabile dei danni ambientali e sociali
provocati dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali.
Il buen vivir si costituisce quindi come un modello alternativo di sviluppo. Come tale, gli autori che ne analizzano le caratteristiche evidenziano come esso possa essere considerato un «umbrella for a set of different
positions» (Gudynas, 2011: 444); un concetto, quindi, multisfacettato
che racchiude al suo interno una serie eterogenea di posizioni. In questo
contesto, la letteratura di riferimento – in particolare Acosta e Gudynas
– evidenzia in modo trasversale come esso abbia ripreso alcuni elementi
della cultura andina proponendo un modello sviluppo che si è cercato di
tradurre a livello operativo attraverso una vera e propria visione politica.
Tuttavia, come evidenzia il filosofo aymara Fernando Huanacuni Mamani (in Morsolin, 2014: 25), ancor prima di acquisire tale valenza politica,
esso si costituisce come la ricerca di un paradigma di riferimento: «Il
buen vivir, più che un’originalità della costituzione, fa parte di una lunga
ricerca di modelli di vita promossi particolarmente dagli attori sociali
dell’America Latina negli ultimi decenni, come parte delle loro rivendicazioni rispetto al modello economico neoliberale. Nel caso ecuadoriano
e boliviano tali rivendicazioni sono state riconosciute e incorporate nella
costituzione del 2009, convertendosi nei principi e nelle orientazioni del
nuovo patto sociale».
La diversa concezione dello sviluppo comporta una declinazione specifica dell’economia che diviene, a sua volta, uno strumento finalizzato a
un ideale di vita armonico. Partendo dall’analisi dell’attuale crisi economica, che è primariamente una crisi finanziaria, l’approccio andino sostiene che porre in modo esclusivo il capitale e la sua accumulazione al
centro dell’economia significa perseguire la massimizzazione del profitto,
favorendo speculazioni di vario tipo che nel lungo periodo producono
crisi che gli economisti occidentali ritengono sistemiche (Stiglitz, 2013).
Al contrario, afferma uno dei maggiori teorici del buen vivir: «El valor
básico de la economía, en un régimen de buen vivir, es la solidaridad»
(Acosta, 2010: 23). In questo senso, quindi, anche l’economia si ispira
a principi di concretezza, relazionalità, reciprocità, pluralità e comple-
286
287
Altre economie e buen vivir
Chiara Zanetti
mentarietà. Si evidenzia così una definizione funzionale dell’economia e
delle sue forme: come evidenzia Prada Alcoreza (2013), non si tratta di
minimizzare il ruolo dell’economia, ma di declinarla in modo plurale e
comprensivo delle diverse realtà che non sono omogenee, poiché nell’economia vengono incorporati anche aspetti sociali e culturali. Da questo
punto di vista, il modello cui guardare non è unitario ma deve essere
necessariamente plurale, in modo da poter essere aderente alle diverse
specificità locali.
Nella costituzione ecuadoriana, si dedica un’intera sezione ai rapporti
economici, in cui si enfatizza la ricerca un’economia diversa che aspiri a
costruire rapporti di produzione, di scambio e di collaborazione orientati all’autosufficienza e alla qualità. Acosta (2010) parla di produttività e
competitività sistemica: la proposta è di un rapporto dinamico tra mercato e società. Si afferma che il solo mercato governato da relazioni di scambio non è sufficiente a garantire la conservazione delle risorse naturali e
a mantenere la coesione sociale. Al tempo stesso, vengono messi in luce
anche i fallimenti delle visioni Stato-centriche, per cui si propone l’organizzazione del sistema economico intorno ad una pluralità di attori che
perseguono finalità e si ispirano a principi diversi301. In questo contesto,
non tutti gli attori economici perseguono come fine ultimo il profitto, ma
alcuni sono mossi da principi di solidarietà, reciprocità e redistribuzione.
La diversa concezione dei rapporti con la natura comporta anche conseguenze operative dal punto di vista dei rapporti economici, che vengono
ridefiniti nell’ottica di preservare i beni comuni di tutta l’umanità. Le
riforme più rilevanti messe in campo dall’Ecuador riguardano la terra
e la sua gestione (in particolare la riforma agraria, con la ridistribuzione
e l’espropriazione delle terre, e il controllo da parte dello Stato di settori strategici come quello dell’estrazione). Quest’approccio si propone di
creare nuove alleanze tra produttori, proprietari e lavoratori proponendo
uno schema che si articola secondo un modello di corresponsabilità e
complementarità. Acosta (2010) richiama i concetti di autonomia, sovranità, reciprocità e di redistribuzione delle risorse e della ricchezza secon-
do criteri di equità. Così, il modello proposto si propone di includere
e dotare di un diverso orizzonte di senso gli attori del mercato stesso:
ad esempio, Prada Alcoreza (2013) evidenzia come sia importante anche
capire come la finanza possa essere a supporto dell’economia reale e del
sistema produttivo. Analogamente, anche in Bolivia è presente un’economia plurale composta da varie forme di organizzazione. Nel complesso
queste organizzazioni sono complementari e necessarie a coniugare gli
interessi privati con il benessere collettivo nell’ottica di creare un’economia solidale comune (Prada Alcoreza, 2013: 151). In questo quadro, lo
Stato svolge un ruolo centrale nel regolare i processi economici, supportato da processi democratici e consultativi.
Tali indicazioni possono essere interpretate come un mantello istituzionale (Polanyi in Trigilia, 2009) che permette di attuare un processo di
transizione che concretamente mostra alcune difficoltà. Infatti, la realizzazione concreta delle politiche appare più complessa e problematica di
quanto le elaborazioni teoriche possano far intravedere. Come evidenziano Monni e Palottino (2013) quando si parla di buen vivir si intrecciano
necessariamente due aspetti: uno teorico, quale approccio strategico al
cambiamento sociale e uno più prettamente legato alle buone prassi. In
Ecuador e in Bolivia i concetti di buen vivir e vivir bien sono stati pienamente riconosciuti nelle costituzioni e nelle prassi politiche, come il Plan
Nacional para el Buen Vivir 2013-2017 che in Ecuador cerca di rendere
operativi alcuni concetti teorici di riferimento. Tuttavia, tali dichiarazioni
di principio non trovano sempre riscontro nella realtà. A tal proposito
si citano due episodi emblematici: la decisione da parte del presidente
ecuadoriano Rafael Vicente Correa di approvare lo sfruttamento petrolifero nel parco nazionale amazzonico Yasuní (Calligaris, Bellini, 2013)
e, in Bolivia, il progetto di costruzione di un’autostrada nel parco nazionale Tipnis, area altresì ricca di idrocarburi (http://www.yurileveratto.
com/it/articolo.php?Id=243). In questo contesto, il conflitto tra interessi
particolaristici di tipo economico e principi teorici è evidente, in quanto i proventi del petrolio costituiscono una componente rilevante della
ricchezza nazionale, permettendo investimenti in termini di inclusione e
benessere sociale.
Il buen vivir è considerato come una categoria in continua trasformazione e costruzione (Gudynas, 2011), con l’aspirazione di poter creare
288
1
Tale pluralità si rispecchia, ad esempio, nella definizione di uno dei capisaldi
dell’economia moderna occidentale: la proprietà. A tal proposito, la costituzione ecuadoriana prevede cinque tipologie di proprietà: pubblica, privata, mista, popolare e
solidale.
289
Altre economie e buen vivir
Chiara Zanetti
una possibile alternativa allo sviluppo in termini economici e tecnologici
a partire dai principi culturali dei nativi indigeni, dalle loro tradizioni
culturali, dal sapere contadino, dalle esperienze e dalle conoscenze del
mondo indigeno tradizionale. Al di là delle molteplici declinazioni pratiche, gli elementi comuni alle diverse concezioni sono soprattutto il fatto
che il benessere è legato strettamente all’idea di comunità e al fatto che
la vita dell’essere umano e dell’ambiente naturale sono legati tra di loro
in modo indissolubile. Il benessere è dunque inteso in maniera collettiva
e non ha alcuna connotazione individualista, non è basato sull’accumulazione di beni materiali e si fonda, invece, sulla reciprocità, sullo scambio
e sulla solidarietà.
stra molte affinità con il buen vivir. L’ubuntu è una visione sviluppata
all’interno di società ancestrali, tramandata oralmente e oggi diffusa in
molta parte dell’area sub sahariana. Se, quindi, la specificità del modello
andino risiede nel richiamare un vivere armonico con la terra in una visione legata al ciclo della terra e alla sua continua rinascita, in contrasto
con il concetto di sviluppo lineare tipico del mondo occidentale e che
si è accentuato a partire dalla rivoluzione industriale, molti autori sottolineano come questo paradigma non sia così nuovo come sembra. Ad
esempio, sottolinea Houtart (2011: 19 s.) che «nelle società precapitaliste
di tutto il mondo abbiamo avuto dei riferimenti di questo tipo, ossia una
visione completa (olistica) del destino umano sulla terra. In molti casi
questa visione si è espressa in termini religiosi, sia nelle tradizioni con
base filosofica (taoismo, confucianesimo, induismo, buddismo, giudaismo, cristianesimo, islamismo), sia nelle religioni tradizionali dei popoli
primitivi. Si tratta di riscoprire, in termini contemporanei, per le varie
società di oggi, le prospettive adeguate e le traduzioni».
Nel contesto occidentale, la letteratura che affronta il tema della necessità di un cambiamento nel modello di sviluppo è rilevante e si incentra su diversi aspetti. C’è chi mette al centro della riflessione aspetti
quali la valorizzazione della dimensione collaborativa (Sennett, 2012) ed
empatica dell’essere umano (Rifkin, 2010) e chi il recupero del senso del
limite attraverso percorsi incentrati sul concetto di decrescita (Latouche,
2012). Anche nel mondo squisitamente economico vi sono autori che
rilevano i limiti del modello capitalista. Basti pensare al premio nobel
Stiglitz (2013) o al recente testo di Piketty (2014) che fanno notare come
la pratica economica, orientata ad una libertà sfrenata e connessa ad una
sostanziale sudditanza del mondo politico, generi livelli sempre maggiori
di disuguaglianza economica, in un circolo vizioso negativo. Alla base di
tutte queste riflessioni vi è la difficoltà di spiegare le esternalità negative dell’attuale contesto economico. In molte di queste nuove narrazioni
compare anche l’attenzione all’ambiente e in generale la necessità di individuare nuovi approcci allo sviluppo che siano sostenibili per il futuro
della vita sulla terra: tuttavia, l’approccio rimane molto più antropocentrico rispetto a quanto evidenziato dai teorici del buen vivir.
Cercando di dare una risposta, seppur limitata e circoscritta a specifici
ambiti, sia a livello internazionale sia nazionale, emergono filoni di analisi
290
2. Echi dal Sud del mondo: una prospettiva emergente
Crimella e Giordano (2013) rilevano come le idee provenienti dal
contesto latinoamericano vengano prese in considerazione ed elaborate
anche nel contesto occidentale, ribaltando quindi le dinamiche classiche
di influenza Nord-Sud. Come sottolineano Monni e Palottino (2013: 3),
è stata proprio l’evoluzione seguita dai paesi maggiormente sviluppati a
far presumere a livello globale che lo sviluppo sarebbe coinciso con la
crescita economica, nella speranza che i benefici di questa fossero distribuiti nella popolazione riducendo in questo modo la povertà. Tuttavia,
la persistenza di differenze economiche ha portato lo stesso mondo occidentale ad interrogarsi sulla tenuta dello sviluppo economico senza un
parallelo sviluppo sociale.
Particolarmente indicativo è il pensiero di Sen (2000) che identifica lo
sviluppo con l’incremento delle opportunità di scelta e delle possibilità
dei singoli, legando quindi tale concetto non solo ai livelli delle prestazioni economiche di un paese ma anche ad elementi sociali e politici. Di
conseguenza, anche se come evidenziato in precedenza, il buen vivir è
un elemento culturale specifico dei popoli andini, esso costituisce anche
un aspetto comune a molte altre culture: il desiderio di vivere bene è un
elemento comune che «sostiene i legami segreti tra i popoli» (Potente,
2013: 234). Ad esempio, Crimella e Giordano (2013) sottolineano come
l’ubuntu sia una prospettiva proveniente dal continente africano che mo-
291
292
Altre economie e buen vivir
che cercano di mediare tra l’economia monetaria di mercato (il settore privato), l’economia monetaria non di mercato (l’economia pubblica
e il welfare) e l’economia non monetaria (le reti informali, l’economia
domestica, l’autoproduzione, il volontariato e le società civile). Laville
(1998), in particolare, evidenzia come in un sistema economico i tre poli
si combinano in modo diverso a seconda del contesto e dei compiti che
ci si propone di realizzare. Tuttavia, nel contesto occidentale così come in
quello andino, l’interrogativo da porsi è se i diversi filoni proposti possano ridursi ad una mera “decolonizzazione dell’immaginario” o piuttosto
necessitino più che di un approfondimento degli approcci teorici anche
di un’analisi delle modalità operativo-pratiche per cercare di traghettare
l’attuale sistema economico con tutte le sue criticità verso un sistema fondato su presupposti e logiche diverse (Nilla et al., 2012: 1).
In tal senso, l’economia assume una valenza sostanziale. Un autore di
riferimento è Polanyi (2000) che considera l’economia come embedded
nelle istituzioni che caratterizzano un determinato contesto storico. Egli,
infatti, definisce l’economia come sostanziale e partendo dall’assunto che
l’uomo, per sopravvivere, dipende dagli altri uomini e dalla natura, definisce i sistemi economici come un processo istituzionalizzato di interazione tra questi elementi che dà luogo ad uno scambio di mezzi per il
soddisfacimento dei bisogni. Nello specifico, nel suo saggio La grande
transizione, egli rappresenta le società occidentali come caratterizzate da
tre forme di integrazione tra economia e società coesistenti: la comunità
con relazioni di reciprocità, lo Stato che svolge una funzione regolativa e
redistributiva e il mercato caratterizzato da relazioni di tipo strumentale.
Oggi, il mercato ha eroso il ruolo delle altre due sfere, facendo prevalere forme di economia formale ovvero di economia di mercato basata
sul principio di scarsità e sulla figura dell’homo economicus, in cui terra,
lavoro e moneta vengono considerati come merci. Per Polanyi è quindi
fondamentale disporre di attori ed istituzioni che sostengano la transizione dei diversi attori sociali verso un’economia sostanziale a servizio della
società.
Chiara Zanetti
293
3. Pratiche di economia solidale nel contesto occidentale
Nel contesto occidentale e, nello specifico, in quello italiano, è possibile individuare prassi operative che cercano di valorizzare e mettere in
rete modalità di organizzazione che valorizzano economie di tipo alternativo: un’economia solidale, altra da quella convenzionale poiché finalizzata al bene comune, rispettosa dei diritti umani, diretta a garantire
l’ambiente e volta a favorire l’arricchimento del tessuto sociale. Molte
sono le esperienze che stanno cercando di riagganciare il lato sociale e
politico dell’economia (Bertell et al., 2013). Il tentativo di queste pratiche
parte dai comportamenti che fanno leva su nuovi stili di vita, ipotizzando
sistemi di relazioni economiche alternativi derivati da diversi approcci
alla produzione e al consumo. Si tratta di forme organizzative che occupano lo spazio lasciato libero dallo Stato e dal mercato, in cui soggetti
principali sono movimenti, gruppi, associazioni e cooperative che promuovono stili di vita legati al consumo critico, alla partecipazione e alla
sostenibilità. A tal proposito Pianta (2009: 50) utilizza la categoria “altra
economia” che rimanda ad un sistema emergente di attività orientate al
cambiamento economico e sociale. Nello specifico, egli definisce come
altra economia «il sistema di attività economiche – che producono beni
sul mercato o servizi legati all’azione dello stato – e di attività sociali che
hanno l’obiettivo di migliorare il benessere dei cittadini, la solidarietà
sociale e la sostenibilità ambientale». Biolghini (2007: 45), invece, ne
mette in evidenza l’aspetto solidale con la proposta di «democratizzare
l’economia, di sostenere l’economia locale, di legittimare l’economia non
mercantile, di valorizzare gli scambi non monetari ed informali».
Lo sviluppo del sistema dei Gruppi di acquisto solidale (Gas), la continua espansione dell’esperienza di Banca Etica, lo sviluppo di iniziative
di microcredito, l’incremento delle filiere del biologico, il crescere di laboratori di partecipazione sono solo alcune conferme di queste tendenze.
Non si tratta solo di un aumento in termini numerici, ma anche di una
maggiore consapevolezza collettiva. Recenti indagini rendono evidente
come coloro che partecipano ai Gas facciano parte dei cosiddetti cittadini critici ovvero di soggetti che presentano un forte sostegno e consapevolezza dei processi democratici, ma che mostrano una sfiducia crescente
nei confronti dei canali istituzionali e partecipativi tradizionali (Osser-
Altre economie e buen vivir
Chiara Zanetti
vatorio Cores, in Tavolo per la Rete italiana di economia solidale, 2013).
Inoltre, tali dati confermano come la partecipazione ai Gas sia associata
a motivazioni sia di tipo individuale – ad es., la tutela della propria salute
– sia di tipo sociale, nello specifico la volontà di sostenere, con il proprio
comportamento, un processo di cambiamento del modello dominante di
consumo.
Da questo punto di vista, anche se al suo interno vi sono filoni diversi,
l’economia solidale e le sue pratiche mostrano molti punti di contatto
con gli approcci orientati al buen vivir, poiché entrambi si propongono
di produrre relazioni nuove articolando la dimensione economica con
quella politica e ambientale. In particolare, emerge una visione plurale
dell’economia che si costruisce negli spazi lasciati liberi dalle logiche
dominanti e sperimentata a livello locale in modo consapevole (Laville,
1998). Secondo Laville, la sfida è di operare per una “globalizzazione
della solidarietà”, facendo spazio all’iniziativa dei singoli cittadini. In
questo modo si può arrivare a coniugare etica ed economia partendo
dai comportamenti economici quotidiani. Riprendendo la metafora proposta da Bertell et al. (2013) e già proposta dal movimento femminista
degli anni ‘70, si tratta di vedere nel “partire dal sé” una possibilità di
cambiamento e trasformazione del mondo e della società. Gli interessi
individuali vengono collegati all’interesse collettivo, nel momento in cui
l’etica dei comportamenti individuali viene trasmessa anche alle istituzioni economiche, instaurando un nuovo legame tra mercato, Stato e società
civile. In questi percorsi, un elemento fondamentale sono il radicamento
nel tessuto sociale e la “ricostruzione” della comunità nella sua organicità. A titolo esemplificativo, un’esperienza in tal senso è quella dei Bilanci
di giustizia, un’esperienza collettiva che, attraverso le relazioni, fornisce
alle persone un’opportunità di cambiamento delle proprie scelte quotidiane orientandole verso una maggiore equità sociale e ambientale (http://
www.bilancidigiustizia.it).
Tra le proposte che emergono nell’ambito italiano, è rilevante il percorso operato dalla Rete di economia solidale, che prende avvio nell’ottobre del 2002 a Verona e che porta l’anno successivo all’elaborazione
della Carta per la Rete italiana di economia solidale (Biolghini, 2013).
Questa si proponeva di costituire una rete ecosolidale organizzata in Distretti di economia solidale (Des). I Des si configurano quali laboratori di
sperimentazione civica, economica e sociale che prendono forma da una
rete di soggetti in cui circolano buone pratiche, prodotti e servizi. Tale
rete si sviluppa attraverso modalità di produzione e di consumo di beni e
servizi ispirati ai principi dell’economia solidale. In questo senso, i flussi
di fornitura e approvvigionamento sono rivolti prevalentemente all’interno della rete, in modo da sostenersi reciprocamente aprendo spazi di
un’economia finalizzata al benessere collettivo. A titolo esemplificativo,
gli attori che fanno parte di un Des possono essere Gas, botteghe del
commercio equosolidale, realtà di finanza etica e di turismo responsabile,
piccoli agricoltori biologici, ecc.
La creazione di reti di economia solidale e nello specifico di Des ha
l’ambizione di creare circuiti di scambio alimentati da consumatori critici
e realtà produttive di beni e servizi che prendono in considerazione principi etici rispetto all’ambiente, alle condizioni di lavoro e al ruolo sociale.
I Des dovrebbero quindi mirare a valorizzare le risorse locali nell’ottica
di generare circuiti economici positivi, non perdendo di vista la sostenibilità sociale ed ecologica. Nel dettaglio, Bonaiuti evidenzia quali principi
ispiratori dei Des la valorizzazione della dimensione locale, la sostenibilità sociale e la partecipazione attiva dei soggetti nella gestione dei processi
economici propri del distretto stesso. In questo senso, i distretti quindi
sono strettamente ancorati a quelle che sono le realtà e le specificità locali
sia in termini di peculiarità ambientali, economico-produttive sia in termini di capitale sociale e culturale. Il territorio viene quindi visto come
un sistema aperto in connessione con altri sistemi (Bonaiuti, 2003: 12 s.)
e pervaso da flussi di risorse che, in quanto tali, devono essere preservate.
La realizzazione pratica di tali esperienze è carica di valenze ideali.
Tuttavia, è innegabile la crescita di alcuni attori che fanno parte di queste reti: il caso più eclatante è probabilmente quello dei Gas che, nati
alla metà degli anni ‘90, sono oggi più di 900 (prendendo in considerazione esclusivamente quelli censiti nella rete 2013). I Des costituiscono
l’evoluzione politica dei Gas e vanno nella direzione di creare una rete
tra gli attori in precedenza messi in evidenza. Anche in questo caso si
registra nell’arco di una decina d’anni una crescita non indifferente: infatti, a settembre 2013 si contano 39 esperienze di rete che hanno aderito
formalmente o che si rifanno al Tavolo Res (2013) e 9 organizzazioni di
supporto che aderiscono all’iniziativa.
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Altre economie e buen vivir
Chiara Zanetti
Analizzando per quanto a grandi linee il paradigma andino del buen
vivir e quanto proposto dall’economia solidale emergono alcuni elementi
comuni, in quanto entrambe le teorizzazioni cercano di dare risposta a
problematiche simili: disoccupazione, dissesti finanziari, povertà, sfruttamento delle risorse territoriali. Mentre, però, il buen vivir è strettamente
interconnesso con le culture indigene preesistenti, nel contesto occidentale i movimenti incentrati sulla solidarietà appaiono come una scoperta recente, più orientata a mettere in evidenza le discontinuità piuttosto
che gli elementi di vicinanza con un passato comunitario orientato alla
preservazione delle risorse naturali che pur nei contesti rurali è stato
presente e centrale per la preservazione della comunità e del territorio
stesso. Un elemento di continuità, tuttavia, si intravede nelle diverse narrazioni che mettono al centro il bene comune quale risposta alle diverse
crisi che attraversano il mondo occidentale. L’impressione è che vi siano
diverse esperienze che si stanno muovendo nella stessa direzione e che
queste costituiscano una reazione dal basso alla logica del mercato e ai
suoi fallimenti. Esse contribuiscono a creare un nuovo orizzonte di senso
che indica la transizione verso una società maggiormente orientata verso
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Altre economie e buen vivir
Le nuove città del sogno e del buen vivir:
il Movimento Cittaslow
Abstract: In the national and international context, there are different good practices that try to apply the principles of a different
development in the daily life. These experiences show a plurality of voices, actors, languages and visions that contrasts with the
neoliberal path of development widespread in the Western context. Solidarity economy can be consider an umbrella for the set
of these experiences. This paper aim to highlight the connections
between the emerging paradigm of buen vivir and the experience
of the Italian network of solidarity economy.
Keywords: Buen vivir, Development paradigms, Solidarity economy,
Districts of solidarity economy, Ethical purchasing groups.
di Chiara Beccalli31*
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Le città: dallo spazio onirico rinascimentale alla città diffusa. – 3. Qualità della vita: cenni agli indicatori.
– 4. Cittaslow: obligados a vivir bien!
1. Premessa
L’etica del buen vivir è un’etica volta a recuperare ciò che è pubblico e
comune, basata sulla soddisfazione dei bisogni primari e volta alla ricerca
dell’equità tra tutti gli esseri umani all’interno del proprio spazio comunitario e nel rispetto delle diversità (Pérez, 2014). L’attenzione è volta al
recupero del bene comune e della dimensione collettiva politica e sociale
per rifondare ontologicamente il vivere insieme.
Buen vivir significa «vivere una vita piena e dignitosa, un’esistenza
armonica che include la dimensione cognitiva, sociale, ambientale, economica, politica e culturale al pari interrelate e interdipendenti» (Baldin,
2014: 29) ed è il risultato di una lunga ricerca e attenzione a modelli di
vita derivati dalla tradizione indigena. Con esso si sceglie di affermare costituzionalmente il principio per cui individui e comunità possono esercitare i propri diritti e le loro responsabilità in un contesto interculturale
e non solo multiculturale (Sartori, 2002). La nuova architettura è il frutto
di un processo bottom up portato avanti da attori sociali latinoamericani
che, nel caso dell’Ecuador, sono diventate parte integrante della costituzione affinché chiunque, compresa la natura, possa liberamente godere
e veder salvaguardati i propri diritti. La prospettiva offerta dall’approc*
Assegnista di ricerca in Sociologia generale nell’Università di Trieste.
Le nuove città del sogno e del buen vivir
Chiara Beccalli
cio olistico recupera i valori ancestrali delle comunità andine rivolti ad
“un’etica cosmica” per la quale il buen vivir si esplicita completamente in
un dialogo e un confronto reciproco tra uomo, comunità e Madre Terra
che dà origine a un senso comunitario di inclusione e accettazione del
prossimo; una tale propensione all’altro non può trovare eguali nell’idea
di “vita buona” occidentale, nemmeno nell’idea di amore totale e disinteressato verso il prossimo professato dal cristianesimo (Cortez, 2010).
Una trasposizione della filosofia e dei valori del buen vivir, specialmente quelli legati al cosmocentrismo non trova completa traduzione nel
mondo occidentale. Tuttavia, il lavoro e il pensiero sviluppato dal Movimento Cittaslow, che ha stimolato il dibattito sul ruolo e la vita nelle/delle
città, sembra avere qualche punto di contatto con gli ideali del buen vivir.
Gli spazi urbani tornano ad essere centri di socialità, di coesione e di affermazione delle comunità grazie anche a politiche di governance (Tocci,
2009) volte non solo a creare città sostenibili, bensì vivibili, inclusive e
che pongono al centro l’originalità degli abitanti.
loci intellettuale e culturale che si esprimeva attraverso le forme architettoniche urbane: palazzi, chiese e spazi pubblici. I mecenati hanno avuto
il merito di riuscire a trasformare le città e materializzare le espressioni
culturali di cui si facevano portatori, sviluppando non più città utopiche,
bensì città del sogno caratterizzato dalla materialità delle immagini oniriche, come spiegano gli studi psicanalitici del Novecento.
La concretezza delle immagini deriva dal bagaglio dell’esperienza e
delle conoscenze del singolo e, pertanto modificabili nel tempo; la tangibilità attribuita alle figure del sogno non rende questo un semplice momento premonitore, in cui si esplica un destino immodificabile, ma un
momento in cui viene lasciato spazio al cambiamento e alla trasformazione dell’individuo (ibid.: 15 s.). Pertanto, gli spazi urbani e le istituzioni
che compongono la città rinascimentale e moderna, non sono il frutto
di regole e espressioni astratte, bensì manifestazione della “personalità
di base”, in cui cultura e individualità si fondano, fornendo al singolo
(all’epoca al mecenate, al nobile o all’industriale) la possibilità di farsi
portatore, di orientarsi nella società e di modificare le categorie culturali
di riferimento, proprio attraverso l’esperienza. Il singolo, le cerchie sociali cui partecipa e i comportamenti attuati influenzano, in maniera diretta
o indiretta, l’orientamento e il percorso decisionale interno allo spazio
urbano. Secondo tale concezione, gli spazi istituzionali sono costruiti a
partire dalle necessità e dai bisogni culturali espressi dalla società stessa,
pertanto, parlare di città del sogno significa parlare di città la cui struttura e conformazione ricalca la cultura dei suoi abitanti e che trova espressione nelle forme architettoniche e urbanistiche della stessa. Gli spazi
pubblici urbani rinascimentali e moderni riproducono l’essenza della vita
urbana e le competenze dei suoi cittadini, il genius loci specifico, le tradizioni e l’espressione della quotidianità di chi vive e anima quegli stessi
spazi. L’idea di urbanità come esternalizzazione della cultura e funzionale
all’educazione dei cittadini è, altresì, garante di continuità con il passato
e di universalità secondo cui esiste un modello univoco, condiviso e trasversalmente accettato di cultura (Secchi, 1999).
Le città contemporanee, invece, si caratterizzano per essere città frattali, dove non è possibile tracciare una linea di continuità – e nemmeno
di ricorsività – culturale giacché gli spazi urbani si presentano come un
melting pot non solo legato alle differenti origini etniche di chi li popo-
300
2. Le città: dallo spazio onirico rinascimentale alla città diffusa
Partiamo dalla domanda che si pone Stroppa nel testo Le città del sogno (1998): è possibile pensare alle città odierne come le città del sogno
di epoca rinascimentale (Palmanova, Pienza, Sabbioneta, ecc.), in cui i
mecenati riuscivano a dare concretezza alle utopie urbane? Certamente,
la città rappresenta il cuore e l’essenza della società e degli individui che
la vivono (Gasparini, 2001: 10); la città è metafora della vita degli uomini,
delle loro relazioni, luogo privilegiato in cui la collettività e il mondo politico concorrono nel ragionare sulle città e sviluppare il tessuto urbano
affinché sia espressione della cultura dei suoi abitanti. La città è il “regno
dell’uomo” (Stroppa, 1998: 36) in cui è possibile ritrovare le tracce della
cultura intesa sia come insieme di valori, simboli e saperi da trasmettere,
sia per socializzare i nuovi membri alla realtà cittadina. In quest’ottica, la
città è mezzo educativo che introduce alla cultura urbana ed è manifestazione concreta e tangibile della società e degli individui che partecipano
alla sua costruzione e cambiamento. Come spiega Stroppa, le città rinascimentali e le figure dei mecenati hanno rappresentato il fulcro, il genius
301
Le nuove città del sogno e del buen vivir
Chiara Beccalli
la, ma legato ad una commistione di funzioni e attività che intercorrono, o dovrebbero intercorrere, a rispondere alle esigenze espresse dalle
diverse realtà culturali. Il dibattito della sociologia del territorio circa
l’evoluzione e il cambiamento delle strutture delle città contemporanee
(post-moderne), come conseguenza della globalizzazione, ha portato allo
sviluppo di innumerevoli definizioni e concettualizzazioni: città globale,
città a rete, sprawltown, arcipelago metropolitano, città metropolitana,
ecc. Le diverse riflessioni concettuali e teoriche suggeriscono lo sforzo e
la volontà di concorrere a ridefinire la città al fine di attribuirle un senso
ed un ruolo se non più universalmente condivisibile, almeno nel mondo
occidentale, ampiamente condiviso. Molti ragionamenti teorici tentano
di fare ordine tra possibili prospettive di evoluzione, tra le svariate tendenze di cambiamento dello spazio urbano contemporaneo nel tentativo
di suggerire possibili percorsi di governance urbana, in quanto i cambiamenti economici, politici e sociali hanno modificato la struttura fisica
delle stesse città che si riverbera (o è riverberata) nella struttura sociale
della città contemporanea (Indovina, 2003; Tocci, 2009: 77).
Gli studi sulle città tentano di dare conto dello scardinamento dell’equilibrio centro-periferia, poiché l’urbanizzazione si allarga verso poli
secondari spesso generando situazioni caotiche e di conflittualità, visto
che alle nuove forme di urbanità si affiancano nuove forme di potere e di
gerarchia spaziale. Il logoramento o, meglio, lo sfaldamento della visione
organica e unitaria sulla città è rintracciabile anche nella dissoluzione tra
gruppo sociale e spazio cittadino. Se nelle città rinascimentali e industriali era possibile individuare spazi specifici legati all’attività produttiva,
alle comunità a coloro che le popolavano (Castrignanò, 2006), la forma
della città diffusa non consente più di ricostruire i legami socio-spaziali
uniformi. Gli abitanti delle città diffuse, degli spazi del peri-urbano (Colleoni, Caiello, 2013) o delle città evanescenti si trasformano, in parte assumendo una forma ibrida, in parte del tutto nuova e «tendono a vivere
le pratiche di vita quotidiana fruendo di uno spazio urbano sempre più
diffuso e policentrico» (Castrignanò, 2006: 23) e facendo ricorso a risorse
spesso molto diverse tra loro.
Lo studio sulla realtà milanese curata da Martinotti (2005) e la riflessione ivi contenuta di Nuvolati (2005) mossa dalle analisi sugli indicatori
della qualità della vita, portano a ragionare attorno alle conflittualità che
si innescano tra le diverse tipologie di popolazione che vivono, occupano e percorrono/attraversano lo spazio urbano e che producono, si appropriano o sfruttano le risorse della città metropolitana. I conflitti si
giocano su più livelli: utilizzo e accesso allo spazio, accesso alle risorse
socioeconomiche e importanza culturale, cui partecipano diversi attori
e che sfociano in effetti differenti. Volendo soffermare il ragionamento
sugli aspetti culturali e sulle nicchie di recupero della cultura locale e
delle tradizioni del territorio, lo studio condotto dal gruppo di ricerca
capeggiato da Martinotti rileva come negli ultimi decenni le figure classiche della città sono quelle che faticano a trovare spazio fisico, risorse
economiche e a ottenere riconoscimento sociale, poiché surclassate dalle
figure quali city-users e iperborghesia internazionale – ricchi uomini d’affari con importanti risorse economiche e che raggiungono la metropoli
per rimanerci un tempo breve o brevissimo (Martinotti, 2005: 43). Queste figure sono nomadi del lavoro senza radicamento che attraversano la
città e la campagna senza mai appartenere a nessuno spazio, modificando
la relazione tra il contenitore città e le sue parti, scardinandone la corrispondenza.
Le figure marginali, quali residenti e abitanti detentori di saperi specifici, devono riuscire a ritagliarsi una nicchia all’interno delle conflittualità che caratterizzano le città metropolitane contemporanee. La capacità
di emergere, di non essere inghiottiti dagli effetti negativi delle nuove
relazioni spazio-individuo e di contrastare l’omologazione dei contesti
risiede nelle competenze che i gruppi marginali posseggono, vale a dire:
conoscenza delle specificità e delle tradizioni locali. L’affermazione, la ricerca e la costruzione delle tradizioni agevola il recupero degli spazi fisici
per ristabilire un nuovo equilibrio voltando lo sguardo verso i centri più
piccoli e il recupero di una legata alla località e all’incentivo della qualità
della vita (cfr. Tab. 1).
302
303
Le nuove città del sogno e del buen vivir
304
Tab. 1. Tipologie di conflitti di popolazione
Tipologie
Occupazione dello spazio
Accesso nello spazio
Conflitto culturale
Polarizzazione socio-economica/Conflitto fiscale
Contendenti principali
Abitanti vs. iperborghesia internazionale e attori
economici forti
Abitanti vs. pendolari e
city users
Abitanti e cultura locale
vs. iperborghesia internazionale e modelli culturali globalizzati
Gruppi deboli dei residenti e non residenti vs.
city users e iperborghesia
internazionale
Effetti
Terziarizzazione, gentrification
Congestione della rete dei
servizi e delle vie di comunicazione
Omologazione dei contesti
Marginalità, esclusione sociale, distacco (disenfranchisement) e disparità contributiva della popolazione locale
Fonte: adattamento dell’autore da Nuvolati, 2005.
3. Qualità della vita: cenni agli indicatori
Attualmente, il dibattito attorno agli indicatori da prendere in considerazione per analizzare la qualità della vita urbana si fa sempre più intenso specialmente da quando le politiche di pianificazione sono passate
da una logica di government (top down) ad una di governance (bottom up)
(Gilli, 2010). Gli stakeholder sociali sono andati sempre più aumentando
e diversificandosi; non più solo attori pubblici, ma anche privati e soggetti operanti nel settore del volontariato, del non profit e dell’associazionismo rivolto al mondo dell’ambiente, della protezione degli animali
oppure del sostegno alla persona. Generalmente, gli stakeholder sono
chiamati alla discussione e al processo partecipativo (Pellizzoni, 2005;
Tocci, 2009) in qualità di conoscitori del territorio che vivono quotidianamente e che assumono su di sé il ruolo di decisori seguendo una logica
deliberatoria collettiva e dove a prevalere è, o dovrebbe essere, la collaborazione, la condivisione e il senso di comunità.
È evidente che una logica simile è volta all’aumento di capitale sociale, dove a contare sono i rapporti sinergici e di reciproca fiducia. La
scelta condivisa degli indicatori su cui lavorare per l’implementazione di
Chiara Beccalli
305
politiche urbane, li rende strumenti di comunicazione tra e con i cittadini. Gilli (2010) spiega che questi indicatori per divenire comunicabili e
intellegibili hanno un livello tecnico inferiore, divengono più semplici,
ma sono caricati di valenza etica e morale. La mancanza di neutralità li
rende sempre meno puro strumento di ricerca scientifica e sempre più
strumento politico, su cui far convergere posizioni e necessità differenti.
Gli indicatori di sostenibilità urbana, in questo caso, mettono in luce
quanto detto: infatti, la complessità della vita urbana non limita lo studio
al rapporto tra la natura e l’uomo, tra il centro e la periferia oppure tra
la campagna e la città, ma si interessa di altri aspetti in cui entrano in
gioco gli strumenti di comunicazione, le tecnologie, i mezzi di trasporto,
il lavoro, l’immigrazione e, non da ultimo, i rapporti interpersonali. Un
approccio partecipativo nella costruzione degli indicatori di sostenibilità
urbana permette «un’effettiva redistribuzione dei poteri sociali urbani e
alla legittimazione delle pratiche di autogoverno dei cittadini, delle comunità locali e della società civile, tanto nel valorizzare stili di vita, esperienze collettive, pratiche quotidiane di reciprocità, di mutuo-aiuto, di
economia sociale, di auto-organizzazione, quanto nel definire un nuovo
ordine istituzionale» (Di Bella, 2012: 811).
In generale, i movimenti collettivi portano a formulare decisioni che
consentono di trovare spazio ai bisogni e alle necessità di mettere in gioco
le proprie competenze e risorse. Inoltre, l’ascolto e il recepimento bottom
up consente di strutturare progetti e politiche mirati alle differenti realtà
cittadine e a differenti target group (Gilli, 2010: 90), costruendo obiettivi
maggiormente efficaci e che riescano a garantire una più ampia partecipazione, condivisione e puntando, proprio, all’accrescimento del capitale
sociale degli abitanti degli spazi urbani presi in considerazione. La governance consente ai gruppi di abitanti e residenti, portatori del genius loci,
di far emergere la propria nicchia di specificità e di scardinare gli effetti
di uniformazione e omologazione, presentati nella tabella precedente.
Per poter dare spazio alle specificità e permetterne l’emersione, sarebbe
opportuno far precedere ogni indagine sulla qualità della vita da una indagine che si soffermi sulla storia di determinate località, da cui trarre e
costruire le tradizioni culturali; sulle dimensioni urbane a cui si collegano
le questioni di sostenibilità e di definizione, sempre più complessa dei
confini entro cui “rinchiudere” la città (Petrillo, 2009); infine, sulla den-
Le nuove città del sogno e del buen vivir
Chiara Beccalli
sità data dal rapporto tra abitanti e spazio occupato. Parlare di densità, in
sociologia, apre diverse problematiche; oltre a quelle classiche legate alle
questioni psicologiche relazionali e di orientamento/spaesamento nelle
città moderne (Simmel, 1903/1996), la densità urbana porta la riflessione
lungo direttrici differenti: se, da un lato, la densità intesa come prossimità
può aumentare la coesione sociale, dall’altro, la densità intesa come compattezza potrebbe portare alla riduzione delle risorse e, di conseguenza,
alla diseguaglianza nell’accesso alle stesse. Non a caso Platone definiva
la città ideale come una città che non dovesse superare i 5.040 abitanti,
esattamente come le città aderenti al Movimento Cittaslow non devono
superare i 50.000 abitanti.
I macro-indicatori impiegati dall’Eurobarometro (2013) per costruire
un indice di qualità della vita sono quattro: 1) soddisfazione relativamente alla propria città (soddisfazione generale e dei servizi); 2) opinione in
merito alla città in cui si vive (possibilità lavorative; situazione abitativa;
livello integrazione degli stranieri, ecc.); 3) opinione sulla qualità dell’ambiente (qualità dell’ambiente; pulizia; livello di rumore; lotta all’inquinamento, ecc.); 4) opinione sul proprio stile di vita (lavoro; situazione
economica, ecc.). Nell’indagine, alcuni tra gli indicatori hanno ricoperto
una rilevanza maggiore, vale a dire: salute, disoccupazione, educazione
e formazione, sicurezza e altri legati all’inquinamento, alle infrastrutture
stradali, ai servizi sociali e al livello di rumorosità. Secondo l’Eurobarometro, Vienna e Zurigo sono le città europee che occupano le posizioni più alte nella classifica delle capitali europee per la qualità della vita.
Soffermandoci sugli indicatori relativi alla cultura, alla soddisfazione per
i servizi culturali ed educativi leggiamo che Roma occupa le ultime posizioni: solo il 44% si dice soddisfatto dei servizi educativi, facendo segnare anche un peggioramento rispetto al 2012 pari a 11 punti percentuali.
Le prime tre capitali in classifica sono: Lubiana (87%), Nicosia (80%),
Helsinki (79%) (Vienna 71%), mentre le due ultime posizioni, proprio
sotto la nostra capitale, sono Bucarest (43%) e Atene (39%). Anche per
i servizi culturali (cinema, teatri, biblioteche, ecc.) Roma fa segnare un
livello di soddisfazione pari al 65% con un distacco di 30 punti rispetto
alla capitale austriaca, che si colloca al primo posto (95%) a pari merito
con Helsinki e seguite da Parigi e Praga (92%). Impressiona, in negativo, il livello di scarsa soddisfazione, generale, indicato dai cittadini di
Roma che si colloca nelle parti più basse della classifica delle capitali
(80%); ancora una volta appena sotto troviamo Atene (52%) ultima tra
le capitali. Nella parte alta, invece, si collocano Copenaghen, Amsterdam, Stoccolma e Vienna con valori percentuali che oscillano tra il 97%
e il 95%. Guardando all’Italia, le città di Napoli e Palermo si classificano
al terzultimo e quartultimo posto, rispettivamente (29% completamente
soddisfatti); Verona occupa la posizione più alta (54% del campione si
dichiara completamente soddisfatto), la segue Bologna (49%) e Roma
si colloca poco sopra le città del Sud Italia (37%). Anche per quanto
concerne la soddisfazione per la presenza di spazi pubblici e aree verdi,
Roma raggiunge solo il 60% dei pareri positivi, rispetto a Vienna che arriva a 88% e pessima la posizione occupata dalla capitale italiana in merito a pulizia e attenzione alle politiche ambientali: solo il 25% dei cittadini
romani ritiene che il livello di pulizia sia soddisfacente, un’inezia rispetto
agli 80 punti percentuali raggiunti da Vienna e i 92 dal Lussemburgo.
Infine, Roma si colloca all’ultima posizione per il livello di soddisfazione
in merito alle politiche ambientali (62%) seguita da Madrid (58%), Riga
(57%) e Atene (56%), mentre le capitali maggiormente attente alle politiche di sostenibilità dell’ambiente si ritrovano Lussemburgo e Stoccolma (livello di insoddisfazione per l’implementazione delle politiche ambientali: 18%, 23% rispettivamente). Vienna si colloca al settimo posto
tra le città meno insoddisfatte (32%). Per trovare la prima città italiana
nella classifica bisogna arrivare alla 36a posizione con Torino.
Ampliando lo sguardo verso gli Stati nord e sudamericani, le indagini
sul livello della qualità della vita misurato su 39 fattori per 233 città, secondo la classifica Mercer (http://www.mercer.it), collocano Vienna tra
le città maggiormente vivibili al mondo e, in generale, le città europee occupano due terzi delle prime posizioni; infatti, nella graduatoria mondiale si leggono Zurigo, Monaco, Düsseldorf e Francoforte. Roma si colloca
al 51° posto rispetto alla capitale austriaca. Tra le prime cento città del
mondo, l’America Latina ne conta cinque: Pointe-à-Pitre (Guadalupe),
San Juan (Portorico), Montevideo (Uruguay), Buenos Aires (Argentina)
e Santiago (Cile). L’attenzione ai livelli della qualità della vita suggerisce
come, non solo a livello nazionale, ma anche europeo e mondiale si dia
grande importanza agli aspetti culturali, educativi, ambientali e sociali; i
dati qui riportati suggeriscono la necessità di attuare delle politiche che
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Le nuove città del sogno e del buen vivir
Chiara Beccalli
tengano in considerazione i settori qui citati, al fine di migliorare la qualità della vita urbana partendo, come si suggeriva nelle pagine precedenti,
dal trovare soluzioni mirate e attivare progetti che partono da situazioni
di densità più limitata, in cui rintracciare specificità e tradizioni fondate
storicamente e che coinvolgano una dimensione limitata, o spazialmente
inquadrabile.
In America Latina, il dibattito in merito alla vita delle città, all’innalzamento della qualità della vita e alla formazione dei cittadini rinvia all’idea
di città come cuore pulsante della comunità che, all’interno dello spazio
urbano, partecipa all’implementazione di politiche di governance del territorio. Eventi internazionali come la Cumbre de la Tierra a Rio de Janeiro (1992), Hábitat II (Istanbul, 1997) e la prima Assemblea mondiale
dei residenti: Ripensare la città a partire dai cittadini (Città del Messico,
2000) furono momenti molto importanti per la formulazioni di proposte
concrete volte alla pianificazione territoriale urbana e al diritto alla città,
inteso come l’utilizzo eguale degli spazi a partire da principi di sostenibilità, democrazia, equità e giustizia sociale (Zárate, 2011: 56). In quest’ottica, molte città hanno elaborato piani di sviluppo urbano del buen vivir.
Quito capitale dell’Ecuador, ad esempio, ha avviato un piano legato al
miglioramento della mobilità urbana, incentivando gli spostamenti con
mezzi non motorizzati e la realizzazione di sistemi integrati sulla situazione delle infrastrutture viarie, la situazione del traffico urbano e altre informazioni sui servizi cittadini al fine di fornire informazioni a residenti,
a turisti e per garantire un maggior controllo sulla sicurezza e l’efficienza
delle infrastruttura. In Argentina, la città di Rosario sta implementando
un progetto di ristrutturazione urbana volto all’ampliamento delle aree
verdi e pedonali; l’attenzione si rivolge in due direzioni: le politiche di sostenibilità ambientale e le politiche della salute in un’ottica di equità sociale. Il primo obiettivo è chiaro: la possibilità di ampliare le aree ad uso
esclusivo dei pedoni rendono la qualità dell’aria migliore; il secondo, più
importante e di più lungo periodo, è volto al miglioramento della salute
dei propri abitanti. Inoltre, momenti di formazione e sensibilizzazione
che coinvolgono cittadini e istituzioni pubbliche vorrebbero ampliare le
opportunità di condurre uno stile di vita più salutare a più soggetti possibili che, per svariate ragioni, sono impossibilitati a raggiungere gli spazi
urbani verdi e esclusi al traffico (Rovere, 1998).
Nella stessa direzione, si muove la “lumaca arancione” del Movimento Cittaslow, che dalla fine degli anni ‘90 lavora per incentivare i piccoli
centri urbani alla pianificazione di progetti di sostenibilità con l’obiettivo di mantenere l’identità urbana e lo spirito di comunità nel confronto
con le questioni e le problematiche quotidiane quali: inquinamento, crisi economica ed esclusione sociale (http://www.cittaslow.org). Proprio
quest’anno, il movimento ha organizzato un concorso per promuovere
best practices messe in atto dalle città della rete in riferimento a: politiche
energetiche e ambientali; politiche infrastrutturali; politiche per la qualità urbana; politiche agricole, turistiche, artigianali; politiche per l’ospitalità, la consapevolezza e la formazione; coesione sociale.
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4. Cittaslow: obligados a vivir bien!
Le parole del presidente del Movimento Cittaslow internazionale definiscono chiaramente gli obiettivi principali del network che, da quindici anni è andato ampliandosi riuscendo ad esportare fin oltre oceano:
«i cardini attorno a cui si sviluppano i concetti e i progetti di Cittaslow,
unici nel panorama mondiale, sono il rispetto per l’identità locale, la memoria, il patrimonio di comunità; il rispetto dell’ambiente naturale, del
paesaggio e della biodiversità l’inserimento di tecnologie per la sostenibilità, il risparmio e il riuso in città e in campagna; la responsabilità come
elemento imprescindibile di sviluppo locale» (Oliveti, 2012: 9), attraverso il recupero del senso di lentezza, innalzandola a valore, di inclusione implementando progetti di sviluppo urbano basato sulle 3E: equità,
economia sostenibile e protezione ambientale richiamandosi ai lavori di
Campell (1996).
La necessità di recuperare il paradigma della lentezza, di valorizzare il
patrimonio, la dimensione locale e ristabilire il senso di comunità emerge
dalla volontà, sempre più alta, di innalzare la soglia del vivere urbano, slegandola dalla materialità e dalla ricerca dell’individualità e dell’isolamento, tipico delle società “veloci” del secondo Novecento. L’essere lenti non
contrasta con l’essere efficienti, ma consente di dare maggiore spazio alla
qualità e ai contenuti del vivere urbano riscoprendo l’economia sostenibile, facendo ricorso anche al mondo dell’arte (Kagan, Hahn, 2011) e
Le nuove città del sogno e del buen vivir
Chiara Beccalli
poggiandosi sulle nuove tecnologie sempre mantenendo il focus del mantenimento, scoperta e creazione delle tradizioni e delle specificità locali.
Le città aderenti al network internazionale hanno implementato progetti volti all’innovazione tecnologica di tipo smart, come nel caso della piattaforma Finesse (Future Internet Networked Enterprises for Smart
Sustainable Ecosystems) pensata per coordinare e promuovere progetti
pilota capaci di supportare modelli economici sostenibili attraverso l’adozione di sistemi internet avanzati. L’obiettivo generale si lega alla realizzazione di forme innovative di business, nuove forme di relazione con
i clienti, siano essi privati o pubblici (Catalano, Tocci, 2012: 46). Il progetto Cittaslow guida alla ricerca del benessere; in generale, le città che
intendono prendere parte al network devono lavorare per conformarsi
a criteri inerenti le politiche ambientali, la pianificazione urbana, la valorizzazione dei prodotti locali incentivando l’ospitalità e la convivialità
(Mayer, Knox, 2010). “Benstare” esula dal possesso di beni materiali e
dalla possibilità economica di accedere ai beni di consumo, ma per chi
vive nelle città del network, la chiave di lettura è, al contempo, interna ed
esterna. Per gli abitanti dei centri urbani slow, il Movimento li incentiva
e li sostiene al mantenimento delle tradizioni a livello agricolo e artigianale, stimolandoli a occupare nicchie di mercato incentrate sull’unicità
e la qualità dei prodotti. Ampia attenzione è rivolta alla collaborazione
tra cittadini, pubbliche amministrazioni e privati per il miglioramento di
sistemi di trasporto pubblico sostenibili a livello ambientale, oppure per
la realizzazione di piste ciclabili più estese e sicure per la circolazione. Le
iniziative promosse dalle città aderenti al Movimento sono accompagnate
da un percorso di formazione e di sensibilizzazione dei residenti, specialmente in materia di inclusione e accoglienza. La miglior accessibilità
e fruibilità dei piccoli centri e la formazione all’accoglienza sono aspetti
che consentono alle città slow di aprirsi all’esterno e di farsi conoscere
intercettando flussi di turisti slow che seguono una filosofia del viaggio legata alla lentezza, alla scoperta e alla conoscenza della realtà in cui si scegli di immergersi. Il viaggio slow si trasforma in un’esperienza profonda,
di incontro diretto con i locali e di immersione alla ricerca dell’autenticità
e della qualità delle tradizioni alimentari, enogastronomiche, artigianali
e culturali. Il turista slow è alla ricerca di un contatto diretto con i locali,
portatori del genius loci che si riproduce negli spazi che questi occupa-
no e nelle attività che svolgono (Zago, 2012). La necessità di rallentare,
di abbracciare la lentezza e ricercare il benessere sono indicativi di una
«generale insoddisfazione dovuta alla velocità della vita e alla perdita di
qualità in favore, invece, di un incremento della qualità e dell’accelerazione» (Radstrom, 2011: 94 ss.).
Il successo, la longevità e l’internazionalità del Movimento sono il risultato di tre aspetti principali: il primo è l’attenzione rivolta a località
che contano un massimo di 50.000 abitanti; il secondo riguarda la capacità inclusiva dell’approccio bottom up e il terzo si lega all’ampio respiro
delle attività e degli aspetti che le buone pratiche delle città aderenti al
circuito possono mettere in atto. Come recita il Manifesto di Cittaslow
per l’Europa, i comuni che vi fanno parte devono puntare alla qualità di
vita più alta possibile, perché questa diventa un valore cui educare e formare i cittadini per un ritorno alla terra. La formazione avviene seguendo
gli obiettivi e i principi del Progetto Terra Madre, volti alla creazione
di un rapporto costante, costruttivo ed economicamente e socialmente
proficuo tra la città e la campagna. Attraverso il sito ufficiale del Movimento (http://www.cittaslow.org) è facile verificare la numerosità dei
progetti, delle iniziative di formazione e divulgazione che i diversi centri
urbani europei ed americani realizzano. Non mancano attività progettuali legate alla realizzazione di orti sociali i cui prodotti divengono parte
del commercio a chilometro zero; conosciuti sono i progetti legati alle
tradizioni agroalimentari come le strade del vino che collegano Orvieto
ai suoi sobborghi, oppure il progetto realizzato nella cittadina turca di
Gokceada per il recupero delle tradizioni culinarie volano, altresì, del
turismo e dell’economia femminile della cittadina (Yurtseven, Karakas,
2013). Altresì importante è il lavoro volto alla formazione di imprese locali per la realizzazione di progetti legati alla bioedilizia, per il ripopolamento di territori marginali come Racheath, nel Sud dell’Inghilterra,
oppure all’utilizzo nei piccoli comuni delle energie rinnovabili in collaborazione con importanti aziende del mondo dell’energia, quali Enel
e Beghelli. Dalla contea di Norfolk giunge l’esempio di un progetto di
sostenibilità ambientale che ha avuto la capacità di coinvolgere più livelli
della cittadinanza: allievi delle scuole primarie, famiglie, negozianti e acquirenti, in quanto il progetto si è posto l’obiettivo di eliminare le borse
di plastica dai negozi e supermercati della città di Aylsham; il progetto ha
310
311
Le nuove città del sogno e del buen vivir
Chiara Beccalli
previsto spazi di formazione ed educazione sui temi dell’ecologia rivolto
ai bambini delle classi primarie e ai loro genitori, nella decorazione di
borse di stoffa da distribuire negli esercizi commerciali. Anche la città
di Novellara (Re) si è attivata nella realizzazione di progetti legati alla
sostenibilità ambientale e che hanno coinvolto differenti attori sociali:
scuole, famiglie e alunni con il “Bici-bus” per la realizzazione di percorsi casa-scuola sicuri; progetti di tutela della biodiversità che ha visto la
collaborazione delle guardie giurate ecologiche volontarie (gev) nei siti
di interesse comunitario e nelle zone di protezione speciale, denominate
Valli di Novellara e Reggiolo. Infine, un esempio di inclusione sociale viene dalla città di Monteregio, in provincia di Grosseto, che ha coinvolto in
un corso di degustazione culinaria i detenuti della casa circondariale di
Massa Marittima; un progetto che ha inteso avvicinare i reclusi al progetto Taste of Freedom che intende essere un esempio di cittadinanza attiva
europea (coinvolge più paesi europei: Italia, Turchia, Lituania, Portogallo, Spagna) e che si estende alle situazioni di vita sociale estreme e
marginali. Sulla base dell’esperienza del libro Avanzi di galera. Le ricette
dei poco di buono, la pubblicazione del cook book pensata con il progetto
intende far conoscere il mondo carcerario sconosciuto e ignorato in un
modo originale, trovando nel cibo un efficace espediente per parlare della vita carceraria e per incentivare la collaborazione tra operatori sociali,
istituzione carceraria e detenuti.
Per concludere, è bene sottolineare come esista un fil rouge che unisce
la realtà andina con il Movimento Cittaslow, qui brevemente presentato.
Entrambe le filosofie rivolgono l’attenzione alla tradizione, al concetto
di comunità, al rispetto per il territorio e la natura e all’educazione della popolazione ai principi di sostenibilità e inclusione, senza negare le
opportunità e le occasioni offerte dall’economia e dalla tecnologia. Per
le due realtà, andina e occidentale, la tecnologia offre ampie occasioni
per far conoscere, comunicare e coinvolgere altre realtà oppure per consentire la riduzione dell’inquinamento, dello sfruttamento del suolo o il
deturpamento del paesaggio. Pare chiaro come i progetti di sviluppo,
recupero, educazione e inclusione messi in atto dal Movimento Cittaslow
non si discostino dai valori promossi dal buen vivir, anzi esistono esempi
di progettazione sudamericana che fanno esplicito riferimento al Movimento, ritenendolo portatore di principi fondamentali per lo sviluppo
locale. Ad esempio, la città di Pijao, in Colombia, da cinque anni promuove un modello di turismo sostenibile impregnato di filosofia slow e
che intende dare spazio all’economia locale legata a piccoli imprenditori
o aziende a conduzione familiare. Su stimolo delle istituzioni, quindi, le
attività turistiche e commerciali sono state orientate seguendo i parametri
del Movimento Cittaslow mettendo in pratica un turismo di prossimità
volto alla preservazione e all’esaltazione delle bellezze naturali e culturali
locali. Il progetto è nato dall’idea di Monica Florez, etnografa ed esperta
di comunicazione ha dato vita al progetto Pueblo del buen vivir ed è presidentessa della fondazione Pijao Cittaslow. In un’intervista all’indomani della candidatura di Pijao come prima Cittaslow dell’America Latina
(Tejera, 2012), la presidente afferma come il Movimento rappresenta una
opportunità unica per l’America Latina, in quanto avanza proposte per
la protezione della cultura locale in un mondo sempre più omogeneo.
L’esperienza della città colombiana mostra come il Movimento, nel lavoro e nella diffusione dei suoi principi, ha la capacità di saper accogliere
e interessare realtà culturali, strutture sociali differenti tra loro e che rispondono a tradizioni fondative tutt’altro che omogenee. Il Movimento
Cittaslow è in grado di creare delle città del sogno, costruite a partire
dall’esperienza, dalla conoscenza e dalle esigenze espresse da chi le popola, senza forzarle all’interno di contenitori utopici: insignificanti e vuoti.
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Abstract: In the Renaissance, the cities were a metaphor for human
life and community and they acted as guarantors of cultural continuity. Today, contemporary cities are fractals, characterized by
a melting pot, not only cultural, but also functional, which overlaps in urban spaces generating new social conflicts and force the
representative of the genius loci to cover marginal spaces within
of the city. Founding principles of buen vivir and of the International Cittaslow Movement are the strengthen of social cohesion,
the discover of local traditions, the claim of urban spaces on which
to rebuild a sense of community and to give value of slowness.
South American cities and the cities of the Cittaslow International
Network have implemented governance policies for local planning
that put citizens at the center in accordance with the founding
traditions for a better quality of life.
Keywords: Buen vivir, Cittaslow, Social cohesion, Planning, Quality
of life.
315
Benessere psicofisico:
etica, persona e armonia con la natura
di Elisabetta Pontello32*
SOMMARIO: 1. Polisemia del concetto di benessere. – 2. Lo stare bene
nelle culture individualiste e collettiviste. – 3. Promozione della
salute e life skills. – 4. Considerazioni conclusive.
1. Polisemia del concetto di benessere
Il concetto di benessere presenta svariate estensioni nel campo semantico. Ben-essere (well-being) richiama l’etimo di bene. Sotto un primo
profilo, implica lo sviluppo delle potenzialità umane, dell’individuo e
della comunità. Esso comprende l’espressione delle capacità cognitive
e relazionali, la costruzione di relazioni positive, la gestione dei conflitti
personali e sociali, lo sviluppo del senso critico e la presa di decisioni.
Se, in particolare, ci si riferisce al soggetto, il concetto viene ricompreso
nell’idea di assenza di malattia o, meglio, nella dimensione psicofisica
della salute intesa come stato di buona condizione fisica e psichica, inclusa la percezione che la persona ha del proprio stato di benessere e la
felicità che da esso ne deriva.
Se si pensa alla qualità della vita, si osserva che il concetto è polisemico ed è stato oggetto di svariate interpretazioni nell’ambito dell’etica
teorica, dell’etica applicata alla prassi biomedica (Fornero, 2005: 74 ss.),
nonché degli Human Development Reports redatti dal Programma di
Sviluppo delle Nazioni Unite, riconducibili per Fornero a tre paradigmi
filosofici di base (le teorie edonistiche, delle preferenze e perfezioniste) le
*
Dottoressa di ricerca in Sociologia, Servizio sociale e Scienze della formazione
nell’Università di Trieste.
Benessere psicofisico
Elisabetta Pontello
quali, pur nelle diversità degli approcci, trovano fondamento nel valore
della capacità decisionale del soggetto. Inoltre, sotto il profilo economico, il dominio di benessere può essere articolato in due sottodimensioni:
il reddito disponibile e la ricchezza; la spesa per i consumi e le condizioni
materiali di vita. In tal caso, le variabili considerate per misurare il benessere economico includono il reddito, il tenore di vita, i consumi, le
condizioni abitative, il possesso di beni durevoli ma anche la loro distribuzione tra la popolazione. Le capacità reddituali e le risorse economiche
rappresentano il mezzo attraverso il quale un individuo può raggiungere
e sostenere un determinato standard di vita (Istat, 2014).
Il concetto di benessere dal punto di vista politico-collettivo, caratteristico delle società moderne, viene messo in crisi verso la fine degli
anni ‘80 del secolo scorso con l’affermarsi del neoliberismo, dando luogo
a riflessioni critiche che portano all’estensione del concetto agli aspetti
relazionali e solidaristici (Secondulfo, 2005: 77 ss.). Nella definizione del
termine, che trova origine nel godimento da un lato di beni materiali e
di servizi che garantiscono il soddisfacimento di bisogni primari (cibo,
abitazione, lavoro, ecc.) e dall’altro di bisogni secondari come quelli affiliativi e relazionali, va posta una distinzione rispetto al concetto di salute
e va osservato come, nel tempo, il concetto di benessere abbia assunto significati e dimensioni di tipo olistico (benessere psicofisico e relazionale),
collegandosi sempre più con il concetto di stile di vita. D’altra parte, la
crescente diffusione di attività fisiche come fitness, wellness o well-being,
sembra aver prodotto diversi aspetti del concetto nelle rappresentazioni
di senso comune, in rapporto all’affermarsi di una cultura sportiva centrata sul benessere individuale (Pontello, 2013: 157).
Per delineare il concetto di benessere sembrano doversi superare
alcuni riduttivismi che lo definiscono e lo misurano secondo approcci
settoriali (umano, ambientale, economico) legati ai fondamenti epistemologici delle discipline di studio e invitare innanzitutto a una riflessione
sul soggetto in relazione, sulla comunità e sulla società, privilegiando un
approccio etico-personalista per il quale l’uomo è persona intesa come
ens subsistens ratione praeditum e «a fondamento della soggettività sta
un’esistenza ed un’essenza costituita nell’unità corpo-spirito» (Sgreccia,
1994: 87). Secondo tale prospettiva, l’individuo risulterebbe essere una
realtà indivisibile (dal latino in-dividuum), una unitotalità, che non può
venire considerata secondo un criterio nomotetico, proprio delle scienze
della natura, ricercando le leggi aventi un carattere di generalità, ma secondo un criterio idiografico, proprio delle scienze umane, e quindi per
la sua singolarità (Windelband, 1883: 145). Un individuo che è al contempo essere biologico e culturale dotato, per usare le parole di Morin
(2001: 52), di una «unidualità originaria», in quanto portatore di natura
e cultura, soggetto dotato di “essenza” o “natura”, chiamato a realizzare
il proprio dover essere e le proprie potenzialità, secondo principi morali
e valori fondati sulla razionalità.
Il presente contributo si incentra sull’accezione di ben-essere complessivo della persona, non riducibile al mero soddisfacimento soggettivo
dei bisogni primari e secondari, bensì al suo star bene globale implicante
processi decisionali che hanno a che fare con la capacità di fare e di essere, con funzioni propriamente caratteristiche della persona umana: prendere decisioni, pensare, ragionare, esprimere la propria creatività, valorizzare la corporeità, vivere in buona salute, relazionarsi nella comunità
e parteciparvi attivamente, vivere a contatto con la natura e rispettarla
(piante ed animali), secondo un orientamento che fa riferimento alle capacità funzionali essenziali per sviluppare le proprie potenzialità umane
(Nussbaum, 2000). Con ciò si desidera fare riferimento, in particolare, al
modello etico-personalista che richiama i fondamenti etici ritenuti necessari per una riflessione adeguata sul concetto di salute della persona, della
comunità, della società e che risolve le antinomie caratterizzanti i modelli bioetici come quello soggettivista, utilitarista, sociobiologico, ecc.
(Sgreccia, 1994: 74 ss.): valori che orientano possibili interventi ispirati
ad una progettualità esistenziale centrata sull’essere umano e fondata su
valori indispensabili caratterizzanti l’intra e l’inter-soggettività per i quali
la persona umana è sorgente e fine per la società (Giorio, 1990). Lazzari (2004: 35) auspica una concreta forma di umanocentrismo di tutte le
forme delle azioni umane e una democratizzazione di tutte le forme di
vita umana, in modo tale che “sistemi” e “strutture” possano esprimere
qualificanti mondi vitali intersoggettivi per «uno sviluppo equo ed ecosostenibile capace di far sapientemente dialogare l’uomo e la natura».
In tal senso, il concetto di qualità della vita che si sta affermando anche
nel mondo occidentale non può essere riconducibile a limitati aspetti
(economico, psicologico, ambientale, ecc.), bensì deve essere visto in una
318
319
320
Benessere psicofisico
dimensione olistica che comprende tutte le dimensioni dello sviluppo
della persona (cognitivo, psicomotorio, affettivo-morale, sociale) e della
comunità, nell’equilibrio tra esse, integrata nella dimensione etica della
vita dell’uomo, nella sua responsabilità individuale e sociale, in rapporto
alla cultura di appartenenza.
2. Lo stare bene nelle culture individualiste e collettiviste
Nel 1946, l’Organizzazione mondiale per la sanità ha definito la salute come «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale», e
non soltanto come «un’assenza di malattie e di infermità», e il concetto
di qualità della vita ha compreso il significato di benessere relazionale e
sociale. Da un lato, quindi, si può parlare di qualità della vita che riguarda la persona e la sua razionalità anche nell’autovalutazione del proprio
benessere, dall’altro, al concetto economico e sociale di pari opportunità
nella salute (equality of opportunity) originatosi nei paesi anglosassoni che
conferisce un ruolo chiave alle possibilità di preservare la salute dell’individuo e di prevenire le malattie e l’handicap, considerati un ostacolo alla
realizzazione di pari opportunità economico-sociali nella promozione del
benessere accessibile a tutti e dell’equità. In tal senso, il desiderio di stare
bene non può essere ancorato alla sola dimensione della qualità della vita,
ma deve essere riferito a un sistema di valori e alle diverse culture.
La salute è da considerarsi, dunque, un concetto essenzialmente globale e nel definire il binomio salute/malattia si possono individuare due
approcci: uno medico-biologico, per il quale salute e malattia si fondano
su evidenze mediche basate su parametri misurabili; e l’altro antropologico-culturale, secondo cui salute e malattia sono forme dell’esperienza,
influenzate dalla cultura e determinate dai gruppi sociali che condividono modelli e pratiche (Salmaso, 2005: 559 ss.). Il sistema di valori di
riferimento viene influenzato dal concetto di cultura e dalle sue rappresentazioni sociali. Riguardo all’elaborazione dell’identità personale e sociale, Oyserman e Markus (1998: 107 ss.) hanno osservato come le varie
culture elaborano rappresentazioni sociali differenti delle caratteristiche
che specificano il Sé. Tali differenti rappresentazioni sono evidenti se si
confrontano le culture orientate all’individualismo con quelle collettiviste, come nello schema qui delineato.
Elisabetta Pontello
321
Tab. 1. Il Sé e l’identità. Distinzione fra sistemi socio-culturali
Culture individualiste
- Il Sé è l’unità di base
- Il principale compito di sviluppo è il
raggiungimento di un senso di realizzazione personale
- L’elaborazione della propria unicità è
alla base dell’identità
- Sono valorizzate caratteristiche come
intelligenza e competenza
- La distinzione più saliente è fra Sé e
non-Sé e, in seconda istanza, fra ingroup e outgroup
Culture collettiviste
- Il gruppo è l’unità di base
- Il principale compito di sviluppo è il
raggiungimento di obiettivi comuni
- L’identità è organizzata intorno al senso di affiliazione
- Sono valorizzate caratteristiche come
costanza e persistenza
- La distinzione più saliente è fra ingroup e outgroup; ostilità a priori nei
confronti dell’outgroup
Fonte: Palmonari et al. (2002: 134).
Si può osservare come nell’ambito della ricerca transculturale (Hofstede, 1984) sia emersa la dicotomia individualismo/collettivismo o, meglio, come la differenza tra le culture emerga nel concepire le relazioni
come criterio fondante (Palmonari et al., 2002: 158). Secondo tale interpretazione, nel mondo occidentale si affermano prevalentemente culture
a carattere individualistico ove prevale l’importanza dei singoli individui
per i quali i propri obiettivi e scopi sono più importanti di quelli della collettività. Nelle culture collettiviste, invece, prevalenti nel mondo orientale, ma non solo – si pensi, ad esempio, ai modelli sociali di vita del Sud
Italia –, esiste una forte interdipendenza tra le persone e gli scopi e gli
obiettivi del gruppo sono più importanti di quelli individuali.
Pare utile citare, al proposito, le ricerche nel campo della psicologia
sociale di Semin e Smith (2002) che, per quanto riguarda la comunicazione nella relazione, hanno rilevato l’importanza del contesto (situated and
embodied cognition) e di come il linguaggio sia differente e influenzi le
culture. Persone appartenenti a culture collettiviste esprimono le proprie
emozioni utilizzando un linguaggio relativamente concreto in confronto a persone appartenenti a culture individualiste, le quali preferiscono
descrivere le proprie emozioni utilizzando termini astratti, autoriferiti e
decontestualizzati. Profonda è anche la differenza nella scelta del partner
se si osservano le due tipologie di culture delineate: nelle culture individualiste la scelta del partner è determinata dal bisogno di soddisfazione
personale, nelle culture collettiviste la scelta dipende dalla famiglia e dai
Benessere psicofisico
Elisabetta Pontello
bisogni della collettività. L’amore romantico è prerequisito nella formazione di una coppia – la coppia è già un gruppo nella prospettiva della
social cognition secondo Brown (2000: 17) – nel primo caso, non lo è nel
secondo.
Nel confronto tra culture sul significato di salute, analizzando la
prospettiva dal punto di vista antropologico, si osserva che la medicina tradizionale e non convenzionale, intesa come complesso di saperi e
competenze, si radica nei dispositivi culturali delle comunità specifica.
Come nel caso dell’America Latina, ove le dimensioni concettuali e pragmatiche della malattia e della salute si intrecciano con i rituali indigeni e
con la visione cosmogonica che vede la patologia come rottura dell’equilibrio con il contesto (individuo/contesto, comunità/contesto). Rottura
che richiede “pratiche collettive” per ricreare “l’ordine del mondo” e la
coerenza culturale messa in discussione dall’infrazione di alcune regole. Così, i trattamenti medici tradizionali si basano sull’utilizzo di piante
naturali e sono accompagnati da formule verbali che concorrono a ricomporre lo stato di salute e svolgono una funzione terapeutica (Rasetti,
Zanella, s.d.: 7).
Se ci si sposta sul piano dell’etica e del giudizio morale, le linee di ricerca transculturale hanno messo in evidenza da un lato alcune dimensioni comuni del pensiero morale, dall’altro profonde differenze rispetto, ad
esempio, al concetto di responsabilità collettiva e di solidarietà. Secondo
alcune ricerche condotte in India, il giudizio morale è condizionato dalla
necessità di una soluzione collettiva piuttosto che riferito alla coscienza
individuale. A differenza dell’Occidente, dove sono ben definite le norme
convenzionali e i principi morali nell’educazione, nelle culture orientali
non vi è questa distinzione e i comportamenti quotidiani come mangiare,
vestirsi o altri rituali, fanno parte più dell’ordine morale che delle convenzioni sociali. Si osserva, nel confronto tra culture occidentali e culture
orientali, una concezione maggiormente pluralistica, convenzionale, relativistica per le prime e una concezione tendente a considerare le pratiche
morali come legami di natura universale nelle seconde (Camaioni, 1993).
In questo quadro, l’importanza della natura nella concezione del
benessere, come nella cosmovisione andina del buen vivir, risulta fondamentale. Nel campo semantico del buen vivir sono assenti le idee di
sviluppo e di qualità della vita tipiche dell’Occidente. La concezione in-
digena anela alla vita in armonia con la collettività e con la natura, dove la
sfera privata e quella comunitaria, e la sfera materiale e quella spirituale,
non sono separabili. Il benessere è possibile solo all’interno della comunità e nel rispetto della Pachamama, il cosmo spazio-temporale interconnesso nella sua totalità (Baldin, 2014). Con riferimento al mondo asiatico, Cazzolla Gatti (2013a) osserva che «l’ideologia religioso-filosofica
fondata sull’unione degli elementi e sull’interdipendenza con l’ambiente
di cui si è parte integrante, forniscono la chiave di risoluzione del conflitto individuo-società e mantengono l’essere umano in una condizione
di armonia con il resto della Natura, simile a quella dei popoli indigeni.
Questi ultimi non sanno nemmeno se possa esistere qualcosa di alternativo al benessere, poiché la loro condizione perfettamente integrata alla
Natura non li allontana mai dall’equilibrio dinamico omeostatico in cui
si sono evoluti».
Celata dietro la parola rmonia, agevolmente rinvenibile in alcune civiltà orientali come nelle culture indigene latinoamericane, vi è una aspirazione condivisa anche a livello internazionale. Il primo principio della
Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo del 1992 recita: «Gli
esseri umani sono al centro delle preoccupazioni relative allo sviluppo
sostenibile. Essi hanno diritto a una vita sana e produttiva in armonia
con la natura». Anche nel contesto europeo si ravvisano pensatori che
enfatizzano il nesso fra esseri umani e ambiente quale fonte di benessere
e di realizzazione del sé. In prospettiva ermeneutica, Tomatis analizza il
rapporto dell’uomo con la natura intendendolo come fonte di emozioni
forti, domande profonde sull’esistenza e risposte decisive. Egli interpreta
il camminare (andare, condurre, viaggiare, traversare) in montagna come
una “rivoluzione alpina” del pensiero umano, forma di civiltà che permetta all’uomo una «diversa dimensione umana e assieme naturale, al di
là di tecnicismi di fatto e di ragione, nonché delle relazioni o repulsioni
da questi suscitate» (2005: 25). Lo stesso Nietzsche, passeggiando sui
pendii a picco su mare della Costa azzurra o per i sentieri dell’Engadina, ebbe alcune intuizioni che lo portarono a dire che la filosofia è la
libera scelta di vivere fra ghiacci e alte cime. Spiritualità e naturalità per
il filosofo italiano sono un profondo intreccio di ragione e sentimento,
di materialità e concretezza che attraverso la costanza e la fatica che la
montagna esige permettono all’uomo di cogliere valori profondi (libertà
322
323
Benessere psicofisico
Elisabetta Pontello
interiore, amicizia, solidarietà, amore per ogni forma di realtà e di vita).
«Naturalmente culturale e solo culturalmente naturale» è il chiasmo che
indica l’uomo in una visione escatologica del proprio futuro, ed è «proprio nella umana apertura vivente a un divino che la costituisce e trascende in divenire dall’avvenire, che ogni essere fra terra e cielo, divini e
mortali, trova il proprio esser partecipante natura» (Tomatis, 2005: 135).
L’uomo solamente in quanto natura vivente può divenire «ciò che è a
venire», in quanto precedente «co-scienza creativa dell’Unitotalità». Tale
visione umana non pare sostanziare le critiche al modello occidentale di
vita, quanto piuttosto aprire alle innumerevoli prospettive esistenti sul
concetto di natura umana e benessere.
La montagna è solo una delle forme che assume la natura; anche l’individuo fa parte di essa e riconoscersi come tale può riportare l’equilibrio fra sé e il mondo, fra sé e gli altri. Inoltre, le scelte del singolo
si ripercuotono nel mondo e viceversa. Ciò significa che l’essere umano
può conservare o distruggere la natura e, quindi, come sostiene Hillmann
(1977: 130), non possiamo ripristinare un rapporto armonioso con la natura restando semplici spettatori. Se vogliamo «restaurare, conservare e
promuovere la natura ‘là fuori’, anche la natura ‘dentro di noi’ deve essere restaurata, conservata e promossa in egual misura. In caso contrario, le
nostre percezioni della natura esterna, le azioni che compiamo su di essa
e le nostre reazioni a essa, continueranno a mostrare come in passato gli
stessi strazianti eccessi di inadeguatezza istintuale».
Tali riflessioni fanno emergere la necessità di porre a confronto modelli, metodi e strumenti per garantire lo sviluppo del concetto di salute
riferito a persone, gruppi, comunità, attraverso la negoziazione di concetti ma anche col confronto di paradigmi e prassi concrete. Sembrano
positive, per indicarne alcune, le recenti esperienze nel campo medico
della salute della rete internazionale Health promoting hospitals and health services (Aa.Vv., 2014). In particolare, nell’ambito dei diritti alla salute dell’infanzia, piace segnalare il modello Tat (Think and action tank on
children’s rights to health: a rights and equity based platform to child health
and well being), i cui ideatori hanno avviato una rete internazionale per
la promozione dei diritti dal bambino, del benessere e dell’equità. Il Tat
sui diritti alla salute del bambino è una rete aperta e inclusiva di professionisti, decisori politici ed altri professionisti che operano per l’infanzia.
Il Tat è stato fondato nel 2013 per analizzare le conoscenze, le teorie,
le idee e le esperienze legate alla sfida di tradurre i principali diritti dei
bambini alla salute, giustizia sociale ed equità nella pratica pediatrica e
nella salute (Simonelli, 2014). Principi espressi nel 1989 nella Convention
on the rights of the child delle Nazioni Unite.
324
325
3. Promozione della salute e life skills
La promozione della salute, pur essendo un concetto teorizzato in
varie epoche storiche, è stato codificato nel 1986 nella Carta di Ottawa. A
distanza di quasi trent’anni costituisce un importante quanto attuale documento di riferimento per lo sviluppo di politiche orientate alla salute.
La promozione della salute viene vista come un processo per raggiungere
uno stato di benessere che include fattori determinanti quali patrimonio
genetico (sesso, età) e ambiente sociale; i fattori socio-economici (lavoro,
condizione sociale, istruzione, educazione) e l’ambiente fisico; i fattori
ambientali (aria, acqua, cibo, luogo dove si vive, clima, territorio) e gli
stili di vita (alimentazione, attività fisica, dipendenze).
Si tratta di una concezione dinamica della salute, atta a preservare
la persona e la collettività nell’ambiente fisico e sociale di vita, che riconosce l’adattabilità dell’essere umano nel mantenere in armonia i piani
della sua esistenza (biologico, psicologico, ecologico e sociale). Una concezione della persona responsabile e cosciente, in grado di fare fronte e
adattarsi alle variazioni ambientali e sociali mantenendo e ristabilendo la
condizione di equilibrio personale e sociale. Nella Carta di Ottawa sono
sanciti anche i principi che riguardano la possibilità di riconoscere e realizzare le proprie aspirazioni nel soddisfacimento dei bisogni primari e
secondari. I prerequisiti della salute sono identificati in: pace, abitazione,
istruzione, cibo, reddito, ecosistema stabile, risorse sostenibili, giustizia
sociale ed equità. La salute emerge come un concetto positivo che enfatizza le risorse personali e sociali, è un mezzo non un fine, una risorsa per
la vita non un obiettivo. Ne consegue che la promozione della salute non
è responsabilità del solo settore sanitario, interessa tutte le dimensioni
della vita dell’uomo e rinvia alla necessaria assunzione di competenze
quali lo spirito critico, la creatività, il problem solving, l’autoefficacia e
Benessere psicofisico
Elisabetta Pontello
tutte le cosiddette abilità di vita da parte dei giovani in crescita ma anche
degli adulti secondo la prospettiva di lifelong learning. È importante rilevare che tra le strategie di tutela della salute mentale, vi sono l’attivazione
e l’implementazione di fattori protettivi, ovverosia tutti quei fattori che
aiutano a sviluppare resilienza di fronte ad eventi stressanti e/o traumatici. Essi includono fattori organici (intelligenza, salute fisica e vitalità),
fattori socio-emozionali (il sentirsi rispettati, valorizzati e supportati) e
più generali fattori socio-economici quali la qualità della genitorialità, la
scuola, l’occupazione, la sicurezza finanziaria e abitativa.
Al proposito, si osserva che il modello della salutogenesi (Simonelli,
Simonelli, 2010: 126 ss.) individua nel soggetto l’origine e la possibilità di sviluppo della salute attraverso l’apprendimento e l’esercizio delle
life skills (abilità di vita), identificate nella capacità di prendere decisioni
e di risolvere problemi, nel pensiero creativo e nel senso critico, nella
comunicazione e nell’abilità interpersonali, nella autoconsapevolezza ed
empatia, nella gestione delle emozioni e dello stress. Le life skills sono
abilità che permettono all’individuo di avere un grado di autonomia tale
da affrontare i problemi ed attivare processi di auto protezione della salute. Quindi lo “stare bene” della persona è strettamente connesso con il
possesso di tali abilità e con il benessere collettivo misurabile in termini
di autonomia dei soggetti sociali, gruppi, comunità, organizzazioni.
L’approccio salutogenico, basato sul modello dell’influenza sociale e
delle competenze relazionali, vede come fondamentale il ruolo del soggetto e della comunità nella promozione della salute e nella possibilità di
“guadagnare salute” ai diversi livelli generazionali. Esso si fonda su un
processo che ha una funzione essenziale per l’individuo e la comunità
e che comprende i seguenti caratteri: forza vitale in grado di costruire
percorsi originali, disentropico (ovvero che rifugge da stati di degenerazione e di morte), autopoietico o rigenerativo a fronte delle variazioni
ambientali, conglobante tutte le dimensioni e i livelli di salute, nonché individuale e sociale, generazionale e intergenerazionale. Ulteriori caratteri
sono l’orientamento alle risorse interne ed esterne per la salute piuttosto
che ai servizi sanitari; focus su fattori interni quali autoefficacia, capitale
umano, e su fattori esterni legati al contesto quali capitale economico,
culturale, sociale, ecc. (Simonelli, Simonelli, 2010: 126 ss.).
La salute, in conclusione, non può essere definita semplicemente come
una condizione di piena efficienza funzionale ma «comprende anche funzioni logiche, affettive, relazionali, in contesti interpersonali sociali» (Galimberti, 2000: 836 ss.). Se è specifico dell’individuo essere al mondo per
decifrarne i significati attraverso un sistema di segni, ogni compromissione di questa capacità di lettura investe globalmente il suo stato di salute,
che ha dunque riferimenti non solo organici, ma anche culturali. Da un
concetto di salute statica si passa a un concetto di salute dinamica, dipendente da quella condizione di equilibrio realizzabile attraverso l’inserimento del soggetto in un sistema sociale complesso, ponendo l’accento
sulla capacità di vivere pienamente e positivamente le proprie condizioni
di bambino, di giovane, di adulto o di anziano (Donati, 1987: 1803).
Come tradurre allora principi e modelli in azioni concrete? La metodologia nell’apprendimento delle abilità di vita in fase evolutiva, centrata
sul processo di apprendimento piuttosto che sul prodotto, risultata efficace sulla base dalle evidenze scientifiche emerse nei progetti di apprendimento in età adolescenziale è quella del learning by doing (imparare
facendo), metodo partecipativo basato sulla teoria del noto pedagogista
americano John Dewey. Lo sviluppo del metodo e la sua applicazione risulta possibile sia nei diversi livelli generazionali che in progetti di carattere interculturale. Gli strumenti possono venire così riassunti: approccio
produttivo vs. approccio processuale; tradizione vs. innovazione; progettualità e lavoro creativo; metodologia peer to peer; emozioni; relazioni;
presa di decisioni; gestione dello stress; efficienza (programma personalizzato); pedagogia di genere (Pontello, 2014: 366). L’orientamento è
centrato sul processo più che sul prodotto. Tale metodo ha trovato validazione e positiva applicazione nell’ambito del progetto “Guadagnare
salute in adolescenza” promosso nella Regione Friuli Venezia Giulia dalla
A.S.S. n. 2 “Isontina” in collaborazione con il Coni e l’Istituto liceale Isis
Dante Alighieri di Gorizia, in linea con le politiche dell’Unione Europea
per la salute e il benessere dei giovani. Le iniziative realizzate si sono
concentrate sull’ampliamento delle esperienze motorie e sportive, sull’elaborazione in didattica interdisciplinare con le tecnologie informatiche
dei dati e dei contenuti fondamentali (diario alimentare e scheda Met o
quota metabolica), su lezioni sulla dieta vegetariana, sul cibo e sulle piccole impresa economiche. Il tutto in un approccio integrato tra i settori
disciplinari di studio ed olistico nella formazione della persona.
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327
Benessere psicofisico
Elisabetta Pontello
Riguardo alla percezione del proprio stato di benessere, Cazzolla Gatti (2013b) osserva che le popolazioni che ancora vivono in stretto contatto con la natura soffrono meno dei mali della civiltà e la percezione del
disagio è minore. Il senso di deprivazione relativa, ossia lo scarto tra i
risultati e le aspettative e le esperienze fatte dall’individuo che sostanziano tale differenza (Gurr, 1970), si ha nel confronto tra ciò che si aspetta e
ciò che si esperisce per sé o per il proprio gruppo (Runciman, 1966). Gli
individui diventano scontenti percependo il disagio nel momento in cui
si rendono conto che esiste una discrepanza tra «lo standard di vita di cui
godono e quello di cui credono di dover godere» (Brown, 2000). Nei paesi non occidentali tale discrepanza si percepisce meno o, meglio, la non
conoscenza e la non percezione di altri possibili standard di vita riduce il
contrasto tra la volontà istintiva alla libertà dell’individuo e le costrizioni
imposte dalla società civile. In Occidente, il consumo di antidepressivi,
nel tentativo di riduzione degli stress di varia natura e di ritorno a uno
stadio di equilibrio dinamico, indica uno stato di disagio della popolazione e un’alta incidenza di forme di squilibrio dette distress. Il termine
indica l’aspetto negativo dello stress e viene contrapposto a eustress, che
rappresenta l’aspetto positivo, di stimolazione fisiologica, dello stress inteso nel senso originario di sindrome di adattamento, spesso dovuto agli
stili di vita presenti nel modello occidentale e alla percezione dell’inadeguatezza del proprio vivere rispetto a un modello esistenziale ideale.
L’Organizzazione mondiale della sanità sottolinea l’aumento significativo dell’interesse per la cura della persona nella sua interezza. Nel World
health organization traditional medicine strategy 2014-2023, rapporto
sulle strategie in tema di medicine tradizionali e non convenzionali, si
analizza il loro contributo nel sviluppare il concetto di salute, benessere
e sanità ponendo al centro la persona e promuovendo l’uso di questo
approccio attraverso un’appropriata regolamentazione dei medicinali e
delle figure professionali. Pratiche come l’agopuntura di origine cinese
rientrano nella medicina non convenzionale e si sono diffuse su scala globale dimostrando come l’influenza tra le culture sia determinante per
una migliore comprensione del benessere psicofisico nella sua accezione olistica. Si può, in tal senso, fare inoltre riferimento alla pet therapy,
alla considerazione per l’omeopatia e per la fitoterapia, ovverossia a tutte quelle pratiche che si affiancano alla terapia medica ricomponendo
l’equilibrio tra l’uomo e la natura. Questa visione olistica proveniente
dall’ambito internazionale si rinviene pure nel Rapporto Onu Sustainable development: harmony with Nature del 2010, che segnala come gli
approcci e le iniziative allo sviluppo sostenibile devono consentire alle
comunità di riconnettersi con la terra, ponendo accento sulla relazione
evolutiva fra salute umana e natura.
In conclusione, i concetti di benessere e salute non sembrano affatto
sgombri da incertezze semantiche. In effetti, è difficile stabilire un confine netto fra benessere e felicità, fra salute e malattia. Come si è detto, occorre superare un facile riduttivismo che attribuisce alla definizione di salute la semplice assenza di malattia per cui, nell’interrogarsi su che cosa si
intenda per benessere del soggetto, sembra utile invitare ad una profonda
riflessione sul significato stesso della corporeità in armonia con l’ambiente di vita. In una realtà come la presente, in cui il progresso igienico e tecnologico hanno favorito un deciso miglioramento delle condizioni di vita
(migliore alimentazione, migliore igiene personale e delle abitazioni, ecc.)
e una conseguente minore incidenza di alcune malattie, si è allungata l’aspettativa di vita. Al contempo, però, nelle società occidentali si assiste al
manifestarsi di forme di disagio che sempre più spesso hanno a che fare
con la sfera della relazionalità, rimettendo in discussione il concetto di
benessere e la qualità della vita. In prospettiva futura sembrano doversi
potenziare gli interventi in età evolutiva: studi internazionali dimostrano
la necessità di operare su strategie multisettoriali per diminuire fattori di
rischio e aumentare i fattori protettivi (cfr. O’Connell et al., 2009).
In Occidente si stanno affermando modelli integrati che comprendono i diversi approcci al tema precedentemente esaminati, modelli che
pongono una crescente attenzione al rapporto uomo-natura nel tentativo di ricomporre un’armonia originaria, spesso perduta, essenza stessa
dell’essere umano inteso, per dirla con Tomatis, come «natura vivente,
esistente, ventura». Un essere umano che solo in tal modo potrà «liberamente divenire ciò che è a venire, forse perché in tempi immemorabili
già co-scienza creativa dell’unitotalità (poi sospensivamente infranta) di
multi-cessante divino universo naturale» (2005: 135).
328
4. Considerazioni finali
329
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Benessere psicofisico
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Abstract: This study aims to examine the polisemic nature of the word
“well-being” considered that any term is culturally neutral. Beyond an analysis of values related to health and well-being many
point of view are examinated: personalistic philosophical ethic approach, salutogenic approach, the influence of social determinants
of health, inequities in access to healthcare and equality of opportunity, health research and youth programme.
Keywords: Well-being, Life skills, Ethic, Nature, Culture.
Dal Pil al Buen vivir:
paradigmi di sviluppo, indici e paesi a confronto
di Moreno Zago33*
SOMMARIO: 1. Misurare il benessere. – 1.1. Indici compositi di sviluppo, benessere e qualità della vita. – 1.2. Indici compositi di sostenibilità ambientale. – 1.3. Indici compositi di privazione economica,
disuguaglianza sociale e libertà. – 1.4. Indici compositi di governance e sicurezza internazionale. – 1.5. Indici compositi di felicità.
– 2. Misurare il buen vivir. – 2.1. Risultanze: Svezia o Costa Rica?
1. Misurare il benessere
Dagli anni ‘30, il Prodotto interno lordo (Pil), ossia la somma dei beni
e servizi prodotti all’interno di un paese, è stato l’indicatore maggiormente impiegato per misurare non solo la crescita di un paese ma anche il suo
grado di benessere ritenendo ci fosse un rapporto diretto tra ricchezza
posseduta e sviluppo. Un raffronto tra venti paesi dell’America Latina,
inclusi quelli andini dove si rinvengono i principi della cosmovisione del
buen vivir (Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador, Perù e Venezuela) e quaranta paesi dell’Europa, nell’accezione di una realtà politico-geografica che
si estende dall’Atlantico fino al confine con la Russia, aiuterà a comprendere i limiti di questa misura e di suggerire gli indispensabili correttivi.
La classifica dei paesi sulla base del Pil espresso in dollari americani pro
capite colloca nelle prime posizioni ben cinque paesi europei con il Lussemburgo in testa (103.925$) seguito da tre paesi nordici, mentre bisogna
scendere in 48a posizione per trovare il primo paese dell’America Latina
– il Cile (15.452$) – cui seguono a breve distanza Uruguay, Venezuela,
*
Professore associato di Sociologia dell’ambiente e del territorio nell’Università di Trieste.
Dal Pil al Buen vivir
Moreno Zago
Argentina e Brasile; sette paesi, infine, si collocano oltre la 100a posizione
(Paraguay, El Salvador, Guatemala, Bolivia, Honduras, Nicaragua, Haiti)
con redditi inferiori ai 4.000$ (cfr. Tab. 1).
Tuttavia, sebbene l’aumento di produzione di beni sia indice di crescita economica, non necessariamente lo è anche di sviluppo, progresso
o benessere (Jackson, 2011; Tiezi, 2007). Le differenze si evidenziano
laddove si vogliano mettere in luce fenomeni come l’intensificarsi delle
diseguaglianze, lo sfruttamento non sostenibile delle risorse ambientali
o la qualità della vita collettiva e individuale. Il Prodotto interno lordo
o l’utilizzo di altri indicatori monetari escludono quei beni e servizi che
non hanno un mercato (attività di volontariato), le esternalità negative
legate ai costi derivanti dalle attività di produzione (inquinamento) o del
declino sociale (criminalità) o la qualità della spesa pubblica. Non tengono nemmeno conto delle disuguaglianze sociali, delle relazioni comunitarie, della tenuta degli attuali ritmi di crescita, del livello di soddisfazione
della partecipazione delle famiglie ai processi di formazione, distribuzione e impiego delle risorse (Alvaro, 2011: 231).
Per ovviare ad alcuni di questi limiti, nel corso del tempo sono stati proposti ulteriori indicatori che affinano il Pil come l’Indicatore di
progresso autentico (Genuine Progress Indicator)341, l’Indice di risparmio
autentico (Genuine Saving Sindex)352, il Prodotto interno lordo verde (Green Gdp)363 e il Prodotto interno di qualità374. Il dibattito negli ultimi anni
ha avuto un’accelerazione a livello internazionale, nel 2006, con il Global Project on Measuring the Progress of Society dell’Oecd (http://www.
oecd.org), nel 2007, con l’iniziativa europea BeyondGDP (http://www.
beyond-gdp.eu) e con il terzo set di indicatori per lo sviluppo sostenibile
elaborati dalla Commission for Sustainable Development delle Nazioni
Unite e, nel 2008, con l’istituzione da parte del governo francese della
Commission sur la Mesure de la Performance Économique et du Progrès
Social presieduta da tre illustri esperti internazionali quali Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi (2009). La Commissione suggerisce di spostare l’attenzione dagli aspetti produttivi a quelli riguardanti
la distribuzione del reddito e del consumo e a preferire un approccio
family-oriented alla tradizionale misurazione pro capite con particolare
riferimento alla quantificazione delle attività non market. Gli indicatori
di qualità della vita devono altresì fornire una valutazione esaustiva delle
disuguaglianze e dello stato di salute, istruzione, attività personali, condizioni ambientali, della partecipazione politica e della sicurezza delle
persone.
334
1
Introdotto da Redefining Progress nel 1995, l’indicatore sottrae dal Pil le spese per
risolvere problemi sociali (i costi per la riduzione dell’inquinamento o le perdite economiche dovute al degradamento dell’ambiente) e aggiungendo il valore di servizi non
pagati (come i lavori domestici) o del tempo libero.
2
Proposto dalla Banca mondiale nel 1999, l’Indice di sostenibilità ambientale include
nel Pil le spese per la formazione mentre vengono detratte quelle per la contrazione delle
risorse naturali e i danni ambientali.
3
Originato dalle riflessioni degli anni ‘70 di Nordhaus e Tobin (1972), il Pil verde pondera la crescita economica per le conseguenze ambientali come il rischio di perdita delle
biodiversità e le emissioni di anidride carbonica.
4
Lanciato da Symbola e Unioncamere nel 2006, l’indice è la risultante della sommatoria
delle quote percentuali di qualità, in ciascun settore di attività previsto dalla contabilità
nazionale, moltiplicate per il rispettivo valore aggiunto.
335
1.1. Indici compositi di sviluppo, benessere e qualità della vita
Per superare un’interpretazione strettamente economica della crescita, le Nazioni Unite dagli anni ‘90 hanno iniziato a proporre l’Indice di
sviluppo umano (Human Development Index) costruito su tre elementi
essenziali: una vita lunga e sana (misurata dall’indicatore dell’aspettativa
di vita alla nascita), l’accesso alla conoscenza legata all’indice di istruzione (misurata dagli indicatori degli anni medi di istruzione e degli anni
previsti di istruzione) e uno standard di vita dignitoso (misurato dall’indicatore del Pnl pro capite in termini di parità di potere d’acquisto) (Undp,
2013). La scelta degli indicatori trova origine nella volontà di collocare la persona al centro dello sviluppo. L’analisi dell’indice (calcolato su
187 paesi) riferito al 2012 pone la Norvegia al primo posto, seguita da
Australia e Stati Uniti d’America e il Niger all’ultimo posto, preceduto
da Congo e Mozambico (cfr. Tab. 2). Su una scala 0 (basso)-1 (alto), il
valore medio dei 187 paesi analizzati è di 0,694 laddove alla Norvegia
corrisponde il valore 0,955 e al Niger quello 0,304. La quasi totalità dei
paesi europei qui considerati si colloca nel gruppo di valori dell’indice
molto alti e alti, inclusi Cile, Argentina e Uruguay mentre i restanti paesi
Dal Pil al Buen vivir
Moreno Zago
latinoamericani si collocano prevalentemente oltre la 70a posizione con
Guatemala e Haiti oltre la 130a posizione.
Non sono mancate le critiche all’indice sia per quanto concerne la
scelta degli indicatori inadeguati a spiegare le dimensioni in oggetto
(Pyatt, 1992; Lind, 1991; Kelley, 1991), sia per la loro robustezza rispetto agli errori della misurazione (McGillvray, 1991; Noorbakhsh, 1998) e
sia per la mancanza di informazioni aggiuntive sulla posizione dei paesi
rispetto a quante non ne danno i singoli indicatori (Mintcheva-Ivanova
et al., 1994). Tuttavia, la critica maggiore nasce dalla mancata inclusione
delle dimensioni dei diritti umani (Pyatt, 1992) e ambientali (Hamilton,
1993).
Per superare alcune di queste critiche, dal 2011 l’Organisation for
Economic Co-operation and Development propone un indice per misurare il benessere. Il Better Life Index costruito su 25 indicatori attorno a
11 dimensioni identificate come essenziali alla definizione di benessere
in termini di condizioni di vita materiali (abitazione, reddito, lavoro) e
qualità della vita (relazioni comunitarie, istruzione, ambiente, impegno
civico, salute, soddisfazione per la vita, sicurezza e equilibro tra tempo
libero e del lavoro). L’indice risponde a quattro criteri. In primo luogo si
concentra sulle persone (individui e famiglie), la loro situazione e il loro
rapporto con gli altri nella comunità in cui vivono e lavorano. Secondariamente, si focalizza sugli output del benessere e non tanto sugli input:
ad esempio, sulla soddisfazione delle persone con acqua piuttosto che su
quanto è stato speso per la fornitura di acqua potabile. Successivamente,
prende in considerazione le disparità tra i diversi gruppi per età, genere
e provenienza economica. Infine, analizza sia le componenti oggettive sia
quelle soggettive del benessere, come le esperienze personali o la valutazione delle circostanze della vita (Durand, Smith, 2013: 3).
L’Oecd ritiene queste dimensioni come universali, ossia rilevanti per
le persone che vivono in società diverse; ciò che può variare è l’importanza relativa attribuita a ciascuna dimensione che riflette le priorità attribuite dalle esperienze del singolo individuo o dalla cultura di provenienza.
Infatti, l’Oecd non propone alcuna graduatoria dei paesi membri analizzati lasciando al visitatore del sito (http://www.oecdbetterlifeindex.org)
la possibilità di pesare le singole dimensioni e così di graduare i paesi e
comparando i risultati con quelli degli altri utenti, promuovendo un di-
battito su cosa rende la vita migliore. Un’analisi delle risposte fornite dai
visitatori del sito provenienti dai paesi oggetto di questo studio evidenzia
come ad essere ritenuti fattori del benessere più importanti per i cittadini
europei siano la salute e la soddisfazione per la vita, mentre per quelli
latinoamericani sia l’educazione.
336
337
1.2. Indici compositi di sostenibilità ambientale
Altri indici compositi si concentrano maggiormente su alcuni aspetti
della vita sociale (diseguaglianze di genere, povertà), politica (sicurezza,
partecipazione, diritti385) o economica (crescita). Particolarmente sentito è
il problema della sostenibilità ambientale e della produzione396.
Negli anni ‘90, Mathis Wackernagel e William Rees introducono il
parametro di Impronta ecologica (Ecological Footprint) che misura il
consumo umano di risorse naturali in relazione alla capacità della Terra
di riprodurle (1996). L’impronta, a livello individuale o collettivo, non
è né positiva né negativa poiché va confrontata con la biocapacità ambientale. L’indicatore evidenzia complessivamente come l’umanità stia
5
Sul tema si vedano gli studi della Banca mondiale sugli indicatori compositi di governance (Worldwide Governance Indicators) che analizza la capacità dei governi di
implementare delle politiche efficaci e di creare un ambiente di fiducia nel rapporto
Stato-cittadino (http://info.worldbank.org/governance/wgi/index.aspx#home) e la guida dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani (http://www.ohchr.
org; Ohchr, 2012) finalizzata ad individuare quegli indicatori più idonei a misurare i
progressi nell’attuazione dei principi e delle norme internazionali sui diritti umani. Il
Guatemala è stato il primo paese nel 2009 ad utilizzarli nel redigere i rapporti sul diritto
alla salute, cibo e istruzione seguito anche da Brasile, Messico, Svezia e Regno Unito.
6
Sul tema, si veda anche lo studio svolto dall’United Nations University-International
Human Dimensions Programme on Global Environmental Change in partenariato con
lo United Nations Environment Programme (2012), qui semplicemente citato in quanto
sono solamente venti i paesi tra cui cinque latinoamericani (Brasile, Cile, Colombia,
Ecuador, Venezuela) per i quali è stato costruito l’Indice della ricchezza inclusiva (Inclusive Wealth Index) che aggrega una complessa gamma di attività – capitale industriale,
umano e naturale – per arrivare a determinare lo stato reale della ricchezza e della sostenibilità della crescita di una nazione. Il confronto temporale con il 1990 evidenzia come,
ad esempio, l’economia del Brasile sia cresciuta del 31% in termini del Pil ma solo del
18% in termine di Iwi.
Dal Pil al Buen vivir
Moreno Zago
consumando risorse naturali a un ritmo più veloce rispetto a quelle che
il pianeta è in grado di rigenerare; gli africani, ad esempio, sono quasi il
triplo dei nordamericani, ma hanno un’Impronta tre volte e mezzo più
piccola (Gnf, 2010). Nel 2008 i paesi ad alto reddito hanno prodotto
un’Impronta ecologica pari a 6,09 ettari pro capite che, raffrontata con
la bio-capacità, ha generato un deficit di 3,03 gha. Sulla base di questo
indicatore, ad eccezione di Haiti (2°), i paesi latinoamericani si collocano
molto distanti dal vertice – la Rep. Dominicana al 40° e successivamente
Nicaragua, Honduras Guatemala e Colombia – in cui si trovano paesi
africani (Ruanda, Congo, Malawi, Mozambico) e asiatici (Afghanistan,
Bangladesh, Pakistan, Nepal) (cfr. Tab. 3). L’Ecuador, piazzato al 75°
posto, dal 2009 ha deciso di includere nel Plan Nacional para el Buen
Vivir 2009-13 l’obiettivo di mantenere l’impronta ecologica ad un livello
accettabile per l’ecosistema nella consapevolezza che la protezione del
proprio patrimonio naturale e della biodiversità significhi salvaguardare la sicurezza dei propri cittadini e del pianeta intero (Gfn, 2012: 53;
Senplades, 2013). I paesi dell’Unione Europea si piazzano nelle posizioni
medio-basse: il Lussemburgo alla 150a posizione, preceduto da Danimarca, Belgio e Paesi Bassi.
Dal 2006 l’olandese Sustainable Society Foundation pubblica l’Indice
della società sostenibile (Sustainable Society Index). Sviluppato a partire
dalla definizione della Commissione Brundtland (1987), l’indice aggrega
21 indicatori suddivisi in otto categorie (bisogni di base, salute, sviluppo
individuale e sociale, natura e ambiente, risorse naturali, clima e energia,
transizione, economia) ed è uno dei pochi ad includere contemporaneamente le tre dimensioni del benessere: umano, ambientale ed economico.
Una società sostenibile è quella che soddisfa i bisogni della generazione attuale e non compromette la capacità di quella futura a soddisfare i propri,
dove ogni individuo può crescere in libertà, in armonia con l’ambiente e
in una società equilibrata. La graduatoria costruita su questo indice vede
la Svizzera al vertice assieme a Svezia e Austria (cfr. Tab. 4). Ma nei primi
dieci si trova anche il Costa Rica seguito, a breve distanza, da Rep. Dominicana, Guatemala, Argentina e Uruguay. Viceversa, le ultime posizioni sono
occupate da Yemen (151°), Iraq, Turkmenistan, Qatar e Oman. Tra i paesi
considerati in questo studio, oltre la centesima posizione si trovano – oltre
ad Haiti – Ucraina, Grecia, Irlanda, Bosnia-Erzegovina e Malta.
La Fondazione Eni Enrico Mattei propone dal 2009 l’Indice di sostenibilità (Feem Sustainability Index) che focalizza l’attenzione sulla sostenibilità in ambito economico, sociale ed ambientale consentendo, così,
di fare raffronti temporali, fino al 2030, date specifiche assunzioni sulla
crescita mondiale (Feem, 2009; Campagnolo, 2012). L’indice è composto
da 23 indicatori che misurano l’indebitamento pubblico, la posizione sui
mercati internazionali e l’investimento in ricerca e sviluppo; lo stato dei
sistemi di welfare in termini di salute e istruzione, la rilevanza della spesa
alimentare sul bilancio delle famiglie, l’entità delle emissioni di gas serra,
l’utilizzo di energie rinnovabili e la perdita di biodiversità. L’indice è,
così, una misura aggregata di sostenibilità che consente di classificare i
paesi del mondo secondo la loro performance di sostenibilità complessiva. Dalla Tab. 5 emerge che l’Europa è la regione più sostenibile trainata dai paesi scandinavi mentre il Brasile si colloca a metà classifica e il
Messico in posizione di molto inferiore. Si può sostenere che i paesi più
industrializzati sono caratterizzati da un livello soddisfacente di sostenibilità a differenza di quelli in via di sviluppo, caratterizzati da economie
poco sostenibili.
338
339
1.3. Indici compositi di privazione economica, disuguaglianza sociale e
libertà
Dal 1997 l’Undp elabora l’Indice multidimensionale di povertà (Multidimensional Poverty Index) che va a completare le valutazioni sulla povertà fondate sul reddito. L’ottica di analisi è quella dell’esclusione: vita
breve, mancanza d’istruzione di base e di accesso alle risorse pubbliche e
private (acqua pulita e assistenza sanitaria). Per gli oltre cento paesi per
i quali è stato calcolato l’indice, tra i paesi dell’America Latina, Uruguay
ed Ecuador sono quelli che presentano i risultati migliori nel senso che
la povertà è stata ridotta a meno del 2% della popolazione mentre delle
criticità sono ancora presenti ad Haiti dove oltre il 56% dei cittadini è
vittima della povertà o in Honduras (32%), Nicaragua (28%), Guatemala (26%) e Bolivia (21%) (cfr. Tab. 6).
Il World Economic Forum propone dal 2006 l’Indice di disparità di
genere (Global Gender Gap), un indicatore sintetico che coglie le dise-
Dal Pil al Buen vivir
Moreno Zago
guaglianze di genere in ambito di occupazione, remunerazione e carriera,
risultati formativi, salute e potere di rappresentanza politica. L’indice,
tuttavia, non fornisce alcuna indicazione sulle discriminazioni cui sono
sottoposte le donne appartenenti a classi sociali o a gruppi etnici diversi
all’interno dello stesso paese. Il trattamento di diseguaglianza che colpisce le donne costituisce non solamente un elemento di frustrazione individuale ma anche un’opportunità persa di sviluppo. Pur costituendo
un importante forza lavoro – spesso poco retribuita – che contribuisce
al processo di crescita economica di un paese, le donne, come nei paesi
latinoamericani, svolgono attività economiche informali non riconosciute
poiché il loro operato avviene all’insegna dell’invisibilità. L’Indice, pertanto, è progettato per misurare l’impatto negativo sullo sviluppo umano
delle disparità economiche e sociali tra uomini e donne. Dai valori degli
indici si evince che gli islandesi, assieme ai residenti dei paesi scandinavi
sono i più egualitari e gli yemeniti quelli meno. Con riferimento ai paesi
considerati in questo studio, tra i primi dieci paesi si trova il Nicaragua
e nei primi trenta anche Cuba, Ecuador e Bolivia. Agli ultimi posti si
trovano paesi che, sulla base del reddito e dell’Indice di sviluppo umano
si trovano in posizioni più elevate: Guatemala, El Salvador, Cile, Paraguay, Honduras, Uruguay, Rep. Dominicana. Tuttavia, questi paesi sono
in buona compagnia con i paesi dell’Unione Europea come Ungheria,
Malta, Rep. Ceca, Grecia, Cipro e Slovacchia. L’Italia, al 71° posto, si
colloca appena sopra alla Rep. Dominicana ma sotto al Brasile e al Messico (cfr. Tab. 7).
Il Fraser Institute canadese ha recentemente proposto l’Indice di libertà (Worldwide Index of Human Freedom) calcolato a partire da due
misure: l’Indice di libertà economica (Economic Freedom) e l’Indice di
libertà personale (Personal Freedom) (McMahon, 2012). La visione di libertà proposta dagli indici coincide con il principio di volontarietà per
il quale una persona è libera quando le sue scelte sono volontarie, cioè
non soggette a coercizione da parte di terzi o dello Stato. Il primo indice,
elaborato dagli anni ‘70, analizza 42 variabili raggruppate in cinque aree:
dimensioni del governo (entrate, tasse e imprese), struttura giuridica e
garanzia dei diritti di proprietà, stabilità monetaria, libertà nel commercio internazionale, regolamento del credito, lavoro e affari (Gwartney
et al., 2012). L’Indice di libertà personale prende in considerazione 34
variabili suddivise in quattro categorie: sicurezza, libertà di movimento,
libertà di espressione, libertà di relazione. La tesi di fondo è che una
politica che mira alla crescita della libertà economica crea terreno fertile affinché attecchiscano le altre libertà non economiche. Nelle prime
dieci posizioni, al cui vertice si colloca la Nuova Zelanda, si trovano solo
tre paesi europei (Olanda, Irlanda e Danimarca), mentre nelle ultime si
trovano Zimbabwe, preceduto da Burma, Pakistan, Sri Lanka, Siria e
Congo. Tra i primi venticinque, oltre ai paesi dell’Unione Europea, si
trovano Svizzera, Norvegia, Albania e ben quattro paesi latinoamericani:
Cile, Costa Rica, El Salvador e Uruguay. Il Venezuela si trova in 109a
posizione, preceduto da Turchia, Colombia, Ucraina, Ecuador, Rep. Dominicana, Messico, Romania, Grecia e Bolivia (cfr. Tab. 8).
Dal 2002, Reporters Without Borders pubblica annualmente l’Indice di libertà di stampa (World Press Freedom Index) che si propone
come misura del livello complessivo della libertà di informazione (2014).
Costruito su un set di indicatori quantitativi e di domande sottoposte
a giornalisti, ricercatori, attivisti, ecc., l’indice riflette il grado di libertà
di cui godono giornalisti, agenzie di stampa e cyber-cittadini e le azioni
intraprese dalle autorità per assicurare il rispetto di tali libertà. Le informazioni includono le violenze subite dai giornalisti, i mezzi di comunicazione censurati, il grado di autocensura dei providers di informazione,
l’ingerenza governativa nei contenuti editoriali, la concentrazione delle
testate giornalistiche e la normativa. La classifica 2014 evidenzia come i
paesi scandinavi dimostrino la capacità di conservare un ambiente ideale
per i mezzi di informazione; lo stesso non si può dire per l’Eritrea, la
Corea del Nord, il Turkmenistan, la Siria o la Cina che occupano la parte
inferiore della graduatoria (cfr. Tab. 9). Nell’America Latina, sebbene gli
apparati statali abbiano compiuto balzi in avanti sulla strada delle libertà,
molti giornalisti e attivisti dei diritti umani sono esposti ad elevati livelli
di violenza come in Honduras, con tassi di omicidi paragonabili a quelli
di uno stato di guerra, in Perù, in Colombia o in Messico i cui operatori
dell’informazione sono sottoposti a rappresaglie nei traffici di droga, corruzione, conflitti di territorio407.
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Sul tema si vedano altresì il Ciri Human Rights Dataset calcolato dall’American Binghamton University che, dal 1981, propone un set di indicatori quantitativi sul rispetto
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Dal Pil al Buen vivir
1.4. Indici compositi di governance e sicurezza internazionale
Dal 2009, il Legatum Institute di Londra pubblica l’Indice di prosperità (Prosperity Index) costruito su un set di 89 variabili suddivise in
otto sub-indici: economia (capacità di raggiungere gli obiettivi macropolitici), imprenditorialità e opportunità (capacità di creare un clima di
fiducia e sviluppare occasioni d’affari), governance (capacità di gestione
della cosa pubblica, partecipazione politica e rispetto delle leggi), istruzione (capacità di garantire l’istruzione, qualità del capitale umano), salute (capacità di prevenire e curare), sicurezza (capacità di garantire la sicurezza nazionale e personale), libertà individuale (capacità di garantire la
libertà individuale e ad incoraggiare la tolleranza sociale), capitale sociale
(capacità di creare coesione sociale e reti familiari) (Li, 2013). A guidare la classifica sono i paesi europei, in particolare quelli nordici, mentre
Congo, Rep. Centroafricana e Ciad la chiudono. Buono è il risultato dei
paesi latinoamericani che, rispetto all’anno precedente, hanno scalato le
posizioni, in particolare nel sub-indice economia. L’Uruguay e il Costa
Rica, collocati al 30° e 31° posto, precedono di poco Cile, Panama, Argentina e Brasile. Tuttavia, tra i paesi analizzati, fatta eccezione per Haiti
che si piazza oltre la 100a posizione, in fondo alla classifica si trovano El
Salvador, Bolivia e a chiudere Guatemala e Honduras (cfr. Tab. 10).
Dal 2003, con cadenza biennale, la Bertelsmann Stiftung calcola l’Indice di trasformazione (Transformation Index) che valuta la capacità dei
paesi in via di sviluppo e in transizione a transitare verso la democrazia e
un’economia di mercato considerate una delle sfide principali della società odierna. Un panel di esperti internazionali attribuisce dei punteggi su
52 temi e l’indice aggrega i risultati elaborando due sub-indici: l’Indice di
status (Status Index) e l’Indice di management (Management Index). L’Indice di status classifica i paesi lungo il percorso verso la democrazia sotto
uno Stato di diritto e verso l’economia di mercato ancorata a principi di
giustizia sociale. I temi affrontati sono: statalismo, partecipazione politica, Stato di diritto, stabilità delle istituzioni democratiche, integrazione
degli Stati di quindici diritti umani internazionalmente riconosciuti (humanrightsdata.
blogspot.it) e l’Indice di libertà nel mondo (Index of Freedom in the World) elaborato da
Freedom House che propone una misura dei diritti politici e delle libertà civili (http://
www.freedomhouse.org), oggetto di diverse critiche (Ieraci, Paulon, 2010).
Moreno Zago
343
politica e sociale, sviluppo socio-economico, concorrenza e mercato, valuta e stabilità dei prezzi, proprietà privata, welfare, performance economica, sostenibilità. Taiwan, Rep. Ceca ed Estonia sono i paesi al vertice
della graduatoria. Tra i primi dieci si trovano altresì Uruguay (4°), Cile
(8°) e Costa Rica (10°). Somalia, Eritrea e Corea del Nord chiudono l’elenco di paesi (cfr. Tab. 11). Basato su venti indicatori, l’Indice di management, invece, si concentra su quanto efficacemente i politici facilitano i
processi di trasformazione relativamente a: difficoltà gestionale, uso efficiente delle risorse, capacità di guida, costruzione del consenso, cooperazione internazionale. Una trasformazione di successo necessita coerenza
nel perseguire i propri obiettivi, un uso saggio ed efficiente delle risorse,
un ampio consenso politico ed una collaborazione con gli Stati limitrofi.
Tra i primi dieci paesi, si trovano tre paesi latinoamericani: Uruguay (2°),
Brasile (3°) e Cile (4°) seguiti a breve distanza da El Salvador e Costa
Rica. Questi condividono il vertice con i paesi dell’Est: Estonia, Polonia,
Slovacchia, Lituania e Lettonia. Il Venezuela si trova tra gli ultimi dieci
assieme a Bielorussia, Bosnia-Erzegovina, Haiti e Cuba (cfr. Tab. 12).
Dal 1995 la tedesca Transparency International propone l’Indice di
percezione della corruzione (Corruption Perceptions Index), una misura
del livello di corruzione percepita nei pubblici uffici e nella politica (Ti,
2013). L’indice di corruzione è calcolato utilizzando tredici diverse fonti
statistiche delle principali organizzazioni internazionali che catturano la
percezione della corruzione, intesa come l’abuso di pubblici ufficiali per
il guadagno privato, i cui valori vengono standardizzati su una scala 0
paese percepito come molto corrotto-100 paese con una percezione della
corruzione nulla. I paesi percepiti come più corrotti sono Somalia, Corea
del Nord, Afghanistan, Sudan e Libia. Nuovamente i paesi del Nord Europa occupano la testa della classifica mentre ben dodici paesi dell’America Latina si collocano oltre la centesima posizione. Un po’ meno bene
Costa Rica, Cuba e Brasile, molto meglio Uruguay e Cile, rispettivamente
al 19° e al 22° posto (cfr. Tab. 13).
L’Institute for Economics and Peace (2013) pubblica un rapporto sulla pace nel mondo, denominato Indice di pace globale (Global Peace Index). L’indice comprende 22 indicatori qualitativi e quantitativi per 162
paesi selezionati da un panel internazionale di esperti e suddivisi in tre
tematiche: conflitti interni ed internazionali (numero di conflitti arma-
Dal Pil al Buen vivir
Moreno Zago
ti, numero di decessi in conflitti armati, relazioni con i paesi confinanti,
ecc.), sicurezza sociale (instabilità politica, attività terroristica, percezione della criminalità, numero di omicidi, numero di carcerati, impiegati
nelle forze dell’ordine, ecc.), sicurezza e militarizzazione (spese militari,
impiegati nelle forze armate, capacità di armamenti pesanti e nucleari,
ecc.). L’indice colloca al vertice l’Islanda, seguita da Danimarca, Nuova
Zelanda, Austria, Svizzera, Giappone. In fondo alla graduatoria si trovano, invece, l’Afghanistan, preceduto da Somalia, Siria, Iraq, Sudan, Pakistan, Congo, Russia, Corea del Nord, Rep. Centroafricana. L’Europa
è considerata la regione più pacifica con ben 13 paesi classificati tra i
primi 20 (cfr. Tab. 14). Diverso è il discorso per i paesi del Sudamerica,
considerata una delle regioni più violente al mondo – Brasile, Colombia,
Honduras, Venezuela registrano preoccupanti tassi di omicidi – a causa
anche della presenza di gruppi criminali internazionali, corruzione (Messico), debolezza degli indicatori sociali. La presenza di Stati forti (Cile,
Uruguay, Cuba) e la volontà a risolvere per via diplomatica le controversie – ad es. tra Colombia e Venezuela o tra Cile e Perù – hanno attenuato
questa tendenza nonché ridotto le spese militari. Rimane ancora aperto
il conflitto civile in Colombia nonostante i costanti tentativi del governo
di trovare un accordo di pace con le forze armate rivoluzionare del paese
(Iep, 2013: 10 s.).
L’Istituto propone dal 2012 anche l’Indice di pace positiva (Positive
Peace Index) che misura la forza degli atteggiamenti, delle istituzioni e
delle strutture di 126 paesi per determinare la loro capacità di creare e
mantenere una società pacifica. I 24 indicatori elaborati ruotano attorno
a otto categorie: governo efficiente, ambiente economico propositivo, distribuzione equa delle risorse, rispetto dei diritti, buone relazioni con i
paesi vicini, libera circolazione delle informazioni, alti livelli di capitale
umano, bassi livelli di corruzione. Un indice elevato contribuisce a degli
output sociali ed economici altrettanto positivi: i paesi con un elevato
indice hanno un reddito pro capite più alto, una distribuzione più equa
delle risorse, migliori livelli di salute e istruzione, una maggiore fiducia
tra i cittadini e una maggiore coesione sociale (Iep, 2013: 18). L’analisi dei
risultati evidenzia nelle prime dieci posizione ben cinque paesi nordici
(Danimarca, Norvegia, Finlandia, Svezia e Islanda) – gli altri sono Svizzera, Paesi Bassi, Austria, Nuova Zelanda e Australia – mentre nelle ultime
dieci si trovano sei paesi dell’Africa subsahariana (Congo, Burundi, Costa d’Avorio, Nigeria, Rep. Centroafricana, Ciad), tre asiatici (Pakistan,
Uzbekistan, Yemen) e uno latinoamericano (Haiti). Fatta eccezione per
il Cile e l’Uruguay che si collocano in classi di indice elevato, parte degli
altri paesi latinoamericani si piazzano in posizioni medio-basse (cfr. Tab.
15).
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345
1.5. Indici compositi di felicità
Il benessere e la qualità della vita passano anche attraverso la felicità,
un concetto complesso che si costruisce attraverso la relazionalità tra le
persone ma anche nella capacità di tenere assieme le diverse esperienze
della vita: dall’innamoramento all’elaborazione di un lutto, dalla gioia
per un successo alla tristezza per una sconfitta, dalla complicità con gli
amici all’abbandono del partner (Schmid, 2014) e il termine inglese –
happiness, da happen – ricorda la dimensione fortuita degli stati edonici.
Costruire un indice della felicità facilita i governi a valutare l’efficacia
delle proprie azioni sulla soddisfazione complessiva dei propri cittadini
aiutandoli a vivere meglio o, perlomeno, a percepire una realtà per cui dichiararsi soddisfatti. Il Buthan, piccolo Stato alle pendici dell’Himalaya,
il cui art. 1 della costituzione recita che «Tutti i cittadini hanno diritto a
essere felici», già dagli anni ‘70 propone l’Indicatore della felicità interna
lorda (Gross National Happiness). L’indice si focalizza su 33 indicatori
suddivisi in nove dimensioni: benessere psicologico, salute, istruzione,
cultura, uso del tempo, buon governo, vitalità della comunità, diversità
ecologica e resilienza, standard di vita. Essendo finalizzato a promuovere
uno sviluppo economico equo e sostenibile affinché ogni cittadino possa
godere degli stessi benefici di partenza, esso non è dunque incentrato
esclusivamente sulla produzione e consumo di beni e servizi (Ura, 2012).
Un importante punto di riferimento sullo stato della felicità a livello mondiale è costituito dal Rapporto sulla Felicità Mondiale edito dal
Earth Institute della Columbia University, sponsorizzato dal Sustainable
Development Solutions Network delle Nazioni Unite che dal 2012 propone un indice di soddisfazione degli abitanti del pianeta (Helliwell et
al., 2013). A differenza dei precedenti approcci basati sugli indicatori
Dal Pil al Buen vivir
Moreno Zago
quantitativi, il metodo di analisi è quello delle interviste ad un campione
di persone residenti nei vari paesi invitate ad esprimere una valutazione
sulla loro condizione di vita. Le variabili prese in considerazione sono: il
reddito, l’aspettativa di vita in buona salute, il sostegno sociale nei momenti difficili, la percezione della corruzione, la diffusione della generosità, la libertà di fare le proprie scelte. A livello globale, la felicità del pianeta si attesta su un punteggio medio di 5,1 (su scala 0-10). I paesi più felici
sono europei: Danimarca, Norvegia, Svizzera, Paesi Bassi, Svezia, mentre
in fondo alla classifica della felicità si trovano paesi africani: Ruanda, Burundi, Rep. Centroafricana, Benin e Togo (cfr. Tab. 16). Il divario tra i
primi e gli ultimi cinque paesi è notevole: circa 2,5 volte la media (7,48 vs.
2,94). Rispetto al precedente rapporto, i valori per i paesi latinoamericani
migliorano mentre è in declino la qualità della vita nei paesi europei maggiormente colpiti dalla crisi economica come Grecia, Portogallo, Spagna
e Italia (45a posizione). Si segnala, in particolare, come gli Stati Uniti
d’America (17i) si collochino al di sotto di Costa Rica, Panama e Messico
(16°): sicuramente un elemento di dissuasione per quei sudamericani che
si spingono illegalmente oltre il confine americano!
Più recentemente, la New Economic Foundation di Londra ha proposto l’Indice del pianeta felice (Happy Planet Index) basato sul presupposto che vi sia un collegamento tra felicità umana e rispetto dell’ambiente
(Abdallah, 2012). L’indice adotta tre criteri: la soddisfazione per la propria vita (includendo le relazioni con gli altri, il senso di appartenenza a
una comunità, le opportunità, il coinvolgimento in attività utili e appaganti), l’aspettativa di vita e l’impronta ecologica. Calcolato su 151 paesi, l’obiettivo dell’indice non è stabilire quali siano i paesi più felici, ma
quali siano in grado di raggiungere lo scopo senza abusare delle risorse
naturali disponibili. Se nella parte inferiore della graduatoria si piazzano
i paesi africani e medio-orientali che peccano di attenzione ambientale e
di prospettive sociali (Botswana, Chad, Qatar, Rep. Centroafricana, Mali,
Bahrain), al vertice della felicità si piazza il Costa Rica, un paese ricco di
biodiversità ed una meta turistica per gli amanti della natura. È naturale
che la sostenibilità ambientale sia diventata, quindi, un fattore decisivo di
sviluppo; inoltre, il paese investe molto in programmi educativi e sociosanitari. Si collocano, inoltre, ai primi posti, quasi tutti i paesi dell’America
Latina mentre quelli europei, pur presentando elevati valori negli indici
dell’aspettativa di vita e una buona qualità della vita, registrano un’elevata impronta ecologica che li fanno scivolare verso posizioni di metà
classifica (cfr. Tab. 17).
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2. Misurare il buen vivir
Gli indici di sviluppo e di benessere presentati nel paragrafo precedente risentono di una visione occidentale neoclassica poiché l’attenzione è incentrata principalmente sulla crescita o il raggiungimento di certi
risultati e le comparazioni, anche temporali, avvengono sempre spingendo verso l’alto l’output complessivo. L’inserimento delle problematiche
ambientali ha evidenziato il bisogno di porre attenzione allo sviluppo di
un paese non solo nelle sue dimensioni economica e umana418. Il buen vivir
o vivir bien, analogamente, è un concetto complesso che assume sfumature di significato diverse a seconda del popolo andino che lo ha sviluppato.
Sumak kawsay – nella lingua kichwa – esprime l’idea di una vita buona
non in confronto a quella di altri ma definita nei termini della propria
cultura; suma qamaña – nella lingua aymara – introduce l’elemento della
comunità così da renderlo traducibile in “buon convivere”, una società
buona per tutti e in armonia con la Madre Terra (Huanacuni Mamani,
2012; Maité, 2011). Il buen vivir è un concetto che include i modi di vita
e la cosmovisione dei popoli indigeni delle Ande ma si proietta al di fuori
di questa realtà poiché rappresenta l’opportunità di costruire un società
diversa, pacifica, in armonia con la comunità e con la natura (Monni,
Pallottino, 2013; Rojas, 2009). L’idea di sviluppo che si propone è basata sulle specificità etniche (etnodesarrollo), autoctone (autodesarrollo)
Ramírez Gallegos (2012) propone una misura del buen vivir, denominata Indice di vita
sana e ben vissuta (Indice de Vida Saludable y Bien Vivida). L’Ivsbv è funzione della percentuale di tempo ben vissuto, l’aspettativa di vita, la parte di vita trascorsa in malattia,
il tasso di scolarizzazione e l’indice di disparità (coefficiente di Gini), dove il tempo ben
vissuto è quello dedicato alla contemplazione (produzione e consumo di arte, sport,
crescita individuale, lettura, musica, natura, riflessione e meditazione) + il tempo sociale
+ il tempo pubblico (partecipazione ad associazioni, volontariato, attività sociali, azioni
di cittadini, politiche o religiose) + il tempo di lavoro. Sulla base di questa misura, gli
ecuadoriani hanno un indice di 11 anni, spendendo in media solo il 14% della loro vita
a vivere bene.
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Dal Pil al Buen vivir
Moreno Zago
e identitarie (desarrollo con identitad), modalità proposte dai popoli indigeni che sono le principali vittime dei modelli di sviluppo occidentali,
della crisi economica e ambientale, della perdita di biodiversità e degli
spazi di vita delle comunità locali di questi ultimi anni ma desiderosi di
incrementare la capacità di decisione nello scegliere il modello di sviluppo a cui ispirarsi (Canqui Mollo, 2011: 27 ss.). È inoltre curioso osservare
che il termine sviluppo (desarrollo) non trova traduzione nelle lingue indigene, utilizzando il termine buen vivir.
Differentemente dal concetto occidentale di benessere, prevalentemente incentrato sull’accumulazione di beni materiali, il buen vivir si
basa su tre principi – complementarietà, reciprocità, valori – e su cinque
pilastri: armonia con la natura (utilizzo sostenibile delle risorse), recupero dell’identità (personale ed etnica in termini di affettività, dignità,
riconoscimento, autonomia), comunione (partecipazione sociale, politica
ed economica), spiritualità e intrattenimento, soddisfazione dei bisogni
di base (evitando l’accumulo) (Canqui Mollo, 2011: 31 ss.). L’inserimento di questa visione nelle costituzioni boliviana (2009) ed ecuadoriana
(2008) e nei piani pluriennali di sviluppo di questi paesi costituisce un
ulteriore passo verso una maggior attenzione degli Stati all’individuo, alla
comunità, ai popoli e alla Terra. Secondo Huanacuni Mamani (2012), lo
Stato deve avere: capacità di prendersi cura della vita e di produrre senza
depredare l’ambiente; capacità sociale basata su politiche di distribuzione e redistribuzione; capacità produttiva mirata a ottenere il necessario
per garantire l’accessibilità ai servizi essenziali; capacità di articolare e
relazionarsi o convivere con i paesi circostanti.
Qui si vuole proporre una misura del buen vivir alla luce delle definizioni date. Il punto di partenza è il Plan Nacional de Desarrollo para el Buen
Vivir 2009-2013 dell’Ecuador, che segue l’approvazione della costituzione
e che individua nel buen vivir un approccio multidimensionale e olistico
da sviluppare attraverso il raggiungimento di dodici obiettivi (parzialmente ripresi anche nel Piano successivo 2013-17) e qui suddivisi in quattro
dimensioni. Per ciascuno di essi saranno proposti degli indicatori di output – intesi in termini di redistribuzione delle risorse, dei consumi, delle
dipendenze dall’esterno, ecc. – disponibili presso le principali banche-dati
internazionali che andranno a definire l’indice composito tale da consentire una comparazione tra i paesi latinoamericani con quelli europei.
A. Dimensione della giustizia sociale
Ob. 1. Favorire l’uguaglianza, la coesione e l’integrazione sociale e
territoriale nella diversità. Compito dello Stato è garantire i diritti a tutti
e prevenire l’esclusione sociale, economica e politica per raggiungere una
vita dignitosa con accesso ai servizi di base (sanità, istruzione, prevenzione, ecc.).
Ob. 2. Migliorare le capacità e potenzialità dei cittadini. Compito dello Stato è garantire la parità d’accesso all’istruzione, promuovere il ruolo
della conoscenza, della ricerca responsabile nei confronti della società e
della natura.
Ob. 3. Migliorare la qualità della vita della popolazione. Compito dello Stato è creare le condizioni per soddisfare i bisogni materiali, psicologici e sociali dei cittadini incrementando la soddisfazione individuale e
collettiva nella costruzione di un progetto di vita comune.
Indicatori di risultato:
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Prodotto interno lordo ($ pc PPP; Wp 2012)
Anni di scuola frequentata (media; Undp 2010)
Spesa pubblica in istruzione (% Pil; Undp 2005-10)
Spesa pubblica in ricerca e sviluppo (% Pil; Undp 2005-10)
Soddisfazione per la qualità del sistema educativo (% soddisfatti; Undp
2011)
Speranza di vita alla nascita (anni; Undp 2012)
Spesa pubblica sanitaria (% Pil; Undp 2010)
Soddisfazione per la qualità dell’assistenza sanitaria (% soddisfatti; Undp
2007-09)
Miglioramento delle fonti acquifere (% pop. con accesso; Wb 2012)
Soddisfazione complessiva per la propria vita (% soddisfatti; Undp 2012)
Spesa familiare per i consumi (% Pil; Wb 2012)
Indice composito di disuguaglianza di genere (Undp 2012)
B. Dimensione della giustizia economica e intergenerazionale
Ob. 4. Garantire i diritti della natura e promuovere un ambiente sano
e sostenibile. Compito dello Stato è preservare lo status della natura, garantire la sua riproducibilità e rigenerazione come impegno intergenerazionale attraverso azioni sostenibili.
Ob. 6. Garantire un lavoro stabile, giusto e dignitoso nelle sue diverse
forme. Compito dello Stato è far sì che il lavoro non sia considerato un
fattore di produzione ma un elemento chiave per vivere meglio rispettan-
350
Dal Pil al Buen vivir
Moreno Zago
do e potenziando le capacità degli individui.
Ob. 11. Consolidare il sistema economico sociale, solidale e sostenibile. Compito dello Stato è implementare un sistema di regole che favoriscano la creazione di posti di lavoro stabili e inclusivi, una produzione
rispettosa della natura, una redistribuzione della ricchezza.
Indicatori di risultato:
Popolazione occupata (% pop. tot. ≥25 anni; Undp 2011)
Disoccupazione giovanile (% pop. età 15-24 anni; Undp 2005-11)
Impiegati precari (% impiegati tot.; Wb 2012)
Soddisfazione per il proprio lavoro (% soddisfatti; Undp 2007-11)
Coefficiente di Gini del reddito (Undp 2000-10)
Soddisfazione per lo sviluppo locale (% soddisfatti; Undp 2007-11)
Indice composito dell’Impronta ecologica (Gfn 2008)
Esaurimento delle risorse naturali (% Pnl; Undp 2010)
Fornitura di energia rinnovabile (% energia tot.; Undp 2009)
Emissione di CO2 (t pc; Undp 2008)
Popolazione in città con oltre un milione di abitanti (% pop. totale; Undp
2012)
- Popolazione che vive in terre degradate (% pop. tot.; Undp 2010)
-
C. Dimensione della giustizia democratica partecipativa
Ob. 7. Costruire e potenziare spazi pubblici, interculturali e di incontro. Compito dello Stato è assicurare le condizioni per esprimere la
diversità nell’unità attraverso l’uso di simboli derivanti dalle memorie
individuali e collettive e dal patrimonio culturale tangibile e intangibile.
Ob. 8. Sostenere e rafforzare l’identità nazionale, le identità diverse,
il plurinazionalismo e l’interculturalismo. Compito dello Stato è preservare e rivitalizzare il patrimonio culturale nazionale e delle realtà etnicolinguistiche e favorire il rispetto delle differenze.
Ob. 10. Garantire l’accesso e la partecipazione pubblica e politica.
Compito dello Stato è favorire la partecipazione dei cittadini nelle decisioni relative alla pianificazione, gestione e controllo delle politiche
pubbliche, garantendo trasparenza nelle informazioni, l’accesso agli atti
pubblici e rimuovere gli ostacoli che non garantiscono la parità di rappresentazione.
Indicatori di risultato:
- Fiducia nella gente (% soddisfatti; Undp 2011)
- Indice composito di libertà di stampa (Rwb 2014)
-
351
Libertà di scelta (% soddisfatti; Undp 2007-11)
Utenti di internet (% pop.; Undp 2010)
Utenze telefoniche fisse e mobili (% pop.; Undp 2010)
Donne elette nel Parlamento nazionale (% seggi; Undp 2012)
Motorizzazione (veicoli a motore x 1.000 ab.; Wb 2011)
Mobilità per turismo (% partenze x pop.; Wb 2012)
D. Dimensione della giustizia nazionale e transnazionale
Ob. 5. Garantire la sovranità e la pace, promuovere l’inserimento strategico del paese nel mondo e l’integrazione latinoamericana. Compito
dello Stato è rafforzare le relazioni con i paesi limitrofi in un’ottica di
sicurezza regionale e di sovranità alimentare.
Ob. 9. Garantire il rispetto dei diritti e della giustizia. Compito dello
Stato è rafforzare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nell’amministrazione della giustizia, garantire il rispetto dei diritti e ridurre il senso
di insicurezza.
Ob. 12. Costruire uno Stato democratico per il buen vivir. Compito
dello Stato è rafforzare il proprio ruolo a garanzia di una redistribuzione
delle risorse, riconoscere il carattere plurinazionale e interculturale, promuovere il decentramento amministrativo.
Indicatori di risultato:
- Indice composito di pace positiva (Iep 2013)
-
Spesa pubblica militare (% Pil; Undp 2010)
Indice composito di corruzione (Ti 2013)
Fiducia nel governo nazionale (% soddisfatti; Undp 2007-11)
Tasso di omicidi (x 100.000; Undp 2004-11)
Percezione della sicurezza interna (% sicuri; Undp 2007-11)
Indice di produzione alimentare (2004-06=100; Wb 2012)
Produzione agricola (% importazioni; Undp 2010)
2.1. Risultanze: Svezia o Costa Rica?
L’Indice composito del Buen Vivir è costruito applicando il metodo
tassonomico di Wraclaw429. La Tab. 18 riporta la graduatoria dei paesi sulla
9
Il metodo, formulato nel 1952 da un gruppo di matematici dell’università di Wroclaw,
Dal Pil al Buen vivir
Moreno Zago
base dell’indice calcolato sui 40 indicatori. Al vertice si piazzano i paesi
nordici (Svezia, Finlandia, Islanda, Norvegia, Danimarca) e quelli di lingua tedesca. I primi paesi latinoamericani sono il Costa Rica, l’Argentina
e l’Uruguay, rispettivamente al 19°, 24° e 25° posto. Nelle ultime dieci
posizioni si trovano ben sette paesi: Colombia, Bolivia, Venezuela, Perù,
Rep. Dominicana, Honduras e a chiudere Haiti, preceduti da Guatemala
ed Ecuador. Questi paesi condividono i risultati negativi con Macedonia,
Ucraina, Moldavia, Bosnia-Erzegovina. La differenza di valore tra il primo e l’ultimo paese è di appena 0,476 punti. In effetti, sebbene l’ultimo
paese (Haiti) abbia un valore prossimo a 1, il valore del paese in testa è di
0,489, ben distante dallo 0 che rappresenta l’insieme dei valori migliori
di ciascun indicatore (paese ideale). Ciò significa che i paesi presentano
delle performance sostanzialmente differenti alternandosi nelle diverse
posizioni nelle graduatorie dei singoli indicatori.
La Tab. 20 evidenzia le dimensioni che hanno pesato maggiormente
sulla graduatoria complessiva. Questa, infatti, riporta le posizioni raggiunte da ciascun paese all’interno delle quattro dimensioni analizzate:
giustizia sociale, economica e intergenerazionale, democratica partecipativa e politica nazionale e transnazionale. Per il Costa Rica, è la giustizia
economica e intergenerazionale a incidere sul buon risultato, in particolare le performance ambientali, così come per il Paraguay (1°), Panama
(13°), Brasile (15°). In questa dimensione, pur trovandosi tra gli ultimi
venti, emergono anche Guatemala (4°) e El Salvador (6°). Particolarmente buono è il risultato concernente la giustizia politica: Uruguay, Argentina, Panama e Brasile si piazzano nei primi venti. Le posizioni degli altri
paesi, in particolare di Ecuador e Bolivia, riflettono quelle relative all’interno delle singole dimensioni.
Per i paesi europei, pur trovandosi fra i primi venti, il Portogallo scende al 45° posto per quanto concerne la giustizia sociale, mentre risultati
che hanno compromesso significativamente la posizione finale, li fanno
registrare nella dimensione della giustizia economica e intergeneraziona-
le: Lussemburgo (59°), Spagna (50°), Belgio (43°), Irlanda (40°). Anche
Italia, Montenegro, Ungheria e Croazia hanno avuto scivolamenti analoghi. Nella dimensione della giustizia politica nazionale e transnazionale,
performance negative si hanno per Portogallo (45°) e Slovenia (40°). Non
meglio sono andate Italia (48°), Lettonia (47°), Lituania (42°) e Cipro
(44°) anche se le posizioni per l’indice complessivo di questi paesi non si
trovano nelle prime venti.
Da un raffronto con la graduatoria della misura del Pil emergono alcune differenze sostanziali (cfr. Tab. 19). Ben 27 paesi hanno migliorato il
piazzamento nella graduatoria dell’Ibv rispetto a quella del Pil: 7 paesi di
dieci posizioni ed oltre. In particolare, sono proprio alcuni paesi dell’America Latina a fare il balzo in avanti: Costa Rica e Argentina (+23), Paraguay e Nicaragua (+16), El Salvador (+10). Dei paesi europei solo Albania (+14) e Montenegro (+10) registrano performance così elevate. Ma
se c’è qualcuno che sale, ci deve essere necessariamente anche qualcuno
che scende: Venezuela (-19), Cile, Perù, Rep. Dominicana (-10), Cuba
(-9), Colombia (-7). Questi sono, però, in compagnia di Grecia (-25),
Lussemburgo (-15), Italia (-13) e Romania (-11).
Dal confronto emerge l’inadeguatezza del Pil a cogliere le sfumature
di una qualità della vita fatta di cose non necessariamente legate all’accumulo di ricchezza. L’Indice qui proposto mescola, sulla base di surveys e
indicatori internazionali stabili e condivisi, misurazioni oggettive e giudizi di merito (Guardiola, 2011; Pallante, 2009). Questo perché individui
soddisfatti tendono a essere anche più produttivi, a vivere più a lungo e
a essere cittadini migliori (Helliwell et al., 2012). Tuttavia, l’Indice, come
del resto lo stesso Pil, non è in grado di registrare il complesso di fenomeni non market o le differenze regionali ed etniche, così come trascura
il ruolo svolto dalle famiglie e dalla solidarietà comunitaria nella produttività, nella formazione del capitale umano, nel sostegno economico
ai figli o ai genitori o nell’assorbire l’aumento dei costi dei servizi essenziali. Tuttavia, è importante ribadire che nessun indice sul benessere o
sullo sviluppo è perfetto poiché implica la disponibilità e l’affidabilità
degli indicatori e riflette la visione delle priorità di chi lo propone che
poi orientano le esigenze e le politiche da attuare (Phélan, 2011). L’indice
proposto trae origine proprio dalle esigenze e dalle politiche messe in
campo da uno dei paesi – l’Ecuador – dove l’approccio del buen vivir
352
individua un paese ideale costituito dall’insieme dei valori standardizzati migliori di
ciascun indicatore. Poi, calcola la distanza di ogni paese dal paese ideale e distribuisce il
valore nell’intervallo 0-1 dove 0 rappresenta il risultato del vettore riga dei valori migliori
degli indicatori (Faenza, Zago, 1992). I pochi valori assenti (2,7%) sono stati sostituiti
dalle medie del gruppo regionale o reddituale di appartenenza.
353
Dal Pil al Buen vivir
Moreno Zago
ha trovato supporto nelle azioni statali e governative improntate a vivere
meglio nel segno della giustizia sociale, economica, politica e, soprattutto, ambientale.
Il cammino dei paesi latinoamericani si è avviato in tal senso e si è visto che la differenza nei valori dell’Ibv con i paesi europei non è poi così
elevata, segno che entrambe le regioni hanno qualcosa da imparare l’una
dall’altra. In particolare, è il rapporto con la natura che influisce positivamente sull’indice. L’importanza che il buen vivir assegna all’ambiente, il
patto intergenerazionale che obbliga a consegnare alle generazioni future
un pianeta migliore di come lo si è ereditato, la costruzione di uno spazio
di partecipazione in cui dibattere le problematiche ecologiche sono senza
dubbio elementi che suggeriscono un paradigma di sviluppo socio-economico più rispondente ai delicati equilibri naturali del nostro pianeta
(Gudynas, 2011) e che evidenziano anche una sensibilità particolare alla
sostenibilità made in Latinoamérica (Vanhulst, Beling, 2012).
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356
Abstract: For years, the Gross Domestic Product was used to measure
the development of a Country. The scientific debate has warned
both the use of the indicator as a measure of economic growth,
as it ignores the non-market goods and services, illegal activities,
negative externalities or quality of public expenditure, both as a
measure of well-being or quality of life. The remedies offered by
international organizations seek to provide a more realistic measure of the social, political, economic and environmental performance of a Country; however, the composite indexes proposed
are mainly the result of a Western conception. The author, after
having introduced the main indexes and the results applied to a
set of European and Latin American Countries, suggests an index
based on the Andean cosmovision of buen vivir which highlights
the relationship with the land and the community, the balance
with nature and the psychological well-being.
Keywords: Gross Domestic Product, Cultural paradigms, Well-being
Indexes, Buen vivir Index, International comparison.
357
Dal Pil al Buen vivir
Moreno Zago
Tab. 1. Il prodotto interno lordo pro capite in $ Usa (2012)
Tab. 3. L’Impronta ecologica in ettari globali pro capite (2008)
358
N.
1
2
5
9
10
14
15
16
17
19
20
21
24
25
28
30
32
39
40
42
Paese
Lussemb.
Norvegia
Svizzera
Danimarca
Svezia
Austria
Paesi Bassi
Irlanda
Finlandia
Belgio
Germania
Islanda
Francia
Regno Un.
Italia
Spagna
Cipro
Grecia
Slovenia
Malta
Valore
103.925
99.636
78.928
56.364
55.040
46.822
45.990
45.951
45.723
43.427
42.625
42.339
39.772
38.920
33.837
28.292
26.070
22.456
22.011
20.793
N.
43
44
46
47
48
50
52
54
55
58
59
60
62
63
66
69
71
72
74
76
Paese
Portogallo
Rep. Ceca
Slovacchia
Estonia
Cile
Uruguay
Lituania
Lettonia
Croazia
Venezuela
Polonia
Ungheria
Argentina
Brasile
Turchia
Messico
Panama
Costa Rica
Romania
Colombia
Valore
20.188
18.690
16.856
16.844
15.452
14.703
14.172
13.947
13.879
12.729
12.710
12.560
11.573
11.340
10.666
9.749
9.534
9.386
8.437
7.748
N.
82
83
86
88
93
95
99
101
103
104
109
110
111
112
122
130
132
134
137
162
Paese
Monteneg.
Bulgaria
Perù
Bielorussia
Cuba
Rep. Dom.
Ecuador
Serbia
Macedonia
Bosnia-Er.
Albania
Ucraina
Paraguay
El Salvad.
Guatemala
Bolivia
Honduras
Moldavia
Nicaragua
Haiti
Valore
7.041
6.977
6.796
6.685
6.051
5.746
5.425
5.190
4.565
4.556
4.000
3.867
3.813
3.790
3.331
2.576
2.323
2.038
1.754
771
Fonte: data.worldbank.org. Val. max: 103.925$ (Lussemburgo); val min: 251$ (Burundi)
N.
2
40
46
52
56
57
58
63
66
67
71
75
77
78
79
82
84
85
86
90
Paese
Norvegia
Paesi Bassi
Germania
Irlanda
Svezia
Svizzera
Islanda
Danimarca
Belgio
Austria
Francia
Finlandia
Slovenia
Spagna
Italia
Regno Un.
Lussemb.
Rep. Ceca
Grecia
Cipro
Valore
0,955
0,921
0,920
0,916
0,916
0,913
0,906
0,901
0,897
0,895
0,893
0,892
0,892
0,885
0,881
0.875
0,875
0,873
0,860
0,848
N.
32
33
35
37
39
40
41
43
44
45
47
50
51
52
56
57
59
59
61
62
Paese
Malta
Estonia
Slovacchia
Ungheria
Polonia
Cile
Lituania
Portogallo
Lettonia
Argentina
Croazia
Bielorussia
Uruguay
Monteneg.
Romania
Bulgaria
Cuba
Panama
Messico
Costa Rica
Valore
0,847
0,846
0,840
0,831
0,821
0,819
0,818
0,816
0,814
0,811
0,805
0,793
0,792
0,791
0,786
0,782
0,780
0,780
0,775
0,773
N.
64
70
71
77
78
78
81
85
89
90
91
96
107
108
111
113
120
129
133
161
Paese
Serbia
Albania
Venezuela
Perù
Macedonia
Ucraina
Bosnia-Er.
Brasile
Ecuador
Turchia
Colombia
Rep. Dom.
El Salvad.
Bolivia
Paraguay
Moldavia
Honduras
Nicaragua
Guatemala
Haiti
Fonte: hdr.undp.org. Val. max: 0,955 (Norvegia); val min: 0,304 (Niger).
Valore
0,598
1,423
1,560
1,733
1,780
1,801
1,812
1,895
1,993
2,030
2,096
2,368
2,520
2,555
2,567
2,606
2,709
2,739
2,837
2,935
N.
91
92
93
95
96
97
98
99
101
102
105
107
110
111
113
115
116
118
120
121
Paese
Panama
Paraguay
Venezuela
Ucraina
Cile
Messico
Bulgaria
Ungheria
Polonia
Lettonia
Bielorussia
Portogallo
Croazia
Malta
Lituania
Cipro
Italia
Germania
Slovacchia
Regno Un.
Valore
2,966
2,995
3,025
3,194
3,238
3,298
3,565
3,591
3,938
3,954
3,988
4,117
4,194
4,255
4,384
4,442
4,525
4,566
4,661
4,713
N.
122
123
124
125
126
127
128
129
130
131
132
134
137
138
139
141
144
147
150
Paese
Estonia
Spagna
Norvegia
Francia
Grecia
Svizzera
Uruguay
Slovenia
Rep. Ceca
Austria
Macedonia
Svezia
Finlandia
Irlanda
Paesi Bassi
Islanda
Belgio
Danimarca
Lussemb.
Valore
4,735
4,740
4,769
4,911
4,921
5,013
5,079
5,211
5,274
5,291
5,364
5,708
6,211
6,215
6,336
6,539
7,111
8,254
10,724
Fonte: www.footprintnetwork.org. Val. min: 0,540 gha (Afghan.); val min: 11,676 gha (Qatar).
Tab. 4. L’Indice della società sostenibile (2012)
Tab. 2. L’Indice di sviluppo umano (2012)
N.
1
4
5
7
8
9
13
15
17
18
20
21
21
23
25
26
26
28
29
31
Paese
Haiti
Rep. Dom.
Nicaragua
Honduras
Guatemala
Colombia
Albania
Cuba
El Salvad.
Perù
Moldavia
Ecuador
Costa Rica
Turchia
Serbia
Bolivia
Argentina
Bosnia-Er.
Romania
Brasile
359
Valore
0,769
0,749
0,748
0,741
0,740
0,740
0,735
0,730
0,724
0,722
0,719
0,702
0,680
0,675
0,669
0,660
0,632
0,599
0,581
0,456
N.
1
2
3
4
5
6
7
8
9
12
13
15
16
17
19
20
21
22
23
24
Paese
Svizzera
Svezia
Austria
Lettonia
Norvegia
Costa Rica
Slovenia
Finlandia
Slovacchia
Rep. Dom.
Albania
Guatemala
Italia
Lituania
Monteneg.
Rep. Ceca
Argentina
Germania
Uruguay
Croazia
Valore
7,36
6,73
6,56
6,46
6,38
6,15
6,12
6,09
6,01
5,77
5,76
5,69
5,69
5,68
5,60
5,57
5,57
5,56
5,56
5,55
N.
25
26
27
28
29
32
33
34
35
37
40
42
43
44
45
46
48
49
50
56
Paese
Polonia
Honduras
Lussemb.
Regno Un.
Romania
Brasile
Ecuador
Danimarca
Colombia
Francia
Panama
Ungheria
Messico
Paesi Bassi
Portogallo
Perù
Nicaragua
Paraguay
Bulgaria
Spagna
Valore
5,54
5,53
5,53
5,52
5,48
5,47
5,47
5,45
5,45
5,38
5,31
5,29
5,27
5,26
5,23
5,23
5,14
5,13
5,13
5,07
N.
61
63
65
66
68
70
74
76
78
80
88
89
92
97
102
108
121
126
132
135
Paese
El Salvad.
Bolivia
Venezuela
Estonia
Macedonia
Bielorussia
Moldavia
Cuba
Belgio
Turchia
Cile
Cipro
Islanda
Serbia
Ucraina
Grecia
Irlanda
Haiti
Bosnia-Er.
Malta
Fonte: www.ssfindex.com. Val. max: 7,36 (Svizzera); val min: 2,96 (Yemen).
Valore
5,00
4,98
4,96
4,96
4,94
4,94
4,87
4,83
4,79
4,77
4,68
4,66
4,62
4,50
4,42
4,32
4,16
4,04
3,92
3,87
Dal Pil al Buen vivir
Moreno Zago
Tab. 5. L’Indice di sostenibilità Feem (2012)
Tab. 8. L’Indice di libertà umana (2011)
360
N.
1
2
3
4
5
6
7
10
Paese
Svezia
Norvegia
Svizzera
Austria
Finlandia
Francia
Danimarca
Benelux
Valore
0,625
0,581
0,580
0,560
0,541
0,530
0,504
0,487
N.
11
12
14
15
16
17
20
21
Paese
Ue altri
Irlanda
Regno Un.
Germania
Eu altri
A.L. altri
Brasile
Italia
Valore
0,481
0,479
0,461
0,455
0,449
0,444
0,429
0,426
N.
23
24
25
26
28
29
35
Paese
Portogallo
Polonia
Turchia
Spagna
Messico
Mondo alt.
Grecia
Valore
0,419
0,413
0,408
0,405
0,380
0,377
0,318
Fonte: www.feemsi.org. Val. max: 0,625 (Svezia); val min: 0,281 (India).
Tab. 6. L’Indice multidimensionale di povertà (vari anni)
N.
1
1
1
7
7
10
13
13
13
17
Paese
Slovenia
Slovacchia
Bielorussia
Serbia
Bosnia-Er.
Albania
Lettonia
Uruguay
Monteneg.
Moldavia
Valore
0,000
0,000
0,000
0,003
0,003
0,005
0,006
0,006
0,006
0,007
N.
18
18
22
23
25
25
27
28
28
31
Paese
Ucraina
Macedonia
Ecuador
Rep. Ceca
Argentina
Brasile
Messico
Ungheria
Croazia
Rep. Dom.
Valore
0,008
0,008
0,009
0,010
0,011
0,011
0,015
0,016
0,016
0,018
N.
38
41
42
49
51
54
57
58
64
78
Paese
Colombia
Estonia
Turchia
Paraguay
Perù
Bolivia
Guatemala
Nicaragua
Honduras
Haiti
Valore
0,022
0,026
0,028
0,064
0,066
0,089
0,127
0,128
0,159
0,299
Fonte: hdr.undp.org. Val. max: 0,000 (Slovenia et al.); val min: 0,642 (Niger).
Tab. 7. L’Indice di disparità di genere (2013)
N.
1
2
3
4
6
8
9
10
11
12
13
14
15
18
19
21
25
27
28
30
Paese
Islanda
Finlandia
Norvegia
Svezia
Irlanda
Danimarca
Svizzera
Nicaragua
Belgio
Lettonia
Paesi Bassi
Germania
Cuba
Regno Un.
Austria
Lussemb.
Ecuador
Bolivia
Lituania
Spagna
Valore
0,8731
0,8421
0,8417
0,8129
0,7823
0,7779
0,7736
0,7715
0,7684
0,7610
0,7608
0,7583
0,7540
0,7440
0,7437
0,7410
0,7389
0,7340
0,7308
0,7266
N.
31
34
35
37
38
42
43
45
49
50
51
52
54
57
59
62
64
68
70
71
Paese
Costa Rica
Argentina
Colombia
Panama
Slovenia
Serbia
Bulgaria
Francia
Croazia
Venezuela
Portogallo
Moldavia
Polonia
Macedonia
Estonia
Brasile
Ucraina
Messico
Romania
Italia
Valore
0,7241
0,7195
0,7171
0,7164
0,7155
0,7116
0,7097
0,7089
0,7069
0,7060
0,7056
0,7037
0,7031
0,7013
0,6997
0,6949
0,6935
0,6917
0,6908
0,6885
N.
72
74
77
79
80
81
85
83
84
87
89
91
96
114
120
Paese
Rep. Dom.
Slovacchia
Uruguay
Cipro
Perù
Grecia
Honduras
Rep. Ceca
Malta
Ungheria
Paraguay
Cile
El Salvad.
Guatemala
Turchia
Fonte: www.weforum.org. Val. max: 0,8731 (Islanda); val min: 0,5128 (Yemen).
Valore
0,6867
0,6857
0,6803
0,6801
0,6787
0,6782
0,6773
0,6770
0,6761
0,6742
0,6724
0,6670
0,6609
0,6304
0,6081
N.
2
6
8
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
27
Paese
Paesi Bassi
Irlanda
Danimarca
Estonia
Svizzera
Norvegia
Finlandia
Austria
Lussemb.
Cile
Islanda
Regno Un.
Slovacchia
Costa Rica
El Salvad.
Uruguay
Spagna
Albania
Portogallo
Malta
Valore
8,47
8,33
8,30
8,28
8,26
8,26
8,16
8,13
8,12
8,12
8,10
8,08
8,07
8,05
8,04
8,03
8,00
7,98
7,97
7,94
N.
28
29
31
32
33
34
35
36
37
38
40
41
42
43
45
48
50
51
52
53
Paese
Panama
Svezia
Ungheria
Belgio
Francia
Rep. Ceca
Germania
Guatemala
Polonia
Perù
Italia
Lituania
Bulgaria
Slovenia
Cipro
Lettonia
Brasile
Haiti
Honduras
Nicaragua
Valore
7,92
7,91
7,87
7,83
7,78
7,78
7,75
7,73
7,73
7,68
7,62
7,61
7,60
7,56
7,53
7,44
7,35
7,34
7,31
7,30
361
N.
54
56
57
64
65
66
68
72
73
79
81
83
109
Paese
Paraguay
Argentina
Croazia
Bolivia
Grecia
Romania
Messico
Rep. Dom.
Ecuador
Ucraina
Colombia
Turchia
Venezuela
Valore
7,27
7,22
7,20
7,07
7,03
7,03
7,00
6,84
6,80
6,49
6,41
6,37
5,42
Fonte: www.freetheworld.com. Val. max: 8,73 (Nuova Zelanda); val min: 3,38 (Zimbabwe).
Tab. 9. L’Indice di libertà di stampa (2014)
N.
1
2
3
4
7
8
10
11
12
13
14
15
16
19
20
21
23
25
26
30
Paese
Finlandia
Paesi Bassi
Norvegia
Lussemb.
Danimarca
Islanda
Svezia
Estonia
Austria
Rep. Ceca
Germania
Svizzera
Irlanda
Polonia
Slovacchia
Costa Rica
Belgio
Cipro
Uruguay
Portogallo
Valore
6.40
6.46
6.52
6.70
7.43
8.50
8.98
9.63
10.01
10.07
10.23
10.47
10.87
11.03
11.39
12.23
12.80
14.45
16.08
17.73
N.
32
33
34
35
37
38
39
45
47
49
51
54
55
56
58
64
65
66
68
71
Paese
Lituania
Regno Un.
Slovenia
Spagna
Lettonia
El Salvad.
Francia
Romania
Haiti
Italia
Malta
Serbia
Argentina
Moldavia
Cile
Ungheria
Croazia
Bosnia-Er.
Rep. Dom.
Nicaragua
Valore
19.20
19.93
20.38
20.63
21.10
21.57
21.89
23.48
23.53
23.75
23.84
25.05
25.27
25.35
25.80
26.73
26.82
26.86
27.17
27.70
N.
85
87
94
95
99
100
104
105
111
114
116
123
125
126
127
129
152
154
157
170
Paese
Albania
Panama
Bolivia
Ecuador
Grecia
Bulgaria
Perù
Paraguay
Brasile
Monteneg.
Venezuela
Macedonia
Guatemala
Colombia
Ucraina
Honduras
Messico
Turchia
Bielorussia
Cuba
Fonte: en.rsf.org. Val. min: 6,38 (Finlandia); val max: 84,83 (Eritrea).
Valore
29.92
30.20
31.04
31.16
31.33
31.42
31.70
31.81
34.03
34.78
35.37
36.43
36.61
36.68
36.93
37.14
45.04
45.87
47.82
70.92
Dal Pil al Buen vivir
Moreno Zago
Tab. 10. L’Indice di prosperità (2013)
Tab. 12. L’Indice di management (2014)
362
N.
1
2
4
6
8
9
10
12
13
14
15
16
17
20
23
24
25
27
29
30
Paese
Norvegia
Svizzera
Svezia
Danimarca
Finlandia
Paesi Bassi
Lussemb.
Irlanda
Islanda
Germania
Austria
Regno Un.
Belgio
Francia
Spagna
Slovenia
Malta
Portogallo
Rep. Ceca
Uruguay
Valore
-
N.
31
32
34
35
36
37
38
40
41
43
45
46
48
49
53
54
55
58
59
64
Paese
Costa Rica
Italia
Polonia
Cile
Estonia
Cipro
Slovacchia
Panama
Ungheria
Lituana
Argentina
Brasile
Lettonia
Bulgaria
Croazia
Grecia
Romania
Bielorussia
Messico
Ucraina
Valore
-
N.
67
68
70
71
73
74
75
76
78
79
83
85
86
87
89
90
96
97
134
Paese
Colombia
Paraguay
Rep. Dom.
Monteneg.
Nicaragua
Ecuador
Perù
Serbia
Venezuela
Macedonia
Albania
El Salvad.
Bolivia
Turchia
Moldavia
Guatemala
Honduras
Bosnia-Er.
Haiti
Valore
-
Fonte: www.prosperity.com. Pos. min: 1 (Norvegia); pos. max: 142 (Ciad).
Tab. 11. L’Indice di status (2014)
N.
2
3
4
5
6
7
8
9
10
12
13
14
16
17
Paese
Rep. Ceca
Estonia
Uruguay
Polonia
Slovenia
Lituania
Cile
Slovacchia
Costa Rica
Lettonia
Croazia
Bulgaria
Ungheria
Brasile
Valore
9,51
9,42
9,33
9,16
9,11
8,98
8,82
8,79
8,74
8,41
8,17
8,14
8,05
8,02
N.
19
20
20
22
25
27
31
32
33
34
37
38
39
41
Paese
Romania
Serbia
Turchia
Monteneg.
El Salvad.
Macedonia
Panama
Perù
Messico
Argentina
Colombia
Albania
Bolivia
Bosnia-Er.
Valore
7,90
7,51
7,51
7,50
7,20
7,17
7,07
7,04
6,85
6,76
6,56
6,55
6,50
6,37
N.
43
45
50
55
57
65
67
79
93
101
104
114
Paese
Rep. Dom.
Moldavia
Paraguay
Honduras
Ucraina
Ecuador
Nicaragua
Guatemala
Venezuela
Bielorussia
Cuba
Haiti
Fonte: www.bti-project.org. Val. max: 9,58 (Taiwan); val min: 1,32 (Somalia).
Valore
6,35
6,33
6,13
5,95
5,89
5,62
5,57
5,15
4,60
4,31
4,13
3,58
N.
2
3
4
5
6
7
8
11
12
13
14
17
18
19
Paese
Uruguay
Brasile
Estonia
Cile
Polonia
Slovacchia
Lituania
El Salvad.
Lettonia
Costa Rica
Turchia
Rep. Ceca
Croazia
Monteneg.
Valore
7,46
7,30
7,26
7,22
7,21
7,09
7,08
6,87
6,82
6,76
6,66
6,57
6,46
6,42
N.
21
21
28
29
36
37
39
42
45
47
47
51
52
54
Paese
Slovenia
Bulgaria
Serbia
Macedonia
Perù
Colombia
Romania
Paraguay
Messico
Moldavia
Honduras
Rep. Dom.
Panama
Bolivia
Valore
6,30
6,30
6,13
6,12
5,94
5,88
5,80
5,75
5,61
5,52
5,52
5,41
5,40
5,34
363
N.
57
63
65
69
69
79
87
100
108
111
119
121
Paese
Albania
Argentina
Ungheria
Nicaragua
Guatemala
Ecuador
Ucraina
Bosnia-Er.
Cuba
Haiti
Bielorussa
Venezuela
Valore
5,17
4,99
4,96
4,84
4,84
4,55
4,25
3,95
3,65
3,53
2,75
2,52
Fonte: www.bti-project.org. Val. max: 7,68 (Taiwan); val min: 1,34 (Eritrea).
Tab. 13. L’Indice di percezione della corruzione (2013)
N.
1
3
3
5
7
8
11
12
12
14
15
19
21
22
22
26
28
31
33
38
Paese
Danimarca
Finlandia
Svezia
Norvegia
Svizzera
Paesi Bassi
Lussemb.
Germania
Islanda
Regno Un.
Belgio
Uruguay
Irlanda
Cile
Francia
Austria
Estonia
Cipro
Portogallo
Polonia
Valore
91
89
89
86
85
83
80
78
78
76
75
73
72
71
71
69
68
63
62
60
N.
40
43
43
45
47
49
49
53
57
57
61
63
67
67
69
69
72
72
72
77
Paese
Spagna
Lituania
Slovenia
Malta
Ungheria
Costa Rica
Lettonia
Turchia
Croazia
Rep. Ceca
Slovacchia
Cuba
Macedonia
Monteneg.
Italia
Romania
Bosnia-Er.
Brasile
Serbia
Bulgaria
Valore
59
57
57
56
54
53
53
50
48
48
47
46
44
44
43
43
42
42
42
41
N.
80
83
83
94
102
102
102
106
106
106
116
123
123
123
127
140
144
150
160
163
Paese
Grecia
El Salvad.
Perù
Colombia
Ecuador
Moldavia
Panama
Argentina
Bolivia
Messico
Albania
Bielorussia
Rep. Dom.
Guatemala
Nicaragua
Honduras
Ucraina
Paraguay
Venezuela
Haiti
Fonte: www.transparency.org. Val. max: 91 (Danimarca); val min: 8 (Somalia).
Valore
40
38
38
36
35
35
35
34
34
34
31
29
29
29
28
26
25
24
20
19
Dal Pil al Buen vivir
364
Moreno Zago
Tab. 14. L’Indice di pace globale (2013)
N.
1
2
4
5
7
9
10
11
12
13
14
15
18
22
23
24
25
27
28
30
Paese
Islanda
Danimarca
Austria
Svizzera
Finlandia
Svezia
Belgio
Norvegia
Irlanda
Slovenia
Rep. Ceca
Germania
Portogallo
Paesi Bassi
Ungheria
Uruguay
Polonia
Spagna
Croazia
Romania
Valore
1.162
1.207
1.250
1.272
1.297
1.319
1.339
1.359
1.370
1.374
1.404
1.431
1.467
1.508
1.520
1.528
1.530
1.563
1.571
1.584
N.
31
33
35
34
38
40
41
43
44
49
53
56
60
62
65
66
68
69
71
73
Paese
Cile
Slovacchia
Italia
Bulgaria
Estonia
Costa Rica
Lettonia
Lituania
Regno Un.
Cipro
Francia
Panama
Argentina
Serbia
Cuba
Nicaragua
Grecia
Albania
Bosnia-Er.
Monteneg.
Valore
1.589
1.622
1.663
1.663
1.710
1.755
1.772
1.784
1.787
1.840
1.863
1.893
1.907
1.912
1.922
1.931
1.957
1.961
1.967
1.976
N.
74
79
81
83
84
86
92
94
96
109
111
112
113
123
128
133
134
147
Paese
Moldavia
Macedonia
Brasile
Ecuador
Paraguay
Bolivia
Haiti
Rep. Dom.
Bielorussia
Guatemala
Ucraina
El Salvad.
Perù
Honduras
Venezuela
Messico
Turchia
Colombia
Tab. 16. L’Indice di felicità (2010-12)
Valore
1.984
2.044
2.051
2.059
2.060
2.062
2.075
2.103
2.117
2.221
2.238
2.240
2.258
2.332
2.370
2.434
2.437
2.634
Fonte: www.economicsandpeace.org. Val. min: 1.162 (Islanda); val max: 3.440 (Afghanistan).
N.
1
2
3
4
5
7
8
9
12
15
16
18
19
20
21
22
24
25
26
28
Paese
Danimarca
Norvegia
Svizzera
Paesi Bassi
Svezia
Finlandia
Austria
Islanda
Costa Rica
Panama
Messico
Irlanda
Lussemb.
Venezuela
Belgio
Regno Un.
Brasile
Francia
Germania
Cile
Paese
Danimarca
Norvegia
Finlandia
Svizzera
Paesi Bassi
Svezia
Islanda
Austria
Irlanda
Germania
Belgio
Regno Un.
Francia
Slovenia
Portogallo
Rep. Ceca
Estonia
Spagna
Cile
Italia
Valore
1,25
1,28
1,30
1,32
1,35
1,37
1,46
1,50
1,54
1,59
1,65
1,67
1,82
1,87
1,87
1,91
1,91
1,97
2,06
2,13
N.
28
29
30
31
32
33
34
39
40
42
44
48
49
50
52
54
56
57
59
66
Paese
Polonia
Lituania
Cipro
Ungheria
Uruguay
Grecia
Lettonia
Bulgaria
Croazia
Romania
Panama
El Salvad.
Argentina
Macedonia
Albania
Brasile
Messico
Perù
Rep. Dom.
Moldavia
Valore
2,14
2,14
2,15
2,16
2,18
2,23
2,25
2,49
2,51
2,58
2,68
2,73
2,73
2,75
2,81
2,84
2,87
2,91
2,92
3,03
N.
67
68
72
73
74
75
76
84
87
96
101
117
Paese
Colombia
Turchia
Ucraina
Guatemala
Paraguay
Nicaragua
Honduras
Ecuador
Bolivia
Bielorussia
Venezuela
Haiti
Valore
3,04
3,04
3,10
3,11
3,12
3,13
3,16
3,26
3,28
3,40
3,42
3,73
Fonte: www.economicsandpeace.org. Val. min: 1,25 (Danimarca); val max: 4,27 (Congo).
Valore
7,693
7,655
7,650
7,512
7,480
7,389
7,369
7,355
7,257
7,143
7,088
7,076
7,054
7,039
6,967
6,883
6,849
6,764
6,672
6,587
N.
29
34
35
37
38
39
44
45
46
47
48
49
50
51
52
53
54
55
58
62
Paese
Argentina
Cipro
Colombia
Uruguay
Spagna
Rep. Ceca
Slovenia
Italia
Slovacchia
Guatemala
Malta
Ecuador
Bolivia
Polonia
El Salvad.
Moldavia
Paraguay
Perù
Croazia
Albania
Valore
6,562
6,466
6,416
6,355
6,322
6,290
6,060
6,021
5,969
5,965
5,964
5,865
5,857
5,822
5,809
5,791
5,779
5,776
5,661
5,550
N.
65
66
70
71
72
77
80
84
85
87
88
90
95
106
107
110
118
126
144
Paese
Nicaragua
Bielorussia
Grecia
Lituania
Estonia
Turchia
Monteneg.
Honduras
Portogallo
Ucraina
Lettonia
Romania
Rep, Dom.
Serbia
Bosnia-Er.
Ungheria
Macedonia
Haiti
Bulgaria
Valore
5,507
5,504
5,435
5,426
5,426
5,345
5,299
5,142
5,101
5,057
5,046
5,033
4,963
4,813
4,813
4,775
4,574
4,341
3,981
Fonte: unsdsn.org. Val. max: 7,693 (Danimarca); val min: 2,936 (Togo).
Tab. 15. L’Indice di pace positiva (2013)
N.
1
2
3
4
5
6
7
8
11
13
14
15
18
20
21
22
23
24
25
27
365
Tab. 17. L’Indice del pianeta felice (2012)
N.
1
3
5
7
8
9
10
12
13
17
18
19
21
22
23
24
29
33
34
40
Paese
Costa Rica
Colombia
El Salvad.
Panama
Nicaragua
Venezuela
Guatemala
Cuba
Honduras
Argentina
Albania
Cile
Brasile
Messico
Ecuador
Perù
Norvegia
Rep. Dom.
Svizzera
Moldavia
Valore
64,0
59,8
58,9
57,8
57,1
56,9
56,9
56,2
56,0
54,1
54,1
53,9
52,9
52,9
52,5
52,4
51,4
50,7
50,3
48,0
N.
41
44
46
48
50
51
52
57
59
62
64
66
67
70
71
73
74
75
78
79
Paese
Regno Un.
Turchia
Germania
Austria
Francia
Italia
Svezia
Paraguay
Cipro
Spagna
Bolivia
Malta
Paesi Bassi
Finlandia
Polonia
Irlanda
Bosnia-Er.
Romania
Haiti
Serbia
Valore
47,9
47,6
47,2
47,1
46,5
46,4
46,2
45,8
45,5
44,1
43,6
43,1
43,1
42,7
42,6
42,4
42,4
42,2
41,3
41,3
N.
82
83
87
88
89
92
93
97
100
103
104
107
110
117
118
120
123
138
140
Paese
Croazia
Grecia
Slovenia
Islanda
Slovacchia
Rep. Ceca
Uruguay
Portogallo
Ucraina
Bielorussia
Ungheria
Belgio
Danimarca
Estonia
Lettonia
Lituania
Bulgaria
Lussemb.
Macedonia
Valore
40,6
40,5
40,2
40,2
40,1
39,4
39,3
38,7
37,6
37,4
37,4
37,1
36,6
34,9
34,9
34,6
34,1
29,0
28,3
Fonte: www.happyplanetindex.org. Val. max: 64,0 (Costa Rica); val min: 22,6 (Botswana).
Dal Pil al Buen vivir
366
Moreno Zago
Tab. 18. Indice del Buen Vivir (2012)
N.
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
Paese
Svezia
Finlandia
Svizzera
Islanda
Norvegia
Austria
Danimarca
Paesi Bassi
Germania
Regno Un.
Francia
Irlanda
Belgio
Slovenia
Portogallo
Lussemb.
Malta
Estonia
Costa Rica
Spagna
Valore
0,489
0,526
0,527
0,533
0,538
0,543
0,557
0,567
0,588
0,618
0,640
0,641
0,642
0,672
0,677
0,687
0,691
0,696
0,698
0,699
N.
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
Paese
Rep. Ceca
Cipro
Polonia
Argentina
Uruguay
Slovacchia
Lettonia
Italia
Lituania
Panama
Monteneg.
Ungheria
Messico
Brasile
Croazia
Albania
Bielorussia
Paraguay
Cile
Cuba
Valore
0,702
0,718
0,719
0,730
0,737
0,744
0,750
0,754
0,763
0,771
0,773
0,775
0,790
0,791
0,793
0,804
0,809
0,810
0,814
0,823
N.
41
42
43
44
45
46
47
48
49
50
51
52
53
54
55
56
57
58
59
60
Paese
Bulgaria
Nicaragua
El Salvad.
Serbia
Romania
Grecia
Turchia
Guatemala
Ecuador
Colombia
Macedonia
Ucraina
Bolivia
Venezuela
Perù
Moldavia
Bosnia-Er.
Rep. Dom.
Honduras
Haiti
Valore
0,826
0,827
0,833
0,838
0,847
0,855
0,861
0,867
0,869
0,870
0,871
0,872
0,879
0,880
0,881
0,882
0,885
0,887
0,903
0,965
Tab. 19. Differenza in graduatoria tra il Pil $ pc PPP e l’Indice
del Buen Vivir (2012)
N.
1
1
3
3
5
6
6
8
9
9
11
11
11
14
14
14
17
17
19
20
Paese
Costa Rica
Argentina
Paraguay
Nicaragua
Albania
Monteneg.
El Salvad.
Finlandia
Islanda
Uruguay
Portogallo
Panama
Guatemala
Svezia
Estonia
Brasile
Slovenia
Messico
Regno Un.
Polonia
Valore
23
23
16
16
14
10
10
9
8
8
7
7
7
6
6
6
5
5
4
3
N.
20
20
23
23
25
25
25
28
28
28
28
28
33
33
35
35
35
35
39
39
Paese
Bolivia
Moldavia
Francia
Serbia
Danimarca
Malta
Lettonia
Svizzera
Germania
Ecuador
Ucraina
Haiti
Rep. Ceca
Bielorussia
Austria
Paesi Bassi
Bulgaria
Honduras
Norvegia
Belgio
Valore
3
3
2
2
1
1
1
0
0
0
0
0
-1
-1
-2
-2
-2
-2
-3
-3
N.
39
42
42
44
44
44
47
48
48
48
51
52
52
52
55
56
57
57
59
60
Paese
Slovacchia
Spagna
Lituania
Cipro
Ungheria
Croazia
Bosnia-Er.
Irlanda
Colombia
Macedonia
Cuba
Cile
Perù
Rep. Dom.
Romania
Italia
Lussemb.
Turchia
Venezuela
Grecia
Valore
-3
-4
-4
-5
-5
-5
-6
-7
-7
-7
-9
-10
-10
-10
-11
-13
-15
-15
-19
-25
Nota: Un valore positivo indica una posizione nella graduatoria dell’Indice del Buen Vivir
migliore rispetto a quella nella graduatoria del Prodotto interno lordo.
367
Tab. 20. Posizione nelle graduatorie delle dimensioni rispetto all’IBV
(2012)
N.
Paese
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
Svezia
Finlandia
Svizzera
Islanda
Norvegia
Austria
Danimarka
Paesi Bassi
Germania
Regno Un.
Francia
Irlanda
Belgio
Slovenia
Portogallo
Lussemb.
Malta
Estonia
Costa Rica
Spagna
N.
Paese
41
42
43
44
45
46
47
48
49
50
51
52
53
54
55
56
57
58
59
60
Bulgaria
Nicaragua
El Salvador
Serbia
Romania
Grecia
Turchia
Guatemala
Ecuador
Colombia
Macedonia
Ucraina
Bolivia
Venezuela
Perù
Moldavia
Bosnia-Er.
Rep. Dom.
Honduras
Haiti
I
3
6
5
10
2
7
1
4
9
20
13
12
8
11
45
15
24
18
41
16
Dimensioni
II
III
5
2
18
1
12
4
2
12
8
13
9
6
32
3
25
5
14
7
24 11
21 20
40 14
43
9
19 17
20 10
59
8
26 22
29 15
3
36
50 19
IV
5
8
1
11
3
6
13
2
4
16
18
9
24
40
45
7
14
12
27
23
I
37
58
53
30
36
32
56
59
50
52
47
34
42
49
48
35
46
55
57
60
Dimensioni
II
III
37 28
10 56
6
43
57 32
31 42
56 33
45 58
4
54
51 49
48 52
58 39
47 41
52 55
46 50
33 51
55 47
60 45
34 46
11 53
53 59
IV
37
34
57
43
51
55
17
50
52
56
38
54
33
58
39
59
49
41
60
53
N.
Paese
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
Rep. Ceca
Cipro
Polonia
Argentina
Uruguay
Slovacchia
Lettonia
Italia
Lituania
Panama
Monteneg.
Ungheria
Messico
Brasile
Croazia
Albania
Bielorussia
Paraguay
Cile
Cuba
I
14
22
29
38
44
19
26
25
27
40
23
21
43
54
31
33
28
51
39
17
II
28
17
36
27
22
30
7
41
23
13
42
49
38
15
54
16
39
1
44
35
Dimensioni
III IV
18
31
16
25
27
24
26
23
21
38
34
30
37
48
29
44
35
57
40
60
32
44
22
15
10
31
47
48
42
19
35
29
30
20
28
46
21
26
25
36
Legenda: Le quattro dimensioni sono: I. Giustizia sociale; II. Giustizia economica e intergenerazionale; III. Giustizia democratica partecipativa; IV. Giustizia politica nazionale
e transnazionale.
Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita):
si possono misurare?
di Giovanni Delli Zotti43*
SOMMARIO: 1. Misurare la felicità? – 2. Felicità e soddisfazione per la
vita: sono la stessa cosa? – 3. Quanto si è felici? – 4. Chi è felice?
– 5. Perché si è felici? – 6. Cosa è importante nella vita? – 7. Geografia della felicità.
1. Misurare la felicità?
La prima edizione di un bel libro dedicato ai sondaggi (Pitrone, 1984)
ospita in copertina una vignetta dove è raffigurata, seduta sui gradini
dell’ingresso di una tipica casa inglese, una donna con le calze allentate.
Intorno alla donna un paio di marmocchi con il moccio al naso, da una
parte un secchio nel quale è infilato uno spazzolone, mentre di fronte,
brandendo questionario e matita appuntita, si erge, con un piede appoggiato sul primo scalino, un ragazzotto azzimato che, come si legge nel
fumetto, chiede alla donna: «Lei attualmente si sente molto, abbastanza,
poco o per nulla felice?». Quell’immagine fa ovviamente sorridere ma,
allo stesso tempo, fa riflettere su alcune questioni assolutamente centrali.
Tra esse, certamente l’argomento dell’intrusività (a volte) della ricerca
sociale, ma anche un aspetto più tecnico-metodologico. Ci si può infatti
legittimamente chiedere se abbia senso porre una domanda diretta su un
aspetto così personale e centrale nella vita di ognuno (peraltro, la stessa
Pitrone ha affrontato recentemente la questione in un volume dedicato a
La sfida della misurazione nelle scienze sociali: grandezze e proprietà osservabili ma non “misurabili”, 2012).
La felicità, infatti, appartiene a pieno titolo alla categoria delle pro*
Professore ordinario di Sociologia generale nell’Università di Trieste.
Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita)
Giovanni Delli Zotti
prietà che magari sono anche osservabili, si dice non a caso che una faccia
“sprizza felicità”, ma proporsi di misurarla appare una sorta di mission
impossible. Ciò nonostante, nelle più importanti ricerche comparate e
longitudinali in ambito sociologico i questionari affrontano il tema e, più
spesso di quanto si pensi, pongono la domanda formulandola proprio
come fa l’ineffabile intervistatore della citata vignetta. Così è, ad esempio,
per il questionario del World Values Survey (Wvs), nel quale la domanda
è posta in questi termini: «Tutto considerato, Lei direbbe che è: molto/abbastanza/non molto/per nulla felice?» Simile è la formulazione nel
questionario dell’European Social Survey (Ess): «Tutto sommato, quanto
direbbe che è felice?», dove le risposte vengono registrate su una scala
auto-ancorante a 11 posizioni (da 0 estremamente infelice a 10 estremamente felice). Notiamo, di passaggio, che la prima formulazione consente
di dicotomizzare il campione di intervistati in più o meno felici e più o
meno infelici, ma ciò non è possibile utilizzando la seconda scala, perché
prevede un numero dispari di modalità di risposta.
In entrambe le rilevazioni, il questionario utilizza una seconda domanda, similmente generalista, che sembra quasi andare a cercare il motivo
dell’asserita felicità/infelicità. Nel questionario del Wvs si chiede: «Tutto
sommato, Lei è soddisfatto o insoddisfatto della vita che fa ora? Usando
questa scala sulla quale 1 significa che Lei è completamente insoddisfatto e 10 significa che Lei è completamente soddisfatto, a quale livello si
colloca la Sua soddisfazione nei confronti della vita nel suo complesso?».
Nel questionario dell’Ess la domanda è uguale nella formulazione ma,
come per la domanda sulla felicità, le risposte vengono registrate su una
scala a 11 posizioni, che non consente pertanto di dicotomizzare il campione. Quest’ultima domanda, proposta da Cantril nel 1965, si può definire “scala” più appropriatamente di altre, perché la formulazione evoca
esplicitamente questa metafora: «La prego di immaginare una scala con
gradini numerati da 0 nella parte inferiore a 10 nella parte superiore.
La parte superiore della scala rappresenta la vita migliore possibile per
Lei e la parte inferiore della scala rappresenta la vita peggiore possibile
per Lei. Su quale gradino della scala pensa di trovarsi personalmente in
questo momento?». La domanda con riferimento alla situazione attuale
(scala-presente) viene poi ripetuta chiedendo dove l’intervistato pensa
che si collocherà tra circa cinque anni (scala-futuro) ed entrambe sono
utilizzate, ad esempio, dalla società Gallup in molte indagini, compreso il
Gallup’s World Poll, realizzato in più di 150 paesi che rappresentano oltre
il 98% della popolazione mondiale.
Con scale come quella di Cantril, per effettuare le comparazioni si
usano i punteggi medi oppure le complete distribuzioni, ma può essere
ancora più utile categorizzare le risposte. Gallup, per evitare di combinare arbitrariamente i punti della scala, lo fa su base empirica, utilizzando
i dati del citato Gallup’s World Poll e del Gallup-Healthways Well-Being
Index, un sondaggio effettuato quotidianamente negli Stati Uniti. Ai fini
della categorizzazione sono state combinate le valutazioni relative al presente e al futuro sulla base di analisi statistiche le quali mostrano, essendo
fortemente correlate, che le due variabili misurano una stessa dimensione
del benessere e formano una scala attendibile e indipendente rispetto ad
altri specifici aspetti del benessere soggettivo, legati al vivere quotidiano e alle condizioni di salute. Le scale sono state combinate in un Life
Evaluation Well-Being Index e, dopo aver individuato i punti di taglio
appropriati, sono stati formati tre gruppi di intervistati:
- I fiorenti sono caratterizzati da un benessere forte, coerente e in aumento, e valutano positivamente la loro attuale situazione di vita (7+)
e quella dei prossimi cinque anni (8+). Dichiarano inoltre significativamente meno problemi di salute, meno giorni di malattia, meno
preoccupazione, stress, tristezza, rabbia, e più felicità, divertimento,
partecipazione e considerazione sociale.
- I combattenti sono caratterizzati da un benessere moderato, apprezzano moderatamente la loro attuale situazione di vita e vedono in modo
moderatamente positivo o negativo il loro futuro. Lottano nel presente, o si aspettano di lottare in futuro e riferiscono più stress quotidiano
e preoccupazione per le finanze e, rispetto ai fiorenti, dichiarano più
del doppio di giorni di malattia.
- Per i sofferenti il benessere è ad alto rischio perché forniscono valutazioni basse della loro situazione attuale e fanno previsioni pessimistiche sul loro futuro a cinque anni (quattro punti o meno su entrambe
le scale). Sono più propensi a riferire che mancano loro le condizioni
di base quanto a cibo e situazione abitativa e vivono condizioni di
dolore fisico, stress, preoccupazione, tristezza e rabbia. Hanno meno
accesso all’assicurazione sanitaria e all’assistenza, e più del doppio di
malattie, rispetto agli intervistati fiorenti (Gallup, 2014).
370
371
Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita)
Giovanni Delli Zotti
Le elaborazioni della Gallup mostrerebbero che la percentuale degli
intervistati che rientrano in ciascuna categoria è correlata con altre caratteristiche a livello di paese e ciò, come cercheremo di documentare
anche nel resto del presente lavoro, fornirebbe la prova della validità di
costrutto delle categorie (Gallup, 2009). Presentati gli strumenti più frequentemente usati per misurare la felicità e/o la soddisfazione per la propria vita, in questa sede ci ripromettiamo, tra l’altro, proprio di effettuare
una verifica su questo aspetto, e cioè innanzitutto, sul legame tra i diversi
aspetti del benessere soggettivamente percepito e poi, verso la fine del
lavoro, tra queste percezioni soggettive e le condizioni materiali della vita
degli intervistati e del contesto nel quale vivono.
Likert e quelle sulla soddisfazione per la propria vita nella forma della
scala auto-ancorante.
2. Felicità e soddisfazione per la vita: sono la stessa cosa?
C’è però un’altra differenza importante da notare; mentre il Wvs
comprende paesi di tutto il mondo, l’Ess comprende solo paesi europei.
Dunque, potrebbe darsi che le due variabili siano più connesse nell’area
culturale europea e lo siano meno se si allarga la rilevazione ad altre aree
del mondo. Per verificare se questa ipotesi abbia qualche fondamento, si
deve tornare al più ampio Wvs e disaggregare i coefficienti di correlazione a seconda del paese nel quale è stata fatta la rilevazione (nel caso dei
paesi che hanno partecipato a più di una ondata, è stata utilizzata solo
l’ultima rilevazione). I risultati sono assolutamente espliciti: la minima
correlazione tra grado di felicità dichiarata e soddisfazione per la vita
è stata registrata in Tanzania nel 2001 (-0,074); altri 33 paesi registrano
correlazioni al di sotto del valore di .40 e tra questi c’è solo un paese europeo, ma appartenente all’area dell’ex Urss (Moldavia, 2006). Dall’altro
lato della lista dei 97 paesi, ordinati secondo il valore crescente del coefficiente, si collocano 29 paesi con una correlazione superiore a 0,50, fino
ad un massimo di 0,67 registrato in Olanda nel 2012. Tra questi paesi,
nei quali la correlazione è relativamente elevata, solo pochi sono quelli
extraeuropei: l’Iraq, che nel 2012 registra il valore di 0,64 e, con valori di
poco superiori a 0,50, India (2006), Etiopia (2007), Sud Africa (2006) e
Argentina (2006)452.
372
Dunque, se si è felici, ci sarà un motivo, e il motivo più generale che
viene è in mente è: si è felici perché si è soddisfatti per la propria vita.
Ammesso che chi ha in qualche misura duplicato la domanda abbia ipotizzato una relazione di causa-effetto, siamo ben lontani da un qualsiasi
tipo di spiegazione con questa (in)soddisfazione per la vita che provoca
(in)felicità. Si può intanto cercare di verificare quanto sia fondato il sospetto che, forse per ragioni di controllo, si sia in pratica riproposta la
stessa domanda in due forme diverse. Se così fosse, la correlazione tra
le due variabili dovrebbe essere molto elevata, ma i dati mostrano che la
correlazione, calcolata usando i dati del Wvs, è pari solo a 0,4741 per l’intero campione, costituito da oltre 320.000 intervistati, con variazioni non
molto elevate se il dato generale si scorpora a seconda del periodo in cui
è stata effettuata la rilevazione. La correlazione è invece molto più elevata
(0,71) se calcolata con i dati dell’Ess, anche se va considerato che ciò può
dipendere dal semplice fatto tecnico che nell’Ess la chiusura delle due
domande è la stessa (entrambe sono scale a 11 posizioni) e, invece, nel
caso del Wvs, le risposte alla domanda sulla felicità sono in forma di scala
373
Tab. 1. Coefficienti di correlazione
tra diverse misure di soddisfazione soggettiva
Felicità
Sentimento di felicità
Stato di salute (soggettivo)
-
Salute
0,373
Vita
-0,473
Finanze
-0,343
0,373
-
-0,303
-0,254
Soddisfazione per la pro-0,473
-0,303
0,565
pria vita
Soddisfazione per la situa-0,343
-0,254
0,565
zione finanziaria
Per tutti i coefficienti la correlazione è significativa al livello 0,001 (2-code).
1
Alcuni coefficienti sono negativi perché nella codifica delle risposte, in genere, valori
più elevati indicano crescente soddisfazione ma, nel caso della domanda sulla felicità, la
risposta molto è codificata con il valore 1.
2
Un coefficiente di correlazione elevato testimonia della forza della relazione tra le variabili e non dice nulla, invece, quanto ai livelli di felicità e di soddisfazione (la correlazione
Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita)
Giovanni Delli Zotti
In ogni caso, in generale, le correlazioni sono forse meno elevate di
quanto fosse lecito attendersi e, dunque, si può ritenere che le due domande non rilevino la stessa caratteristica: si può essere più o meno soddisfatti della propria vita, ma non necessariamente felici in uguale misura.
Si può provare a controllare questa affermazione calcolando i punteggi
medi nelle due scale e, ripromettendoci di approfondire nel seguito questo aspetto (§ 5), lo facciamo utilizzando i dati dell’Ess. Dai dati si vede
che, sulla scala da 0 a 11, mediamente gli europei sono un po’ più felici
(7,11) che soddisfatti (6,76) e anche la deviazione standard delle risposte
è un po’ più elevata per la soddisfazione (2,41) che per la felicità (2,10).
Considerando le altre correlazioni esposte nella Tab. 1, secondo Deaton
(2008), le ricerche condotte in paesi di tutto il mondo indicano correlazioni significative tra la scala di Cantril e il reddito e in ciò, la scala
si differenzia da altre misure di valutazione delle proprie condizioni di
vita che sembrano essere più strettamente correlate con variabili come
il tempo sociale (Harter, Arora, 2008). Anche i dati del Wvs confermano l’esistenza della correlazione tra benessere economico (dichiarato) e
felicità, ma la relazione è alquanto più bassa (0,34), rispetto a quella con
la soddisfazione per la propria vita (0,57): dunque, i soldi non fanno (necessariamente) la felicità, ma certamente rendono la vita maggiormente
apprezzabile. Per completare il commento alla Tab. 1, osserviamo che il
giudizio soggettivo sulle proprie condizioni di salute ha ovviamente una
debole relazione con quello sulla situazione finanziaria, ma mostra una
discreta correlazione con la felicità e il benessere percepito (la buona
salute forse da sola non basta, ma certamente aiuta ad apprezzare la vita).
oltre 320.000 interviste effettuate nel corso di più di trent’anni, suddivise
in periodi di rilevazione che corrispondono a sei ondate di durata variabile tra i cinque e i sei anni (con l’interruzione del periodo 1985-1988).
Il numero di interviste e i paesi coinvolti sono sintetizzati nella Tab. 2,
dalla quale si evince che i primi due cicli di indagini hanno interessato un
numero di paesi molto meno elevato rispetto ai cicli successivi. Inoltre,
in particolare nella prima ondata, sono stati interessati alle rilevazione
esclusivamente paesi sviluppati o in via di sviluppo, con conseguenze significative sui risultati che non sono del tutto confrontabili con quelli
delle rilevazioni successive. I singoli paesi interessati sono nel complesso
97; 34 sono stati coinvolti una sola volta, mentre Messico e Corea del Sud
hanno partecipato a tutte le rilevazioni.
374
3. Quanto si è felici?
Nel presente lavoro, essendo disponibile la matrice dei dati originali,
è possibile relazionare le risposte alle caratteristiche socio-demografiche
dei rispondenti a livello individuale e non solo a livello aggregato per
paese (usando parametri statistici sintetici). Inoltre, a differenza dell’Ess,
il Wvs comprende paesi di tutte le parti del mondo per un complesso di
risulta elevata anche nel caso di valori coerentemente bassi per entrambe le variabili).
375
Tab. 2. Cicli di rilevazione del World Values Survey,
numero di paesi coinvolti e interviste realizzate
Ondate
1981-1984
1989-1993
1994-1998
1999-2004
2005-2009
2010-2014
Totale
N. Paesi
10
18
51
41
58
52
97
Interviste
13.586
23.617
74.148
59.066
83.975
74.043
328.435
Quanto ai risultati della rilevazione che ci interessano maggiormente
in questa sede, nella Fig. 1 sono riportate le percentuali di risposta alla
domanda sulla felicità e si nota che, prescindendo dalla prima rilevazione, il valore medio sulla scala da 1 per nulla a 4 molto463 cresce debolmente
ma in modo costante e, nell’ultima ondata di rilevazioni, arriva a superare
il valore che corrisponde alla risposta abbastanza. Abbiamo riportato il
valore medio, pur nella consapevolezza della dubbia (ad essere eufemistici) applicabilità ad una scala ordinale di un parametro statistico utilizzabile, a rigore, solo con variabili cardinali, ma lo abbiamo fatto al fine di
3
Ai fini di rendere più intuitiva la comprensione dei risultati, i valori della codifica originale sono stati invertiti in modo che valori crescenti indichino un aumento della felicità
dichiarata. In tal modo diventano più intuitivi anche i grafici a dispersione utilizzati nel
seguito.
Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita)
Giovanni Delli Zotti
acquisire un dato sintetico che potrà essere poi utilizzato per effettuare
confronti, peraltro approssimativi, con gli andamenti di altre domande
per le quali l’utilizzo della media è certamente più corretto, essendo state
utilizzate scale auto-ancoranti (come quella di Cantril). Il grafico però
riporta anche la suddivisione percentuale delle risposte e ciò risolve il
problema dell’astrattezza della descrizione dei risultati in termini di variazione della media; infatti, a nostro avviso, è molto più evocativo dire,
sommando le risposte molto e abbastanza, che la percentuale di intervistati che si è dichiarata felice passa dal complessivo 72,6% della fine degli
anni ‘80 (inizio ‘90) all’84,3% dell’inizio del decennio in corso (escludendo il dato dell’inizio degli anni ‘80, che si può considerare non confrontabile a causa dell’esiguità e della specifica composizione del campione).
Il grafico mostra anche che, nello stesso periodo, passa da poco più
di un quinto a quasi un terzo la percentuale di intervistati che si sono dichiarati molto felici, anche se va precisato che i valori vanno considerati
una stima un po’ approssimativa poiché i casi andrebbero pesati tenendo
conto della diversa consistenza numerica delle popolazione dei paesi nei
quali è stata fatta la rilevazione474.
Fig. 1. Risposta alla domanda «quanto si direbbe felice» per ondata di
rilevazione (% e media su scala da 1 a 4)
376
4
Una qualche compensazione è peraltro attiva, in quanto le dimensioni dei campioni
nazionali tengono conto parzialmente della numerosità della popolazione: si passa dalle
“anomale” 82 interviste in Montenegro nel 2001 (240 nel 1996) alle 3.401 interviste effettuate in Turchia nel 2001, ma la maggioranza dei campioni nazionali varia tra 1.000
e 3.000 interviste. Inoltre, i paesi di piccole dimensioni sono più numerosi di quelli con
una popolazione di 100 milioni di abitanti o più.
377
4. Chi è felice?
Illustrato il dato più generale, può essere interessante cercare di individuare le categorie di intervistati che hanno una visione più positiva
della loro condizione in termini di felicità e a cui si può perciò principalmente attribuire il miglioramento generale che abbiamo appena constatato. Avendo preliminarmente osservato che, somman¬do le risposte
molto e abbastanza le differenze si attenuano, per restringere l’analisi
alla modalità di risposta più selettiva nella Fig. 2 sono riportati gli incrementi percentuali, considerando solo gli intervistati che si sono dichiarati
molto felici, ed è innanzitutto appariscente il fatto che tutte le categorie
di intervistati registrano incrementi, più o meno accentuati, tra la prima
rilevazione considerata in questa analisi (1994-1998) e l’ultima (20102014). Iniziando dal genere, la percentuale di femmine molto felici è leggermente più elevata di quella dei maschi e la piccola differenza persiste
nell’arco del ventennio considerato. Molto chiara e molto più accentuata
è la relazione con l’età e, anche in questo caso, in un quadro di miglioramento per tutte e tre le fasce di età, rimane immutata la differenza nella
percentuale di giovani che si dichiarano molto felici (attualmente oltre un
terzo) rispetto agli ultra cinquantenni (poco più di un quarto).
378
Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita)
Giovanni Delli Zotti
Fig. 2. Percentuale di intervistati molto felici per categorie
socio-demografiche (1994-1998 e 2010-2014)
tennio considerato, non a caso assieme a coloro che godono dei redditi
più elevati. L’effetto classe sociale è accentuato dal fatto che anche la categoria degli appartenenti alla classe medio-alta segna un notevole distacco dalle altre e si può anche notare che il reddito, dopo la classe sociale,
è la caratteristica che maggiormente discrimina quanto a percentuale di
intervistati molto felici, confrontando le categorie che si collocano ai lati
opposti della scala.
Infine, visto che il Wvs è un sistema di rilevazione degli atteggiamenti
promosso da Inglehart e basato sulla scala materialismo/post-materialismo (1977 e 1998), abbiamo usato anche questa categorizzazione la quale mostra che le differenze vanno in una direzione univoca che rimane
sostanzialmente immutata nel tempo. I materialisti si collocano in posizione arretrata rispetto ai post-materialisti quanto a percentuale di individui molto felici e ciò appare un po’ contradditorio, rispetto a quanto
visto finora, perché nella categorizzazione di Inglehart i materialisti sono
proprio coloro che maggiormente apprezzano, ad esempio, ricompense
sociali quali un reddito elevato e l’appartenenza ad un’elevata classe sociale, con gli effetti alquanto materiali che ne derivano.
La relazione tra felicità dichiarata e livello educativo è invece controversa e si può dire con qualche certezza solo che attualmente non fa
molta differenza avere conseguito un livello di educazione formale molto
elevato; anzi, sembra essere leggermente penalizzante, in quanto questa
categoria di intervistati ha perso il vantaggio che aveva inizialmente sugli
altri, segno forse, almeno per alcuni paesi, di frustrazione derivante dalla
constatazione che studiare molto non consente con ragionevole certezza
di raggiungere una buona posizione professionale o almeno reddituale.
Che questo sia un aspetto strettamente correlato alla felicità lo mostrano
anche le due variabili che rilevano l’auto-collocazione di classe sociale e
la fascia di reddito (rilevata su una scala a dieci posizioni, poi accorpate
isolando le due modalità estreme e suddividendo in parti uguali le sei
posizioni centrali). Come si vede dal grafico, si dichiarano molto felici
oltre il 50% di coloro che si sono classificati come appartenenti alla classe
sociale alta e, per quanto si tratti di un gruppo alquanto ristretto (circa
il 2% dell’intero campione), il dato è alquanto rilevante, anche perché si
tratta della categoria che ha registrato il più notevole incremento nel ven-
379
5. Perché si è felici?
Già quanto visto finora consente di delineare, assieme all’identikit
di chi ha maggiori probabilità di dichiararsi molto felice, un abbozzo
di spiegazione dei motivi di tanto entusiasmo. La felicità può essere infatti una conseguenza della giovane età, della maggiore disponibilità di
reddito, dell’appartenenza alla classe sociale degli happy few, ancorché
appaia contradditorio, dell’avere una visione della vita che apprezza, e
anzi privilegia (come è insito nella definizione del tipo post-materialista),
le relazioni sociali, la partecipazione, la tutela dell’ambiente, il rispetto
per le diversità, ecc. Comunque, siccome nel questionario utilizzato nelle
rilevazioni si chiedeva agli intervistati di esprimere altre valutazioni sulla
propria condizione di vita, relazionare a queste le risposte sulla felicità, con maggiore dettaglio di quanto fatto in precedenza utilizzando le
correlazioni, può contribuire a dare maggiore spessore a questa sorta di
ricerca della cause della felicità.
Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita)
Giovanni Delli Zotti
Come in parte abbiamo già visto dalle correlazioni, viene clamorosamente smentita dai dati l’asserzione un po’ sbrigativa, e forse autoconsolatoria, che i soldi non si accompagnano necessariamente alla felicità ma,
visto che con una domanda specifica si chiedeva all’intervistato di indicare quanto fosse soddisfatto della situazione finanziaria della propria famiglia, vediamo più analiticamente quale sia la relazione tra le due variabili
usando nuovamente lo strumento, semplice e di diretta comprensione,
della differenza percentuale. Come si vede dalla Fig. 3, la relazione tra
le due variabili mostra un andamento assolutamente lineare, particolarmente se si guarda alla distinzione dicotomica tra chi si dichiara molto
o abbastanza felice e chi lo è invece poco o per nulla; infatti, la percentuale di individui molto o abbastanza felici passa da poco più del 50% a
oltre il 90%, procedendo da chi si dichiara del tutto insoddisfatto della
situazione economica della famiglia a chi è completamente soddisfatto.
Dunque, precisando quanto visto in precedenza, si potrebbe affermare
che non è tanto l’ammontare complessivo delle risorse economiche, e la
conseguente sicurezza materiale, ciò che porta alla felicità; piuttosto, a
fare davvero la differenza è il fatto che le risorse si possano considerare
sufficienti, e pertanto soddisfacenti, per la gestione della propria vita e
della propria famiglia. Alla ricerca di una conferma di questa ipotesi abbiamo incrociato gli scaglioni di reddito per verificare se anche questa
relazione mostri qualche sbavatura, e i dati, qui non riportati, mostrano
in effetti che, in apparente contraddizione, un quarto di coloro che si
sono dichiarati appartenenti alle classi di reddito più elevate sono più o
meno insoddisfatti (punteggi da 1 a 5) delle finanze familiari; al contrario,
e altrettanto contraddittoriamente, quasi un terzo di coloro che si collocano nelle più basse fasce di reddito si definiscono più o meno soddisfatti
(punteggi da 6 a 10).
Fig. 3. Livello di soddisfazione per la propria vita
per valutazione della propria felicità
380
381
Un’altra convinzione, rafforzata dalla saggezza popolare, porta a ritenere che godere di buona salute sia una componente essenziale, forse
imprescindibile, della felicità e anche questo è un aspetto che i dati disponibili consentono di testare. La situazione è quella rappresentata nella
Fig. 4 che mostra una netta relazione tra le due variabili. Chi dichiara
di essere in condizioni di salute molto cattive, o anche solo cattive, solo
nel 10% dei casi si dichiara molto felice; al contrario, chi gode di buona
salute, si dichiara molto felice in circa un quarto dei casi (abbastanza in
oltre il 50%) e chi gode di una salute molto buona è molto felice in oltre
la metà dei casi e abbastanza felice in un altro 40%.
I dati esposti analiticamente nel grafico consentono però una lettura
alternativa, e forse un po’ provocatoria, se solo si pone l’accento sulle
situazioni di apparente incongruenza e su un’interessante asim¬metria: si
potrebbe infatti sottolineare il fatto che, nonostante le dichiarate cattive
o molto cattive condizioni di salute, circa il 10% di questi intervistati si
ritiene molto felice e oltre un terzo e quasi un quarto abbastanza felice.
Al lato opposto, solo frazioni marginali di intervistati che godono di una
salute buona o molto buona si dichiarano poco o per nulla felici.
382
Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita)
Giovanni Delli Zotti
Fig. 4. Valutazione del proprio stato di salute per valutazione
della propria felicità
un reddito elevato in assoluto. Quanto alla relazione con la soddisfazione
per la propria vita, anche ai livelli massimo non tutti sono molto felici ma,
se si aggiungono coloro che hanno risposto che lo sono abbastanza (cfr.
Fig. 3), si può dire che, quando la situazione finanziaria e personale è pienamente soddisfacente (e il reddito elevato), la felicità è una condizione
esistenziale quasi garantita.
383
Fig. 5. Percentuale di intervistati molto felici secondo lo scaglione di reddito,
il grado di soddisfazione per la propria vita e per la situazione finanziaria
Nel grafico seguente (Fig. 5) sono riportate le percentuali di intervistati molto felici secondo lo scaglione di reddito, il livello di soddisfazione per la situazione finanziaria (vedi anche Fig. 3) e la soddisfazione
per la propria vita. Il grafico non intende solo mostrare l’aspetto tutto
sommato scontato della crescita pressoché lineare della percentuale di
intervistati che si dichiarano felici all’aumentare della soddisfazione per
questi aspetti specifici, quanto il fatto che la felicità può albergare nei
cuori di diversi intervistati anche in presenza di valutazioni poco o per
nulla soddisfacenti.
Visto secondo questa prospettiva, il grafico mostra che il 13% e il
17% del campione si dichiara molto felice anche quando la situazione
finanziaria viene valutata del tutto insoddisfacente o lo è la valutazione
della propria situazione esistenziale, e sono molto felici anche il 24%
degli intervistati che dichiara lo scaglione di reddito più basso. Si vede
dunque chiaramente che il livello di reddito non è determinante quanto
il fatto che ne conseguano problemi finanziari e, peraltro, al crescere dei
livelli di soddisfazione, la percentuale di intervistati molto felici tende a
convergere, fino a divaricarsi nuovamente, ma in direzioni opposte: ai
livelli alti di soddisfazione la percentuale di persone molto felici aumenta
come conseguenza della situazione finanziaria soddisfacente più che per
6. Cosa è importante nella vita?
Proseguendo nella ricerca delle determinanti, o almeno degli aspetti
che si possono ragionevolmente associare al sentimento di felicità, nel
questionario del Wvs ci imbattiamo in una serie di domande (sono quelle
poste per prime) che chiedevano di esprimersi su quanto, nella vita degli
intervistati, siano importanti una serie di ambiti: famiglia, amici, tempo
libero, politica, lavoro e religione485. Il quadro delineato dalle indagini, riQuesti ambiti sono considerati importanti anche all’interno del Better Life Index
costruito dall’Ocse, sulla base di 25 indicatori che si riferiscono a 11 dimensioni definite
essenziali alla definizione del benessere e della qualità della vita (Durand, Smith, 2013:
3; Zago, in questo volume).
5
Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita)
Giovanni Delli Zotti
prendendo la prospettiva temporale, è rappresentato nella Fig. 6 dalla
quale si nota una gerarchia che non si scalfisce con l’andare del tempo
e che vede inequivocabilmente al primo posto la famiglia, seguita dal
lavoro a oltre venti punti di distanza. Va sottolineato che nel grafico sono
rappresentate le sole risposte molto importante che, per quanto riguarda
la famiglia, a parte il primo periodo di rilevazione, non scendono mai
sotto il 90%. La differenza tra famiglia a lavoro si accentua nel tempo,
fino a raggiungere quasi trenta punti percentuali nell’ultimo ciclo di rilevazioni a causa di una perdita di importanza annessa al lavoro. Per quanto le domande siano reciprocamente autonome (l’intervistato era libero
di attribuire poca importanza a tutti i sei ambiti o, al contrario, poteva
definirli tutti molto importanti), gli andamenti di amicizia e tempo libero
suggeriscono che siano questi i settori che hanno sottratto suffragi all’importanza annessa al lavoro, visto la loro pressoché costante crescita, che
comunque li colloca ad un livello inferiore rispetto a famiglia e lavoro.
La religione si colloca un po’ a metà strada ed è quasi sorprendente che
sia così, vista dalla prospettiva di una società alquanto secolarizzata come
quella italiana, ma si deve tenere conto che nella composizione del campione sono presenti diverse nazioni, si pensi ad esempio a quelle dell’America Latina, nelle quali il sentimento religioso è alquanto radicato. Per
quanto riguarda la politica, invece, i livelli sono piuttosto bassi: solo circa
il 15% gli intervistati ritengono che si tratti di un ambito di vita molto
importante e grosso modo senza importanti oscillazioni.
L’importanza annessa a questi ambiti non si può direttamente relazionare ai livelli di soddisfazione per la propria vita personale e familiare o al
grado di felicità soggettivamente intesa, ma si può ragionevolmente presumere, vista la notevole importanza attribuita dagli intervistati ad essi,
che elevati livelli di feliticà o di soddisfazione per la propria vita possano
essere raggiunti solo in presenza di una buona situazione familiare e lavorativa, senza trascurare la possibilità di poter coltivare intense relazioni
sociali e di praticare liberamente la propria religione.
Fig. 6. Percentuale di intervistati che definiscono molto importanti
gli ambiti, per periodo di rilevazione
384
385
7. Geografia della felicità
Nella presente trattazione si sono finora analizzate valutazioni soggettive della felicità, del benessere, della salute, delle condizioni finanziarie
familiari; volendo ora abbozzare una mappa geopolitica del benessere e
della felicità, dobbiamo trasformare le risposte individuali in un dato sintetico, aggregato a livello di paese e, per le ragioni esposte in precedenza,
si è deciso di rinunciare all’utilizzo della strumento statistico più scontato, il valore medio calcolato su una delle misure di benessere. Abbiamo
infatti privilegiato le assai più evocative percentuali e, nel caso della Fig.
7, la percentuale di intervistati classificati da Gallup nella categoria dei
fiorenti, così come descritta nel secondo paragrafo.
Nella trattazione precedente abbiamo potuto constatare che, a livello
individuale, il benessere soggettivo o la felicità sono correlati, ad esempio,
con la valutazione della condizione finanziaria della famiglia o il reddito,
ma non in maniera banalmente automatica. Pertanto, in questa conclusiva analisi della distribuzione mondiale del benessere, useremo i grafici a
dispersione, che rendono un po’ difficile la lettura precisa dei dati relativi
ai singoli paesi, ma hanno il vantaggio decisivo di mostrare plasticamente
la natura e la forza della relazione tra le variabili e, al contempo, consentono di individuare e identificare singoli paesi la cui situazione è deviante
rispetto al pattern complessivo.
386
Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita)
Come variabile da relazionare al benessere soggettivo aggregato a livello di singolo paese, si è deciso di utilizzare il Pnl pro capite, in modo
da differenziare l’analisi rispetto a quella precedente nella quale benessere e situazione economica sono entrambe misurate soggettivamente. In
questo modo, tra l’altro, creiamo un ponte tra gli indicatori soggettivi di
benessere qui analizzati e gli indicatori oggettivi, analizzati da Zago, in
questo volume.
I grafici a dispersione sono stati realizzati nella forma del pannello
con riquadri, corrispondenti ai quattro continenti, che utilizzano le stesse
coordinate minime e massime; in tal modo, anche a prima vista, si può
notare in quale settore si collocano prevalentemente i paesi appartenenti
ai diversi continenti. Per agevolare l’interpretazione dei dati, lo spazio
dei singoli grafici è suddiviso in quadranti, utilizzando linee verticali e
orizzontali posizionate in corrispondenza dei valori mediani delle distribuzioni delle due variabili.
In tal modo, ad esempio, si vede chiaramente che la gran parte dei paesi
europei si colloca nel quadrante in alto a destra, nel quale la percentuale di
intervistati definiti fiorenti e il Pnl si collocano entrambi sopra le rispettive
mediane. Al contrario, guardando all’Africa, è del tutto evidente la situazione di disagio di questi paesi perché quasi tutti si collocano al di sotto
delle due mediane: dunque, paesi relativamente poveri nei quali gli intervistati che godono di un certo benessere soggettivamente inteso (i fiorenti)
sono meno numerosi che in altri paesi e comunque sotto la mediana.
Ovviamente, i paesi che si collocano nei quadranti disposti secondo la
diagonale opposta indeboliscono la relazione tra il benessere soggettivo
e quello oggettivo, misurato dal Pnl: quelli in alto a sinistra sono paesi a
basso reddito ma con popolazioni relativamente più felici di quanto il dato
economico possa far sospettare; quelli in basso a destra sono invece paesi
nei quali il reddito è elevato, ma a ciò non corrisponde la spettante quota
di individui fiorenti.
Lasciando al lettore l’apprezzamento analitico dei dati relativi ai singoli
paesi, visto che il presente lavoro nasce alla luce del concetto di buen vivir,
notiamo semplicemente che diversi paesi dell’America Latina, ivi compresi
Ecuador e Bolivia, si collocano in quello, in alto a sinistra, che potremmo
definire il quadrante dei “poveri ma felici”. Felici, forse, perché si accontentano e apprezzano ciò che hanno.
Giovanni Delli Zotti
387
Fig. 7. Quota di fiorenti per ammontare del Pnl pro capite e continente
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Abstract: From a methodological and sociological point of view, this
paper aims to investigate the concepts of happiness, well-being
and satisfaction as they are measured in the international and European surveys.
Keywords: Happiness, Well-being, Life satisfaction, Index.
POSTFAZIONE
Diritto, diritto comparato, altre scienzenello studio del
nuevo constitucionalismo e del buen vivir andino
di Lucio Pegoraro49*
«… Il diritto di cui si occupa il comparatista, non solo è quello prodotto da tutti gli operatori che in qualche modo si misurano con le parole del legislatore, e
dunque producono le norme giuridiche. È anche l’insieme delle norme sociali,
norme non giuridiche da un punto di vista interno, ma comunque da includere
nell’elencazione dei precetti condizionanti il comportamento dell’individuo e
la sua collocazione nelle molteplici comunità di cui è parte: precetti che, da un
punto di vista esterno sul diritto, sono pienamente giuridici. Probabilmente le
norme sociali non giuridiche dal punto di vista interno avranno una rilevanza
tanto più contenuta, quanto più la ricerca comparatistica si muoverà entro i
confini del diritto occidentale. Se invece se ne allontanerà, le norme sociali
non giuridiche assumeranno un ruolo crescente, per il cui apprezzamento è
proficuo ricorrere agli insegnamenti della sociologia …, o a quelli dell’antropologia» (Somma, 2014: 73).
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La vita del diritto comparato. – 3. Una o
più Grundnormen? – 4. Visioni moniste. – 5. Le scienze diverse. –
6. Conclusioni.
1. Premessa
Questo volume si occupa della sfida che il buen vivir accolto nei paesi
andini lancia agli altri ordinamenti in tema di sostenibilità. Ambisce ad
arricchire un filone di ricerca che finalmente anche alcuni giuristi sensibili, oltre che i sociologi, hanno cominciato a percorrere, nel convincimento
che il costituzionalismo tradizionale, e neppure il neocostituzionalismo,
non riescono a dare tutte le risposte ai problemi del XXI secolo, e che
*
Professore ordinario di Diritto pubblico comparato nell’Università di Bologna.
Postfazione
Lucio Pegoraro
queste vanno ricercate anche in filosofie, tradizioni, culture (e sistemi giuridici) diversi se non antitetici a quelli che alimentano il diritto occidentale, contrastando il neoliberismo e le politiche che accentuano la povertà
e sfruttano indebitamente le risorse naturali. Ciò che, sinteticamente, si
riassume nel concetto di controegemonia.
Nel suo alveo, il diritto costituzionale ha sviluppato l’importante dottrina del nuevo constitucionalismo. Essa, come spiega Bagni richiamandosi alle tesi di Viciano Pastor e di Martínez Dalmau (2012), di regola fa
«riferimento all’ondata di costituzioni adottate in America Latina dall’inizio degli anni ‘90 … fino ad arrivare alle recenti esperienze ecuadoriana
e boliviana del 2008 e 2009». Se – continua questa A. – «le caratteristiche
teoriche del neocostituzionalismo possono essere certamente ritrovate
nel “nuevo constitucionalismo” … i due concetti non sono completamente coincidenti, poiché le riflessioni della dottrina latinoamericana degli
ultimi anni hanno messo in risalto elementi specifici del fenomeno in
America del Sud», che «possono essere identificati nella partecipazione
popolare all’esercizio del potere, in primis nello stesso processo costituente, nell’interculturalità e in una nuova visione dei rapporti fra l’uomo
e la natura, che sta a fondamento, in alcuni casi ma non in tutti, del (tentativo di) adesione a nuovi modelli economici» (Bagni, 2014).
A mio avviso, la divergenza tra le concezioni del neocostituzionalismo e quelle del nuevo constitucionalismo fa aggio alla sovrapposizione
di elementi comuni, quali «l’affermazione, più volte ribadita anche dalla
giurisprudenza costituzionale di diverse corti, della totale equiordinazione dei diritti costituzionali, quindi non gerarchizzabili in via definitiva,
ma solo ponderabili caso per caso» (ibid.) (per non dire di altri). Dietro il
nuevo constitucionalismo, infatti, ci sono concezioni culturali e filosofiche
lontanissime da quelle che ispirano il neocostituzionalismo (e in generale
il costituzionalismo), delle quali esso rappresenta soprattutto l’epifania
formale e procedimentale.
2007: 133 ss.; Reimann, 1996: 49 ss.): il rischio paventato è che la globalizzazione annulli le differenze e che, per questo motivo, la scienza
comparatistica sia destinata a morire, come più d’uno immagina, preconizzando una sua presunta irrilevanza di fronte a fenomeni come la
globalizzazione, la connessa convergenza transnazionale, la cosiddetta
armonizzazione e la progressiva condivisione di un solo diritto comune
(Muir Watt, 2006: 579 ss.).
In particolare, la globalizzazione corrode l’idea stessa di diritto: cadono le barriere tra pubblico e privato, e quest’ultimo si sottrae agli imperativi “westfaliani” e alle regole di un diritto internazionale che vale, là
dove vale, se mai solo per il pubblico; la soft law lascia discrezione e apre
interstizi; né le fonti private né quelle pubbliche riescono a disciplinare
l’attività degli attori privati nell’economia globale (Muir Watt, 2012: 270
ss.). Ma il timore è probabilmente infondato se solo si consideri la refrattarietà al cambiamento generata dalle resistenze frapposte dalle culture
giuridiche (e dalle culture), e – con riflessi importanti in campo costituzionalistico – la rivendicazione di modelli di organizzazione costituzionale alternativi a quello occidentale (Samuel, 2004: 35 ss., sostiene che
la common law è più attrezzata a raccogliere le sfide della complessità
rispetto alle più sistematiche scienze del diritto civile, in quanto prodotto
di una cultura a-scientifica. Per un’approfondita analisi critica del tema,
v. Somma, 2014). Questo libro è un’efficace testimonianza che la diversità
persiste, e quindi la comparazione è viva, e tale resterà se solo si dimostrerà capace di attrezzarsi per raccogliere le nuove sfide.
La prima frase pronunciata a Westminster dal neo-deputato liberale
Winston Churchill, interrompendo chi sosteneva, in tema di parità fra i
sessi, che fra uomo e donna c’è solo una piccola differenza, fu «Hurrah
with the little difference!». Comparare significa capire quali differenze
siano grandi e quali piccole (insomma, individuare gli elementi determinanti); vuol dire poi soffermarsi sulle differenze piccole, nell’ambito
di famiglie e sistemi accomunati da somiglianze grandi, ma anche e soprattutto, oggi, riconoscere le grandi differenze che giustappongono un
pensiero giuridico solo all’apparenza unico – quello della liberaldemocrazia – a visioni del diritto, della società, della cultura che radicalmente
se ne distaccano. Il sogno totalizzante della liberaldemocrazia non sembra fare i conti innanzi tutto con se stesso. La globalizzazione comporta
390
2. La vita del diritto comparato
Quello della morte del diritto comparato nel mondo globalizzato, presupposto dalle visioni di Fukuyama (1989), è un refrain comune (Siems,
391
Postfazione
Lucio Pegoraro
per prima cosa lasciare gli schemi giuridici tradizionali, anche in campo
costituzionale. Sovranità, gerarchia, cittadinanza, competenza, principio
di legalità, riserva di legge, fonti del diritto, ecc. sono concetti che, se pur
non ancora relegati nel ripostiglio del superfluo, pagano lo scotto di una
reinterpretazione che ne distacca il senso rispetto a quello a essi ascritto
ancora pochi anni fa. Lo Stato liberaldemocratico combatte la sua battaglia con strumenti da esso stesso in parte abbandonati, a vantaggio di altri
che ne sono una derivazione solo assai lontana, se non l’antitesi: mercato,
sicurezza, soft law e altro ancora; la mise à jour è un neocostituzionalismo
nel quale, come ricorda Carducci in questo volume richiamando León
Pesántez, tutto viene «osservato dall’Occidente euro-nordamericano
come unico vocabolario e parametro universale di comprensione e valutazione del mondo».
Non fa i conti poi, la liberaldemocrazia nella sua elaborazione dottrinaria, con l’accettazione della diversità sostanziale; nel lessico comparatistico, con la frattura tra i formanti visibili – la costituzione, la legge, la
giurisprudenza – e quelli soggiacenti: la cultura, la cultura “giuridica”, i
crittotipi. Assolta nel culto della forma, si crogiola nella esportazione di
strutture formali (quali le costituzioni) e di concetti che ne vertebrano
l’accezione sostanziale, tutti di genuino imprinting occidentale: divisione
dei poteri, riconoscimento dei diritti. La missione universalistica è adempiuta, dato che tutti gli Stati hanno ormai una costituzione formale e la
stragrande maggioranza ne accetta, formalmente, i contenuti imprescindibili. Tanto meno, la dottrina costituzionalistica è (per lo più) disposta
a mettere in discussione la nozione di “diritto”, quando si confronta con
sistemi che lo concepiscono in maniera diversa. Ciò che non corrisponde
alla nozione occidentale e moderna di diritto, non è tale.
Sul piano scientifico, come per le traduzioni, si dovrebbe usare la parola “diritto” secondo le istanze del ricevente (il lettore “occidentale”):
ossia, dando a questa espressione il senso forgiato dall’uso durante i secoli – sopra tutto da quando il diritto si è liberato dai lacci dell’etica, della
morale, della filosofia, della religione – nel nostro sistema di riferimento,
come il lettore lo intende ora (e cioè secondo il senso che vi dà la cultura
liberaldemocratica). “Diritto” (comparato) dovrebbe essere perciò solo
quella branca della conoscenza che si occupa di diritto (comparato) in
senso nostrano, lasciando a margine ciò che da tempo abbiamo espulso
(etica, morale, filosofia, religione). Questa è però una soluzione eurocentrica, gravemente limitativa della conoscenza. Ci impedisce di studiare e
comparare concezioni dei rapporti tra persone ed enti diverse da quelle
pietrificate nel nostro mondo (concezioni che ancora involucrano nell’indagine comparativa altre cose, solo in Occidente estromesse dal diritto).
Gli storici del diritto ci ammoniscono sulle profonde mutazioni del contenuto di questa parola; i comparatisti dovrebbero usare la stessa sensibilità “orizzontalmente”, nell’esaminare (e comparare) sistemi e istituti
estranei alle concezioni in voga presso la cultura occidentale (Blagojevic,
1953: 652).
Diritto va dunque inteso in senso latissimo, come minimo comune denominatore di ciò che – pur partendo dal significato moderno e occidentale dell’espressione – possa comprendere anche le sue manifestazioni
storiche, oppure quelle eccentriche che, qui, verrebbero verosimilmente
comprese in altre scienze, o discipline, o fenomenologie non giuridiche.
Come ci ricorda Glenn (1999: 841), «L’histoire de la notion de droit comparé est très liée à l’histoire du droit occidental. Dans les autres traditions juridiques du monde, la notion de droit comparé n’existe pas. Cela
n’exclut ni le raisonnement juridique comparatif, ce qui serait difficile,
ni la comparaison avec le droit des autres, ce qui est inévitable, mais
une notion formelle et institutionnalisée de droit comparé n’a jamais été
développée à l’intérieur de ces autres traditions». (Salvo, preciserei, in
autori che, se pur non occidentali, e se pur sensibili alle tradizioni delle
loro culture, lavorano e scrivono con le categorie del diritto occidentale).
392
393
3. Una o più Grundnormen?
Quanto detto sinora potrebbe indurre una conseguenza metodologica: per studiare il diritto costituzionale comparato, ci si dovrebbe allontanare dal canto delle sirene del positivismo, e abbracciare una visione
istituzionalista del diritto (e/o eventualmente una prospettiva idealistica o storicistica). È l’istituzionalismo infatti che esalta il pluralismo, che
stempera il rilievo della legge e del suo linguaggio nella produzione giuridica, che enfatizza il ruolo della società e delle culture, che non disdegna
abbracci e connivenze con scienze e metodi diversi da quello giuridico
(Nuñez Torres, 2011: 101 ss.).
Postfazione
Lucio Pegoraro
Ciò è dovuto alle semplicistiche equazioni “positivismo=legge (codificata)”, e “positivismo=monismo”, che non a caso furono oggetto della polemica strutturalista, dell’attacco all’idea di univocità della regola
(Somma, 2006: 58 ss.; Sacco, 1992: 43 ss.) della censura a una «légalité
univoque et autosuffisante» e a un «fétichisme de la loi écrite et codifiée», che coincidono con visioni superate e limitative di questa filosofia
(Miur Watt, 2000: 509 s.; Sánchez Lorenzo, 2008: 1099 ss.). Viceversa,
il positivismo – proprio perché analizza il diritto per quello che è, dovunque sia (o fosse) – accetta e addirittura presuppone per sua indole la
pluralità (nonostante abbia prodotto importanti teorie monistiche della Grundnorm), e nella sua versione analitica riconosce l’importanza del
linguaggio non solo nelle formule codicistiche, ma in qualsiasi altra sua
manifestazione segnica (Bobbio, 2013; Scarpelli, 1965; Bulygin, 2006).
Ricorda Somma (2014: 25), richiamandosi a Bobbio, che «la mera efficacia non rende valido un precetto, che pertanto assume rilievo dal solo
punto di vista storico o sociologico. Ma proprio questo è il punto di vista
indispensabile all’analisi comparatistica, che mira a descrivere il funzionamento delle comunità, piuttosto che a prendere parte al momento della prescrizione circa le modalità del suo funzionamento». E osserva che
«Il pluralismo giuridico costituisce un elemento importante nell’analisi
degli ordinamenti in cui il giuspositivismo ha una lunga tradizione, in
quanto mette in luce il carattere meramente programmatico del monismo
giuridico. La valorizzazione del pluralismo appare invece indispensabile
nello studio degli ordinamenti in cui la tradizione giuspositivista non ha
attecchito, o quantomeno ha avuto un ruolo non paragonabile a quello
rivestito negli ordinamenti a diritto codificato».
A parte che il metodo della comparazione è un metodo giuridico e
finalizzato a creare modelli dotati di prescrittitività, non solo meramente
descrittivi, su ciò si può concordare non necessariamente accogliendo i
postulati dell’istituzionalimo: si può fare comparazione nel diritto costituzionale, e allo stesso tempo una meta-indagine sul diritto costituzionale
comparato, muovendo da una prospettiva positivistica e normativista, a
patto di non ridurre il diritto positivo a legge (dello Stato), e ad accogliere
l’aiuto di altre scienze per analizzare, fuori dallo Stato o dagli Stati, qual
è il diritto vigente, che si impone in virtù di meccanismi sanciti da metanorme e che dalla forza deriva anche la sua validità. Non solo: la grande
distinzione tra validità ed efficacia, dalla quale deriva anche l’ascrizione
del diritto alle scienze del sein o a quelle del sollen, è totalmente estranea
a culture giuridiche diverse da quella occidentale.
Dietro il grande interrogativo della natura descrittiva o prescrittiva
del diritto comparato, c’è quello della norma fondamentale. Accettare o
non accettare la norma fondamentale (e quindi porsi da una prospettiva
interna o esterna all’ordinamento) è problema di chi vive, forgia, interpreta, studia quell’ordinamento. Come ricorda Scarpelli (1972: 419 ss.
e 1982), il problema dell’esistenza della norma fondamentale è diverso
da quello della sua accettazione. Lo è però, diverso, solo per il giurista
interno (compreso il teorico generale), mentre per chi maneggia più ordinamenti da una prospettiva comparatistica non può esserlo, a meno di
ipotizzare a parametro un’unica norma base, trattandosi invece di mero
accertamento empirico, e non «di scelta, di presa di posizione, di applicazione di norme e valori metagiuridici».
Un diritto costituzionale comparato moderno, non eurocentrico, attrezzato per affrontare le sfide della contrapposizione e dell’integrazione, si edifica dunque su due pilastri. Il primo è la consapevolezza dei
condizionamenti culturali e il posizionamento relativistico a livello di costruzione gnoseologica. Il secondo è l’attribuzione del rilievo adeguato ai
formanti prevalenti – di volta in volta legislativo, giurisprudenziale, culturale –, secondo l’oggetto dell’indagine. Il rischio è sussumere quest’ultimo nella sfera del giuridico, senza avere previamente delimitato i limiti
del medesimo.
A prescindere dalla concezione del diritto come idea (Kelsen), o come
fatto (Llewellyn, Frank, Olivecrona, Ross, Hägerström) o, infine, come
linguaggio (Bobbio, Scarpelli), a un accostamento positivistico al diritto
comparato non ripugna affatto enfatizzare, di volta in volta, quali elementi produttivi di norme, elementi differenti dal precetto legislativo o
dalla decisione giurisprudenziale. In particolare, aderendo alla tesi che il
diritto si traduce in comunicazioni linguistiche che esprimono significati
precettivi, e che quindi sul piano gnoseologico la scienza giuridica è una
scienza empirica, vertendo essa su fatti quali sono le entità linguistiche
(Barberis, 1990: 53 ss.), uguale rilievo può essere dato, in relazione all’oggetto di analisi, alla legge, alla sentenza, alla fatwa, al proclama politico,
ecc., oltre che, pur se ciò andrebbe spiegato in termini parzialmente di-
394
395
Postfazione
Lucio Pegoraro
versi, alla regola convenzionale o all’uso come tramandato: «anche nel
caso della consuetudine fonte del diritto non bastano [infatti] comportamenti regolari, occorre che i comportamenti abbiano valore di segni,
o siano accompagnati da segni esprimenti l’assunzione della regolarità a
regola direttiva della condotta» (Scarpelli, 1972: 423 s.).
Preliminare a un’analisi comparatistica è dunque accettare che le comunicazioni linguistiche produttive del diritto promanano non solo dai
testi normativi tradizionalmente analizzati dalla dottrina nello Stato occidentale moderno (leggi, sentenze), ma anche dal formante culturale,
comprensivo di serialità di elementi abitualmente trascurati nelle indagini tradizionali. La sussunzione di elementi eccentrici alla nostra cultura
nella sfera del giuridico consente peraltro di operare indagini comparatistiche giuridiche solo a condizione di affinarne la tecnica di utilizzazione.
la idea de constitución como norma jurídica suprema del Estado y fortalecer su presencia determinadora en el ordenamiento jurídico».
Le tesi di Robert Alexy, Ronald Dworkin, Luigi Ferrajoli, Carlos
Nino, Gustavo Zagrebelsky, Manuel Atienza, José Juan Moreso, Peter
Häberle e altri mirano a raggiungere lo stesso risultato – la difesa e l’espansione dei diritti “occidentali” – cui si può pervenire battendo strade
non valutative (e non preconcette). Il comparatista si confronta con la
relatività della storia, dei luoghi, delle culture, dei valori espressi nelle (o
ricavabili dalle) costituzioni. Ha le sue preferenze, dovute alla sua cultura, ma appunto sa che la sua è una cultura, non l’unica cultura, e si pone
il problema della conciliabilità, dell’esportabilità, dell’importabilità di
norme, principi, valori. Suggerisce la composizione tra diritti individuali
e diritti dei gruppi, e anche per questo è utile per le funzioni sussidiarie
della comparazione.
In particolare Häberle opta decisamente per il modello costituzionale
del “mondo libero”, al quale gli studiosi devono rivolgersi per mantenere ogni discorso «nella profondità e nello scorrere della storia». Se,
come egli afferma, il diritto comparato rappresenta il quinto metodo
di interpretazione (Häberle, 1998 e 2010: 379 ss.), in aggiunta a quelli
classici indicati da Savigny, come non porsi però, per l’interpretazione
della costituzione, due problemi fondamentali: quello dell’esistenza di
concetti analoghi (es. eguaglianza, dignità) in altre culture (e il concetto
di “cultura” è un argomento topico della sua argomentazione) e quello
dei sensi, o significati, che ai concetti sono attribuiti fuori dalla cultura
liberale o liberaldemocratica o dello Stato costituzionale? Di fatto, anche
l’impostazione di Häberle è, oltre che eurocentrica, figlia della Pandettistica, in quanto trasfonde concetti propri di un solo mondo culturale (l’Occidente, e in particolare la Germania) all’universo, assegnando
all’interpretazione costituzionale il compito di realizzarli, ovunque sia.
Questi concetti non sono il risultato di una ricerca di mediazione tra più
modi di intendere il diritto, ma sono storicizzati in una peculiare esperienza – quella delle democrazie occidentali – e in un particolare clima
culturale (quello odierno), come attestano le sue indicazioni dei classici
da studiare per rendere «le Costituzioni eredità culturale»: non v’è un
solo autore indiano o cinese o islamico nella bibliografia häberliana, e
neppure sudafricano o latinoamericano. Le scelte legate alla storia e alla
396
4. Visioni moniste
La letteratura di diritto costituzionale di tutto il mondo si ferma spesso
(per fortuna non sempre!) alla descrizione, all’analisi e alle classificazioni
delle strutture formali, anche quando l’oggetto di indagine sia un istituto
o persino un sistema giuridico radicato in culture/tradizioni diverse.
Una via solo apparentemente differente è battuta da quegli studiosi
che, se pur non percorrono sempre lo stesso cammino, taluni ascrivono unitariamente alla corrente del c.d. neocostituzionalismo (ma c’è chi
dubita che esso abbia una radice e una struttura unitaria; cfr. Guastini,
2011, con replica di Barberis, 2011: 285 ss.). Come ci ricordano Viciano
Pastor e Martínez Dalmau (2011: 6), richiamando Comanducci (2003:
83), «Como teoría del Derecho, el neoconstitucionalismo – en particular
a partir de los principios – aspira a describir los logros de la constitucionalización, entendida como el proceso que ha comportado una modificación de los grandes sistemas jurídicos contemporáneos. Por esta razón,
está caracterizado por una constitución invasora, por la positivización
de un catálogo de derechos, por la omnipresencia en la constitución de
principios y reglas, y por algunas peculiaridades de la interpretación y de
la aplicación de las normas constitucionales respecto a la interpretación y
aplicación de la ley. Se trata, en definitiva, de recuperar en sentido fuerte
397
398
Postfazione
cultura, non relativizzate, ma con pretese universalistiche, mi sembrano
così giustificare l’imposizione della “nostra” cultura per difendersi dagli
“altri”, non diversamente da quanto Savigny aveva fatto a suo tempo,
per contrastare l’universalismo illuminista dei codici napoleonici (però,
Savigny, limitandosi alla difesa del diritto romano, senza velleità di imposizione su quanti ne stavano fuori).
Un caso a parte è rappresentato dai costituzionalisti statunitensi: di
solito, i problemi metodologici vengono affrontati semplicemente universalizzando le categorie del costituzionalismo nordamericano, che a
priori sono reputate valide per tutto il mondo. Un esempio tra tanti è un
saggio di Tushnet (2003: 2781 ss.) che, nel proporre nuove metodologie
classificatorie della giurisprudenza costituzionale, estende le categorie
elaborate dalla corte suprema anche ad altri ordinamenti, senza minimamente verificarne la applicabilità, e mistificando così i dati forniti dal
diritto positivo. Non casualmente, nella bibliografia non appare alcun
autore che non sia statunitense. In altro saggio, significativamente, il medesimo autore ascrive la nascita del diritto costituzionale comparato alla
data di approvazione della costituzione statunitense, pur concedendo
che, dagli anni ‘80 del secolo scorso, anche altre esperienze siano state
significative per lo sviluppo della disciplina (Tushnet, 2006: 1226 s.). Ci
sono eccezioni, come Ackerman (1997: 771 ss.) o Fletcher (1998: 683) o
Winter (2001), del quale si segnalano le pagine su “law and mind” e sulle
classificazioni; tuttavia il dibattito sul metodo, quando non è ignorato o
disprezzato, prende spesso a metro di misura l’esperienza statunitense: lo
riconosce persino una autrice sensibile come Jackson (2012: 55), quando, nel catalogare i diversi approcci al diritto costituzionale comparato
– classificatorio, storico, normativo, funzionale e contestuale – afferma
che essi si usano per affrontare temi di diritto straniero «on a matter of
domestic interest», e che in buona parte la resistenza all’uso della comparazione è dovuta a un meccanismo di difesa derivante da un senso di
insicurezza e ansietà dei giudici americani (Jackson, 1999: 583 ss.; per le
note critiche v. Kreimer, 1999: 640 ss.).
Lucio Pegoraro
399
5. Le scienze diverse
Quando si studiano fenomeni che presupponiamo essere giuridici,
quali quelli indagati in questo libro, occorre sempre chiedersi prima: «ma
cosa è diritto?» (Crespi Reghizzi, 2012: 244). Infatti «le droit n’apporte
sur le droit aucun éclairage» (Legendre, 2009: 488). «Le pluralisme et
le relativisme: tels sont les premiers enseignements qu’un cours de droit
comparé doit dispenser», ci ricorda Fauvarque-Cosson (2002: 308).
Scientificità significa verificabilità (anche interna, ovvero della correttezza delle operazioni logiche), e quindi rifiuto di immettere nella ricerca e nell’analisi dei dati elementi preconcetti non neutrali, assumendo
a parametro di valutazione fattori religiosi, politici, o estrinsecamente
etici. Ogni atteggiamento aprioristico da una prospettiva assiologica induce infatti a mescolare giudizi di fatto e giudizi di valore, sollecita a
pretermettere lo studio delle connotazioni di valore nell’uso dei termini
utilizzati (“democrazia”, “costituzione”, “diritti”, “libertà”, “eguaglianza”, “guerra santa”, ecc.), e a non disvelarle; ostacola una sistematizzazione dei termini di ogni discorso giuridico. Insomma, tutto il contrario
di ciò che esige l’analisi giuridica. L’a priori giusnaturalistico, la scelta
di campo ideologica, l’opzione investigativa non suffragata da categorie
scientificamente elaborate concorre allo scontro di civiltà, di cui ragiona
Huntington, non attraverso l’analisi scientifica, ma attraverso la rinuncia
consapevole o inconsapevole a percorrere le indagini con metodo. Con
il risultato non solo di produrre ricerche costruite sulla sabbia, ma anche
di dare fiato alle trombe di chi tali ricerche usa per avallare operazioni di
esportazione di valori, quali sovrastrutture culturali per imporre nuovi
ordini globali insensibili a ciascuna storia, a ciascuna cultura, a ciascuna
società, a ciascuna civiltà.
Mentre dunque, in Occidente, spesso si leggono i diritti (in senso
oggettivo) “diversi” con il metro domestico; e mentre dentro il diritto
nostrano (occidentale), un uso malaccorto di scienze diverse per spiegare il diritto costituzionale rappresenta (spesso) solo un’abile scorciatoia
per giustificare il discostarsi dalle regole (e dai segni linguistici che le
enunciano), nello studio di altri sistemi la loro utilizzazione appare una
modalità indispensabile per descrivere e interpretare la fenomenologia
giuridica, che non si attrezza, come nella forma di Stato liberaldemocra-
Postfazione
Lucio Pegoraro
tica, previamente delimitando quale sia la sfera del diritto e quella di altre
scienze attraverso istituti quali il rule of law, il concetto di divisione dei
poteri, il riconoscimento dei diritti individuali, ecc.
Dentro e fuori le liberaldemocrazie si impone pertanto la questione
di come servirsi di tali scienze. La correttezza della loro utilizzazione
può infatti concorrere all’affermazione di una scienza del diritto costituzionale comparato i cui risultati siano verificabili, autonoma (e quindi
sganciata dalle costruzioni teoretiche interne ai singoli ordinamenti), e
con caratteristiche proprie rispetto ad altre scienze giuridiche, e persino
rispetto ad altri settori della comparazione giuridica. L’oggetto del diritto
costituzionale comparato presenta invero sue specificità, che richiedono
anche metodologicamente un accostamento peculiare a discipline diverse, e un’utilizzazione delle stesse propria solo della comparazione giuspubblicistica (amplius, Pegoraro, 2014: 111 ss.).
Il diritto controegemonico, al cui alveo riconduco l’esperienza descritta in questo libro, è diritto, ma non è diritto come lo concepiamo noi.
Si abbevera da e si conforma a coordinate incomprensibili ai giuristi dogmatici se non ricorrano all’aiuto di scienze che in Occidente sono relegate
al prima o all’accanto della scienza giuridica. Il suo studio implica il rifiuto di ogni preconcetto unitario e uniformizzante di norma fondamentale,
e l’abbandono di quella Grundnorm che accogliamo come guida interna
facendo del discorso giuridico un discorso prescrittivo. (Ciò peraltro non
implica necessariamente la negazione della prescrittività dei metadiscorsi
sul diritto comparato).
Due discipline che utilizzano una metodologia induttiva ed empirica
– sociologia del diritto e antropologia giuridica – rivestono un particolare
rilievo per i comparatisti costituzionalisti che ambiscano a non arrestare
le loro ricerche alle frontiere del mondo omogeneizzato plasmato nella
forma di Stato liberaldemocratica. A entrambe la scienza comparatistica
deve riferirsi sopra tutto quando si proceda a classificazioni o a macrocomparazioni estese a regioni giuridiche disomogenee. La sociologia poi
– meno l’antropologia – presenta notevoli connessioni con la comparazione anche a livello interno allo schema abituale di riferimento, ovvero il
diritto c.d. evoluto (Carbonnier, 1969: 78; Izdebski, 1988: 563).
Essa ha influenzato in modo particolarmente penetrante gli studi giuridici, addirittura orientandone importanti correnti e per ciò attirandosi
gli strali dei custodi del metodo giuridico: rivolti, beninteso, non già alla
scienza in sé, quanto all’utilizzazione di metodologie e obiettivi estranei all’analisi giuridica. La sociologia giuridica, «disciplina che, in linea
di massima, ha per oggetto lo studio dei rapporti reciproci tra diritto e
società» (Treves, 1974: 1 ss.; e v. l’ampia riflessione che vi dedica Scarpelli, 1982: 287 ss.), utile per gli studi di diritto interno, e indispensabile alimento della politica del diritto, in campo comparatistico permette
verificazioni dell’aderenza degli schemi giuridici (specie costruiti sulla
base dei formanti normativo e giurisprudenziale) a dati empiricamente
verificabili. Funge pertanto per i comparatisti da elemento di riflessione
per non ancorare le indagini giuridiche a preconcetti avulsi dalla realtà,
e al contempo quale fattore di verificazione delle conoscenze. Induce a
riflettere sull’applicabilità di interpretazioni del diritto accettate in determinati contesti, ma inapplicabili ad altri. Sollecita insomma un accostamento critico a ogni costruzione universale del diritto, enfatizzando il
pluralismo espresso dalla e dalle società.
A sua volta l’antropologia giuridica, come illustrato in uno stimolante
libro di Sacco (2007), rappresenta la chiave di lettura essenziale per comprendere i fenomeni di società basate su concezioni non occidentali del
diritto. Già Holmes (1899: 443) osservava d’altronde alla fine del XIX
secolo che quando ci si occupa di diritto la strada conduce ineluttabilmente all’antropologia, e che il diritto si risolve in un grande documento
antropologico. Il discorso da fare sull’antropologia è simile a quello che
si fa di solito sulla scienza politica quando si evochino le problematiche
riferite al rigore metodologico, e concorre alla critica di tendenze evasive
dalla sfera della metodologia giuridica; è in parte diverso, quando sottolinea la difficoltà, se non l’impossibilità, di analizzare comparativamente
i fenomeni giuridici senza tener conto dei dati sociali e culturali che nelle
diverse società li ispirano. In altre parole: un’indagine giuridica comparatistica può essere proficuamente condotta nell’alveo della famiglia di
common law o di civil law, come pure nell’ambito della forma di Stato
liberaldemocratica (quanto meno con riferimento a ordinamenti stabilizzati e omogenei) senza attingere alla scienza politica, come pure spesso
ignorando totalmente l’antropologia giuridica; ma ricerche che esulino
dall’ambito ora indicato, o vogliano operare raffronti tra tali ambiti e ambiti esterni, difficilmente possono raggiungere risultati appaganti se non
400
401
Postfazione
Lucio Pegoraro
tengano in considerazione, oltre che la storia del diritto (e, magari, quella
delle religioni), l’antropologia. L’antropologia per sua stessa natura non
è scienza eurocentrica: sposta le frontiere della comparazione, rifiutando
di collocarle ai confini dello Stato liberal-democratico o della visione occidentale del diritto. Utile ai civilisti come ai costituzionalisti, serve anche
per indagare sul pluralismo interno a ciascun ordinamento, alimentato
dalla presenza di gruppi minoritari non integrati (ed eclatantemente accentuato, in Europa, dai flussi migratori degli ultimi decenni).
di intendere la società e il diritto stesso in una fusione armonica delle
culture e degli interessi sottesi.
402
6. Conclusioni
Lo studio del diritto praticato nelle comunità andine (e ora codificato
nelle costituzioni di alcuni Stati) non può prescindere dalla sociologia (e
dall’antropologia), come bene attesta questo libro. L’amalgama tra distinte discipline, lungi dall’inficiarne la metodologia, fa anzi emergere la
continuità del discorso: da parte dei sociologi, con l’indagine su quali
siano le regole percepite e attuate nelle comunità analizzate; da parte dei
giuristi, con lo studio della formalizzazione di tali regole. La difficoltà per
questi ultimi è spogliarsi degli stilemi della cultura di origine (giuridica,
ma non solo), e accettare coordinate e lessici diversi. L’operazione è aiutata da ciò che gli ordinamenti analizzati impiantano le culture autoctone
negli schemi formali del costituzionalismo occidentale, se pure con tutte
le contraddizioni, gli adattamenti e gli ostacoli segnalati nei vari saggi che
compongono il volume.
I comparatisti che hanno affiancato i sociologi sono attrezzati per questa sfida, siano essi privatisti o costituzionalisti. Il loro percorso scientifico, oltre che i saggi proposti, ne attestano l’apertura mentale e la capacità
di abbandonare gli stereotipi di chi non sa guardare oltre la periferia
dell’impero (o peggio della città o della parrocchia), e purtuttavia ha
l’ambizione di spiegare la globalizzazione e l’internazionalizzazione del
diritto leggendola attraverso la propria lente. Solo l’accettazione del plurale, la messa in gioco delle certezze, l’accettazione degli apporti di varie
discipline può contribuire a una lettura davvero profonda (e globale) del
diritto; in particolare di quello costituzionale di quegli ordinamenti e sistemi dove, come questo libro ci spiega, si flettono le istanze di un modo
403
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Abstract: This paper highlights the necessity to deconstruct the concept of “law” when one studies, in comparative perspective, legal
systems different from those belonging to the liberal democracies.
In particular, this activity is needed to address the issues of the
nuevo constitucionalismo and the buen vivir developed in the Andean region. In order to comply with this goal, the interaction with
and the support of other sciences, such as sociology and anthropology, is an essential aspect.
Keywords: Methodology of comparative law, Interdisciplinarity, Nuevo constitucionalismo, Buen vivir.
405
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RICCARDO GIROTTO, Gestire il personale in tempo di crisi: quali ammortizzatori?, luglio 2010 (.pdf)
ANTONELLO GUSTAPANE, SCIA edilizia e responsabilità penale dei
funzionari comunali, maggio 2013 (.pdf)
FRANCESCO RUBINO, Il trust nel passaggio generazionale nelle imprese di famiglia, gennaio 2010 (.pdf)
ANTONELLA TRENTINI, Perequazione urbanistica, aprile 2013 (.pdf)
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MAURIZIO ARENA - MARCELLO PRESILLA, Giochi, scommesse e normativa antiriciclaggio, luglio 2012 (cartaceo)
LUCA MEZZETTI - CALOGERO PIZZOLO (a cura di), Diritto costituzionale transnazionale, febbraio 2013 (cartaceo)
ALFREDO DE FRANCESCO, Il giusto processo criminale come teatro di
verità e giustizia, febbraio 2011 (.pdf)
CESARE GALLI, Guida alle garanzie sui diritti di proprietà industriale
e intellettuale, ottobre 2011 (cartaceo)
MAURIZIO ARENA, La prevenzione della corruzione nelle aziende farmaceutiche, aprile 2011 (cartaceo)
MONOGRAFIE
NICOLA MONFREDA - SERENA AVETA, Il contrasto dell’immigrazione
clandestina, settembre 2010 (.pdf)
Opere dedicate all’approfondimento di una singola tematica con implicazioni di carattere giuridico, rivolte prevalentemente al pubblico
degli operatori del diritto
GIUSEPPE FEBBO, La giustizia sportiva, gennaio 2011 (.pdf)
SCINTILLE
GIOVAMBATTISTA PALUMBO - RANIERI RAZZANTE, Le nuove frontiere
della criminalità finanziaria. Evasione fiscale, frodi e riciclaggio,
marzo 2014 (cartaceo)
Opere di carattere divulgativo riguardanti temi di attualità e/o di
interesse generale
ANTONELLA TRENTINI, L’avvocato degli enti pubblici. Commentario
ROCCO GIANLUCA MASSA, La dura regola di eBay, dicembre 2012
(.pdf)
410
Le collane di Filodiritto Editore
Le collane di Filodiritto Editore
411
MAURIZIO ARENA, La corruzione tra privati, novembre 2012 (.pdf)
LE GUIDE DI FILODIRITTO
ESPORTARE INFORMATI
Opere scaricabili gratuitamente, snelle e di agevole consultazione, in
formato .pdf, di interesse generale o riguardanti discipline particolari
del mondo del diritto
Opere dedicate principalmente al mondo dell’imprenditoria incentrate su problematiche di natura legale attinenti all’esportazione, oppure dedicate integralmente allo studio di ordinamenti esteri
CLARES DE CRUZ, Singapore, aprile 2013 (.pdf)
COLLANA UNIVERSITARIA
Opere di taglio manualistico, destinate prevalentemente al
mondo dell’Università e dei concorsi
SILVIA BAGNI - GIORGIA PAVANI (a cura di), Materiali essenziali per
un corso di Diritto pubblico comparato, settembre 2013 (cartaceo)
LUCIANO BUTTI, Diventare giurista, ottobre 2012 (II ed. cartacea,
.pdf)
SOTTO COLLANA “OLTRE FINISTERRAE”
diretta dal Prof. Lucio Pegoraro e dal Prof. Angelo Rinella
MAURO MAZZA, Aurora borealis. Diritto polare e comparazione giuridica, luglio 2014 (cartaceo)
MARIO TOCCI, Il danno punitivo in prospettiva comparatistica, giugno 2014 (cartaceo)
SILVIA BAGNI (a cura di), Dallo Stato del bienestar allo Stato del buen
vivir, settembre 2013 (cartaceo)
ANTONELLO GUSTAPANE, Il Pubblico Ministero nel regime fascista,
luglio 2014 (.pdf)
LUCIA RIPA, Guida alla tassazione degli atti giudiziari, giugno 2014
(.pdf)
CORRADO MANDIROLA - CAMILLA SIESS, La cessione della clientela negli studi professionali, maggio 2014 (.pdf)
MAURIZIO VILLANI - IOLANDA PANSARDi, Guida pratica alle novità
sulle società di comodo, aprile 2014 (.pdf)
MARIO ALBERTO CATAROZZO, Guida pratica al sito internet per lo studio professionale, febbraio 2014 (.pdf)
MARIO ALBERTO CATAROZZO, Guida pratica al public speaking per
professionisti dell’area legale, febbraio 2014 (.pdf)
VITTORIO MIRRA, Equity Crowdfunding: la guida pratica, gennaio
2014 (.pdf)
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LUCIO PEGORARO, Libere traduzioni in libero stato (.pdf)
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ANTONIO ZAMA (a cura di), Stampa in 3D: la rivoluzione che cambia
il mondo, in uscita novembre 2014
412
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ANTONIO ZAMA (a cura di), La disciplina del crowdfunding: aspetti
pratici e potenzialità