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UNIVERSITARIA OLTRE FINISTERRAE COLLANA DI STUDI COMPARATISTICI DIRETTORI Lucio Pegoraro Angelo Rinella COMITATO DI DIREZIONE INTERNAZIONALE Carlos Blanco de Morais Gerardo Eto Cruz José Julio Fernández Rodríguez Giovanni A. Figueroa Mejía Agassiz Filho David Fonseca Sergio Gerotto José F. Palomino Manchego Gianmaria Piccinelli Lara Trucco COMITATO DI VALUTAZIONE INTERNAZIONALE Serena Baldin Maria Auxiliadora Castro e Camargo Liliana Estupiñán Achury Gianluca Gardini Francisco José Gutiérrez Rodríguez Patrizia Magarò Aurides Mora Michael O. Nuñez Torres Antonino Procida Mirabelli di Lauro Juan José Ruiz-Ruiz Mayte Salvador Crespo Mario Serio La revisione dei volumi pubblicati nella collana è effettuata da due membri del Comitato di valutazione o, in ragione della specificità di contenuti, da esperti individuati dal Comitato di direzione e, quando occorra, da tre componenti di quest’ultimo. Le sfide della sostenibilità Il buen vivir andino dalla prospettiva europea a cura di Serena Baldin e Moreno Zago La pubblicazione è stata realizzata con il contributo del Fondo di finanziamento di Ateneo per progetti di ricerca (Fra 2012) attribuito al progetto “L’emersione di paradigmi di sviluppo sostenibile e solidale. Dall’America Latina qualche suggerimento per l’Europa?”, coordinato dalla prof.ssa Serena Baldin del Dipartimento di Scienze politiche e sociali (www.dispes.units.it). Con il patrocinio di: - Centro Studi sull’America Latina dell’Università di Bologna - Centro Studi per l’America Latina dell’Università di Trieste - Sezione italiana dell’Instituto Iberoamericano de Derecho Constitucional - Sezione Territorio dell’Associazione Italiana di Sociologia Questo volume è stato sottoposto a una procedura di valutazione anonima da parte di due referees. SOMMARIO PREFAZIONE Il buen vivir come risposta ai problemi di fondo dell’umanità Alfredo Mela INTRODUZIONE Le declinazioni della sostenibilità. Esperienze latinoamericane ed europee a confronto Serena Baldin, Moreno Zago 9 17 PARTE I LE SOCIETÀ INCLUSIVE Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud: alcuni interrogativi Francesco Lazzari ISBN 978-88-95922-53-9 © Copyright 2014 Filodiritto Editore www.filodirittoeditore.com In copertina immagine © iStockphoto.com Inforomatica S.r.l., Via Castiglione 81, 40124 Bologna www.inforomatica.it Filosofie del buen vivir tra passato e futuro Fulvio Longato Il sumak kawsay: da cosmovisione indigena a principio costituzionale in Ecuador Silvia Bagni 27 51 73 101 Stampato da Rabbi S.r.l. - Bologna, ottobre 2014 Il buen vivir come “autoctonia costituzionale” e limite al mutamento Michele Carducci La traduzione, l’adattamento totale o parziale, la riproduzione con qualsiasi mezzo (compresi i film, i microfilm, le fotocopie), nonché la memorizzazione elettronica, sono riservati per tutti i paesi. L’interculturalità come condizione di sostenibilità del multiculturalismo Cinzia Piciocchi 119 6 Sommario Il rispetto della natura e delle specificità culturali: il buen vivir come pratica interculturale Donatella Greco Sommario 135 Le nuove città del sogno e del buen vivir: il Movimento Cittaslow Chiara Beccalli PARTE II GLI ORIZZONTI DELLA SOSTENIBILITÀ I diritti della natura: i risvolti giuridici dell’ética ambiental exigente in America Latina Serena Baldin Altre economie e buen vivir Chiara Zanetti 155 Benessere psicofisico: etica, persona e armonia con la natura Elisabetta Pontello 7 285 299 317 185 Dal Pil al Buen vivir: paradigmi di sviluppo, indici e paesi a confronto Moreno Zago 333 Vulnerabilità del bene comune acqua e sollecitazioni di giustizia in America Latina Sabrina Lanni 201 Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita): si possono misurare? Giovanni Delli Zotti 369 Food Sovereignty: processi di democratizzazione dei sistemi alimentari in America Latina Angelo Rinella 219 Pachamanka e sovranità alimentare in Ecuador: due spazi di “cottura” Paolo Corvo, Claudia García 239 Agroecologia e buen vivir. Come far giocare l’uomo e l’ambiente Giorgio Osti 253 Natura, buen vivir e razionalità neoliberale Luigi Pellizzoni PARTE III IL BENESSERE E LE SUE MISURAZIONI Il buen vivir tra economia e società Gabriele Blasutig 271 POSTFAZIONE Diritto, diritto comparato, altre scienze nello studio del nuevo constitucionalismo e del buen vivir andino Lucio Pegoraro 389 PREFAZIONE Il buen vivir come risposta ai problemi di fondo dell’umanità di Alfredo Mela1* Da quasi un quarto di secolo, in parallelo con l’espandersi di un capitalismo finanziario caratterizzato dallo scoppio di “bolle” e con la diffusione di politiche multilivello ispirate al neoliberismo, si fa strada anche la convinzione che i modelli di sviluppo, che hanno consentito la crescita economica in una parte del mondo nel corso del XX secolo, stiano conducendo verso un vicolo cieco che riguarda – sia pure in forme diverse – tutti i paesi. Di qui nasce l’urgenza di trovare altri percorsi praticabili per l’umanità nel suo complesso. La crisi che si è aperta nel 2007-2008 sembra avvalorare ulteriormente la necessità di un cambiamento, ma al tempo stesso mette in evidenza le enormi forze di resistenza che esso incontra, ponendo anche in luce la diversità – e talora la inconciliabilità – delle idee e delle proposte che dovrebbero favorirlo. Ciò dipende dal fatto che, nelle varie proposte, i principi ispiratori di una possibile transizione verso nuovi (o, quanto meno, riformati) assetti economici, sociali e territoriali comportano differenti valutazioni delle ragioni dei fattori di crisi e dei percorsi atti a superarli. Per usare una forte schematizzazione, si potrebbe dire che molte proposte si situano lungo una linea che vede agli opposti due visioni quasi del tutto antitetiche. La prima ritiene che la crisi nasca da meccanismi di blocco del modello dominante, in atto soprattutto nella fase più recente, che possono essere superati attraverso una nuova ondata di processi di “modernizzazione”, vale a dire di adeguamento del sistema capitalistico – tanto a scala globale, quanto a quella di ogni contesto nazionale – alle esigenze della fase attuale. Questo implica il rilancio di un orientamento allo svi- * Professore ordinario di Sociologia dell’ambiente e del territorio nel Politecnico di Torino. Prefazione Alfredo Mela luppo equiparato sostanzialmente alla crescita economica, ma corretto attraverso un pieno uso delle potenzialità delle nuove tecnologie (con particolare riguardo alle Ict) in campo economico e sociale, un’accresciuta attenzione alla sostenibilità – anche e soprattutto come fattore di impulso alla green economy –, un sostegno alla competitività delle imprese e alla globalizzazione che non dimentichi, tuttavia, l’esigenza di una maggiore inclusività sociale. È questo l’orientamento che traspare nelle retoriche dell’Unione Europea e nei programmi che essa propone; più specificamente, è questa la filosofia che si esplicita – a scala spaziale – nelle proposte che stanno sotto il concetto-ombrello di smart city: ai problemi dell’urbanesimo contemporaneo si risponde con un complesso di politiche di innovazione, che si avvalgono delle tecnologie di punta per perseguire obiettivi di promozione della sostenibilità ambientale, di rilancio economico, di miglioramento della fruibilità della città. La polarità opposta è ispirata, invece, ad una critica radicale del modello di sviluppo dominante, che ne mette in discussione non solo gli esiti oggi osservabili, ma gli stessi presupposti. La crisi attuale, in questa prospettiva, non è un incidente di percorso, ma evidenzia come la traiettoria di tale percorso sia insostenibile e debba essere orientata in direzioni completamente diverse. La necessità di una inversione di tendenza attraversa pressoché tutti gli aspetti del modello di sviluppo: il rapporto predatorio che esso ha instaurato tra la specie umana e la natura, l’idea che il profitto sia l’unico movente dell’attività economica, gli squilibri crescenti tra i paesi e tra i gruppi all’interno di ciascuno di essi, la subordinazione della scienza e delle applicazioni tecnologiche alle sole esigenze di mercato. Ma, ancora al di là di tutti questi oggetti di critica, sta l’idea che occorra superare lo stesso concetto di sviluppo, non solo perché spesso inteso come pura crescita del Pil di ogni paese, bensì anche perché basato sull’obiettivo di un progresso indefinito dell’attività umana in un mondo comunque caratterizzato dalla finitezza delle risorse. Queste visioni radicali trovano per lo più espressione in movimenti sociali e in organizzazioni della società civile, piuttosto che nelle politiche istituzionali: esse riguardano, ad esempio, i movimenti altermondialisti, le forme radicali di ambientalismo, una miriade di movimenti locali che si oppongono a specifici progetti o a grandi opere, cercando tuttavia una connessione reticolare con altri attori sociali. Rispetto alla linea ora descritta – entro la quale si possono trovare delle posizioni intermedie, che tentano peraltro difficili mediazioni tra le due polarità – il tema del buen vivir, che è l’oggetto di questo libro, presenta per molti aspetti una posizione eccentrica. Esso, infatti, nasce da una interpretazione della crisi che si avvicina maggiormente alla seconda delle polarità ora descritte ma, al tempo stesso, ha ormai acquisito un carattere istituzionale, divenendo bandiera ispiratrice di politiche di alcuni Stati latinoamericani. In ciò sta il suo fascino, ma anche qualche elemento di ambivalenza. Nelle pagine che seguono sia l’uno che gli altri troveranno una puntuale analisi; tuttavia, già in sede introduttiva può essere utile sottolineare alcuni aspetti. Innanzitutto, l’idea di buen vivir ha un carattere effettivamente in contrasto con i modelli basati sulla crescita e, dunque, non può essere considerata una semplice declinazione latinoamericana di concetti come quello di sviluppo sostenibile, quanto meno nelle sue interpretazioni blandamente riformiste. Come sottolinea Gudynas (2011), riprendendo l’espressione di altri intellettuali latinoamericani, essa non propone forme alternative di sviluppo, ma un’alternativa allo sviluppo. In questa luce, il concetto di buen vivir ingloba certamente una presa d’atto realistica: quella che il modello economico-sociale dei paesi più sviluppati non potrebbe essere proposto come obiettivo per l’intero quadro dei paesi mondiali, perché il suo raggiungimento comporterebbe l’irreversibile distruzione dei rapporti tra l’uomo e la natura. Tuttavia, va al di là di questo, in quanto accusa di etnocentrismo lo stesso pensiero “sviluppista”: esso sarebbe una concezione imposta all’America Latina tramite il colonialismo – prima politico e poi economico – in contrasto con quella dei popoli originari del continente, la cui visione cosmologica ed il sistema di valori comprendono, invece, l’idea di una relazione armonica tra la specie umana ed il cosmo e, dunque, della comunità di destini tra l’uomo, gli altri esseri viventi, la Terra. D’altra parte, il buen vivir, a differenza di altri concetti che si propongono solo come idee-guida per l’azione di movimenti o per la progettazione di politiche, diventa un riferimento che, in alcuni paesi latinoamericani, assume addirittura un rilievo costituzionale. Dunque, si trasforma in un principio non solo recepito a livello istituzionale, ma addirittura posto a fondamento delle istituzioni statali. Questo, da un lato, ne raf- 10 11 Prefazione Alfredo Mela forza la concretezza e lo configura come una proposta non puramente utopica ma, semmai, come una utopia realizzabile e, per alcuni aspetti, già realizzata. Dall’altro lato, lega inevitabilmente il paradigma del buen vivir alle pratiche degli Stati che lo assumono come principio ed alle scelte politiche dei governi di tali paesi e, in primo luogo, dei loro leader. Ciò espone, in qualche misura, il paradigma stesso ai rischi di diventare strumento di consenso interno e di rafforzamento della posizione di taluni Stati in un contesto internazionale o, quanto meno, subcontinentale; lo apre, dunque, a tutte le ambiguità delle idee che si incarnano in concrete strutture sociali, politiche e giuridiche. Per queste ragioni, il buen vivir occupa un posto peculiare tra le potenziali idee-guida di modelli alternativi a (o seriamente correttivi di) quelli del capitalismo attuale: è una forma di radicalismo istituzionalizzato che – si può aggiungere – non nasce da rivoluzioni che si sono consolidate in forme istituzionali (come quelle che, nel corso del Novecento, hanno conosciuto ad esempio il Messico o Cuba), ma da profonde riforme della democrazia nei rispettivi paesi. C’è poi ancora un fondamentale motivo di specificità di questo paradigma: esso intende ispirarsi ad una tradizione autoctona, aspirando ad integrarla con l’eredità che proviene dalla cultura dei colonizzatori iberici. Una tradizione che, orientata da una visione comunitaria che pone a fondamento della vita buona l’armonia del cosmo e l’equilibrio tra l’uomo e la natura, non solo dà piena dignità ai popoli indigeni americani nei confronti della popolazione di origine iberica, ma mostra l’importanza del loro contributo alla risoluzione di un problema di fondo dell’umanità intera. Potremmo dunque asserire che il concetto del buen vivir (o sumak kawsay, o suma qamaña, come sarebbe forse più appropriato dire, conservando le dizioni delle lingue originarie) si presenta al tempo stesso come culturalmente specifico, ma capace di aspirare ad un ruolo cosmopolita. Con ciò prende implicitamente le distanze da idee che a loro volta si presentano come dotate di validità universale, ma che, per così dire, non accettano di essere espressione specifica della cultura occidentale, in quanto presuppongono una automatica equivalenza tra universalismo e valori europei: ciò vale in modo particolare per principi ispirati ad un ottimismo tecnologico e alla fiducia nell’economia di mercato, come è il caso ad esempio della già ricordata filosofia smart o di alcune interpretazioni della sostenibilità. Questa natura al tempo stesso “locale” e “universale” del buen vivir pone il problema del possibile trasferimento dei suoi insegnamenti nel nostro contesto europeo e, dunque, della sua rilevanza come riferimento teorico e politico per le nostre società. È un problema alla cui risposta il presente testo offre importanti spunti, aprendo comunque ad ulteriori approfondimenti. Pur restando alla superficie del tema, penso che vi siano due atteggiamenti da evitare. Il primo è quello di relegare la discussione ad un ambito di specialisti dell’America Latina, sotto il pretesto apparentemente ragionevole che una comprensione piena del significato del buen vivir derivi solo da una piena conoscenza della cosmovisione dei popoli autoctoni e dalle ricostruzione storica delle vicende postcoloniali del subcontinente, sino alla comprensione delle tensioni contemporanee che lo attraversano. Sarebbe questo un eccesso di contestualizzazione, che finirebbe per svuotare l’idea delle sue valenze universali, evitando di prendere coscienza del fatto che essa prova a dare risposta a problemi che si impongono ormai a tutti i popoli della Terra – qualunque ne sia la cosmovisione – e che la crisi attuale ha reso sempre meno eludibili. L’atteggiamento opposto da rifuggire è, invece, quello di un difetto di contestualizzazione che portasse semplicemente ad un entusiasmo acritico per l’idea del buen vivir, svuotandola dei suoi contenuti peculiari. Tale rischio, in definitiva, è quello di una sua accettazione in un clima di eclettismo superficiale o, peggio, quello di un innamoramento a prima vista, da parte di intellettuali occidentali, per un concetto che suona un po’ esotico e proprio per questo può esercitare un fascino per chi cerca soluzioni stimolanti alle aporie del proprio universo culturale. Se questo avvenisse, non sarebbe la prima volta (si pensi all’attrazione esercitata in Europa da varie forme di movimenti rivoluzionari latinoamericani, specie tra gli anni ‘60 e ‘80), ma potrebbe rivelarsi come un fuoco di paglia, che non lascia tracce di rilievo. Entrambi i rischi, come è evidente, sono qui presentati in forma schematica e persino un po’ caricaturale. Tuttavia il problema è sufficientemente chiaro: di fronte ad un’idea che proviene da un contesto culturale “altro”, ma che affronta temi di rilevanza generale, si tratta in primo luogo di prenderla sul serio su entrambi i versanti. Su quello universalistico occorre ammettere che la ricerca di un nuovo riferimento per la definizione di obiettivi sociali ed economici non ammette remore: l’idea di 12 13 14 Prefazione un progresso indefinito basato unicamente sull’ottimismo tecnologico e sulle politiche neoliberali non conduce ormai da nessuna parte. Il paradigma del buen vivir, che propone come riferimento modelli di vita sobria, basati sull’equilibrio uomo-natura, sull’affermazione del ruolo della diversità culturale, rinviando a concezioni olistiche delle relazioni sociali e della salute, è un contributo importante verso l’individuazione di alternative. Sul versante della specificità culturale, occorre partire dal rispetto per l’universo culturale che lo ha prodotto, unito ad un impegno per una più adeguata comprensione di esso, senza per questo rinunciare a cogliere le ambiguità che derivano dai progetti politici che hanno fatto del buen vivir un principio costituzionale. Tale rispetto della alterità conduce ad un dialogo franco e paritario, che non si identifica necessariamente con l’adesione ad una cosmovisione altra. Oltre ciò (ed è questo un tema cui qui si accenna solo di sfuggita), dovrebbe implicare anche lo stimolo ad una riflessione più approfondita sulla nostra stessa cultura. Prendere coscienza del fatto che la cultura occidentale non è che una delle civiltà del pianeta e, dunque, superare la miopia di una visione eurocentrica è certamente una premessa indispensabile di quel dialogo paritario di cui si diceva. Ma lo è anche una riappropriazione di quegli aspetti della cultura europea e di quelle tradizioni che non coincidono affatto con l’individualismo estremo e con una concezione puramente strumentale della natura. Non tutta la storia ed il pensiero dell’Occidente convergono verso gli esiti di cui la crisi attuale sta evidenziando l’impatto negativo. Il capitalismo delle crisi finanziarie e della precarizzazione del lavoro è probabilmente il segnale della fine di un’epoca, ma non è la conseguenza inevitabile di tutta la civiltà europea. Può apparire banale riaffermare questo, ma il clima culturale di questo inizio di XXI secolo sembra renderlo non del tutto superfluo. Dunque, dialogare con le culture altre è essenziale, come lo è al tempo stesso compiere una riflessione critica sulla nostra, per riallacciarci a quegli aspetti delle tradizioni occidentali che meglio si adattano a far da ponte tra l’Europa e gli altri continenti. Alfredo Mela 15 Bibliografia Gudynas E. (2011), Buen vivir: germinando alternativas al desarrollo, in ALAI, América Latina en Movimiento, 462. Abstract: The author focuses on the universal nature of the concept of buen vivir as opposed to a conception of the dominant development model based on the goal of an indefinite progress of human activity in a world, however, characterized by the finiteness of resources. But it would be wrong to relegate it to a simple declension of Latin American concepts such as sustainable development. In fact, despite coming from a different cultural context, it addresses issues of general relevance by proposing a model of lifestyle based on the balance among man, community and nature and on the affirmation of the role of cultural diversity and biodiversity. Keywords: World economic crisis, Buen vivir, Alternative development model, Universal values, Cultural biodiversity. INTRODUZIONE Le declinazioni della sostenibilità. Esperienze latinoamericane ed europee a confronto di Serena Baldin2* e Moreno Zago3** Il programma strategico Horizon 2020 con cui l’Unione Europea punta a rilanciare lo sviluppo degli Stati membri, alla voce “Sfide per la società” fissa delle priorità che fanno leva, fra le altre cose, sulla gestione sostenibile delle risorse naturali e degli ecosistemi e sulla costruzione di società inclusive e innovative. L’obiettivo è una crescita economica e occupazionale attenta alle esigenze di sostenibilità, le quali inglobano sia aspetti ambientali che sociali. Nell’attuale contesto di grave crisi economica e finanziaria, il modello di sviluppo occidentale è sottoposto ad ancora maggiori critiche rispetto al passato. Già a partire dagli anni ‘70, gli studi sui limiti dello sviluppo hanno evidenziato le difficoltà di crescita di un sistema economico in presenza di una disponibilità limitata di risorse naturali (Meadows et al., 1972). In senso stretto, tali vincoli si concretizzano, in particolare, in scarsità di acqua, cibo ed energia (Unescap, 2010). In senso più ampio, anche il cambiamento climatico rappresenta una variabile che incide in modo sempre più preponderante sul successo del percorso di crescita. La tendenza mondiale rispetto alle risorse naturali è di un’intensificazione del prelievo e dell’uso, dovuta alla congiunzione fra il mantenimento degli standard di consumo dei paesi sviluppati e la crescente domanda da parte dei paesi emergenti, alcuni dei quali molto popolosi e quindi in grado di modificare ampiamente gli impatti. Nel caso dei paesi sviluppati, che hanno già raggiunto un equilibrio di crescita sostenuta, si manifestano * Professoressa associata di Diritto pubblico comparato nell’Università di Trieste. Professore associato di Sociologia dell’ambiente e del territorio nell’Università di Trieste. ** Introduzione Serena Baldin - Moreno Zago sempre più chiare le criticità di tale sviluppo, mentre per i paesi emergenti, che stanno ancora attraversando la cosiddetta fase di transizione, ci si chiede se il modello adottato dai primi sia ancora realizzabile oppure non sia più sostenibile (Galor, 2005; Unescap, 2012). Sul piano sociale si osserva poi che le diseguaglianze si stanno accentuando, e ciò anche nei paesi sviluppati. Una crescita solidale implica, a livello pratico, la progettazione di programmi di inclusione sociale che ha come obiettivo di garantire un minimo livello di welfare per ciascun individuo, una condizione di benessere che comprenda sia beni materiali (che si inverano primariamente nella garanzia del godimento dei diritti sociali: alla salute, all’alloggio, ecc.), sia immateriali, al fine di interagire in maniera costruttiva in seno alla società. Ecco che un livello dignitoso di istruzione, il lavoro, la partecipazione alla vita politica, il riconoscimento della diversità culturale assumono un rilievo significativo, in quanto rappresentano l’ambizione più profonda delle politiche inclusive, ossia il raggiungimento della coesione sociale (Collins, 2003). La ricerca di strategie alternative di sviluppo e di strumenti sociali inclusivi e innovativi si dovrebbe muovere non solo sul piano delle pratiche, bensì anche su quello dell’analisi dei simboli del benessere. Ciò in quanto le visioni del mondo e del benessere pesano sulle tendenze attuali. Lo sviluppo sostenibile non è percepito allo stesso modo dagli attori globali. La sostenibilità chiama in causa idee e valori diversi a seconda del contesto di riferimento. Anche il termine sviluppo può implicare concetti differenti in base alle credenze etiche, alle rappresentazioni del mondo e agli obiettivi dei singoli individui. Tutto ciò suggerisce di ampliare lo spettro della riflessione teorica, evidenziando altre rappresentazioni della sostenibilità. Del resto, il fatto che la circolazione delle idee in campo giuridico, sociale, economico e ambientale non sia unidirezionale, egemonizzata dall’Occidente, bensì interdipendente e reciproca, è un dato oramai acquisito. Le esperienze in ogni ambito del sapere di cui sono portatori i paesi in via di sviluppo e quelli emergenti – che non hanno conosciuto la razionalizzazione del mondo occidentale di stampo weberiano –, rappresentano un fertile terreno di analisi per individuare strategie nuove e modelli alternativi di sviluppo, utili a rinfocolare il dibattito in Europa. Muovendo da queste premesse, la collettanea si indirizza verso lo stu- dio di altri paradigmi di vita, fondati su inclusione e partecipazione sociale, equità distributiva, rispetto della diversità culturale e della biodiversità, ecosostenibilità, giustizia ambientale, sovranità alimentare, benessere psicofisico, con intenti di conoscenza e di comprensione delle capacità innovative di soluzioni forgiate altrove. Sotto questo profilo, appare degna di interesse scientifico la cosmovisione dei popoli autoctoni dell’area andina, sumak kawsay e suma qamaña nelle lingue native. La loro filosofia di vita, tradotta con i termini buen vivir e vivir bien, contempla l’esistenza armoniosa, intesa come vivere in equilibrio con la comunità e con la natura, e non come vivere sempre meglio secondo la logica di sviluppo occidentale. Il postulato di fondo è che tutti gli esseri viventi sono parte della Pachamama e in essa si completano. Questo sistema di pensiero è cosmocentrico, con gli esseri umani coscienti di avere un ruolo subordinato rispetto all’ordine delle cose e ben lontano dall’immagine antropocentrica dominante. Da poco costituzionalizzata negli ordinamenti di Ecuador (2008) e Bolivia (2009), questa cosmovisione esprime un equilibrio che include la qualità della vita, la democratizzazione dello Stato, l’inclusione di tutte le componenti sociali e l’attenzione ai temi ecologici. Il buen vivir implica un cambio radicale nel modo di concepire le relazioni fra Stato, società e mercato, nel tentativo di superare una visione riduzionista di crescita economica che non è in grado di diffondere il benessere in vaste aree del mondo. Ci si trova di fronte a una posizione differente tanto dal realismo cartesiano quanto dal costruttivismo kantiano, che hanno dominato la modernità collegandosi con l’atteggiamento appropriativo che caratterizza l’economia di mercato e i regimi di proprietà, e vicini a declinazioni recenti in ambito filosofico, sociologico e antropologico post-strutturalista. Giova qui chiarire che il buen vivir è un concetto in costruzione, da non confondersi con un ideale di ritorno a un passato pre-coloniale. I movimenti sociali iniziarono a richiamarsi al buen vivir negli anni ‘90, per contestare le riforme economiche di stampo neoliberale, esprimendo in questo modo l’impegno verso la decolonizzazione e il rafforzamento delle identità culturali (Arkonada, 2009; Walsh, 2010; Gudynas, 2011). Si tratta di una narrazione controegemonica, un prodotto culturale assurto a tradizione «inventata» secondo l’accezione di Hobsbawm (2002: 3 ss.), ossia l’elaborazione di una risposta a tempi di crisi, a epoche di rapido 18 19 Introduzione Serena Baldin - Moreno Zago cambiamento sociale e dove il richiamo al passato serve a legittimare le scelte politiche. Marini (2011: 185) chiarisce che il richiamo all’invenzione non sottende necessariamente la nascita di un qualcosa che prima non esisteva. Esso serve piuttosto a indicare il processo mediante il quale viene raggiunta una versione univoca della tradizione, privilegiando alcuni percorsi a scapito di altri. Il passato cui si riferisce la tradizione non è dunque necessariamente il passato storico. Ciò che importa non è la verità del fatto, bensì la verità del ricordo che determina l’«anacronismo essenziale» delle tradizioni (Monateri, 2013: 43 s.). Individui e tradizioni culturali sono parte di una complessiva memoria della collettività nella quale epoche e culture si stratificano le une sulle altre e possono, come reminiscenze, riemergere e venire nuovamente collegate (Assmann, 2002: 256). I richiami al buen vivir appaiono allora un’operazione delle élites indigene per coagulare il consenso elettorale attorno a un manifesto politico che permea alcune società andine. La comprensione dei valori e la soddisfazione dei bisogni delineati nella piattaforma politica del buen vivir sollecitano una lettura interculturale a ogni livello di conoscenza. Un passaggio obbligato per affermare una «epistemologia del Sud» (de Sousa Santos, 2009), non occidentale, che finalmente incorpori la cultura autoctona nell’identità latinoamericana, sovente dipinta come mera periferia del centro europeo (Somma, 2012). A partire dalle suddette riflessioni, i curatori si domandano quali siano i valori che il buen vivir reca con sé e se dalla visione umanistica – focalizzata sull’individuo e la sua partecipazione/inclusione nella comunità – e da quella cosmocentrica – distinta dalla prospettiva antropocentrica – si possano trarre degli spunti utili al raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità fissati dall’Unione Europea. L’obiettivo è di riempire di significato questi concetti elaborati nell’area latinoamericana e di cogliere differenze e somiglianze con le più recenti tendenze rinvenibili in ambito europeo e anche internazionale. Temi e problemi si sintetizzano in questo volume lungo tre filoni di indagine. Il primo filone riguarda le società inclusive. Una società inclusiva dà senso di appartenenza a una comunità, considera la diversità come un elemento di forza e non di divisione ed è basata sul rispetto reciproco, garantendo pari opportunità e un tenore di vita dignitoso per tutti. Francesco Lazzari apre la prima parte del volume con un’analisi dei movimenti sociali che le recenti trasformazioni istituzionali avvenute in America Latina hanno rimesso al centro della scena geopolitica. Questi, richiamandosi anche alle tradizioni indigene, si stanno muovendo per un’equa redistribuzione delle risorse nel rispetto dei diritti fondamentali della persona e dell’ambiente. Fulvio Longato introduce il tema del buen vivir mettendo a fuoco le convergenze tra le cosmovisioni andine e l’attuale riflessione occidentale sullo sviluppo, illustrando le problematiche da affrontare per perseguire uno stile di vita improntato sulla sobrietà. Silvia Bagni evidenzia come i richiami costituzionali al sumak kawsay e alla Pachamama rappresentino un elemento innovativo del neocostituzionalismo andino caratterizzato dal tentativo di creare uno Stato realmente pluralistico, solidale, partecipativo ed ecologico. Attraverso il riferimento al c.d. dilemma del cacciatore di Rousseau, Michele Carducci spiega la funzione delle clausole costituzionali legate al buen vivir, finalizzate a scongiurarne o comunque a limitarne gli effetti a danno dell’autoctonia costituzionale intesa come pluralismo interculturale e come natura-soggetto. Il tema dell’interculturalità viene poi approfondito nei due articoli successivi. Cinzia Piciocchi, descrivendo la differenza tra multiculturalismo e interculturalità in ambito giuridico, evidenzia come quest’ultima veicoli l’idea che la reciprocità risiede nel riconoscimento dell’altro, e che la convivenza implica un’assunzione di responsabilità collettiva. Donatella Greco analizza la relazione che i principi del buen vivir stabiliscono con le tematiche legate all’ibridazione nel contesto latinoamericano, così come viene intesa nelle riflessioni dell’antropologo Néstor García Canclini, anche a fronte dei meccanismi di globalizzazione tutt’ora in corso. Il secondo filone è rivolto alla sostenibilità con riferimento ad ambiente, acqua e sovranità alimentare. Questi temi, presenti nelle agende degli Stati e delle organizzazioni internazionali, sono considerati un traguardo per l’equilibrio politico mondiale e per la sopravvivenza umana. Questa parte si apre con il contributo di Serena Baldin che esplora il tema del riconoscimento dei diritti di Madre Terra evidenziando come la vera novità introdotta da Ecuador e Bolivia sia l’actio popularis in materia ambientale. Il rilievo dell’aspetto ecologico insito nel buen vivir, secondo Luigi Pellizzoni, potrebbe rappresentare un’alternativa allo sfruttamento del mondo biofisico che la globalizzazione neoliberale sta portando al 20 21 Introduzione Serena Baldin - Moreno Zago parossismo. La sfida che l’America Latina lancia alle logiche del mercato e del profitto governanti i settori relativi all’acqua e al cibo viene trattata nei contributi successivi. Sabrina Lanni segnala le cause ex ante ed ex post che incidono sulla persistenza della crisi dell’acqua e della sua vulnerabilità giuridica e dedica attenzione specifica al Tribunale latinoamericano dell’acqua, che rappresenta una forma di risposta alle diffuse istanze di giustizia alternativa e di soluzioni per la lesione degli interessi pubblici e sociali connessi a questo bene. Oltre al controllo sull’acqua, affiora il concetto di sovranità alimentare quale obiettivo strategico finalizzato ad invertire la logica distruttiva del modello agroalimentare dominante. Angelo Rinella si concentra su questo principio nelle costituzioni di Venezuela, Ecuador e Bolivia, mentre Paolo Corvo e Claudia García individuano nella sovranità alimentare e nella pachamanka – un antichissimo sistema di cucinare – due spazi di “cottura” di idee e di alimenti in cui si esprimono l’identità e le ambizioni andine. Giorgio Osti, infine, utilizza l’agriecologia e la sovranità alimentare come terreno di prova del rapporto uomo-natura che il buen vivir propone. L’ultimo filone è quello del benessere economico, sociale e psicofisico e della sua misurazione. Negli ultimi anni, i paesi dell’America Latina stanno conoscendo importanti tassi di crescita economica, accompagnati da significativi progressi in campo sociale. Tuttavia la politica, sia europea che latinoamericana, appare tiepida di fronte al crescere di movimenti sociali che aspirano a una re-incorporazione dell’economia nella società. Gabriele Blasutig sviluppa proprio questo ultimo aspetto, evidenziando come il paradigma del buen vivir metta in discussione l’idea – centrale nella modernità – che l’economia di mercato costituisca un sistema autoregolato e separato dalla società e come l’azione economica stia diventando sempre più una forma di azione sociale. E di economie diverse, altre, solidali, etiche, sostenibili scrive Chiara Zanetti, illustrando l’insieme di esperienze e buone pratiche che propongono alternative al sistema di mercato esistente, che nel tempo ha messo in luce tutte le sue criticità. Con Chiara Beccalli dall’economia si passa alla società e alle politiche di governance e di pianificazione locale delle città che mettono al centro i cittadini nel rispetto delle tradizioni fondative e per la ricerca di un miglioramento della qualità della vita, affrontando l’esperienza del Movimento Cittaslow. Elisabetta Pontello si focalizza sull’accezione di ben-essere psicofisico della persona, che richiede un rapporto armonioso con la natura e che implica processi decisionali attinenti alla capacità di fare e di essere. I due contributi finali sono dedicati alle misurazione della qualità della vita a livello territoriale e individuale. Consapevoli che la soddisfazione dei bisogni umani risponde a esigenze di valori sociali specifici di ogni cultura, Moreno Zago, dopo una critica agli indicatori classici dello sviluppo e agli indici proposti da varie organizzazioni, suggerisce un indice composito basato sulla visione andina del buen vivir evidenziando la relazione uomo-natura, mentre Giovanni Delli Zotti fa un approfondimento metodologico sul concetto di felicità e di come questo sia calcolato nelle survey internazionali. In conclusione, i curatori non possono che condividere quanto scrivono nella prefazione Alfredo Mela e nella postfazione Lucio Pegoraro, quando il primo suggerisce di evitare un facile innamoramento per un concetto esotico che può rischiare di rivelarsi come un fuoco di paglia che non lascia tracce rilevanti, e il secondo che rimarca la necessità di un approccio critico sempre più interdisciplinare, in particolare del diritto con la sociologia – che enfatizza il pluralismo espresso dalle società – e l’antropologia – chiave di lettura essenziale per comprendere i fenomeni basati su concezioni non occidentali del diritto. Il sistema andino, proponendo un modello di vita basato sull’equilibrio fra esseri umani e natura e sull’affermazione del rispetto della diversità culturale e della biodiversità, al di là delle sue zone d’ombra e delle peculiarità tipiche dell’area, offre un contributo importante al tema dello sviluppo sostenibile. È un’alternativa di cui essere consapevoli per affrontare meglio le sfide che si presentano all’Europa, con particolare riguardo agli approcci neoliberali dei modelli di crescita. 22 23 Bibliografia Arkonada K. (2009), Crisis de civilización y Vivir Bien, in http://www.rebelion. org/noticias/2009/10/94135.pdf. Assmann A. (2002), Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, il Mulino. Collins H. (2003), Discrimination, equality and social inclusion, in Modern Law Review, 66. de Sousa Santos B. (2009), Una epistemología del Sur. La reinvención del cono- 24 Introduzione cimiento y la emancipación social, Siglo XXI. Galor O. (2005), From stagnation to growth: unified growth theory, in Aghion P., Durlauf S.N. (eds.), Handbook of economic growth, 1A. Gudynas E. (2011), Buen vivir: today’s tomorrow, in Development, 54(4). Hobsbawm E.J. (2002), Introduzione: Come si inventa una tradizione, in Hobsbawm E.J., Ranger T. (cur.), L’invenzione della tradizione, Einaudi. Marini G. 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Abstract: The volume focuses on the Andean cosmovision called buen vivir and its manifestations on the social, environmental, legal, economic spheres. Recognized in the constitutions of Ecuador (2008) and Bolivia (2009), buen vivir (sumak kawsay or suma qamaña in local idioms) does not conceive the separation between human beings and nature typical of the Western societies. It is a systemic approach to the development and sustainability, based on the subjective aspect rather than the objective one, and which differs from the linear models of Western development. The aim of the volume is to analyze the concepts of sustainable development and wellbeing in Latin America in the light of buen vivir and to understand their potential in comparison to the European societies. Keywords: Horizon 2020, Buen vivir, Inclusive societies, Sustainability, Well-being. PARTE I LE SOCIETÀ INCLUSIVE Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud: alcuni interrogativi di Francesco Lazzari4* SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La dialettica sistemica tra democrazia e democrazie. – 3. Coscientizzazione, processi di conquista dei saperi e democrazia emancipatoria. – 4. Per un sistema mondo che integri e armonizzi i diritti della persona e i diritti della Terra. 1. Premessa In questi ultimi lustri si è andata sviluppando in America Latina una serie di rivolgimenti culturali, sociali e istituzionali che sembrano abbracciare, pur nella diversità dei linguaggi e delle forme, una visione del mondo interpretabile secondo alcuni filoni particolarmente significativi: a) attenzione alla persona intesa nella sua centralità inderogabile e depositaria di diritti, quelli illustrati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, firmata a Parigi nell’ambito dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Una preoccupazione che per certi aspetti va anche oltre, con riferimento soprattutto a quanto attiene ai diritti dei popoli e della natura, che fanno un tutt’uno con i diritti della persona. Una persona i cui bisogni e aspirazioni rientrano in una visione olistica, integrata e sostenibile, in cui il suo benessere e buen vivir sono inscindibili dalla salute dell’ambiente e della Pachamama, in lingua nativa Madre Terra; b) movimenti collettivi e sociali, comunità di base e della società civile che, pur avendo una lunga tradizione di attivismo, di intervento e pressione sociale, in questi ultimi decenni si sono fatti particolarmente incisivi riuscendo a produrre effettivi e sostanziali cambiamenti, non solo a livello * Professore straordinario di Sociologia generale nell’Università di Trieste e direttore del Centro Studi per l’America Latina (Csal) e della rivista Visioni LatinoAmericane. Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud Francesco Lazzari di società civile, ma anche sul piano istituzionale. Sono in grado di condizionare la politica, quando non vi intervengono direttamente facendo eleggere propri rappresentanti o comunque leader sostenuti, seppur non senza critiche, dai movimenti stessi. Qualche esempio: Luiz Inácio Lula da Silva, presidente del Brasile dal 2003 al 2011; Fernando Armindo Lugo Méndez, presidente del Paraguay dal 2008 al 2012; Evo Morales, presidente della Bolivia dal 2006; Rafael Correa, presidente dell’Ecuador dal 2007; José Alberto Pepe Mujica Cordano, presidente dell’Uruguay dal 2010; Michelle Bachelet, presidente del Cile dal 2006 al 2010 e dal 2014 per un successivo mandato. Un’attenzione alla persona che nasce da lontano, ma che era stata messa totalmente da parte soprattutto negli anni ‘70 e ‘80 durante il periodo delle dittature militari e dei colpi di Stato cruenti (Brasile, Argentina, Cile, Colombia, Costa Rica, Honduras, Ecuador, Perù, Uruguay, Venezuela e così via) che, con il sostegno molto spesso attivo e diretto degli Stati Uniti, avevano schiacciato ogni diritto individuale-collettivo-democratico e il più elementare diritto alla vita. E forse non è un caso, in una sorta di nemesi storica, che molti degli attuali presidenti siano stati perseguitati, incarcerati, torturati e ridotti all’esilio in quegli anni delle dittature. Si ripropone un’idea di persona senza se e senza ma, scevra da desideri di vendetta e con la barra diritta verso una più incisiva redistribuzione delle ricchezze e di migliori opportunità per tutti. Seppur faticosamente, e tra mille contraddizioni legate anche ai processi di globalizzazione che mettono al centro il mercato, la persona sembra trovare in America Latina un rinnovato vigore che diventa battistrada e conseguenza dell’azione di tanti movimenti collettivi (Lapuente Giné, Sandberg, 2014). Movimenti sociali che, nati in America centromeridionale, si stanno viepiù globalizzando apportando linfa nuova ed energie positive, com’è per esempio il caso del Forum sociale mondiale avviato nel gennaio 2001 a Porto Alegre e diffusosi a livello planetario. Esprimono la forza di una cultura condivisa, che nasce dal basso e che vuole declinare in altro modo la globalizzazione, il suo “libero mercato” e gli epigoni del neoliberismo. Illuminante a tal proposito è quanto sostiene l’attuale presidente eletto dell’Uruguay, José Pepe Mujica Cordano, di origini liguri per parte di madre, quando parla di sviluppo, di mercato e di autorealizzazione basandoli su un concetto quasi del tutto assente dalle riflessioni attuali: la sobrietà. Una sobrietà per vivere meglio e per riconciliare l’uomo con la natura. Una sobrietà che possa rendere l’uomo più felice (Rabhi, 2013). «La mia idea di vita è la sobrietà. Concetto ben diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L’alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui, che però ti tolgono il tempo per vivere» (Staglianò, 2013: 25). Una pratica di vita che il presidente Mujica ha riassunto nello slogan: «Un governo onesto. Un paese di prima classe». Una coerenza che lo fa vivere nella sua casetta di 50 metri quadrati, appena fuori Montevideo, al Cerro, rinunciando al palazzo di rappresentanza e al 90% del suo appannaggio presidenziale che viene utilizzato per finanziare azioni di microcredito in favore della popolazione (Millás, 2014). Un presidente che ha spinto The Economist a eleggere nel 2013 l’Uruguay “paese dell’anno”. 28 29 2. La dialettica sistemica tra democrazia e democrazie Come si sa, i diversi sottosistemi sociali – Stato, mercato, terzo settore e sistemi informali – godono di strette interdipendenze e, proprio in virtù di questa dialettica, anche la conquista dei diritti fondamentali non può mai dirsi definitivamente compiuta. L’ideologia acritica che fa del mercato la sua centralità, ha infatti avviato all’alba del XXI secolo una vera e propria involuzione socio-politica che ha come conseguenza la restrizione-cancellazione graduale ma inesorabile dei diritti fondamentali della persona. Ciò è tanto più grave poiché tale ideologia si pone come unica, reale e possibile salvezza del sistema socio-produttivo vigente. Un vero e proprio pensiero unico. Confondendo gli interessi del neoliberismo con quelli della democrazia, si crede, in virtù di tale ideologia, di poter salvare i diritti della persona e di promuovere la democrazia. Si assiste, invece, alla crescita esponenziale di esclusioni, polarizzazioni tra ricchi e poveri, Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud Francesco Lazzari alla perdita del libero arbitrio del cittadino, alla stabilizzazione di molti poveri sempre più poveri e di pochi ricchi sempre più ricchi, alla perdita di senso, alla sfiducia nello Stato e nella democrazia e all’aumento dell’infelicità delle persone. Le domande che sembrano invece emergere, indipendentemente dalle latitudini, richiamano altre necessità: a) come implementare nuove politiche focalizzate realmente sui bisogni della gente, sull’etica e sulla moralità per una gestione oculata dei beni comuni? b) come lavorare per una diversa governance, planetaria e locale, e per la promozione di processi di vera democrazia? c) come sviluppare una democrazia più compiuta, che valorizzi la pluralità e il riconoscimento nel sistema decisionale di un maggior numero di attori? d) come incrementare una democrazia più sostanziale, che promuova la formazione (Gelpi, 2002) di valori condivisi, etici e una più equa distribuzione della ricchezza anche attraverso un appropriato e responsabile welfare system? e) come radicare una democrazia più reale, che con proprie adeguate e rinnovate istituzioni favorisca e rafforzi gli attori storici (Sosnowski, Patiño, 1999; Beck, 2003; Cesareo, 2003; Lazzari, 2007; Bauman, 2009) e ricomponga le dinamiche, spesso conflittuali, tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, tra Stato e mercato, terzo settore e sistemi informali? Criticità che stanno mettendo in discussione il futuro stesso della democrazia liberale se non si saprà trovare una equilibrata coerenza tra i diversi sottosistemi e se non si saprà uscire dal preconcetto che vede nella democrazia rappresentativa liberale l’unico modo di declinare la partecipazione e l’assunzione di responsabilità pubbliche (Lazzari, 2004a). In soccorso a tal proposito possono arrivare gli studi di Amartya Sen (2004) sulla secolare esperienza di democrazia e libertà di tanti popoli indigeni latinoamericani, asiatici, africani e arabi. «Il sostegno alla causa del pluralismo, della diversità e delle libertà fondamentali è presente nella storia di molte società. Le antiche tradizioni di incoraggiamento e protezione della discussione pubblica su temi politici, sociali e culturali in India, Cina, Giappone, Corea, Iran, Turchia, nel mondo arabo e in molte regioni dell’Africa esigono un più concreto riconoscimento nella storia delle idee democratiche. Questa eredità globale è una ragione sufficiente per mettere in dubbio la tesi, spesso ripetuta, che la democrazia sia un’idea esclusivamente occidentale, e che sia perciò soltanto una forma di occidentalizzazione» (Sen, 2004: 11 s.). Una visione che si salda, peraltro, con l’idea di valorizzare la demodiversità, quella forma di democrazia che non teme la coesistenza di prassi e modelli nati da esperienze differenti quali quelle maturate dal Sud del mondo nell’ottica di un necessario ampliamento del canone democratico (de Sousa Santos, 2004; Spina, 2010). È proprio valorizzando le diversità e le pluralità, che esistono e che caratterizzano il mondo, ma che nel gioco delle forze della modernità e della postmodernità, molto spesso, non hanno potuto affermarsi, che si situa la sfida di un’epistemologia capace di riconsiderare i modelli di organizzazione politica e di conoscenza, non esclusivi del mondo occidentale. Vi sono altri modi di conoscere e altre epistemologie da cui partire e da valorizzare, e che da secoli danno un contributo fondamentale all’umanità. È appunto il caso delle «conoscenze contadine e indigene che, paradossalmente, sono minacciate dall’intervento crescente della scienza moderna» ove peraltro la «preservazione della biodiversità è possibile solo attraverso» tali forme di conoscenza e di pratica (de Sousa Santos, Meneses, 2009: 49). Prendere quindi atto che il mondo è epistemologicamente vario e differenziato e che vi sono più epistemologie che, a causa della supposta neutralità della scienza e della modernità, sono di fatto emarginate ed escluse dai processi di costruzione della conoscenza e delle pratiche di intervento. E questo vale anche per il diritto. Il pluralismo giuridico cui si fa riferimento ridà infatti valore e centralità ai sottogruppi sociali, all’interdipendenza tra l’ordine delle comunità locali e l’ordine normativo superiore, ai trattamenti diversificati dei conflitti che si presentano entro il gruppo ristretto e quelli che intervengono tra gruppi diversi. Contrappone il diritto ufficiale e quello non ufficiale e prende a bersaglio l’identificazione del diritto con lo Stato evidenziando, per contro, il diritto prodotto fuori dallo Stato come il risultato dell’azione della comunità e di quella specifica cultura (Marchi, 2014; Sacco, 2007). Demodiversità come conseguenza e continuità della biodiversità e della distinzione epistemologica, come compresenza di forme differenziate di epistemologia, di democrazia, di culture e di diritto. Evidenziando queste fondamentali relazioni, sinora trascurate, si potrà lavorare per cancellare la linea di demarcazione tra inclusi ed esclusi (dimensione socio-economica), tra vero e falso (dimensione della conoscenza), tra legale e illegale (dimensione 30 31 Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud Francesco Lazzari del diritto). Proprio perché lottare per la giustizia sociale globale implica, appunto, lottare per la giustizia cognitiva globale costruendo una compresenza radicale in cui «le pratiche e gli agenti di entrambi i lati delle linee sono contemporanei in termini egualitari» (de Sousa Santos, Meneses, 2009: 45) nella consapevolezza che «non vi è conoscenza o ignoranza in assoluto, ma ignoranza di alcuni saperi particolari» (ibid.: 39). Un’ecologia del sapere, dunque, capace di superare la visione egemonica della scienza e le sue conseguenti applicazioni tecnologiche, per implementare una conoscenza contro-egemonica che valorizzi i saperi dell’altro, i saperi parziali. Saperi che possono interconnettersi nella «traduzione interculturale, intesa come la procedura che crea una intelligibilità mutua tra le differenti esperienze del mondo, disponibili o possibili» (de Sousa Santos, 2011: 39). Sono dunque tante le sfide, come pure molte le opportunità, con cui misurarsi e su cui costruire la ricerca di senso che interroga tutti, e che ha l’urgenza di una vera e propria transizione epocale (Lazzari, 2010). Modernità, neoliberismo, postmodernità, pluralismo, globalizzazione, multiculturalismo e diritti umani sono i termini del discorso attorno a cui si dipana la riflessione che esige, appunto, un approccio che tenga in debito conto i contributi offerti dai diversi sottosistemi sociali e disciplinari. Se è vero che la modernità ha posto le sue fondamenta sul principio dello Stato, formulato da Hobbes, e sul principio del mercato, approfondito soprattutto da Locke e Adam Smith, è altrettanto vero che il principio solidaristico-partecipativo, comunitario-relazionale resta una dimensione non conclusa. Una sfida cui la postmodernità dovrà fornire risposta favorendo l’esplicazione di tutte le risorse e di tutte le energie di cui il terzo settore e la società civile sono portatori (de Sousa Santos, 2002 e 2005a; Vida, 1998; Toscano, 2010). Diritti umani che a certe condizioni potrebbero essere messi al servizio di politiche emancipatorie e controegemoniche nel momento in cui le differenziate visioni del mondo riuscissero a superare le diverse matrici culturali riconoscendo la loro incompletezza, accettando i «dialoghi interculturali su preoccupazioni isomorfiche» e rinunciando a ogni imperialismo culturale. Sarebbe così possibile pervenire ad una ricostruzione interculturale dei diritti umani (de Sousa Santos, 2008; Battiston, 2009). Sinora, si può dire, la storia della modernità, soprattutto in questi ul- timi secoli, è stata un continuo tentativo di inclusione, ma con l’avvio dei processi di globalizzazione neoliberista sembra si sia invertito tale processo con la comparsa di una sorta di «fascismo sociale» (de Sousa Santos, 2002 e 2003: 20) che porta ad una vera e propria stratificazione della società tra totalmente integrati, parzialmente inclusi e invisibili, privi di qualsiasi diritto (de Sousa Santos, 2005b e 2008). Un fascismo che si manifesta in quattro forme: a) il fascismo dell’apartheid sociale, che evidenzia l’esclusione sociale nella segregazione territoriale urbana tra zone selvagge e zone civilizzate; b) il fascismo parastatale, in cui alcuni attori potenti usurpano le prerogative dello Stato; c) il fascismo dell’insicurezza, in cui si manipola discrezionalmente il sentimento di insicurezza di chi è particolarmente colpito dalla precarietà del lavoro o da altre situazioni di disagio affinché si disponga a sopportare condizioni e pesi enormi in cambio di una supposta diminuzione del rischio insicurezza; d) il fascismo finanziario, la forma più perfida della socialità fascista in quanto da una parte si presenta come pluralista e dall’altra come soggettivo e altamente discrezionale (de Sousa Santos, 2003: 21 ss.). Pur tuttavia, nonostante le inesorabili restrizioni delle tutele della persona, emergono nella contraddizione globalizzante anche risposte divergenti e di rivolta alla globalizzazione egemonica: come la risposta controegemonica o antiegemonica (de Sousa Santos, 2002) che in alcuni paesi dell’America del Sud, grazie ai movimenti sociali e collettivi, appare molto significativa e apre tra l’altro la strada ad una varietà di globalizzazioni che nascono dal basso (Holt-Giménez, 2010). Un processo che sta attivando un’importante transizione «dalla resistenza all’alternativa» (Quijano, 2008), dando spazio al «cosmopolitismo degli oppressi», che trova forme attive di implementazione con azioni di lotta dei popoli come è per esempio il caso, tanto per citarne qualcuno tra i tanti, del movimento zapatista messicano o del Forum sociale mondiale (de Sousa Santos, 2004; Lazzari, 2008). «L’America Latina è il centro di questa nuova fase del movimento sociale mondiale … Alle battaglie dei dominati e degli sfruttati del mondo industriale urbano, contro il neo-liberismo globalizzato, si sommano adesso, innanzitutto, le lotte degli “indigeni” di tutto il mondo, i più dominati tra le vittime della “colonialità” del potere globale, in difesa delle loro risorse per la sopravvivenza, che sono proprio tali, ma erro- 32 33 Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud Francesco Lazzari neamente chiamate “risorse naturali” dalla prospettiva eurocentrica di “sfruttamento della natura”: l’acqua, le foreste, l’ossigeno, il resto degli esseri viventi, le piante alimentari e medicinali, insomma, tutto quello che gli indigeni hanno usato, prodotto, e riprodotto per migliaia di anni, e tutti i materiali che permettono la produzione della realtà sociale. Per questo motivo gli “indigeni” e tutti i settori della popolazione mondiale, cominciando dalla comunità scientifica e dagli intellettuali e professionisti della classe media, così come i lavoratori di tutto il mondo industriale, stanno scoprendo che, in virtù delle tendenze distruttive del capitalismo, queste risorse di sopravvivenza degli “indigeni” sono le stesse risorse per la difesa della vita sul pianeta e sono proprio ciò che il capitalismo colonial-moderno sta portando alla distruzione. Sta emergendo un’ampia coalizione sociale che può essere, e di fatto è, un nuovo movimento sociale mondiale» (Quijano, 2008). «Se intendiamo avanzare una critica realmente radicale alle forme di sapere egemoniche dobbiamo essere in grado di suggerire delle alternative alla cornice eurocentrica e nord-centrica, e riconoscere che l’epistemologia non può essere spiegata soltanto in termini epistemologici. L’epistemologia è invece contestuale, legata alle condizioni storiche in cui prende corpo e a particolari agenti. Dietro una certa concezione epistemologica molto spesso ci sono idee promosse con la forza: non la forza delle idee, ma le idee della forza, della potenza militare, del colonialismo e del capitalismo. Per rinnovare il pensiero epistemologico dobbiamo cominciare dalle esperienze degli oppressi, dal “Sud globale”, dal Sud inteso come chi più subisce gli effetti del capitalismo. Partire dalla loro esperienza cognitiva, da quel che pensano, dalle loro nozioni relative al modo in cui la società si muove per apprendere forme di sapere più complesse e scoprire aspetti sconosciuti delle nostre società. Saperi non disciplinari, non prodotti nelle “istituzioni”. Saperi che nascono da premesse molto diverse e che sottopongono a critica molti dei concetti eurocentrici, compreso quello di democrazia» (dall’intervista di Giuliano Battiston a Boaventura de Sousa Santos, 2009: 13). La cultura indigena, con la sua cosmogonia, con l’idea di Pachamama, con la pratica comunitaria della proprietà e dell’uso della terra e con la democrazia partecipativo-comunitaria (si pensi ai tanti modi di declinare concretamente i processi di democrazia in Africa, Asia e America) sono un chiaro esempio di quello che si intende con la dizione epistemologia del Sud. Anche la sociologia si deve interrogare, rispetto soprattutto alla propria epistemologia, per individuare nuovi paradigmi e nuove teorie con cui leggere ed interpretare la realtà e i sommovimenti introdotti dalla globalizzazione (Lazzari, 2008). Concetti peraltro che ritroviamo, pur con accenti in parte diversi, anche in numerosi altri autori tra i quali Paulo Freire con la Pedagogia degli oppressi (1971). 34 35 3. Coscientizzazione, processi di conquista dei saperi e democrazia emancipatoria La valorizzazione della cultura, di cui è portatore l’analfabeta che non è visto come puro involucro da riempire di nozioni prodotte dalla cultura dominante, fa dell’azione alfabetizzante di Freire un vero e proprio processo formativo-educativo di crescita dell’autostima, del pensiero critico, della presa di coscienza della propria condizione per cambiarla e per sovvertirla in ragione della forza che gli deriva dal semplice essere persona. Quell’importante processo di coscientizzazione, appunto, che Freire propone come cardine della sua azione di alfabetizzazione e di formazione. Si lavora per il superamento della “disumanizzazione” (intesa come deprivazione dei diritti umani, ingiustizia sociale, negazione di accesso alla conoscenza e “prescrizione”) e dell’introiezione dei valori degli oppressori, per un’educazione nuova, moderna, sorretta da una pedagogia critica e processuale, che si incarna nelle esperienze della vita degli educandi, in cui docente-discente sono uniti dall’insegnamentoapprendimento. Una doppia processualità che tocca entrambi non essendovi insegnamento senza apprendimento e viceversa. L’educazione con Paulo Freire diventa vera e propria pratica democratica, di autonomia e di libertà, un’azione per trasformare la propria vita e il mondo in cui si è inseriti attraverso la pratica della liberazione e della coscientizzazione (Freire, 1973a, 1973b, 1974 e 2004). Una ricchezza epistemologica prodotta dunque dal sapere che nasce dall’esperienza e dalla pratica comunitaria delle persone; un’epistemologia del Sud intesa come «modo per afferrare la ricchezza delle esperienze sociali senza che vada dispersa». Non vi può essere giustizia socia- Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud Francesco Lazzari le globale senza una giustizia cognitiva globale (Battiston, 2009: 13; de Sousa Santos, 2004 e 2008). Si fa cioè strada, anche grazie ai contributi di Paulo Freire e Boaventura de Sousa Santos, un’idea di scienza intesa come «esercizio di cittadinanza e di solidarietà», la cui qualità si misura in ultima istanza attraverso l’inclusione di quelle «realtà rese assenti dal silenzio, dalla repressione e dalla emarginazione». L’epistemologia neoliberista secondo de Sousa, garantirebbe «solo una democrazia di bassa intensità» perché basata su «un’inclusione politica astratta fatta di esclusione sociale» (Battiston, 2009: 13; de Sousa Santos, 2004). L’azione avviata dai movimenti sociali, con la forte partecipazione diretta dei cittadini e delle persone, favorirebbe la trasformazione della democrazia integrandone le due forme, quella rappresentativa e quella diretta. Una democrazia emancipatoria, direbbe de Sousa, che potrebbe finalmente trasformare i rapporti di potere in rapporti di autorità condivisa e partecipata nella promozione di un altro mondo possibile che non può mai essere «un mondo senza alternative» (de Sousa Santos, 2004). «Non eliminare le specificità culturali, ma creare dei terreni sui quali sia possibile comprendere le differenze e al contempo capire ciò che rimane in comune pur usando lingue differenti. Lo scopo non deve essere l’intrattenimento intellettuale, ma stabilire alleanze tra movimenti sociali» (Battiston, 2009: 13; de Sousa Santos, 2004). I movimenti collettivi e della società civile diventano cioè spazi in cui confluiscono tutti coloro i quali lavorano per una globalizzazione controegemonica, con al centro la persona, e non il mercato, capace di «includere vari mondi, vari tipi di organizzazioni e di movimenti sociali e varie concezioni di emancipazione sociale» (de Sousa Santos, 2003: 31). Un nuovo contratto sociale più inclusivo, capace di sostituire la giustizia restauratrice con la giustizia trasformatrice. Per dare effettive risposte inclusive e redistributive alle attese dei movimenti sociali vi è la necessità di un diritto emancipatorio che orienti le azioni e le politiche. Un diritto e delle politiche profondamente innovate capaci di favorire una integrazione del diritto e dei diritti con cui si esprimono le mobilitazioni politiche, tali da permettere che «le lotte siano politicizzate prima di essere legalizzate (de Sousa Santos, 2003: 37). Ove sia appunto possibile superare lo stretto legame che si registra nella società moderna tra diritto e potere, in cui il diritto si presenta come uno «strumento squisitamente potestativo, strumento di potere, strumento di controllo funzionalizzato alla piena affermazione del potere» (Grossi, 2003: 440). A tal proposito il Forum sociale mondiale ne è un esempio emblematico: perché è nato al Sud; perché raggruppa e coordina movimenti di provenienze diverse che, pur tenendo ciascuno la propria specificità, riescono a sviluppare sinergie e alleanze, a cooperare e a creare azioni adeguate in risposta ai bisogni emergenti. E, cosa non di poco conto, nelle azioni del Forum sociale mondiale, la presenza dei movimenti indigeni si è ritagliata uno spazio decisamente significativo dimostrando che esiste una società civile sempre più tenace, articolata, competente e sinergica, che lascia intravedere come piccole e mirate azioni possano conseguire effetti significativi per tutto il sistema mondo. In questo senso l’impegno degli indios chiapanecas o del movimento zapatista del Messico o quello, tanto per citare qualche altro esempio latinoamericano, del movimento dei sem terra brasiliani, dei mapuches in Cile, degli indigeni dell’Ecuador, del movimento katarista in Bolivia, possono rappresentare, in una società ancora in parte autoritaria e fortemente piramidale ed escludente, un’opportunità di radicale cambiamento culturale e sociale interconnesso nella rete globale dei movimenti antisistemici (Lemoine, 1997; Aa.Vv., 2001; Herrera, 2000). Movimenti collettivi che si saldano frequentemente con movimenti etnici di diverse origini e natura e che sono presenti in quasi tutti i paesi del mondo, dall’Europa all’Asia, dalle Americhe all’Africa, all’Oceania. Quanto sia importante questo tipo di presenza è rivelato anche dal fatto che nel mondo vi sono appena 14 paesi con una nazione composta da una sola etnia, e il più delle volte si tratta di paesi minuscoli. Nel resto del mondo, all’inizio del XXI secolo, si trovano tra le 6.000 e le 10.000 etnie con 230 gruppi etnici minoritari che equivalgono a circa il 17% della popolazione mondiale, vale a dire a circa un miliardo di persone. Di questi gruppi, il 51% è attore di un qualche tipo di rivolta, 142 hanno messo in atto attacchi violenti contro le autorità costituite e 176 hanno attuato proteste non violente. Erano 57 nel 2000 i paesi che dovevano misurarsi con conflitti etnici, separatisti o irredentisti (González, Thelman Sánchez, 2001). Una statistica ampiamente superata se vi si aggiungono i più recenti sommovimenti socio-politici rappresentati dalle primavere 36 37 Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud Francesco Lazzari arabe o europee, sfociate talora in colpi di Stato talaltra in vere e proprie guerre civili o annessioni, com’è per esempio il caso rispettivamente di Egitto, Libia, Siria, Crimea, ecc. Movimenti che possono scuotere dalle fondamenta la democrazia, la filosofia della Carta di San Francisco del 1945 e della Dichiarazione dei diritti della persona del 1948 e avviare veri e propri esodi di profughi e di rifugiati che possono destabilizzare Stati e regioni. È certamente vero – osservava il presidente Bill Clinton – che la diversità etnica, sociale, culturale «è fonte di forza e causa di orgoglio» (Aa. Vv., 1996a: 59; Bataille, 1997), ma è altrettanto vero che in buona parte dei confini della terra ancora troppo spesso si assiste alla segregazione degli abitanti indigeni, dei movimenti che si ribellano all’ingiustizia, che si rivoltano alla povertà e alla miseria. Sono proprio queste presenze che, pur nel fluire della storia con le sue colonizzazioni, conquiste e distruzioni, si fanno memoria storica, incarnata e autenticamente vissuta. Si pensi appunto alla realtà andina e sud-andina che, nonostante le frontiere costruite dagli Stati nazionali usciti dalle conquiste europee, aveva (già migliaia di anni prima di Cristo), e nonostante tutto continua ad avere, una propria identità socio-culturale, linguistica, valoriale che trova concrete presenze in dinamiche comunicative di rete, di complementarità, di interscambio, di solidarietà (Aa.Vv., 1996b). Come già nel 1836 sottolineava de Tocqueville (1968-1969 e 1969), i paesi democratici preferiscono l’uguaglianza, da intendersi in questo caso come l’uniformità (Talmon, 1967; Spengler, 1970); spesso, infatti, i paesi stimati per la loro democrazia non sono affatto egualitari per quanto attiene al rispetto dei diritti delle minoranze. Nelle democrazie, le minoranze hanno forse maggiori probabilità della maggioranza di trovarsi in posizioni svantaggiose con violenze che possono andare dalla pulizia etnica serba o ruandese alle più sottili restrizioni dei diritti di cittadinanza dell’Estonia (1992: divieto alla popolazione russa di partecipare al voto) o dei diritti linguistici. Ingiustizie e disuguaglianze che portano i soggetti coinvolti a ribellarsi e a ricercare risposte che a volte si traducono in conflitti distruttivi tanto per la minoranza quanto per la maggioranza. La sfida si materializza nella capacità di trovare risposte che siano in grado di integrare principi apparentemente contraddittori: l’autodeterminazione della persona e del gruppo e l’integrità territoriale, la garanzia di poter vivere differenti valori, culture, etnie, economie, politiche, progetti di vita nel rispetto dei propri diritti fondamentali individuali, sociali, collettivi e nella sicurezza. Per inciso, va sottolineato che ai termini politico ed economico si attribuisce una chiara dimensione culturale. Le pratiche economiche e politiche, infatti, «dipendono dal e sono dotate di ‘significato’ e sono perciò ‘pratiche culturali’», proprio perché «l’‘economico’ non potrebbe funzionare o avere effetti reali senza la ‘cultura’ o al di fuori del discorso o del significato». La cultura è perciò «costitutiva del ‘politico’ e dell’‘economico’, così come il ‘politico’ e l’‘economico’ sono, a loro volta, costitutivi e pongono i limiti per la cultura … Sono cioè articolati l’uno con l’altro» (Hall, 2001). I movimenti e le azioni collettive, negli accenni problematici e non esaustivi qui riportati, sono appunto da intendersi come tentativi di risposta a queste contraddittorie e complesse questioni. Risposte che non eliminano il conflitto tra le diverse dimensioni del discorso e del significato, e di altre ancora, e cui ci si è richiamati, ma che fanno del conflitto non distruttivo una fonte di ricchezza collettiva nella ricerca di risposte adeguate e ridistributive. Sarà dal conflitto, dal confronto e dall’uso del pensiero critico che potranno scaturire nuove risposte e nuovi scambi reciprocamente arricchenti, capaci di far tesoro dei processi inarrestabili – di incontro-scontro tra culture, etnie, bisogni, aspirazioni, classi, interessi – e di un’acculturazione che deve riconoscere l’uguaglianza funzionale delle culture in quanto tutte sono capaci di mediare, nella loro propria specifica realtà, il rapporto che l’uomo ha con la natura, con gli altri uomini e con il trascendente. Il conflitto, sostiene Rifkin (2000), assume, forse soprattutto oggi, anche la dimensione della lotta tra globalità e culture locali, tra reale e virtuale, tra civiltà e mercato, tra Stato e società civile, tra mercato e terzo settore. Pertanto, se si vorrà salvare la potenza di espressione dei significati condivisi, anche le reti commerciali e virtuali dovranno trovare una controparte nella realtà e nelle esperienze e relazioni sociali e culturali specifiche e dirette, territorialmente definite. La diversità non è dunque da considerarsi come esclusiva manifestazione di opposizione, incomunicabilità o conflitto fra culture e civiltà differenti, fra i diversi sottosistemi che compongono una società o una nazione (Ianni, 1998; Ramonet, 1999; Beck, 2000; Ascione, 2010); dalla 38 39 Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud Francesco Lazzari diversità possono scaturire – come si può constatare da tante esperienze di vita, di culture e di popoli – solidarietà, ricchezze e nuovi impulsi di vita (Béland, Zamorano Villarreal, 2000). La diversità è anzi l’humus di ogni democrazia capace di dialogare (De Vita, 2003) con tutte le sue subculture, è il presupposto di un agire sociale che voglia farsi autentica azione di promozione – e di auto-promozione – di tutte le componenti senza che un attore (Stato, mercato o azione collettiva) abbia il sopravvento o il diritto di primazia sull’altro (quasi sempre sulla società civile). Perché questo possa accadere, non basterà «combattere l’esclusivismo», ma «occorre respingere sia l’indifferenza al valore (anche nella forma del relativismo), sia la tendenza all’uniformità che cancella il diverso stesso». Alla pura e semplice coesistenza o fusione delle diversità, ci insegnano molte delle attuali esperienze latinoamericane, occorre sostituire una collaborazione che le conservi e le renda sinergiche «pur in presenza di un certo grado di conflittualità non distruttiva» (Mathieu, 1988: 96). Ovviamente si tratta di società in cui i rapporti fra i differenti attori sociali «non sono rapporti statici, idilliaci, delineati una volta per tutte, ma sono come il corso di un grande fiume, lungo il quale si amalgamano certe sostanze e altre rimangono irrimediabilmente separate» (Cser, Filef, Istituto Santi, 1991: 117). Si tratta per l’appunto di una convivenza concreta tra popoli e individui faticosamente processualizzata e vissuta (Lazzari, 2002 e 2004b). Il dialogo tra sistemi che compongono l’orizzonte di vita di individui e gruppi non si presenta facile per nessuna realtà: né a Sud né a Nord, né a Est né a Ovest, né in America Latina, né in Occidente. Però, le soluzioni adottate dall’uno possono illuminare il sentiero e l’andare dell’altro, in una ricerca umile della verità che sa di non possedere certezze incontrovertibili. D’altro canto la dissociazione tra Stato e società civile si sta notevolmente rafforzando. Con l’incalzare del predominio dell’economicismo e del privatismo in tutti i settori di vita della persona, gran parte della cosiddetta società civile è sfidata a sopravvivere, a organizzarsi, a coscientizzarsi elaborando nuovi mezzi di lotta per influenzare e conquistare il potere (Ianni, 2000). Questo processo di dissociazione è evidente nei paesi dell’America Latina e si presenta, con manifestazioni piú o meno accentuate, in tutti i paesi del mondo. «Sono nitide, drastiche, impressionanti e affascinanti le polarizzazioni che si osservano, non solo tra una nazione e l’altra, ma pure all’interno di una stessa nazione. È come se fossero ancora in formazione, o dissoluzione, nel tentativo di realizzarsi in condizioni sempre diverse e insospettate, tanto da dare l’impressione di nebulose in cerca di forma e fisionomia, qualcosa di simultaneamente possibile e impossibile, di reale e illusorio» (Ianni, 2000: 61 s.). Processi che possono materializzarsi in non-luoghi sociali, osserva Marc Augé (1996), «che restringono le possibilità esperienziali di fare delle scelte, di esprimere le proprie appartenenze e di essere riconosciuti», di costruire la propria identità e le relazioni sociali, la propria storia e la propria memoria, conseguenze della non corrispondenza tra gli attori e i sistemi in cui gli attori stessi sono inseriti, luoghi dell’esclusione sociale (Lustiger-Thaler, Maheu, Hamel, 1998: 185). È proprio in questo contesto, latinoamericano ma pure mondiale, che i cosiddetti corpi intermedi, o formazioni sociali intermedie o di terza dimensione, esprimono la loro sfera nell’ambito dei beni, si situano sempre più come contesti relazionali distinti dallo Stato e dal mercato, per trovare nelle diverse forme associative, di volontariato, di cooperazione, di solidarietà, di rivendicazione, di ribellione una reale possibilità di concretizzare il loro progetto di bene comune (Donati, 1991: 166). 40 41 4. Per un sistema mondo che integri e armonizzi i diritti della persona e i diritti della Terra Una dialettica crescente e sempre più incisiva che, tra avanzate e arretramenti, sembra trovare, nella pur parziale riscoperta della propria specificità storica, l’idea di José Martí di «nuestra América», l’utopia di Simón Bolívar di una nazione di nazioni, ma anche l’ideale di José Enrique Rodó di una razza di razze, di una cultura di culture, dello spirito latino rappresentato dal personaggio shakespeariano Ariel in La Tempesta, il nume che affronta il materialismo-giogo impersonato da Calibano, mentre il mentore Prospero parla alla gioventù51. Pertanto, sulla base degli 1 Partendo dagli stimoli di William Shakespeare e dai cambiamenti storici messisi in marcia a partire dal 1898 con la caduta dell’impero spagnolo e l’emergenza di quello nordamericano, l’uruguaiano José Enrique Rodó (1872-1917) a 27 anni lancia dalle pagine del suo giovane giornale, da lui stesso chiamato «Ariel», un forte messaggio alla gioventù del suo tempo per una civiltà latinoamericana e la costituzione degli Stati Uniti Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud Francesco Lazzari accenni sin qui espressi, i processi di globalizzazione in America Latina possono intendersi anche come nuova opportunità di incontro-scontro, di confronto, di integrazione delle differenze nell’ottica dell’autorealizzazione di ciascuno e della reciproca solidarietà. I risultati però, come sottolinea la world system analysis (Wallerstein, 2006 e 2007), dipendono dalle capacità di analisi, dalle azioni e dalle specifiche capacità di organizzare le azioni che ogni attore sociale – Stato, mercato, società civile, movimenti, sistemi informali – si impegna a mettere in campo nel rispetto dei diritti di ciascuno. Si è, in effetti, in presenza di azioni di intervento che si stanno riverberando anche sui modelli costituzionali che alcuni paesi hanno recentemente approvato quali l’Ecuador (2008) e la Bolivia (2009). Azioni profonde che incidono sulla progettazione di quelle stesse società. Si assiste così ad un passaggio epocale con la transizione dal costituzionalismo neoliberista egemonico ad un costituzionalismo originale che trova, nello sviluppo solidaristico, sostenibile, interlegale, alternativo e contro egemonico, nuove possibilità di inclusione e nuove logiche epistemologiche. Da una visione antropocentrica occidentale si giunge ad una concezione andina cosmocentrica, il cui baricentro è la Pachamama, la Madre Terra, una Terra Patria per tutti gli uomini e per tutti gli esseri viventi (Morin, Kern, 1993; Lazzari, 2004a; Baldin, 2014) il cui rapporto che la lega all’uomo non può basarsi sulla totale libertà prometeica. Sempre più, e oggi più che mai, ci si rende conto che la natura non è soltanto un fine per l’uomo, ma anche un fine in sé. La libertà dell’uomo si coniuga con la sua capacità non tanto di soggiogare la natura quanto piuttosto di sapersi riconoscere in essa e di limitarsi di fronte ad essa proprio in virtù della relazione che sussiste con la natura (Belardinelli, 1998: 97). In questo i popoli indigeni, nella loro cosmogonia integrata uomo-natura, possono indicare sapientemente la strada. Una strada che oramai è riconosciuta anche da alcune carte costituzionali che pongono al centro delle relazioni non solo i sistemi statali, economici, della società civile e i sistemi informali ma anche la stessa natura che assume così una rilevanza giuridica, e ancor prima sociale e culturale, entrando prepotentemente nelle scelte che l’uomo fa della propria vita e di quella dell’ambiente in cui vive. Tutte criticità che richiamano e riconducono all’essenza stessa della democrazia, al suo valore universale e condivisibile che comprende «la sua importanza intrinseca per la vita umana, il suo ruolo strumentale nella creazione di incentivi politici e la sua funzione costruttiva nella formazione di valori (e nella comprensione della forza e dell’attuabilità di richieste e bisogni, diritti e doveri)» (Sen, 2004: 79). La sfida che ci si pone sta quindi nella capacità dell’uomo di inventare un’altra logica sociale, che sappia valorizzare lo sviluppo sostenibile e quella relazione uomo-natura che i popoli indigeni da sempre si tramandano e praticano. Lasciare spazio sul piano socio-culturale a idee e a pratiche basate su concetti quali multiculturalismo, interculturalismo e intraculturalismo, lascia presumere un’altra idea di diritto, quella che de Sousa Santos (2002: 97) chiama interlegalità, cioè l’«intersoggettività o (la) dimensione fenomenologica di pluralismo giuridico»; un processo, cioè, «altamente dinamico (in cui i) diversi piani giuridici non si muovono in modo sincronico» e in cui il «risultato che ne consegue è un intreccio discontinuo e instabile di codici (in senso semiotico) legali» (ibid.: 437; Miazzi, 2008; Surace, 2014). E ciò in conseguenza del fatto che «le società moderne sono regolate da una pluralità di legal orders, correlati e socialmente distribuiti secondo modalità differenti». Emerge cioè una pluralità di ordinamenti giuridici tanto sul piano interno quanto su quello transnazionale (de Sousa Santos, 2002). Una simile impostazione epistemologica e pratica induce a vedere le diverse espressioni culturali “altre” come capaci di convivenza, di pari rispetto, di interazione ma, nel contempo, vedere anche la cultura “nazionale” come plurima e ciascuno di noi portatore di espressioni multiple. Diversità non più solo in relazione agli altri, ma in relazione anche a noi stessi. È interrogarsi sull’impatto di tale pluralità/pluralismo sulle esperienze, sulle percezioni e sulla coscienza dei singoli individui e dei gruppi, inseriti in diversi e spesso contrastanti ordini legali e culturali. È considerare il contesto di vita definito da una sorta di «porosità legale o legalità porosa, in cui una molteplicità di reti di legalità ci obbligano a costanti transizioni e trasgressioni» (de Sousa Santos, 2002: 437). Per entrare in questa nuova logica epistemologica e di azione è evidentemente necessario cambiare valori e concetti, rivedere la visione monolitica del diritto e dei suoi sistemi legali per orientarsi verso una rete di differenti 42 dell’America del Sud (Rodó, 956; Zea, Taboada, 2002). 43 Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud Francesco Lazzari sistemi legali, mutare le strutture, rilocalizzare l’economia e la vita, rivedere nel profondo i modi d’uso dei prodotti, garantire tramite misure appropriate la transizione dal modello incentrato sulla crescita ad una società della decrescita. Concetti peraltro non meramente teorici, come ha sapientemente dimostrato Muhammad Yunus (1998) con il microcredito e la Grameen Bank. È una sfida, soprattutto per uno sviluppo che voglia farsi carico delle diversità del mondo e che voglia appoggiarsi sulle esperienze positive realizzate dall’economia non mercantile, dalla società civile o controegemonica. Un mettere in discussione il termine stesso di crescita per enfatizzare quello di decrescita nella consapevolezza dell’incompatibilità di una crescita infinita in un pianeta dalle risorse limitate. Si tratta appunto di decolonizzare l’immaginario dai valori della società della crescita (concorrenza, mercificazione, velocità, appropriazione, ecc.) per ri-trovare un modo di vivere in armonia con la natura e con il senso del limite. Rivalutare e riconcettualizzare, rovesciando il modo stesso di pensare e di apprendere la realtà (Latouche, 2007 e 2012). Parlare di democrazia significa quindi cercare di scorgere sempre più lo stretto legame esistente tra le decisioni e i processi decisionali, non potendo, né volendo, parlare di processi democratici disgiunti dalla giustizia sociale in cui il ruolo del diritto, come sottolinea de Sousa Santos, ha evidentemente un centralità indiscutibile. È solo «ripensando in profondità il modo con il quale le nostre democrazie prendono una decisione», ricorda Stiglitz, che si potranno «modificare i risultati di questi processi decisionali. Negli Stati Uniti, ad esempio, a meno che non si cambino i metodi con i quali le campagne elettorali sono finanziate, non cambieremo i risultati: le imprese continueranno a esercitare un’influenza indebita» (Stiglitz, 2001: 24 s.). Naturalmente si vuole pensare alla giustizia sociale non solo in termini di risultati, ma anche in termini di processi attraverso i quali i risultati si costruiscono, «di eguaglianza di opportunità, eguaglianza di voce e di partecipazione ai processi decisionali» (ibid.: 25), sia dentro che fuori gli organismi internazionali, quali il Fondo monetario internazionale, sia dentro che fuori ciascun paese e a partire dall’Unione Europea che ha delegato alla cosiddetta Troika la gestione della crisi che attanaglia alcuni membri dell’Unione. Secondo Henri Lustiger-Thaler, Louis Maheu e Pierre Hamel (1998: 174) una più adeguata impostazio- ne potrebbe infatti essere rappresentata dal tentativo di «ripensare l’istituzione all’interno della sociologia dei movimenti sociali proprio al fine di meglio comprendere l’azione collettiva nel contesto della modernità avanzata». Finora si è considerata la regolazione normativa come la funzione principale delle istituzioni. Di fronte alla crescente complessità della post-modernità si tratta di prendere maggiore «coscienza delle ambivalenze presenti nei sistemi dell’agire e del volere umano». Ciò, tra l’altro, dovrebbe spingere gli studiosi ad un approccio più critico nei confronti dello studio delle mere caratteristiche strutturali delle istituzioni, per approfondire maggiormente, invece, il modo in cui «gli attori istituzionali e le nuove comunità si riconoscono mutuamente come attori chiave in un campo diversificato di pratiche sociali e culturali iscritte in un terreno istituzionale sempre più marcato» (ibid.: 174). Secondo gli studiosi citati si tratta, invece, di andare oltre l’approccio dell’istituzionalizzazione parziale – che privilegia la funzione di inquadramento dell’istituzione – e della prospettiva interazionista per tentare di focalizzare un’analisi che sappia dar conto delle problematiche poste dalle finalità cui tendono le istituzioni e dall’istituzionalizzazione dei movimenti sociali, che esprimono i cambiamenti maggiori che caratterizzano la modernità avanzata del XXI secolo. Le istituzioni non sarebbero più solo delle risorse, di cui si tenta di appropriarsi, bensì, in «quanto processo ‘agonistico’ carico di conflitti, l’istituzionalizzazione limita e favorisce l’esperienza di pratiche culturali», è cioè «portatrice di significati molto più di quanto non lo prevedano gli approcci che insistono sulla routinizzazione delle norme emergenti o, secondo la terminologia weberiana, sullo spiegamento della razionalità strumentale come fondamento delle relazioni sociali» (ibid.: 174). È certo che, nonostante e a dispetto della loro frammentazione, i nuovi movimenti si pongono come attori di una nuova centralità nella formazione delle società della modernità avanzata o post-moderna. In effetti «i movimenti sociali riflettono i molteplici livelli di stratificazione delle forme moderne dell’azione collettiva in rapporto ai nuovi campi dei conflitti emergenti» (ibid.: 175). All’istituzione va riconosciuta la funzione di inquadramento che però, secondo i citati autori, va integrata dalla nozione di “campo di relazioni e di esperienze” e di “costruzione flessibile”. L’istituzionalizzazione può cioè essere vista come un processo in cui i movimenti sociali si misurano sul terreno delle ambivalenze, delle 44 45 46 Persona, movimenti sociali ed epistemologia del Sud relazioni “agonistiche” e conflittuali, come porta d’entrata dell’esperienza nella costruzione dei conflitti in cui intervengono altri processi relativi alla problematica della riflessività, della globalizzazione e dell’autenticità, viste quali forme di una soggettività iscritta nei rapporti istituzionali o di una soggettività ripiegata su se stessa (ibid.: 174). Un dibattito, quello che qui succintamente si è voluto richiamare, che accomuna tutti i paesi democratici e in cui Stato, mercato, sistemi formali e informali non dovrebbero essere visti come alternativi o mutuamente escludentisi, bensì come complementari l’uno all’altro. Una terza via in cui si veda il settore pubblico e il settore privato sotto la luce della complementarità e della partnership: c’è bisogno del primo come del secondo, e su questo tutti o quasi sembrano essere d’accordo. Il problema nasce quando si tratta di stabilire la misura più adeguata di intervento dell’uno e dell’altro. E nel procedere a tale definizione possono essere numerose le distorsioni in cui si incorre, pur nella consapevolezza dei limiti e dei benefici che ciascun settore può offrire alla collettività: informazione imperfetta, mancanza di trasparenza, problemi del red tape, della burocrazia e delle difficoltà a trattare con essa, del regulatory capture, del regolatoremediatore (lo Stato) che viene catturato dagli interessi particolari finendo per non rappresentare più quelli generali, ecc. (Lustiger-Thaler, Maheu, Hamel, 1998). A ciò si aggiunga che vi è un problema di governance e di democrazia tanto in America Latina quanto in Europa o negli Usa o in altri paesi (Lazzari, 2004a). Al di là dei problemi verificatisi nel corso delle elezioni presidenziali statunitensi del 2000 nel conteggio dei voti espressi (che non sono peraltro del tutto trascurabili), restano aperte questioni più fondamentali e persistenti quali il tipo di legge elettorale che si sceglie, le modalità di compilazione delle liste elettorali, il finanziamento delle campagne elettorali, la pressione di questo o quel potentato sul possibile vincitore. Dimensioni che emblematicamente sembrano rappresentare, tanto a livello reale che simbolico, anche i persistenti problemi presenti in America Latina, e non solo in questa. Esiste evidentemente una debolezza dei processi democratici, un deficit di governance, che accomuna paesi e società. Francesco Lazzari 47 Bibliografia Aa.Vv. 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Le sfide del buen vivir allo sviluppo umano. 1. Il buen vivir: un’approssimazione La locuzione buen vivir o vivir bien riassume in castigliano diverse articolazioni delle cosmovisioni indigene in America Latina. Assunta a rango costituzionale nel 2008 in Ecuador e nel 2009 in Bolivia, l’espressione riprende il significato di sumak kawsay nella lingua kichwa nel senso di un sistema di conoscenza e di vita basato sulla comunione tra esseri umani e natura e sulla complessiva armonia spazio-temporale dell’intera esistenza (Walsh, 2010: 18). Vivir bien traduce la locuzione suma qamaña nella lingua aymara in Bolivia, il cui significato rinvia a una forma di vita armoniosa tra gli esseri umani e tra essi e il mondo naturale contrassegnata da un atteggiamento di gratitudine (Albó, 2011: 135 s.). Benché il concetto polisemico di buen vivir sia variamente interpretato dalle popolazioni indigene latinoamericane, le sue diverse concezioni presentano alcuni tratti comuni che permettono di identificarne i significati principali – adottando a fini euristici lo schema concetti-concezioni di Dworkin (1989: 71 s.), che distingue tra concetti generici, “astratti” e concezioni sostanziali che diversamente li specificano. Per non incorrere in affrettate assimilazioni o unilaterali equiparazioni a concetti – parimenti polisemici – quali benessere, qualità della vita, sviluppo, la presenza delle locuzioni autoctone accanto ai termini castigliani nelle due costituzioni – sumak kawsay in * Professore ordinario di Storia della filosofia nell’Università di Trieste. Filosofie del buen vivir tra passato e futuro Fulvio Longato quella ecuadoriana (preambolo e artt. 14, 250, 275) e suma qamaña nella boliviana (art. 8) – richiede di considerarle nella loro accezione originaria, quindi in riferimento alle rispettive cosmovisioni. Prima di procedere a una loro iniziale illustrazione, cui seguiranno alcuni approfondimenti che ne riprenderanno aspetti salienti, va premesso che solo in parte sarà possibile rendere adeguatamente conto della complessità di tutti i concetti in gioco, non da ultimo per l’impianto olistico della prospettiva del buen vivir. Si seguirà pertanto un’analisi non “lineare”, ma per così dire a cerchi concentrici, proponendosi di far interagire motivi centrali del buen vivir con aspetti emergenti nell’attuale riflessione filosofica. Buen vivir rappresenta innanzi tutto un modo di vivere da praticare nelle diverse circostanze dell’esistenza, che non è predeterminato o proiettato teleologicamente verso un suo compimento futuro cui corrispondere progressivamente. Non indica quindi una sorta di progresso lineare, bensì l’attuazione di una forma di vita in situazione. Sua caratteristica saliente è la centralità assegnata alla relazionalità degli esseri umani tra loro e l’ambiente naturale. La natura, la Madre Terra (Pachamama) è intesa e riconosciuta come un’entità che ricomprende la vita umana stessa, da cui consegue la responsabilità di subordinare gli obiettivi sociali ed economici alla preservazione dell’ecosistema (Zaffaroni, 2012). Un terzo, non meno importante, tratto distintivo del buen vivir è la contestualità. Per cogliere la specificità della “visione” in questione può soccorrere in prima approssimazione la distinzione tra un modo rappresentazionale e uno presentazionale di vedere il mondo (Whitt et al., 2001: 10 s.). Mentre il primo, considerato tipico dell’approccio occidentale nell’acquisizione e trasmissione della conoscenza e in particolare del sapere scientifico a partire dalla modernità, si basa sulla separazione tra la conoscenza della natura e la natura stessa, la prospettiva presentazionale si radica nella convinzione di una conoscenza “insita” nella natura, che quindi può essere acquisita da una popolazione o da un individuo solo nel contatto diretto e continuo con il luogo in cui tale conoscenza è incorporata e di cui può fare esperienza. L’aspetto propriamente cognitivo è considerato indissolubile dall’esperienza di vita attuabile in un preciso e definito contesto di relazioni, non da ultimo affettive, che includono l’ambiente naturale. La trasmissione di conoscenza così intesa, che tipicamente avviene mediante narrazioni, assume la fisionomia di una conversazione tra umani e tra umani e ambiente, in cui si dà ascolto alla “voce” della natura interagendo con essa – l’etimologia latina di “conversare” rinvia peraltro proprio al trattenersi insieme, al condividere, anzi al convivere presso la stessa “dimora”. La contestualità ha valenza genealogica e si spiega in base a una nozione di appartenenza o affiliazione che non è confinata al mondo umano, ma comprende il luogo, l’ambiente naturale. La terra, il territorio, l’ambiente naturale è parte integrante delle persone, come il proprio corpo e i propri genitori e fratelli – ciò si riflette ad es. nel significato di ayllu nella lingua nativa (Harris, 2000: 171 s.): non riveste un valore di scambio, non è una proprietà che può essere acquisita o alienata al pari di una commodity. I legami genealogici tra le persone e con il mondo non umano presentano caratteri sia descrittivi (l’appartenenza), sia normativi, primo fra tutti la responsabilità – che si estende alle generazioni future oltre che, attraverso la memoria, a quelle passate – per la cura dell’ambiente naturale in veste di custodi, grazie a una conoscenza e familiarità possibili solo nel contatto profondo con i luoghi di vita (Yampara, 2001: 45 ss.; Whitt et al., 2001: 15 s.). Su questa base si è sostenuto che la contestualità del buen vivir, del sumak kawsay comporta la sua non esportabilità e trasposizione in realtà diverse per linguaggio, cultura, storia politico-sociale e contesto ecologico (Oviedo, 2011). Il complesso tema del rapporto e della comprensione tra diversi linguaggi, schemi concettuali, culture, forme di vita, e in particolare tra visioni differenti del “vivere bene”, è notoriamente al centro di indagini interdisciplinari di cui non è possibile e tantomeno corretto voler dar conto in poche, ipersemplificatorie battute. Si può comunque argomentare sia nel senso di una comprensione di forme di vita “altre” che non implichi pregiudizialmente omologazione o assimilazione, sia a sostegno della trasversalità di pratiche inerenti il mondo della vita (Lebenswelt) che nel contempo preservi e accentui le loro rispettive specificità (Marconi, 2007: 128 ss.; Longato, 2012). Non si tratta pertanto di esportare una determinata concezione o cosmovisione, bensì di considerare i tratti distintivi dei concetti che la informano come altrettante possibilità, accessibili anche da prospettive diverse, di “vedere” il mondo e come orientamenti e potenzialità, praticabili pur in contesti differenti, per condurre l’esistenza. A tal fine, un approccio metodologicamente appropriato consiste nel chiedersi se in tradizioni diverse, da non intendersi peraltro come 52 53 Filosofie del buen vivir tra passato e futuro Fulvio Longato monolitiche, siano presenti posizioni che affermano il valore della relazionalità, degli esseri umani tra loro e con la natura, e quali declinazioni essa assume. La loro presenza non va confusa con l’assenza di posizioni opposte che ne misconoscono il valore. Il fatto che quest’ultime siano considerate o percepite come egemoniche in uno o più contesti culturali è il prodotto di dinamiche storiche, così come lo è il percorso che ha portato alla promulgazione delle costituzioni del buen vivir, risultato di lotte pluriennali delle popolazioni indigene, non solo dell’Ecuador e della Bolivia, per il riconoscimento delle loro composite identità e del diritto a essere consultate su decisioni che riguardano i territori da loro abitati (Yashar, 2005). Per evitare che il richiamo alle locuzioni indigene del buen vivir sia inteso come una mera riproposizione di una cultura ancestrale o con finalità esclusivamente rivendicative, risulta appropriato parlare più in generale di «movimenti sociali del buen vivir» (Deneulin, 2012: 3 s.) e soprattutto considerare il buen vivir come una “piattaforma” di dialogo e confronto tra posizioni diverse, motivate dal proposito di ripensare anche radicalmente la nozione di “vivere bene” ritenuta dominante e di individuarne alternative. Il buen vivir si presenta come un concetto in costruzione (Gudynas, 2011c), sulla cui base reinterpretare e declinare principi e diritti espressi nelle carte internazionali dei diritti umani. In questo senso va intesa la sua collocazione e funzione nelle costituzioni boliviana ed ecuadoriana, che espressamente si ricollegano ai diritti umani. Nella prima, il vivir bien è un principio etico-morale che compare nel II capitolo dedicato ai Principios, valores y fines del Estado e ne riflette la natura multinazionale; è parte integrante di un insieme di valori tra i quali unità, libertà, dignità, inclusione, solidarietà, cui va ricondotta la pluralità delle forme di organizzazione economica dello Stato. Nella costituzione ecuadoriana, l’obiettivo del buen vivir dichiarato nel preambolo si sostanzia nel testo nei Derechos del buen vivir che comprendono tra gli altri l’acqua e il cibo, l’ambiente sano, la salute, l’educazione, i quali sono posti sullo stesso piano dei diritti di libertà, di partecipazione, delle comunità e dei diritti della natura: il complesso dei diritti si inscrive in un orizzonte interculturale rispettoso delle diversità. Al di là delle loro differenze, entrambe le costituzioni proclamano l’indivisibilità e l’interdipendenza dei principi e dei diritti, riproponendo formalmente la struttu- ra olistica del sistema dei diritti umani codificata a livello internazionale. Il riferimento alla dimensione pluriculturale – per cui sarebbe corretto parlare di buenos vivires – permette di interpretare i principi e diritti contemplati nelle due costituzioni come punti di convergenza di concezioni culturalmente differenti, in analogia a quel consenso per intersezione (overlapping consensus) registratosi nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: condivisione di un insieme di principi per l’agire pur giustificati diversamente all’interno delle rispettive matrici culturali (Longato, 2011). In questo senso la piattaforma del buen vivir rappresenta una sfida e un’opportunità che travalica i confini della sua genesi. 54 55 2. Una filosofia “plurale” in costruzione La prospettiva del buen vivir si presenta post-coloniale dal punto di vista storico e può definirsi decoloniale come atteggiamento culturale e politico di fondo: nel rivendicare pari dignità tra le diverse culture opera nel contempo una decolonialidad in primo luogo rispetto alla “superiorità” della cultura europea (Marañón Pimentel, 2014), ma anche rivolta all’interno degli stessi paesi andini, nel senso di denunciare forme più o meno occulte di sapere dominante praticato in sede politico-istituzionale (Rivera Cusicanqui, 2010: 53 ss.). La rapida risonanza internazionale che tale prospettiva sta riscuotendo in ambito intellettuale e accademico oltre che politico occidentale, unitamente al fatto di proporsi come un work in progress, se da un lato testimonia un’esigenza transculturale di cambiamento, dall’altro espone il buen vivir a forme marcate di ibridazione se non di appropriazione all’interno di paradigmi già consolidati, con il rischio che i dibattiti aperti sul sumak kawsay tra posizioni in linea di principio tutte legittime si riduca a un dialogo tra sordi e si tramuti in un confronto agonico in vista di una determinata concezione a sua volta dominante (Hidalgo Capitán, Cubillo-Guevara, 2014). Relativamente all’interpretazione del sumak kawsay, si registrano tre principali correnti di pensiero: socialista-statalista, ecologista e indigenista (Hidalgo Capitán, 2012). Mentre la prima considera prioritaria la gestione statale del sumak kawsay in termini di equità sociale rispetto alla questione ambientale comunque ampiamente contemplata, la seconda Filosofie del buen vivir tra passato e futuro Fulvio Longato considera quest’ultima preminente, avvalendosi di contributi riconducibili a prospettive postmoderne di tipo costruttivista. La corrente indigenista, sottolineando la centralità dell’autodeterminazione delle popolazioni autoctone, distingue sumak kawsay e suma qamaña dal buen vivir, considerando quest’ultima locuzione debitrice di apporti occidentali ritenuti incompatibili con le culture ancestrali. Di qui l’ulteriore questione se la cosmovisione soggiacente il sumak kawsay sia oggi interpretabile come una concezione ancestrale o non piuttosto moderna o postmoderna. Mentre gli indigenisti lo considerano una filosofia di vita basata su tradizioni ancestrali, quindi premoderne, la maggioranza degli intellettuali di matrice socialista collocano il sumak kawsay nel solco della tradizione occidentale moderna esaltandone la funzione di trasformazione sociale. Per la corrente ecologista il sumak kawsay si propone come un punto di coagulo di referenti premoderni (tradizioni indigene) e moderni (il socialismo neomarxista o post-socialismo) nel post-moderno (deep ecology e femminismo). Un terzo fronte di discussione è rappresentato dalla traduzione stessa delle espressioni sumak kawsay e suma qamaña. Pur con accenti tra loro differenti gli autori indigenisti prediligono la locuzione “pienezza di vita” (vida plena), mentre la corrente socialista associa al sumak kawsay l’aspirazione all’aumento del benessere soggettivo di natura materiale e immateriale, alla «fioritura sana in pace e armonia con la natura». Per i teorici della corrente ecologista la locuzione buen vivir permette di recuperare, anche se solo in parte, il significato indigeno di sumak kawsay per renderlo condivisibile anche da coloro che non si riconoscono nelle tradizioni indigene. Da ultimo, ma non meno importante, l’insieme delle questioni affrontate è rapportato alla definizione della nozione di sviluppo. Mentre nell’impostazione socialista il sumak kawsay delinea un modello di sviluppo di ascendenze neomarxiste o socialdemocratiche alternativo al neoliberismo capitalista, per gli intellettuali indigenisti si tratta di un’alternativa alla nozione stessa di sviluppo, considerata un tratto distintivo della modernità che non trova equivalenti nelle cosmovisioni andine. Nel rifiuto di ogni variante del modello moderno di sviluppo si registra una convergenza con le posizioni ecologiste e postmoderne che interpretano il sumak kawsay come un percorso che conduca “oltre lo sviluppo”. A fronte dell’ampio dibattito in seno ai teorici del buen vivir – che si intreccia con svariati e differenziati accenti critici nei confronti delle politiche adottate dai governi ecuadoriano e boliviano per implementare i principi, valori e diritti enunciati nelle rispettive costituzioni – non mancano posizioni anche interne all’ambiente intellettuale latinoamericano che denunciano l’inconsistenza teorica del tema stesso del buen vivir e l’improduttività politica di una retorica pachamamista (Gudynas, 2013; Viola Recasens, 2014). Com’è evidente, ciascuno di questi dibattiti, che attestano indiscutibilmente la vitalità della prospettiva del buen vivir al di là delle critiche più radicali a essa rivolte, merita una trattazione approfondita, che in ambito filosofico risulta a tutt’oggi ancora in fase poco più che iniziale. Non è ovviamente possibile farlo in questa la sede. Va innanzi tutto sottolineato che la prospettiva del buen vivir si pone come innovativa rispetto all’impostazione prevalente nella filosofia politica contemporanea che, sulla scia di Rawls, separa le questioni di giustizia da quelle del “vivere bene”, ritenendo di espungere quest’ultime da un contratto sociale finalizzato a delineare i principi “politici” di base per la convivenza entro una comunità politica (Rawls, 1994). René Ramírez Gallegos, coordinatore e coautore del Plan Nacional para el Buen Vivir 2009-2013 (Senplades, 2009), fa espressamente riferimento alla teoria di Rawls, definendo altresì la nuova costituzione “post-rawlsiana” (Ramírez Gallegos, 2010). Tuttavia, non viene messa in discussione, se non indirettamente, l’impostazione di fondo di Rawls: nel Plan essa viene richiamata nella sezione dedicata alla generazione e ridistribuzione di ricchezza (Senplades, 2009: 91 s.) e gli elementi post-rawlsiani si limitano a riprendere tematiche, quali la posizione delle persone disabili, la giustizia transnazionale e il risparmio di risorse per le generazioni future, esplicitamente riferite a proposte di Nussbaum (2007). Appare problematico ricondurre l’impianto della costituzione al framework rawlsiano. Mentre quest’ultimo si basa, per l’individuazione dei principi di giustizia, su una (ipotetica) posizione originaria di simmetria tra soggetti liberi, uguali e indipendenti, i movimenti sociali del buen vivir non solo si presentano nella sfera pubblica in condizioni iniziali asimmetriche e di subalternità (Deneulin, 2014: 11), ma, soprattutto, inquadrano le questioni di giustizia in una prospettiva di buen vivir, non viceversa. Nella misura in cui ciò trova formalmente riscontro nella costituzione ecuadoriana, un overlapping consensus post- 56 57 Filosofie del buen vivir tra passato e futuro Fulvio Longato rawlsiano ha luogo allora tra diverse concezioni del “vivere bene”, un consenso, come si è accennato, cui ricondurre i contenuti dei diritti ivi enunciati e in generale dei diritti umani. Il riferimento in questa sede a Ramírez Gallegos e in seguito ad altri autori non comporta di per sé adesione alle loro interpretazioni del buen vivir, né intende pregiudizialmente prendere partito per una posizione che non si colloca ai due estremi di uno spettro estremamente composito, il quale, come cursoriamente illustrato, va dall’immunizzazione del sumak kawsay (e del suma qamaña) da apporti esogeni alla sua appropriazione in paradigmi originari di altre tradizioni – due opposti che non di rado comportano una sorta di essenzializzazione semplificatrice della posizione contraria e di idealizzazione della propria. I riferimenti a specifiche posizioni filosofiche occidentali – significativi particolarmente quando occorrono in documenti di carattere istituzionale, quindi in contesti programmaticamente intesi a coniugare teoria e pratica sociale – fungono da indicatori per precisi punti di convergenza e di mutuo approfondimento, che inducano a ripensare all’interno della propria cultura aspetti dimenticati o rimpiazzati da orientamenti ritenuti oggi predominanti. è il llaki kawsay, traducibile con mal vivir, che può verificarsi nella casa, nella comunità, nel territorio. Mentre nel primo caso, e parzialmente nel secondo, la comunità può far fronte con le proprie risorse materiali e valoriali, l’introduzione di valori estranei alla cultura indigena che inducano le persone a ricercare beni e risorse per soddisfare individualmente aspirazioni egocentrate porta a sfruttare eccessivamente il territorio e in definitiva allo sfaldamento della comunità, da cui quindi emigrare. Il mal vivir può essere altresì causato da fenomeni di urbanizzazione e, a livello più generale, dal deterioramento ambientale, in particolare dalla distruzione della biodiversità, sia locale che globale, con l’effetto di privare la cultura autoctona dei suoi elementi simbolico-spirituali. La relazionalità costituisce la comunità: non può darsi una vida plena al di fuori o ai margini di una comunità. Ciò che la mantiene e implementa sono le diverse pratiche di reciprocità, ranti ranti o maki maki (Macas, 2010: 187), definita come «la capacità di saper dare per ricevere e di saper ricevere per dare» (Maldonado, 2010: 200). Come si è notato, l’idea di parità e complementarità non contraddistingue unicamente le relazioni umane – realizzandosi nel dialogo e nel consenso inteso come centro, punto di equilibrio tra due polarità –, ma si estende alla natura, al cosmo. La divinità Pachamama esprime precisamente la relazione duale del pari o pacha, la totalità come struttura di relazioni. Già a un primo esame non sfuggono analogie non superficiali con aspetti ampiamente riscontrabili nella tradizione filosofica risalente al pensiero greco, in particolare aristotelico, in cui la nozione di equilibrio riferita alla formazione del carattere, cioè della personalità (êthos), contraddistingue le virtù ritenute necessarie per attuare pienamente la natura sociale dell’uomo, che anche per Aristotele è tale solo nella vita di relazione entro la comunità. In particolare MacIntyre (1988: 225 ss.) evidenzia il legame tra l’esercizio concreto di pratiche e le virtù. Pratica è qualsiasi forma coerente e complessa di attività umana cooperativa socialmente stabilita, strutturata intorno a determinati modelli e soprattutto a valori a essa inerenti raggiungibili solo mediante l’acquisizione di qualità umane, le virtù, il cui significato originario (areté) indica una disposizione all’eccellenza nell’essere e nell’agire. Va notato che pure l’aggettivo superlativo sumak si riferisce alla pienezza nel senso di excelencia (Manosalvas, 2014: 114). 58 3. Relazionalità e reciprocità Come sopra evidenziato, la relazionalità tra le persone e con la natura è una, se non la caratteristica centrale sia del sumak kawsay che del suma qamaña. Secondo la concezione indigenista (Viteri Gualinga, 2002; Sarayaku, 2003), il sumak kawsay va inteso in riferimento a un territorio che comprende tre sfere – la parte coltivata, il bosco e l’acqua – e che costituisce un mondo vitale in cui interagiscono elementi materiali e simbolico-spirituali. Per ottenere le risorse necessarie e rapportarsi con le tre sfere sono richieste alle persone fortezza interiore, condotta equilibrata, saggezza (yachai), capacità di comprensione, compassione, che vengono apprese all’interno della comunità e nelle quali si riflettono i valori di solidarietà, generosità, reciprocità (Hidalgo Capitán et al., 2014: 35 s.). L’armonia domestica è condizione di quella della comunità e, nel contempo, dipende da quest’ultima, inserendosi in un’armonia e complementarità con gli altri esseri naturali. Il contrario del sumak kawsay 59 Filosofie del buen vivir tra passato e futuro Fulvio Longato Su questa linea è altresì possibile ripensare un’altra nozione che rientra nel campo semantico della relazionalità ossia la dipendenza. Di contro all’immagine, ancora dominante nell’odierno panorama filosofico postilluministico, dell’individuo autosufficiente e indipendente sta emergendo la consapevolezza che la vulnerabilità e la dipendenza sono elementi costitutivi dell’umano, i quali investono direttamente la sua capacità di rapportarsi non solo con gli altri, ma parimenti con il mondo non umano. Le «virtù della dipendenza riconosciuta» illustrate da MacIntyre (2001: 117 ss.) di fatto coincidono con le menzionate qualità umane del sumak kawsay e del suma qamaña. Il riconoscimento della dimensione animale dell’umano – non si è “come” animali, ma si è animali – rientra nella rinnovata attenzione alla corporeità quale parte integrante dell’identità personale, al di là della scissione, non solo cartesiana, tra razionalità e animalità (MacIntyre, 2001: 13 ss.). Ciò apre scenari in parte inediti per buona parte della filosofia contemporanea, in direzione sia di una riconsiderazione della nozione stessa di dignità che tenga conto dell’affinità e continuità con altre specie animali, sia dell’accentuazione della naturalità in chiave etica e politica. Il riferire la dignità alla sola dimensione razionale, ritenuta sede esclusiva della capacità sia cognitiva che morale, comporta l’attribuzione alla naturalità di una funzione meramente ancillare (Nussbaum, 2007: 149 ss.). Considerare il corpo naturale non come strumento per l’esecuzione di intenzioni preformate a livello mentale, ma come «intelligenza incorporata» (Fingerhut et al., 2013), a sua volta embedded socialmente ed ecologicamente, richiede di intendere la (inter)dipendenza dagli altri e dal mondo non umano non già o non solo in chiave di necessità di sopravvivenza, bensì come cifra di indisponibilità. In quest’ottica, è possibile interpretare il conferimento di un valore intrinseco alla natura, su cui insiste soprattutto la corrente ecologista del buen vivir, che si traduce nel considerare la natura titolare di diritti nella costituzione ecuadoriana e nella Ley de Derechos de la Madre Tierra adottata nel 2010 in Bolivia. Attribuire e/o riconoscere un valore intrinseco significa identificare e delimitare un ambito sottratto alla disponibilità piena o parziale. Richiamandosi al c.d. paradosso di Böckenförde, va ricordato che è un tratto caratteristico degli ordinamenti democratici quello di basarsi sull’autonomia e sull’autolegislazione, rinviando, nel contempo, a fini fondativi e di stabilità, a presupposti, rappresentazioni e risorse dichiarate indisponibili, cui richiamarsi per articolare le pratiche dei singoli e della collettività entro la comunità politica. Si tratta di dimensioni, entità, principi, referenti in senso lato “trascendenti”, non necessariamente di carattere religioso anche se quasi sempre a connotazione sacrale (Vorländer, 2013). Tali sono appunto, negli ordinamenti ecuadoriano e boliviano, i diritti umani delle persone e delle collettività unitamente alla Pachamama. L’attribuzione di valore intrinseco può essere giustificato in modi diversi. Per quanto riguarda la natura, secondo Gudynas (2011b: 245 ss.) risulta prevalente intenderlo come sinonimo di valore non strumentale: mentre ciò che ha valore strumentale è un mezzo in vista di altro rivestendo un valore d’uso e di scambio, ciò che ha valore intrinseco è un fine in sé. È degno di nota che Gudynas riproponga, pur senza citarlo, il tratto distintivo dell’imperativo categorico kantiano e che, nella sua discussione della deep ecology, sottolinei come attribuire alla natura un valore intrinseco non equivale di per sé a prefigurare una natura intatta, a vietare l’utilizzo delle risorse naturali al fine di garantire la qualità della vita preservando nel contempo il ciclo vitale dell’ecosistema. L’antropocentrismo da dismettere è quello incentrato sull’ideale baconiano dell’instaurazione del regnum hominis, del dominio totale dell’uomo sulla natura, che i teorici del buen vivir denunciano come il pensiero unico sulla natura proprio della tradizione occidentale – non sarebbe però da dimenticare, se pur risultata una posizione minoritaria, la relazione e la comunicazione vitale tra uomo e natura (frate sole e sora luna) espressa esemplarmente nel Cantico delle creature di Francesco d’Assisi. All’antropocentrismo così inteso si oppone il biocentrismo, secondo cui le vite umana e non umana rivestono entrambe valore intrinseco. Senza poter qui entrare in dettaglio nelle oscillazioni semantiche di queste nozioni, una riconsiderazione della versione originaria della massima kantiana può offrire una risorsa concettuale per interpretare la relazione uomo-natura in linea con il buen vivir – ma anche con la United Nations World Charter for Nature (1982): «Every form of life is unique, warranting respect regardless of its worth to man». Vi si afferma di considerare «l’umanità, in se stessi e negli altri, sempre anche come fine e mai unicamente come mezzo» (Kant, 1985: BA 67-68). Ciò non vieta, realisticamente, che nelle transazioni umane trovino posto anche relazio- 60 61 Filosofie del buen vivir tra passato e futuro Fulvio Longato ni di tipo strategico e strumentale: l’importante è che quest’ultime non pregiudichino il rispetto del valore intrinseco delle persone (in cui consiste per Kant la dignità). In una versione post-kantiana – dal momento che Kant, come si è notato, scinde l’umanità dalla naturalità, di se stessi e degli altri esseri –, l’attribuire valore intrinseco (fine in sé) alla naturalità sia umana che non umana ricomprende l’uomo nella natura, stabilendo un medesimo criterio di relazionalità degli esseri umani tra loro e con gli altri esseri naturali che contempli aspetti di indisponibilità. Un’interpretazione di questo tipo permette altresì il consenso sul rispetto delle persone e dell’ambiente naturale – intesi entrambi come Mitwelt e non solo come Umwelt – a partire da diverse basi giustificative. Atteso che in sede epistemica il conferimento di valore è opera umana, Gudynas (2011b: 264 ss.) sottolinea che il riferimento nella costituzione ecuadoriana alla «Pachamama come espressione plurale» favorisce la convergenza sia di posizioni che attribuiscono alla natura un valore sacrale, sia di posizioni che non aderiscono alla deep ecology o non si riconoscono nelle tradizioni ancestrali. La reciprocità è un concetto ricorrente nella letteratura del buen vivir, associato a termini quali solidarietà e cooperazione, oltre che come fulcro delle dinamiche di complementarità alla base delle cosmovisioni indigene. Come si è notato, indica un dare che incontra un ricevere: tale è ogni atto umano o divino cui corrisponde un atto complementare equivalente tra soggetti (Niel, 2011: 13). Nell’ambito delle ricerche attuali sulle dinamiche della reciprocità emerge che se la reciprocità è una, a livello umano le reciprocità sono molte, nel senso che le modalità e le motivazioni sottostanti la reciprocità sono diverse (Bruni, 2006). Senza poter qui nemmeno accennare alle diverse tassonomie proposte in ambito sociologico (Donati, Solci, 2011) ed economico (Sacco, Zamagni, 2006), sembra importante evidenziare che la reciprocità è l’elemento fondante dei “beni relazionali”. La loro caratteristica saliente è che il bene consiste nella relazione stessa: essi non possono essere prodotti né fruiti da un solo individuo, ma goduti simultaneamente solo nella reciprocità (Nussbaum, 1996: 616 ss. ). Esempi di beni relazionali sono l’amicizia, la partecipazione alla vita civile (di cui parla già Aristotele) ma anche la fraternidad. A differenza dei beni acquisibili nelle transazioni del mercato, per loro natura anonime, ingrediente fondamentale di un bene relaziona- le è l’identità delle persone coinvolte, così come la loro motivazione non strumentale. Se è la relazione in sé a costituire il bene, essa è un fine e non un mezzo per altro, come può esserlo un incontro di interessi o una relazione per o funzionale allo scambio economico. In questo senso un bene relazionale ha un valore, ma non un prezzo, e per tal motivo è una forma di gratuità. Nella letteratura sul buen vivir, il tema del dono come forma di reciprocità genuina è al centro delle riflessioni in particolare di Javier Medina, che, in riferimento tra gli altri a Marcel Mauss e Dominique Temple, sottolinea l’aspetto qualitativo della reciprocità, fonte originaria del vincolo sociale. A fronte della marginalizzazione della reciprocità nella sola sfera privata a esclusivo vantaggio del principio economico dello scambio (quantitativo) di equivalenti, Medina (2003: 9 ss.) argomenta in favore di una complementarità tra principio di scambio e principio di reciprocità, in cui sia quest’ultimo a fungere da misura del primo. Richiamandosi ad Aristotele e ai lavori di Nussbaum e Bruni, Ramírez Gallegos (2012) assegna alla socio-ecologia politica del buen vivir l’obiettivo di generare beni relazionali. La convergenza trasversale, che solo a prima vista può apparire sorprendente, tra i fautori della reciprocidad e i teorici dei beni relazionali testimonia che solo l’implementazione di atteggiamenti – e virtù – improntate a valori intrinseci è in grado di contribuire a un rinnovato concetto di sviluppo, che contempli come sua parte integrante la “cura” delle fragili interrelazioni di dipendenza nel Mitwelt. 62 63 4. Le sfide del buen vivir allo sviluppo umano Nell’illustrazione delle principali correnti di pensiero del buen vivir si è rilevato un atteggiamento molto differenziato nei confronti del concetto e delle pratiche dello sviluppo. Unanime è la decisa critica al paradigma “convenzionale”, basato sulla figura dell’homo oeconomicus inteso come individuo che massimizza il proprio interesse, definito dalla funzione di utilità, perseguendo l’accumulazione di beni materiali e posizionali, da cui consegue l’equiparazione del concetto di sviluppo a quello di crescita economica con il Pil come unico indicatore rilevante (Gudynas, 2011c). La critica all’unidimensionalità delle concezioni riconducibili Filosofie del buen vivir tra passato e futuro Fulvio Longato all’homo oeconomicus non è nuova e ha condotto, a partire dal 1990, alla redazione da parte del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite, dei Rapporti sullo sviluppo umano in una prospettiva multidimensionale, che contempla, tra gli indici di sviluppo, l’alfabetizzazione, la speranza di vita, la morbilità evitabile, oltre al Pil pro capite (indici che successivamente sono stati ampliati e ulteriormente perfezionati). Sulla base dell’«approccio delle capacità» (capability approach) elaborato da Amartya Sen, lo sviluppo umano è inteso come «un processo di ampliamento delle possibilità di scelta delle persone», che consenta loro di avere accesso alle risorse materiali e immateriali necessarie a una vita dignitosa e di godere di opportunità politiche, economiche e sociali che li facciano sentire a pieno titolo membri della loro comunità di appartenenza (Undp, 1990: 1). Ricollegando il concetto di benessere (well-being) o di qualità della vita a quello aristotelico di eudaimonia, tradotto nel Rapporto del 1990 come «fioritura umana» di contro al termine “felicità” di marca utilitaristico-welfarista (Undp, 1990: 6 s.), Sen (1994: 62 ss.) specifica che la capacità riflette la libertà delle persone di scegliere tra diverse combinazioni di funzionamenti (functionings), intesi come modi di essere e di fare a cui le persone attribuiscono un valore intrinseco. Tali sono, ad esempio, essere nutriti, godere di buona salute, partecipare attivamente alla vita della comunità – funzionamenti che a loro volta coincidono per lo più con contenuti espressi nelle carte dei diritti umani (Longato, 2001). Se la vita delle persone è costituita da un insieme di funzionamenti, la vita effettiva che ciascuna è in grado di condurre è data dalla possibilità di assegnare liberamente (capability) il peso relativo ai diversi funzionamenti o, per usare la terminologia di Nussbaum, alle diverse «capacità funzionali» che è messo in condizione di scegliere e realizzare (Nussbaum, 2001: 95 ss.). In quest’ottica sono interpretabili come altrettanti funzionamenti il controllo partecipato del proprio territorio, la cura dell’ambiente naturale, la conservazione della propria identità culturale che si è visto caratterizzare le concezioni autoctone del sumak kawsay (Renshaw, Wray, 2004; Hönig, 2011: 106 s.). Functionings e capabilities rivestono un valore intrinseco nel senso che sono considerati importanti e quindi perseguibili di per sé, assumono un valore strumentale solo nella misura in cui ciascuno è funzionale alla realizzazione di altri funzionamenti e capacità (ad es., l’essere istruiti ha di per sé valore e nel contempo è un mezzo per aver voce nella comunità). La distinzione rilevante è tra la sfera dei funzionamenti e delle capacità da un lato e reddito e risorse materiali dall’altro: nel capability approach sono quest’ultimi ad avere un valore unicamente strumentale. L’approccio delle capacità, che costituisce oggi il riferimento principale per le problematiche legate allo sviluppo, è oggetto di analisi e di discussione presso i teorici del buen vivir che, se pur con accenti diversi, ne sottolineano gli aspetti di discontinuità rispetto al paradigma dello “sviluppo come opulenza” di contro a uno stile di vita improntato alla sobrietà. Ad es., il Plan Nacional para el Buen Vivir si colloca esplicitamente nel solco della prospettiva dello sviluppo umano e del capability approach. Tuttavia, due sono le principali critiche rivolte a quest’ultimi: il fatto di basarsi sull’individualismo etico e la mancata, o perlomeno insufficiente, considerazione dell’ambiente naturale come parte integrante di una nozione di sviluppo in grado di rendere ragione delle diverse articolazioni del “vivere bene” perseguite e perseguibili a livello locale. Se il capability approach, soprattutto nella versione di Sen, non intende formulare indicazioni precise applicabili omogeneamente a livello generale – insistendo anzi su un processo deliberativo bottom-up per la definizione del “vivere bene” nei diversi contesti di vita –, nondimeno le due critiche rappresentano altrettante sfide a cui i teorici del capability approach solo in tempi molto recenti hanno cercato di far fronte. L’individualismo etico, secondo cui solo i singoli hanno personalità morale, è effettivamente un tratto centrale del capability approach. Ciò non significa misconoscere i legami sociali a favore di un individualismo ontologico di tipo atomistico, bensì che le strutture e le proprietà sociali sono da valutare per la loro funzione causale sul well-being degli individui. La preoccupazione è che quest’ultime possano ostacolare il “vivere bene” dei loro singoli componenti (Robeyns, 2008: 90 s.). In tal modo, però, non è adeguatamente considerata la centralità della relazione come fonte di modi di essere e di fare, di funzionamenti, che possono essere acquisiti solo come risultato dell’interazione sociale e che sono irriducibili a proprietà di singoli individui. Si tratta di strutture sociali e istituzionali basate sul con-vivere, che permettono la fioritura dei singoli così come delle comunità, perché caratterizzate da relazioni di reciprocità (Comim, 2008; Deneulin, 2008: 111). In tal senso vi è l’esigenza di introdurre nel capability approach la categoria di “capacità sociali” intese come capabili- 64 65 Filosofie del buen vivir tra passato e futuro Fulvio Longato ties di funzionamento collettivo possedute da una determinata comunità, le quali hanno sì un valore strumentale perché sono i singoli a beneficiarne, ma anche un valore intrinseco perché non possono essere espresse in termini individuali (Andreoni, 2009). È significativo che tale esigenza viene recepita dai teorici del capability approach in riferimento a forme di cooperazione orizzontale nel lavoro comunitario, di microfinanza e di gestione di common goods come fiumi, laghi e foreste attuate da popolazioni autoctone (Distaso, Ciervo, 2007). Una riconsiderazione del capability approach, che colleghi l’affiliazione (affiliation), di cui Nussbaum sottolinea la centralità come capacità funzionale individuale, a forme di capacità relazionale e sociale può permettere di coniugare individualismo etico e ontologia relazionale nei termini di un’«autonomia relazionale» (Giraud et al., 2013) che risponda alle istanze poste dal buen vivir. Per quanto concerne la seconda critica, i lavori di Sen e Nussbaum, pur non negando l’importanza della cura per l’ambiente, considerano quest’ultimo in funzione del well-being individuale inteso altresì in ottica intergenerazionale. Sen ha, infatti, proposto di modificare la definizione di sviluppo sostenibile del Rapporto Bruntland sostituendo il riferimento ai bisogni (needs) con quello alle capacità, nel senso di «uno sviluppo in grado di assicurare le capacità delle generazioni presenti senza compromettere le capacità delle generazioni future» (Sen, 2013: 11). Recentemente Nussbaum ha proposto di riconoscere e di tutelare, sotto forma di diritti, capabilities specifiche del mondo animale, attribuendo quindi un valore in sé agli individui senzienti non umani, ma considerando gli ecosistemi come supporto alle esistenze individuali (Nussbaum, 2012: 150 ss.). La sfida ecologica del buen vivir rappresenta senz’altro un banco di prova impegnativo per il capability approach, in primo luogo per quanto riguarda l’attribuzione di un valore intrinseco alla natura. Nella recentissima letteratura in proposito vi è, a quanto è dato conoscere, un’unica proposta che affronta esplicitamente il tema dal punto di vista del capability approach. Essa consiste nel differenziare la nozione di servizi ecosistemici – intesa in generale come i benefici multipli che un ecosistema apporta al genere umano – in supporting ecosystem services (in un senso però diverso da Nussbaum) e in direct ecosystem services (Pelenc et al., 2013). Mentre i secondi hanno una funzione strumentale per il benessere umano (fornendo acqua, cibo, ecc.), i primi corrispondono ai processi e cicli dei sistemi naturali che supportano dal punto di vista biologico la vita sulla terra, generando habitat adatti agli organismi viventi, inclusi gli umani che figurano perciò come parte della natura e non da questa distinti. Dal momento che i supporting ecosystem services sono necessari alla produzione dei direct ecosystem services, è attribuibile a essi e quindi alla natura un valore intrinseco, distinto da quello strumentale diretto al well-being individuale. Dall’attribuzione di un valore intrinseco alla natura, che, per quanto interrelato a quello strumentale, rappresenta la natura a livello culturale e simbolico come non pienamente disponibile all’intervento umano, consegue l’assunzione di una responsabilità ex ante nei confronti degli ecosistemi intesi come common goods. Nell’ottica della “sostenibilità forte” – della non sostituibilità del capitale naturale con quello prodotto dall’uomo – una responsabilità antagonista a un atteggiamento prometeico nei confronti della natura può esercitarsi primariamente mediante forme collettive di agency. Tali forme di azione sono realizzate da comunità, gruppi e associazioni di agenti che si attivano non solo in vista del proprio benessere, ma per apportare cambiamenti all’interno delle loro comunità e in generale della società, i quali trascendono il well-being individuale. In tal modo si conferma, anche rispetto al modo di “vedere” la natura, l’esigenza di capacità sociali che emergano da interazioni guidate da una condivisa rappresentazione di responsabilità. Come più volte sottolineato, il buen vivir è una filosofia in costruzione, ma lo è anche in generale l’interrogarsi e il riflettere su che cosa significhi e su come sia praticabile un “vivere bene” rispettoso del Mitwelt. L’interpretazione qui proposta delle convergenze stimolate dal buen vivir conferma che «todas as culturas são incompletas e problemáticas nas suas concepções de dignidade humana … A incompletude provén da própria existência de uma pluralidade de culturas, pois, se cada cultura fosse tão completa como se julga, existiria apenas uma só cultura … O reconhecimento de incompletudes mútuas é condição sine qua non de um diálogo intercultural» (de Sousa Santos, 1997: 22). 66 67 Filosofie del buen vivir tra passato e futuro Fulvio Longato Albó X. (2011), Suma qamaña = convivir bien. ¿Cómo medirlo?, in Farah H.I., Vasapollo L. (eds.),Vivir bien: ¿Paradigma no capitalista? , Cides-Umsa. Andreoni A. (2009), Verso una espansione dell’approccio seniano: capacità sociali ed istituzioni capacitanti, in Annali della Fondazione Einaudi, 42. Bruni L. (2006), Reciprocità. Dinamiche di cooperazione, economia e società civile, Mondadori. Comim F. 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Keywords: Good Life, Reciprocity, Nature as an intrinsic value, Human development, Capability approach. 71 Il sumak kawsay: da cosmovisione indigena a principio costituzionale in Ecuador di Silvia Bagni7* SOMMARIO: 1. Introduzione: il costituzionalismo andino nel contesto politico latinoamericano. – 2. Pachamama e sumak kawsay nelle cosmovisioni indigene. – 3. Pachamama, sumak kawsay, buen vivir nella costituzione ecuadoriana. – 4. Le criticità nell’attuazione del progetto costituzionale tra sumak kawsay e buen vivir: profili giuridici, sociali e politici. – 4.1. Il difficile rapporto tra le forze politiche progressiste dalla Costituente all’attuale Assemblea nazionale. – 4.2. Il delicato passaggio dal testo costituzionale alla legislazione attuativa. – 4.3. Il retaggio culturale della colonizzazione. – 5. Conclusioni: in difesa dell’autonomia del nuovo costituzionalismo andino. 1. Introduzione: il costituzionalismo andino nel contesto politico latinoamericano Fino a ieri l’America Latina era considerata un continente importatore di modelli giuridici; anzi, spesse volte un pessimo imitatore, basti pensare alla deriva che nella maggior parte dei paesi sudamericani ha preso il sistema presidenziale nel secolo scorso, trasformandosi con incredibile facilità in vero e proprio regime dittatoriale. Oggi, quasi all’improvviso, si ritrova ad essere continente esportatore non solo di idrocarburi e preziose materie prime, nonché di biocombustibile, grano, cacao, zucchero, banane e altri alimenti destinati ai mercati del ricco Nord, ma anche di esperienze politiche, giuridiche, sociali e culturali. Esperienze che non * Ricercatrice di Diritto pubblico comparato e professoressa aggregata nell’Università di Bologna. Il sumak kawsay Silvia Bagni vengono più viste come eccentriche o esotiche, bensì come espressione di tradizioni culturali e istituzionali autoctone, indicate, almeno da una parte della dottrina europea, come interessanti e innovativi paradigmi. Nell’ambito del diritto costituzionale comparato, inoltre, si parla recentemente di nuevo constitucionalismo andino, nato dalla costola delle teorie sul neocostituzionalismo del secondo dopoguerra, per risaltare la portata innovatrice, in particolare, dei processi costituenti in Venezuela (1999), Ecuador (2008) e Bolivia (2009). L’evoluzione politico-istituzionale di questi tre paesi, protagonisti del c.d. giro a la izquierda del continente (appena riconfermato, in questo anno cruciale di elezioni81, dalla recente vittoria della Bachelet in Cile), è di capitale importanza per la comprensione degli equilibri geopolitici della regione e del mondo intero: si pensi alla politica controegemonica in tema di sfruttamento delle risorse petrolifere, attraverso la rinegoziazione dei contratti di concessione con le multinazionali del petrolio, alla gestione dei rapporti internazionali fra i paesi dell’America Latina, con la spinta per la creazione di relazioni Sud-Sud, attraverso l’istituzione di Unasur, Alba e Celac e la proposta di una nuova architettura finanziaria con la creazione del Banco del Sur e del Sistema Unitario de Compensación Regional (Sucre), alle politiche di redistribuzione interna della ricchezza, alla ricontrattazione del debito estero, attraverso procedimenti di auditoría pubblica, al ruolo propulsivo dei movimenti indigeni verso il cambiamento del paradigma politico e culturale, ecc. Tutti questi elementi extragiuridici si ritrovano in qualche modo riflessi nelle disposizioni contenute all’interno delle nuove carte costituzionali e sono indispensabili strumenti di comprensione che il giurista comparatista deve tenere presente se vuole cercare di andare oltre la lettura di queste costituzioni come un magnifico manifesto delle più avanzate teorie costituzionali in tema di diritti umani e Stato sociale, per rilevarne anche le inevitabili contraddizioni, ma al contempo le incredibili potenzialità. Credo che tale approccio metta al riparo tanto da critiche circa una lettura ingenua o meramente formalista di queste costituzioni, quanto contro l’assunzione di una posizione etnocentrica, di preconcetto rifiuto nei confronti di modelli non consoni rispetto alla cultura occidentale, e renda al contempo giustizia di un prodotto finale che possiede interessanti spunti di originalità. A mio avviso, al di là dei singoli istituti, gli aspetti più innovativi si possono riassumere in due punti fondamentali: 1) il ruolo pervasivo della partecipazione popolare, testimoniato dall’abbondanza di previsioni di istituti partecipativi nelle neonate costituzioni, tanto nella fase costituente, quanto in quella di esecuzione delle politiche di governo; 2) il recepimento di concetti, visioni del mondo, tradizioni giuridiche, provenienti dalle culture originarie che compongono questi Stati plurinazionali. Sebbene tali caratteristiche siano in diversa misura presenti in tutti e tre i paesi citati, per quanto riguarda la partecipazione popolare, pioniera è stata senza dubbio la costituzione venezuelana, che per prima ha tradotto in pratica le idee rivoluzionarie sul quinto potere elaborate da Simón Bolívar, sulle quali in questa sede non mi soffermerò; mentre per quanto riguarda il rapporto con le tradizioni indigene, i modelli di riferimento sono senza dubbio le costituzioni di Bolivia ed Ecuador. Con particolare riferimento al testo fondamentale ecuadoriano, si cercherà in primo luogo un accostamento alla Weltanschauung dei popoli indigeni (§ 2); si esaminerà in che modo essa sia stata recepita in costituzione (§ 3); e infine si cercherà di metterne in luce gli aspetti giuridici più innovativi e i punti critici, soprattutto con riferimento all’implementazione degli obiettivi, dei diritti e dei vincoli introdotti dalla carta costituzionale al livello delle fonti subordinate e delle politiche pubbliche (§ 4). Infine, nelle conclusioni, si difenderà il carattere originale di questo tipo di costituzionalismo, che per la prima volta presenta al resto del mondo un prodotto DOP del continente latinoamericano, con una certa dose di successo pratico, nonostante l’elaborazione teorico-dottrinale di questo nuovo paradigma costituzionale sia forse ancora un po’ acerba anche per la pianta che ha prodotto il frutto. 74 1 Alla data in cui si scrive (aprile 2014) si sono già tenute le elezioni amministrative in Ecuador, che hanno visto un leggero calo negli enti decentrati di Alianza País, il partito del presidente Correa, che si è riconfermato nel 2013 al primo turno per un secondo mandato (terzo, qualora si voglia considerare anche l’anno di presidenza intercorso durante il processo costituente), con il 57,1% di consensi, conquistando anche 100 dei 137 seggi parlamentari. Inoltre, si sono svolte le presidenziali in Costa Rica, El Salvador e Cile, e sono previste le presidenziali e politiche a Panama, in Colombia e in Brasile. 75 76 Il sumak kawsay 2. Pachamama e sumak kawsay nelle cosmovisioni indigene La cultura indigena entra per la prima volta in un testo costituzionale, non come una specie in via di estinzione, da proteggere attraverso la creazione di uno zoo-safari per turisti sempre in cerca di manifestazioni folkloristiche, bensì dalla porta principale, attraverso il riconoscimento, fin dal preambolo e in numerose disposizioni nel corpo del testo, della Pachamama e del sumak kawsay come valori, principi costituzionali e regime di diritti. Prima di comprenderne la portata giuridica, tuttavia, è necessario approfondire la loro origine e il loro significato all’interno della tradizione ctonia (indigena), avvalendosi di studi sociologici e antropologici, visto che viene da più parti messa in dubbio la loro stessa appartenenza a una qualsiasi cultura originaria andino-amazzonica, tanto che con riferimento al sumak kawsay si parla di «tradizione inventata» (Hobsbawm, Ranger, 2002). Infatti, studi specialistici hanno dimostrato che, prima del 2000, tanto nel vocabolario delle più comuni lingue indigene, quanto nella letteratura sulla storia, cultura e filosofia locale, tale espressione era inesistente, venendo invece utilizzati i due lemmi singolarmente, ovviamente con diverso significato. Tutto sommato, dalla prospettiva giuridica che abbiamo assunto, poco importa che si tratti di tradizione inventata, piuttosto che di ontologia (ri)scoperta (diversa rilevanza assumerebbe invece il punto all’interno di una ricerca antropologica!). Ciò che conta è che: a) sia stata coscientemente assunta come espressione e rivendicazione di un’identità popolare, b) per questo motivo sia stata riversata nel testo costituzionale, e c) da questa fonte suprema abbia le potenzialità per esercitare un effetto trasformatore sull’ordinamento. Un primo problema da risolvere, tipico per il comparatista, è quello della traduzione. Il costituente ha già preso una decisione sul “se”, pur mantenendo in molte disposizioni anche la versione originale. Pure rispetto a quest’ultima scelta occorre fare una riflessione. In Ecuador, infatti, è stata utilizzata la sola lingua kichwa (sumak kawsay, appunto), seppur l’art. 2, c. 2, riconosca come lingue ufficiali nelle relazioni interculturali anche il shuar, nonché gli altri idiomi ancestrali per i popoli che ancora li parlano nei luoghi dove vivono, a fronte di un censimento nel paese di almeno altre dieci lingue originarie. Silvia Bagni 77 La costituzione boliviana, invece, all’art. 8, c. 1, recita: «El Estado asume y promueve como principios ético-morales de la sociedad plural: ama qhilla, ama llulla, ama suwa (no seas flojo, no seas mentiroso ni seas ladrón), suma qamaña (vivir bien), ñandereko (vida armoniosa), teko kavi (vida buena), ivi maraei (tierra sin mal) y qhapaj ñan (camino o vida noble)», mentre all’art. 5 afferma che sono lingue ufficiali dello Stato, con eguale dignità, oltre al castigliano, tutte quelle dei popoli originari92. Il combinato disposto dimostra non soltanto il grado di accentuazione che il costituente boliviano ha voluto imprimere all’idea di Estado plurinacional, ma anche la complessità implicata nel riconoscimento costituzionale delle culture originarie, che si richiamano non a una, bensì a diverse cosmovisioni, seppur da considerare fra loro compatibili sulla base di un minimo comune denominatore di significato. È giunto dunque il momento di spiegare quale sia questo contenuto originale. In prima approssimazione, potremmo dire che il sumak kawsay kichwa e il suma qamaña aymara, per limitarci alle due versioni più note, esprimono l’idea di una forma di vita in armonia con la natura e con gli altri esseri umani, ma la determinazione degli esatti confini di senso di queste tradizioni resta una sfida anche per gli esponenti di queste culture. Si tratta, infatti, di concetti che hanno differenti sfumature all’interno di ciascun popolo indigeno. In Ecuador, ad esempio, differenti sono le tradizioni fra gli indigeni dell’Amazzonia, gli andini e gli indigeni della costa, gli afroamericani e i montubi. I lemmi suma e sumak significano «plenitud, sublime, excelente, magnifico, hermoso»; qamaña e kawsay, invece, richiamano i concetti di «vida, vivir, convivir, estar siendo, ser estando». La traduzione più fedele delle due espressioni dovrebbe essere quindi vida en plenitud, ossia vita in pienezza. Nella costituzione boliviana è stato tradotto come vivir bien mentre in quella ecuadoriana come buen vivir. Le traduzioni castigliane utilizzate nei testi costituzionali agli orecchi occidentali possono creare 2 «Son idiomas oficiales del Estado el castellano y todos los idiomas de las naciones y pueblos indígena originario campesinos, que son el aymara, araona, baure, bésiro, canichana, cavineño, cayubaba, chácobo, chimán, ese ejja, guaraní, guarasu’we, guarayu, itonama leco, machajuyai-kallawaya, machineri, maropa, mojeño-trinitario, mojeño-ignaciano, moré, mosetén, movima, pacawara, puquina, quechua, sirionó, tacana, tapiete, toromona, uru-chipaya, weenhayek, yaminawa, yuki, yuracaré y zamuco». Il sumak kawsay Silvia Bagni false assonanze con concetti più o meno noti del costituzionalismo classico o della filosofia antica. Vivir bien infatti, può richiamare la forma di Stato del bienestar, e risulta evidente come un accostamento dei due concetti farebbe cadere la tesi della portata innovativa del costituzionalismo andino (esattamente come alcuni critici sostengono); buen vivir richiama invece l’ideale aristotelico della buona vita. Un’indagine comparativa sullo sviluppo delle due filosofie potrebbe forse condurre alla scoperta di tratti comuni nella linea di pensiero di popoli geograficamente isolati e temporalmente non coevi. Tuttavia, sul piano delle dottrine giuridiche e politiche, il paragone dovrebbe arrestarsi, visto che dall’eudaimonia aristotelica, intesa come fine principale dell’essere umano, l’Europa è arrivata a sviluppare una versione meramente individualistica e soggettivistica della buona vita, non fondata sull’idea di bene comune; oppure a trasformarla in oikonomia, che a sua volta, da una dimensione comunitaria e solidaristica, caratteristica dell’Illuminismo francese e italiano, giunge alla costruzione dello Stato del welfare, del benessere inteso come «godimento e, insieme, auto-imprenditorialità» (Esposito, 2013: 29). Nella cosmovisione indigena tutto è connesso, interrelazionato, niente sta fuori, ognuno è parte del tutto; l’armonia e l’equilibrio di uno e del tutto sono il fondamento della comunità: «Saber vivir implica estar en armonía con uno mismo. Vivir Bien es vivir en comunidad, en hermandad y especialmente en complementariedad. Es una vida comunal, armónica y autosuficiente. Vivir Bien significa complementarnos y compartir sin competir, vivir en armonía entre las personas y con la naturaleza. Es la base para la defensa de la naturaleza, de la vida misma y de la humanidad toda» (Huanacuni Mamani, 2010: 7 ss.). Vivir bien non è dunque equivalente a vivir mejor, perché quest’ultima espressione richiama una forma di pensiero individualista, ancorata a un modello economico di sviluppo storico lineare: in tale contesto l’aggettivo comparativo implica che il soggetto viva meglio, ma a scapito di qualcuno che vive peggio. La forma di Stato del benessere non è un’opzione praticabile in quanto non sostenibile per le generazioni future. Per questo, secondo la cosmovisione andino-amazzonica, i paesi occidentali dovrebbero essere definiti “mal sviluppati”, in quanto stanno mettendo in pericolo il futuro dei loro simili, oltre che della natura. Da queste basi non deriva tuttavia un pensiero uniforme circa cosa debba essere inteso come espressione del sumak kawsay sul piano istituzionale, delle politiche di governo e delle rivendicazioni sociali. Sono state descritte tre distinte correnti di pensiero circa il contenuto del principio: socialista-statalista, ecologista-postsviluppista e indigenista. La prima corrente sarebbe composta da coloro che sostengono le politiche di implementazione della costituzione messe in atto dall’attuale esecutivo ecuadoriano e che vedono nel sumak kawsay il modo di essere del “socialismo del XXI secolo” o “socialismo del buen vivir”, come viene chiamato nei documenti ufficiali, quindi una forma culturale modernista e di sviluppo alternativo, in continuazione con il pensiero occidentale, a fondamento dello Stato del benessere, di cui esalta in particolare gli aspetti equitativi e redistributivi della ricchezza (non a caso il Movimiento País ha scelto come simbolo della sua lotta politica «la revolución ciudadana», richiamando un concetto, quello di cittadinanza, tipico del costituzionalismo liberale). La seconda corrente è invece costituita da quella che, secondo gli schemi di lettura della scienza politica occidentale, potremmo definire la sinistra più estrema e intransigente. I suoi membri riconoscono il cuore del buen vivir nella lotta per la preservazione della natura, nella costruzione partecipata e popolare delle politiche di governo, e infine nella scelta decisa per un modello economico alternativo allo sviluppo. Per questo tale corrente può essere inserita nel filone postmodernista e postsviluppista e si pone in maniera critica nei confronti dell’attuale governo, accusato di utilizzare il buen vivir come mero slogan e di limitarsi soltanto a realizzare una forma migliore di Stato del benessere, senza cercare di cambiare seriamente il modello di sviluppo. L’obiettivo della costruzione partecipata del buen vivir, inteso come ideale comune a tutto il popolo e oltre, ossia rintracciabile anche in altre culture tradizionali del mondo, distingue questa corrente da quella indigenista, ma apre il disegno utopico di un mondo diverso a tutti i componenti della società, a prescindere dalle origini etniche e dalla identificazione con le tradizioni ancestrali, realizzando quell’anelito all’interculturalità che ha trovato sede nella costituzione di Montecristi. Infine, la terza corrente, composta prevalentemente dai leader del movimento indigeno, insiste soprattutto sul ruolo dell’autodeterminazione dei popoli originari nella costruzione del sumak kawsay e sugli elementi 78 79 Il sumak kawsay Silvia Bagni spirituali di questa cosmovisione. Denuncia la manipolazione del concetto da parte delle altre correnti, che, spogliandolo della sua dimensione cosmogonica, ne hanno tradito le origini e se ne sono appropriate, mascherando sotto un nuovo nome, più attrattivo, modelli culturali ed economici di matrice occidentale. La corrente statalista è molto critica nei confronti di questa terza accezione: lo stesso presidente Correa l’ha tacciata più volte di “indigenismo infantile”, mentre in dottrina alcuni la classificano, con intento spregiativo, con il termine pachamamismo, a causa dell’insistenza nel ricondurre il nuovo modello alle tradizioni ancestrali preincaiche, collegate al mito della Pachamama. Secondo una delle varie versioni del mito, Pachamama, dea della terra, si innamora di Pachacama, dio del cosmo. Dalla loro relazione nascono due figli, gli Huilcas. Alla morte del padre, la madre viene sedotta e assassinata da Huacón, dio della notte, e i figli realizzano una terribile vendetta a seguito della quale vengono trasformati in sole e luna, mentre la loro madre viene rappresentata come un ghiacciaio che assicura agli esseri umani la pioggia e fertilizza la terra. Pachamama viene tradotto usualmente come Madre Terra: si tratta quindi di una divinità femminile, legata alla fertilità e alla maternità, che incarna le due dimensioni dello spazio e del tempo. Di fatto però, il mito va oltre, spiegando come sia la relazionalità (uomo-donna, moglie-marito) alla base della vita. Attraverso un rapporto di complementarietà, infatti, il cielo e la terra si ritrovano uniti, tanto che l’etimo della parola Pachamama si compone di due lemmi che significano insieme “le due forze”. Altro insegnamento del mito è il rifiuto del ragionamento lineare e progressivo, a favore di quello circolare e ricorsivo, per cicli, seguendo quelli riproduttivi della terra. Mito, religione, realtà e sopravvivenza sono fra loro legati. La terra non è solo un luogo fisico, un ambiente sociale. È un luogo sacro, punto di incontro fra gli spiriti e l’uomo. L’essere umano deve vivere in equilibrio con la natura, non solo per rispettarne la sua dimensione biologica, ma soprattutto in quanto essa viene percepita come un costrutto sociale. Per questo bisogna rispettarla e non sfruttarla, secondo il concetto di risorsa proprio del capitalismo (ad es., non è ammesso cacciare più del necessario per il sostentamento della comunità). L’anima (samai), evidente commistione con la cultura cristiana, è dentro ogni essere vivente e l’energia del mondo va sempre reintegrata. Una qualunque perturbazio- ne dell’equilibrio mette a rischio la sopravvivenza della specie, in quanto passato, presente e futuro sono correlati e dipendenti. Da qui il forte senso di responsabilità nei confronti delle generazioni future, che si ritrova più volte come limite allo sfruttamento delle risorse naturali all’interno della costituzione. 80 81 3. Pachamama, sumak kawsay, buen vivir nella costituzione ecuadoriana La costituzione ecuadoriana costruisce il buen vivir tanto come principio quanto come statuto di diritti (Titolo II, Capitolo II: Diritti del buen vivir), che lo Stato deve dunque garantire ai soggetti interessati, i quali hanno a disposizione un’ampia serie di strumenti giuridici e azioni processuali di tutela. Essa mostra un approccio originale nel recepimento della tradizione indigena, se si considera che nella costituzione della Bolivia, l’unica che insieme a quella ecuadoriana abbia sperimentato questa via, il vivir bien (suma qamaña) è inserito fra i principi, valori e fini dello Stato (Capitolo II, art. 8), quindi come elemento extragiuridico che deve ispirare la condotta pubblica. La costituzione ecuadoriana si compone di 444 articoli, posizionandosi tra le più lunghe al mondo. Nell’ottica che qui stiamo privilegiando, cioè quella di evidenziare la penetrazione della cosmovisione indigena all’interno del testo costituzionale, può essere utile procedere all’analisi di un così vasto impianto normativo distinguendo le diposizioni che la menzionano direttamente, dalle parti del testo che, pur in assenza di un riferimento esplicito, introducono istituti in qualche modo riconducibili a quel tipo di mentalità; e ancora, all’interno della prima categoria, distinguere fra quelle che richiamano istituti e concetti nel loro nome originale (Pachamama e sumak kawsay), da quelle che utilizzano invece il corrispondente tradotto in castigliano (buen vivir e naturaleza). In questo modo avremo al contempo due ordini di grandezza del fenomeno: quantitativo e qualitativo, poiché l’uso della lingua originale rappresenta a mio avviso una scelta di campo circa l’effettiva volontà, almeno in sede costituente, di imprimere una svolta ideologica alla costituzione, alla ricerca di una vera convivenza interculturale nel nuovo Stato plurinazionale. Il clima politico all’interno della maggioranza di governo, infatti, inizial- Il sumak kawsay Silvia Bagni mente unita da un programma di cambiamento radicale di paradigma, nel tempo si è andato modificando, tanto che ben presto alcuni protagonisti del momento costituente, come Alberto Acosta, nominato ministro dell’energia e presidente della Costituente, si sono quasi subito defilati da Alianza País, insieme a una parte del movimento indigenista. Il partito del presidente, pur godendo della più ampia maggioranza di sempre in Assemblea, si trova oggi nel mezzo di due diverse opposizioni, quella tradizionale di destra, liberale e neoliberista, e quella di estrema sinistra. Da un punto di vista giuridico, inoltre, ritengo che l’uso della parola in lingua originale rappresenti un vincolo interpretativo per il giudice impegnato a garantire il rispetto della costituzione: egli infatti, nella ricerca del significato costituzionale della disposizione, sarà portato a interpretarla alla luce dei valori propri di quella tradizione. Il sumak kawsay è citato in costituzione cinque volte: nel preambolo, come obiettivo per la costruzione di una nuova forma di convivenza cittadina, basata sulla diversità e l’armonia con la natura; all’art. 14, che riconosce il diritto a vivere in un ambiente sano, che garantisca la sostenibilità e il sumak kawsay; all’art. 250, che riconosce il territorio amazzonico quale ecosistema necessario per l’equilibrio ambientale dell’intero pianeta e gli attribuisce uno statuto speciale, garantito da una particolare forma di pianificazione che assicuri la conservazione dei suoi ecosistemi e del sumak kawsay; all’art. 275, il quale definisce il regime di sviluppo, orientato alla realizzazione del sumak kawsay; all’art. 387, dove si elencano fra le responsabilità dello Stato quella di promuovere la ricerca scientifica e tecnologica, nonché lo sviluppo dei saperi ancestrali, per contribuire a realizzare il sumak kawsay. La Pachamama è menzionata due volte: nel preambolo, dove viene celebrata come vitale per la nostra esistenza, e all’art. 71, dove si stabiliscono per la prima volta i diritti della natura intesa come soggetto di diritto. In tutti questi articoli sumak kawsay e Pachamama sono sempre citati insieme alla rispettiva traduzione castigliana, come rafforzativi, a sottolineare l’origine, la matrice del pensiero tradizionale da cui quelle disposizioni sono scaturite. Si tratta sempre del tema ambientale: la constatazione è di particolare interesse, poiché dimostra come proprio su tale dimensione ecologista sia stata giocata la partita dell’innovazione del paradigma culturale nel processo costituente, a dispetto di una posizione governativa attuale meno estrema nei confronti delle tematiche ambientali, soprattutto quando si tratta di contemperarle con esigenze di sviluppo economico-sociale (infra, § 4). Il buen vivir viene citato in costituzione ben ventuno volte (a fronte dei solo sette richiami al vivir bien nella costituzione boliviana). Dopo il preambolo, lo ritroviamo come uno dei «doveri primordiali dello Stato» (art. 3, c. 1, n. 5) e immediatamente dopo, nel Titolo II dedicato ai diritti, il primo gruppo è proprio quello dei diritti del buen vivir: all’acqua (art. 12), a un’alimentazione sana e sufficiente (art. 13), a un ambiente sano (art. 14), alla comunicazione e informazione libera, interculturale, includente, diversa e partecipativa, che comprende il diritto all’accesso alle tecnologie dell’informazione (art. 16), all’identità culturale (art. 21), al tempo libero (art. 24), a beneficiare delle applicazioni del progresso scientifico e dei saperi ancestrali, fra loro equiparati (art. 25), all’educazione (art. 26), a un habitat sicuro e salubre e all’abitazione degna (art. 30), allo sfruttamento dello spazio cittadino sostenibile (art. 31), inteso come diritto di partecipazione al suo governo e come diritto di proprietà con funzione sociale e ambientale, alla salute, anche sessuale e riproduttiva (art. 32), riconosciuto come diritto dipendente dall’attuazione degli altri diritti del buen vivir, al lavoro (art. 33) e alla sicurezza sociale (art. 34). Questo Capitolo riconosce dunque come pertinenti al buen vivir gran parte dei diritti sociali e di terza generazione, che tuttavia vengono ulteriormente arricchiti nei successivi capitoli attraverso il riconoscimento di statuti di diritti a gruppi sociali individuati (bambini, adolescenti, giovani, donne incinte, disabili, anziani, migranti, carcerati, consumatori) e a comunità, popoli e nazioni in quanto tali. Dal buen vivir dipendono anche doveri e responsabilità dei cittadini: «Ama killa, ama llulla, ama shwa. No ser ocioso, no mentir, no robar» (art. 83, c. 1, n. 2), ma soprattutto «Promover el bien común y anteponer el interés general al interés particular, conforme al buen vivir» (art. 83, c. 1, n. 7). Tale articolo va letto in connessione con il successivo art. 85, che vincola l’orientamento delle politiche pubbliche a rendere effettivi il buen vivir e tutti i diritti, secondo il principio di solidarietà. Si dà quindi prevalenza alla prospettiva comunitaria rispetto a quella individualistica, pur imponendo un tentativo di contemperamento degli interessi eventualmente in conflitto, ma «sin perjuicio de la prevalencia del interés general sobre el interés particolar». 82 83 Il sumak kawsay Silvia Bagni Infine, il buen vivir gioca un ruolo fondamentale nella costituzione economica del paese, in quanto preordina e vincola il regime di sviluppo dello Stato a determinati obiettivi: «El régimen de desarrollo es el conjunto organizado, sostenible y dinámico de los sistemas económicos, políticos, socio-culturales y ambientales, que garantizan la realización del buen vivir, del sumak kawsay» (art. 275, c. 1). Tuttavia, se il primo destinatario della disposizione è lo Stato, che deve pianificare la politica economica del paese in quella direzione, le persone, comunità, popoli e nazionalità sono chiamate a partecipare attivamente all’impresa attraverso l’esercizio delle loro responsabilità «en el marco de la interculturalidad, del respeto a sus diversidades, y de la convivencia armónica con la naturaleza» (art. 275, c. 3). Di nuovo, si tratta di una impostazione parzialmente nuova nel panorama giuridico costituzionale. Se, ad esempio, anche la costituzione italiana richiama i doveri di solidarietà, lo fa partendo da una prospettiva personalista, di azione individuale, come parte dello sviluppo della personalità di ciascuno («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»). La costituzione ecuadoriana affianca alla persona la comunità in una escalation sempre più inclusiva, sottolineando così che gli obiettivi da realizzare mirano sempre al bene comune, all’interno del quale c’è anche quello individuale. Ancora, questa prospettiva trova conferma nell’art. 277, che, elencando i doveri generali dello Stato per la realizzazione del buen vivir, indica una triade di soggetti destinatari, titolari di diritti per la costituzione: le persone, le collettività, la natura. Quando parla di buen vivir la costituzione non si riferisce mai ai cittadini, bensì a questo gruppo di destinatari. Non credo sia un caso: il paradigma del cittadino coincide oggi, nei moderni ordinamenti socialdemocratici, con la politica dell’esclusione, dell’eguaglianza formale e non sostanziale, della neutralizzazione delle differenze attraverso l’astrazione giuridica e dunque esattamente con il sistema di sviluppo che si vuole superare. Il buen vivir come principio-chiave del modello di sviluppo ecuadoriano trova concreta declinazione nel Capitolo dedicato alla Sovranità economica. L’art. 283 definisce il sistema economico come sociale e solidale e pone come suo obiettivo la produzione e riproduzione delle condi- zioni materiali e immateriali che rendono possibile il buen vivir. Il regime economico si arricchisce, rispetto alle forme di organizzazione tipiche del sistema liberale (pubblica, privata e mista), dell’economia popolare e solidale, riconoscendo in questo modo le forme di produzione e scambio tipiche della tradizione indigena. È forse interessante segnalare, in un periodo in cui all’interno dell’Unione Europea le politiche di rigore hanno imposto addirittura revisioni costituzionali a garanzia del contenimento del debito, che la disposizione sul debito pubblico dell’art. 290 riconosce come limite di legittimità dell’indebitamento la sovranità, i diritti e il buen vivir, e proibisce espressamente la statalizzazione di debiti privati. Infine, la costituzione individua un «Régimen del buen vivir», suddiviso in due ambiti, quello delle azioni nel campo dei diritti sociali e quello dei diritti della natura, già specificati nel Capitolo VII del Titolo II dedicato ai Diritti. La natura, secondo l’art. 72, ha diritto «a la restauración». È un diritto indipendente dall’obbligo di indennizzare o risarcire le persone che hanno subito danni diretti dall’evento e include anche i danni causati alla natura dallo sfruttamento delle risorse naturali non rinnovabili. Ai sensi dell’art. 71, infatti, la natura (Pachamama), definita come il luogo dove si riproduce e si sviluppa la vita, ha il diritto a che si rispetti integralmente la sua esistenza nonché i suoi cicli vitali, la sua struttura, funzioni e processi evolutivi. Questo diritto è attivabile da qualsiasi persona, comunità, popolo o nazione, e prescinde dal fatto di aver subito un danno a titolo individuale. Lo Stato è tenuto ad applicare il principio di precauzione ed eventualmente a porre restrizioni rispetto ad attività suscettibili di condurre all’estinzione di specie, alla distruzione di ecosistemi o all’alterazione permanente di cicli vitali (questo obbligo è integrato da quello di consultazione delle comunità indigene rispetto a qualsiasi decisione che riguardi il loro territorio, la loro esistenza e il loro stile di vita: art. 57) mentre è totalmente proibita l’introduzione di organismi e materiali geneticamente modificati che possano alterare in maniera definitiva il patrimonio genetico nazionale (art. 73). Le persone, comunità, popoli e nazioni potranno godere delle ricchezze naturali e dell’ambiente ma i servizi ambientali dovranno restare di titolarità pubblica (art. 74). Il riconoscimento della natura come soggetto di diritto è rivoluzionario in prospettiva giuridica. Comporta un rovesciamento di prospettiva, 84 85 Il sumak kawsay Silvia Bagni da antropocentrica a biocentrica: il passaggio dal diritto dell’ambiente al diritto ecologico. La natura non è più tutelata in quanto finalizzata al benessere dell’uomo, ma in quanto portatrice di valori in sé. Questo permette di riconoscere un’azione popolare a difesa della natura, a prescindere da una lesione soggettiva di interessi propri del soggetto che agisce. L’ordinamento, tuttavia, non si è consegnato senza riserve alla subordinazione al diritto naturale in senso letterale; tutt’altro, visto che la costituzione chiarisce fin dall’inizio che la natura ha i diritti che essa stessa le riconosce (art. 10, c. 2). Solo in Ecuador la natura è riconosciuta come soggetto di diritto, mentre la costituzione ambientale in Bolivia si sviluppa soltanto attraverso il paradigma dei diritti di terza generazione, che sono sempre e comunque diritti della persona (diritto a un ambiente salubre, diritto alla salute, ecc.), ossia situazioni giuridiche funzionali allo sviluppo dell’identità individuale. L’art. 395, c. 4, cost. Ecuador arriva a prescrivere che in caso di dubbio interpretativo circa disposizioni ambientali il giudice debba applicare il principio nel dubbio pro natura. Passiamo ora all’identificazione di quel gruppo di disposizioni che presuppongono la cosmovisione andino-amazzonica come fondamento epistemologico, senza tuttavia richiamare esplicitamente il sumak kawsay o il buen vivir. Possiamo raggrupparle, a seconda della materia, in quelle volte a riconoscere e realizzare: a) la dignità del lavoro e un’economia sociale e solidale; b) la plurinazionalità e l’interculturalità; c) la partecipazione cittadina al governo democratico. a) L’articolo 283 della costituzione dichiara che l’economia ecuadoriana è sociale e solidale. Questo significa che l’uomo è messo al centro dei rapporti economici, e ciò comporta l’adozione di misure che esaltino la dignità del lavoro, come la partecipazione democratica dei lavoratori nella gestione dei processi produttivi, la redistribuzione della ricchezza, il salario minimo o il divieto di terziarizzazione del rapporto di lavoro. La difesa del lavoro deve prevalere su quella del capitale, per cui il principio di solidarietà impone un ridimensionamento dei concetti di produttività e competitività, che cedono di fronte ad esigenze legate alla tutela della persona-lavoratore. Tutto ciò senza negare in principio né il capitalismo, né la proprietà privata, bensì riconoscendo entrambe come forme di espressione delle capacità di sviluppo dell’uomo, insieme, e alla pari, rispetto al cooperativismo, all’impresa sociale, all’autogestione, alle reti del commercio giusto, ecc. Il sistema economico è finalizzato, come tutti gli altri ambiti del più ampio sistema sociale, alla realizzazione del buen vivir. Questo significa che il modello economico di sviluppo è con esso compatibile solo in quanto sostenibile, ossia inteso come “sviluppo integrale” dell’uomo in armonia con la natura, nel rispetto del sumak kawsay (Stato ecosociale). Quindi, la crescita economica non è demonizzata in sé, ma subordinata a un principio di sostenibilità. «El buen vivir no es vida pobre, sino una vida rica en un sentido más profundo e integral, digna en lo material, trascendente en lo social y espiritual, sensible a la diversidad cultural y a la naturaleza» (Grijalva Jiménez , 2012: 49). È l’intervento regolatore dello Stato sull’economia a garantire che ciò avvenga, sia in modo diretto, attraverso imprese pubbliche, soprattutto nei settori strategici, sia indirettamente, attraverso la pianificazione (il Piano nazionale per lo sviluppo è il documento, vincolante per le pubbliche amministrazioni, su cui si basa l’intera azione statale) e una puntuale disciplina, costituzionale e legislativa, di limiti e condizioni all’esercizio dell’iniziativa economica e alla proprietà in funzione dello sviluppo integrale della persona nel rispetto dell’ambiente. b) Il rapporto fra conquistatori occidentali e popolazioni indigene è stato caratterizzato, in prospettiva giuridica, prima dal paradigma dell’assimilazione, poi da quello della tutela delle minoranze, sempre però da una posizione che presupponeva l’inferiorità della cultura tradizionale rispetto a quella europea. Come riconosce anche Zagrebelsky, il multiculturalismo «si ferma a una giustapposizione delle diverse culture, nella migliore delle ipotesi estranee l’una all’altra; nella peggiore, conflittuali» (Mauro, Zagrebelsky, 2011: 104). L’autore richiama la necessità di superare questo modello, facendo riferimento non al concetto di intercultura ma a quello di «interazione» come «capacità delle culture di entrare in rapporto per definire sé stesse e la disponibilità a costruire insieme e, eventualmente, a imparare l’una dall’altra», senza rinunciare alla propria identità e su un piano di eguaglianza. Questa posizione appare in totale consonanza con il modello interculturale che propongono le nuove costituzioni andine. Infatti, attraverso la costituzionalizzazione della cosmovisione andino-amazzonica, rafforzata dalla tutela esplicita della cultura ancestrale, si riconosce a tutte le forme epistemologiche uguale dignità. La prospettiva interculturale diventa un’occasione per lanciare un pro- 86 87 Il sumak kawsay Silvia Bagni cesso di decolonizzazione dei diritti umani, la cui teorica viene integrata da visioni del diritto non occidentali, che suggeriscono, ad esempio, nuove riflessioni circa la dimensione collettiva dei diritti. Esempio paradigmatico è l’art. 11, n. 7, cost., che riconosce la dimensione collettiva della dignità, superando la visione individuale occidentale. Infine, l’art. 1 cost. proclama l’Ecuador «un Estado constitucional de derechos». La “s” finale nella parola derechos non è una svista, bensì la testimonianza di una scelta cosciente a favore di una nuova forma di Stato, quella dello Stato costituzionale dei diritti. Mentre la versione classica dello Stato di diritto ha il suo perno nella sottoposizione dei pubblici poteri ai limiti formali e sostanziali previsti dalla legge prima, dalla costituzione poi, nello Stato dei diritti la loro massima estensione costituisce l’obiettivo primario dello Stato (art. 11, n. 9), mentre diventano un limite per il pubblico e il privato, grazie alla loro efficacia diretta e vincolante. Viene superata la distinzione classica fra diritti civili, politici ed economico-sociali: essi vengono raggruppati per “materia”, sono tutti immediatamente giustiziabili e fra loro non c’è gerarchia (art. 11). Quanto alla loro progressiva estensione, l’impegno costituzionale in tal senso si evince anche dall’equiparazione dello status di cittadino e di straniero immigrato, incluso il diritto di voto, esercitabile dopo cinque anni di residenza in Ecuador, nonché dalla previsione costituzionale della promozione della cittadinanza universale. Lo Stato interculturale, plurinazionale e dei diritti implica il riconoscimento del pluralismo giuridico, declinato sia come pluralità di fonti del diritto (la legge e in generale il diritto dello Stato, gli usi e costumi del diritto indigeno, la giurisprudenza, financo la morale), sia come sistema articolato di garanzie (normativa, politica, che si traduce nell’obbligo dello Stato di determinare le politiche pubbliche, sanzionabile mediante l’azione costituzionale di inadempimento, e giurisdizionale). L’organizzazione della funzione giudiziaria si arricchisce con la previsione della giurisdizione indigena. Nel processo, la competenza giurisdizionale resta finché non c’è la soddisfazione piena del diritto attraverso l’esecuzione della sentenza (art. 86, n. 3). c) Il processo politico che ha condotto all’Assemblea costituente di Montecristi ha visto protagonisti, per la prima volta nella storia ecuadoriana, gruppi sociali subalterni, in primis i movimenti indigeni, che hanno portato come contributo fondamentale alla nuova costituzione la loro particolare cosmovisione e dunque il sumak kawsay. Come abbiamo visto, la interrelazionalità e la vita comunitaria sono aspetti centrali di questo modo di vivere. Questa dimensione si è dunque riversata nel testo costituzionale attraverso la qualificazione dello Stato come partecipativo e grazie alla declinazione della partecipazione popolare come diritto, come modus operandi nella definizione delle politiche pubbliche per mezzo della pianificazione, come funzione autonoma dello Stato (di trasparenza e controllo sociale), istituzionalizzata in diversi organi (il Consiglio di partecipazione cittadina e controllo sociale, il difensore del popolo, l’organo di controllo generale dello Stato e le sovrintendenze). 88 89 4. Le criticità nell’attuazione del progetto costituzionale tra sumak kawsay e buen vivir 4.1. Il difficile rapporto tra le forze politiche progressiste dalla Costituente all’attuale Assemblea nazionale Quando Rafaél Correa diventa presidente dell’Ecuador per la prima volta, nel 2007, il paese proveniva da più di un decennio di grande instabilità politica, essendo stati gli ultimi tre presidenti eletti tutti obbligati alle dimissioni per pressioni popolari nei precedenti dieci anni. La situazione economico-sociale era diventata insostenibile per la popolazione, che nel 2004 era scesa in strada per manifestare tutto il suo odio nei confronti di un establishment corrotto e “vendepatria”, al grido, ormai noto anche in Europa, “que se vayan todos”. Correa si presenta alle presidenziali sostenuto dal movimento di revolución ciudadana Alianza País, che riunisce anime diverse del panorama politico e sociale del paese, da sempre ai margini del potere, dal centro all’estrema sinistra, dagli ecologisti al movimento indigeno, e decide di non presentare candidati per l’Assemblea nazionale, in coerenza con un atteggiamento di dura critica nei confronti del sistema e delle istituzioni, cavalcando la bandiera della necessità di rifondare lo Stato su basi nuove attraverso la convocazione di un’Assemblea costituente, di fatto primo atto del presidente neo-eletto. Le elezioni per i membri dell’Assemblea assicurano ad Alianza País (AP) il 70% dei seggi, il sostegno all’esecutivo che mancava in sede parlamentare. Il sumak kawsay Silvia Bagni La contestualizzazione politica è a mio parere necessaria per comprendere tanto l’origine e la natura, così fortemente radicale, della costituzione ecuadoriana del 2008, quanto la fase successiva di governo e di attuazione, con i suoi innegabili successi ma anche le sue inevitabili contraddizioni. Per come era stato il recente passato, la costituzione non poteva essere meno che visionaria: il sumak kawsay diventa parola d’ordine e idea-guida che segna l’intero processo costituente e i successivi obiettivi di mandato, ma fin da subito, con la rinuncia di Alberto Acosta alla presidenza dell’Assemblea e con i primi dissapori con alcuni membri del movimento indigeno, appare chiaro che non c’è unione di vedute sul contenuto e sulle azioni da intraprendere nell’attuazione del buen vivir. Richiamando le differenti posizioni sul modo di interpretare e concepire il sumak kawsay esposte supra al § 2, ed analizzando i testi di alcuni documenti ufficiali, lo scollamento di vedute emerge. Nel Manifiesto ideológico di AP si dichiara ripetutamente che l’obiettivo da raggiungere è il “Socialismo del Buen Vivir”, che è «ispirato nella diversità di filosofie che forgiano l’ideale del sumak kawsay». Il Plan nacional de desarrollo approvato con risoluzione n. CNP-002-2013 del 29 luglio 2013, in attuazione dell’art. 280 cost., è stato chiamato Plan nacional para el Buen Vivir 2013-2017. Ma quale concetto di buen vivir propugna? E coincide con quello di sumak kawsay? Nel documento troviamo parti compatibili con le visioni indigenista ed ecologista del sumak kawsay. Il buen vivir viene descritto come «la forma de vida que permite la felicidad y la permanencia de la diversidad cultural y ambiental; es armonía, igualdad, equidad y solidaridad» (p. 12 della versione riassunta) e si afferma che «el Buen Vivir es el Sumak Kawsay» (p. 14). Prosegue dichiarando che si tratta di una visione differente da quella occidentale e aristotelica di “vita buona” e che «no se trata de un nuevo paradigma de desarrollo, sino de una alternativa social, liberadora». Fino a qui, il modello scelto appare in netta rottura non solo con il precedente sistema neoliberale, ma in generale con il modello di Stato sociale fino ad oggi realizzato in Occidente. Tuttavia, la ricetta proposta si basa in primo luogo sull’affermazione del ruolo dello Stato «como promotor del desarrollo» (p. 31), come redistributore delle risorse e della ricchezza, come regolatore del mercato, soluzioni ben note all’Occidente e implementate prima del cambio di paradigma economico dal modello keynesiano a quello neoliberale. In questi termini la portata dirompente del sumak kawsay agli occhi di un occidentale pare ridimensionata, ancor più se si guarda alla parte del programma dedicata alla pianificazione economica, dove si stabilisce l’obiettivo del cambio di matrice produttiva da paese principalmente esportatore di materie prime non lavorate, a un’economia della conoscenza, in grado cioè di proporre sul mercato prodotti lavorati con valore aggiunto. In questo processo si contempla lo sviluppo dell’industria mineraria e «se plantea usar el extractivismo para salir de l’extractivismo» (p. 48). È all’interno di questa cornice che si inserisce lo scontro attuale tra il governo, da una parte, e la sinistra più radicale e parte del movimento indigeno, inizialmente alleato di Correa, dall’altra. Essi attaccano la politica dell’esecutivo proprio sul terreno che, come abbiamo visto nell’analisi del testo costituzionale, era stato il cuore pulsante della rivoluzione, ossia la politica di difesa della natura e di abbandono dell’estrattivismo. Nel 2007, il presidente Correa lanciava in sede internazionale all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il progetto Yasuní-ITT. Con questa iniziativa l’Ecuador si impegnava a rinunciare all’estrazione delle risorse energetiche e minerarie del sottosuolo nei territori di Ishpingo-TambocochaTiputini, compresi nel parco nazionale Yasuní nell’Amazzonia ecuadoriana, con l’effetto di evitare l’immissione nell’atmosfera di 407 milioni di tonnellate di CO2, conseguenza dello sfruttamento petrolifero, pari alla produzione annua del gas-serra di paesi come Brasile o Francia. L’area, un parco naturale dal 1970 di 9.820 kmq nel Nord-Est del paese, rappresenta la riserva di biodiversità più importante del pianeta, oltre a essere la sede delle due comunità indigene in isolamento volontario presenti in Ecuador, Tagaeri e Taromenane, del gruppo etnico Huaorani. In cambio, l’Ecuador chiedeva alla comunità internazionale una compartecipazione economica al progetto, pari alla metà del valore delle entrate che lo Stato avrebbe perso a seguito della rinuncia all’estrazione (stimati in 3.600 milioni di dollari), attraverso la realizzazione di un fondo gestito dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo a cui gli Stati, le organizzazioni internazionali, le ong e i singoli potevano contribuire, da utilizzare sul territorio per il finanziamento di progetti relativi allo sfruttamento di energie pulite e rinnovabili, alla riforestazione, alla preservazione del parco naturale, alla ricerca e sviluppo di sistemi energetici sostenibili, allo sviluppo delle comunità agricole locali. 90 91 Il sumak kawsay Silvia Bagni Il progetto non ha ricevuto il sostegno necessario dalla comunità internazionale, che anzi, in alcuni casi ha osteggiato fortemente l’iniziativa. L’esecutivo, nel 2010, ha annunciato l’adozione del “piano B”, ossia l’inizio del parziale sfruttamento petrolifero del parco nelle zone a minore impatto ambientale. Il 15 agosto 2013 il presidente Correa ha chiesto al Parlamento di dichiarare di interesse nazionale il nuovo progetto di sfruttamento del parco. Il 22 agosto la società civile, attraverso il comitato promotore definito “Yasunidos”, ha presentato una richiesta di referendum nazionale sul quesito «Volete che il Governo ecuadoriano mantenga il petrolio greggio in ITT, noto come blocco 43, indefinitamente nel sottosuolo?», tuttavia i promotori non sono stati in grado di presentare il numero di firme previsto dalla costituzione per lo svolgimento della consultazione (5% dell’elettorato), risultato certificato il 6 maggio 2014 dal consiglio elettorale nazionale. annoverate le azioni di protezione (si legga amparo), habeas corpus, accesso alle informazioni pubbliche, habeas data, azione per inadempimento e azione straordinaria di protezione. Tuttavia, le azioni costituzionali e l’azione straordinaria di protezione sono esperibili, in base all’art. 439, unicamente da parte di cittadini, individualmente o collettivamente. Le azioni costituzionali sono popolari, ossia non serve che il soggetto ricorrente dimostri una lesione diretta di un proprio diritto o interesse. A fronte di queste premesse costituzionali, la Legge organica sulle garanzie giurisdizionali sembra, sotto molti aspetti, aver disciplinato queste azioni introducendo requisiti processuali non previsti dalla costituzione, che ne restringono l’ambito applicativo. Ad esempio, l’art. 9, inserito tra le regole comuni a tutti i giudizi, richiede, ai fini della legittimazione attiva, che la persona, comunità, popolo o collettivo sia lesa o minacciata in uno o più dei suoi diritti costituzionali, specificando che si considerano “persone lese” solo le vittime dirette o indirette di violazione di diritti costituzionali che possano dimostrare di aver subito un danno. L’azione di protezione diventa residuale, ossia solo a fronte dell’inesistenza di altro tipo di azioni giudiziali adeguate ed efficaci che possano ugualmente tutelare il diritto violato (art. 40, n. 3). L’azione straordinaria di protezione diventa ammissibile solo qualora il ricorrente dimostri che il ricorso è finalizzato a risolvere una violazione grave di diritti, o serva a stabilire precedenti giudiziali, o a correggere l’inosservanza di precedenti della corte o a pronunciarsi su questioni di rilevanza e trascendenza nazionale (art. 62, n. 8), mentre viene esclusa contro sentenze del tribunale contenzioso elettorale durante i processi elettorali. Infine, a fronte di una generica previsione costituzionale della possibilità per la corte costituzionale di ordinare misure cautelari, la legge ne limita l’utilizzo in caso di azione straordinaria di protezione (art. 27, c. 3). Paradossalmente, per quanto attiene alla legittimazione attiva nei casi di azione di incostituzionalità, che la costituzione riserva ai cittadini, la Logjcc apre a tutte le persone. Per quanto attiene specificamente all’utilizzo del sumak kawsay come parametro di costituzionalità e ai diritti e alle azioni previste a tutela della natura, gli interventi giudiziari sono ancora relativamente pochi e non tutti coerenti. La prima azione di protezione a tutela della natura è stata promossa da due cittadini stranieri, in esercizio di quella giurisdizione universale di cui abbiamo sopra parlato, contro il governo provinciale 92 4.2. Il delicato passaggio dal testo costituzionale alla legislazione attuativa Da un punto di vista giuridico, è necessario tenere distinte le due sfere dell’essere e del dover essere costituzionale, pur non rinunciando a un’analisi della coerenza dell’ordinamento in termini di attuazione legislativa del progetto costituzionale e di interpretazione giurisprudenziale dei principi enucleati in costituzione. Mi concentrerò in particolare sull’aspetto che mi pare più rilevante in relazione all’autodefinizione della costituzione come forma di Stato costituzionale dei diritti: le garanzie giurisdizionali, con particolare riferimento ai diritti della natura. La costituzione, conformemente al suo afflato garantista, offre non soltanto un vasto armamentario di azioni a garanzia dei diritti costituzionali, coinvolgendo direttamente anche la magistratura ordinaria, ma pare riconoscere una legittimazione processuale generale per attivarle. L’art. 75 afferma che ogni persona ha diritto all’accesso gratuito alla giustizia e alla tutela effettiva, imparziale e rapida dei suoi diritti e interessi. L’art. 86, a sua volta, prevede che: «Las garantías jurisdiccionales se regirán, en general, por las siguientes disposiciones: 1. Cualquier persona, grupo de personas, comunidad, pueblo o nacionalidad podrá proponer las acciones previstas en la Constitución». Tra le garanzie giurisdizionali vanno 93 Il sumak kawsay Silvia Bagni di Loja, responsabile di aver causato danni ambientali a seguito del deposito di materiale di scavo nel letto del fiume Vilcabamba durante la costruzione della strada Vilcabamba-Quinara, realizzata senza preventiva valutazione di impatto ambientale. La corte provinciale di giustizia di Loja, nella causa 11121-2011-0010, promossa il 5/01/2011, ha riconosciuto la responsabilità dell’amministrazione locale, riconoscendo che la natura «tiene de que se le respete integralmente su existencia y el mantenimiento y regeneración de sus ciclos vitales, estructura, funciones y procesos evolutivos». Per quanto riguarda la posizione della corte costituzionale, se da un lato, già varie volte, in virtù del riconoscimento costituzionale del sumak kawsay, la tutela della natura è stata considerata un motivo ammissibile per giustificare lo Stato di eccezione decretato dal governo, dall’altro, quando l’approccio che sarebbe richiesto in virtù di un’interpretazione interculturale delle clausole costituzionali secondo i principi del sumak kawsay entra in contrasto con le attività di pianificazione economica e di sviluppo dello Stato, la corte si pone in posizione di difesa del perseguimento dell’interesse comune, identificato con un modello economico e di Stato sociale sviluppista, senza tener conto dell’obiezione per cui nello Stato del buen vivir il bene collettivo dovrebbe essere identificato nei valori che la corte ha sacrificato103. Questo concetto viene largamente illustrato nell’opinione dissenziente del giudice Nina Pacari Vega nella pronuncia 001-10-SIN-CC del 18 marzo 2010, a seguito di azione di incostituzionalità promossa contro la Ley de Minería, forse ad oggi uno dei più importanti casi affrontati dalla corte. Il giudice, già consigliera giuridica della Conaie, l’organizzazione ecuadoriana rappresentativa dei popoli indigeni, ricorda come «de no existir armonía entre el “interés colectivo” y el respeto a los derechos constitucionalmente reconocidos, y más aún cuando aquellos están directamente relacionados con un derecho fundamental como la integralidad de los territorios de pueblos ancestrales o la consulta prelegislativa, estaríamos frente a un concepto sustentado por Roberto Dromi que dice: «No existe un concepto de utilidad pública inmutable, rígido e inflexible» (p. 41 del voto salvado). Mentre infatti l’opinione di maggioranza giustifica sotto vari aspetti la legge alla luce delle norme costituzionali che consentono allo Stato, in base al concetto di utilità pubblica, di comprimere i diritti dei popoli indigeni, il giudice Pacari, in considerazione dell’importanza trascendentale della questione, ritiene che la corte avrebbe dovuto procedere a una interpretazione globale della costituzione, sulla base del principio di interculturalità. Solo questo tipo di approccio avrebbe consentito di vedere la reale portata di concetti come quello di “terra” nella cultura dei popoli indigeni e quindi di ponderare in maniera appropriata il diritto delle popolazioni indigene alla consulta previa a fronte di altri concetti come quello di utilità pubblica. 94 3 Nella fattispecie, la società pubblica Petroecuador, che gestisce le attività estrattive per conto dello Stato, è impegnata nella costruzione di un sistema di stoccaggio terreste del GPL. Per realizzare il progetto, la società deve espropriare diversi ettari di terre comunitarie, secondo l’art. 57, n. 4, cost. inalienabili e indivisibili, anche se, dall’altra parte, l’art. 323 attribuisce allo Stato il potere di espropriare beni, salvo indennizzo, per fini di sviluppo sociale e benessere collettivo. La società richiede quindi alla corte una pronuncia interpretativa (sent. 002-09-SIC-CC). Nelle conclusioni si legge che «se prioriza el interés general que representa a toda la nación, respecto del interés particular o comunal como en la especie así sucede». 95 4.3. Il retaggio culturale della colonizzazione Volendo considerare tutti i possibili ostacoli che il sumak kawsay può incontrare nel diventare parte della “costituzione vivente” del paese, vale la pena spendere alcune parole sul problema della mentalità dei destinatari delle politiche del buen vivir, e dunque su quello che alcuni chiamano il formante culturale. È luogo comune che il rapporto delle popolazioni latinoamericane con le norme possa essere racchiuso nell’espressione «se acata, pero no se cumple». Questa massima deriva da una dinamica che si produceva durante il periodo coloniale. I territori del continente latinoamericano erano governati da viceré, che rappresentavano il potere delle Corone spagnola e portoghese. Quando in Europa il sovrano emanava leggi per le colonie, esse si consideravano immediatamente vigenti, ma nel lungo viaggio per giungere anche solo a conoscenza dei funzionari del luogo spesso diventavano ineseguibili, perché nel frattempo erano mutate le condizioni di fatto in base alle quali erano state assunte. Il nuovo paradigma dei diritti e la riforma delle garanzie costituzionali Il sumak kawsay Silvia Bagni devono essere visti come un’opportunità di riscatto per i settori della popolazione tradizionalmente emarginati. Nel Plan nacional para el Buen Vivir 2013-2017 si afferma che per raggiungere l’obiettivo del socialismo del XXI secolo è necessario non soltanto un cambio di matrice produttiva «sino principalmente la mentalidad ciudadana» (p. 16). Per questo uno dei dodici obiettivi prioritari è la costruzione del potere popolare: «construir más sociedad, paralelamente a la recuperación del Estado» (p. 46). La revolución ciudadana è nata dall’alto e quello che anche le recenti elezioni amministrative hanno messo in luce è la necessità di fortificare la base, di animare e organizzare la società civile in tutti i luoghi di espressione della partecipazione, soprattutto nelle istituzioni più vicine alla gente (quartieri, assemblee popolari), rendendo effettivo lo strumentario partecipativo previsto dalla costituzione e dalla Ley de participación. non si vuole in nessun modo giudicare nel merito le politiche del governo ecuadoriano. L’analisi condotta, anche in termini politici, è semplicemente finalizzata a mettere in luce le diverse facce e dimensioni del sumak kawsay; a far capire come si tratti di un concetto il cui contenuto è in progressiva costruzione; a dimostrare come inevitabilmente le scelte di attuazione sul piano politico e sociale abbiano ricadute sull’implementazione a livello giuridico del buen vivir. Le considerazioni svolte portano in sede di conclusioni a rinnovare la domanda circa la possibilità di riconoscere o meno, nei contenuti della costituzione ecuadoriana, un modello alternativo di costituzionalismo. La mia risposta a questo interrogativo è senz’altro positiva. La novità sta nella riscoperta del valore dell’uomo come prioritario nella definizione dell’indirizzo politico. Nel Plan nacional de desarrollo leggiamo infatti: «El artículo 1 de la Constitución de la República, al configurar al Ecuador como un estado de derechos, pretende colocar al ser humano en el centro de todo el accionar del Estado» (p. 24) e «el nuevo sistema economico tiene como centro y fin el ser humano, privilegia el mundo del trabajo por sobre el capital y persigue el cambio de la matriz productiva» (p. 49). Tuttavia, questa volta, a differenza di quello che accadde con l’influenza del personalismo cattolico nella costruzione dello Stato sociale, si tratta di un uomo “situato”, fra altri uomini e nella natura. Il sumak kawsay corrisponde sulla carta a «un nuovo patto sociale in armonia con la natura» ma «el reto es pasar del pacto social en armonía con la naturaleza, aprobado por la mayoría de su población en la Constitución 2008, hacia la transformación profunda que significa dar vida al Sumak Kawsay con el nuevo régimen de desarrollo social y solidario que sustente y garantice el pleno ejercicio de los derechos con justicia intergeneracional» (Quirola Suárez, 2009: 104). Credo che questo sia l’aspetto della costituzionalizzazione della cosmovisione andina che a mio modo di vedere giustifica l’affermazione del superamento della forma di Stato del bienestar verso quella del buen vivir, come cambiamento di matrice culturale, innanzitutto, pur nella consapevolezza che la realtà economico-sociale è ancora distante dal garantire a 96 5. Conclusioni: in difesa dell’autonomia del nuovo costituzionalismo andino È quantomeno dubbio che l’ambizioso programma di governo espresso negli ultimi due Piani per lo sviluppo avrebbe potuto essere realizzato rinunciando in toto alle risorse economiche derivanti dallo sfruttamento petrolifero, né forse avrebbero potuto essere raggiunti i risultati sociali fin qui ottenuti, di cui ha indubbiamente beneficiato almeno una parte del popolo ecuadoriano in termini di qualità della vita14.. In questa sede 4 Riporto, a testimonianza del dibattito, anche accademico, che i governi Correa hanno prodotto, alcune riflessioni di B. de Sousa Santos (2014). Parte dal riconoscere alcuni meriti al presidente Correa: «es opinión ampliamente compartida que Correa ha sido, “a pesar de todo”, el mejor presidente que Ecuador ha tenido en las últimas décadas y el que ha garantizado mayor estabilidad política después de muchos años de caos. En tercero, no cabe duda de que Correa ha emprendido la mayor redistribución de la renta de la historia de Ecuador, contribuyendo a la reducción de la pobreza y al fortalecimiento de las clases medias». Segue descrivendo i caratteri che qualificano la sua politica: nazionalismo, populismo, statalismo, similmente alla politica di Atatürk in Turchia, e si chiede se essa contrasti o meno con i contenuti della costituzione del 2008. La risposta, alla fine di una lunga e attenta analisi, è la seguente: «Se trata, por tanto, del capitalismo del siglo XXI. Hablar del socialismo del siglo XXI es, por el momento, y en el mejor de los casos, un objetivo lejano. A la luz de estas características y contradicciones dinámicas 97 que el proceso dirigido por Correa contiene, centroizquierda es quizá la mejor manera de definirlo políticamente». Il sumak kawsay Silvia Bagni tutti i diritti riconosciuti in costituzione. Il formante culturale si è legato a quello legislativo (costituzionale), come base di un nuovo Rinascimento di matrice andina e non meramente importato o copiato. Credo sia anche questo il motivo del successo, sul piano giuridico, della costituzione ecuadoriana del 2008: l’aver per la prima volta rappresentato un contenuto originale, con risposte adatte ai problemi, alla cultura e al territorio locali, come lo Stato plurinazionale e interculturale o il rapporto con la Pachamama. Questo non significa che il modello abbia soltanto una valenza “glocal”. Il sumak kawsay ha contenuti che possono essere definiti e condivisi da parte di altri popoli non andino-amazzonici, esattamente come la cultura occidentale presenta concetti che vale la pena diffondere e condividire fra le varie culture, ciascuna con la propria matrice, come quello di dignità umana. In Italia, tra gli altri, Zagrebelsky ha denunciato la crisi della politica, e di conseguenza della democrazia, che ne è attualmente la forma istituzionale: i governanti non sono più liberi di definire i fini delle proprie politiche, in quanto il loro spazio di manovra è ormai limitato a scelte tecnico-amministrative. Si proclama la crisi del nostro sistema economico, e dunque anche del nostro stile di vita, ma nel dibattito sulle possibili soluzioni non si discute di modelli alternativi, tuttalpiù si continua a pensare a come ripristinare il vecchio modello di sviluppo. Eppure, lo stesso autore riconosce che altri modelli (democrazia alimentare, democrazia ambientale e democrazia culturale) sono pensabili, e da alcuni anche già tentati. Il caso ecuadoriano, pur con tutte le sue debolezze e criticità, è un esempio in questo senso, anche se non tutte le sue ricette sono nuove in assoluto. Per certo, si tratta di una matrice culturale nuova per questo preciso momento storico, che deve essere riconosciuta e dignificata, con l’auspicio che possa espandere i suoi effetti, anche attraverso l’impulso accademico, in altre realtà giuridiche e sociali, come manifesto di “un altro mondo possibile”. concetto di benessere, in Filosofia politica, 1. Grijalva Jiménez A. (2012), Constitucionalismo en Ecuador, Corte Constitucional para el Período de Transición. Hobsbawm E.J., Ranger T. (cur.) (2002), L’invenzione della tradizione, Einaudi. Huanacuni Mamani F. (2010), Buen Vivir/Vivir Bien. Filosofía, políticas, estrategias y experiencias regionales andinas, Coordinadora Andina de Organizaciones Indígenas. Mauro E., Zagrebelsky G. (2011), La felicità della democrazia. Un dialogo, Laterza. Quirola Suárez D. (2009), Sumak Kawsay. Hacia el nuevo pacto social en armonía con la naturaleza, in Acosta A., Martínez E. (coords.), El Buen Vivir. Una vía para el desarrollo, Abya-Yala. 98 Bibliografia de Sousa Santos B. (2014), ¿La Revolución ciudadana tiene quién la defienda?, in http://blogs.publico.es/espejos-extranos/2014/05/09/la-revolucion-ciudadana-tiene-quien-la-defienda. Esposito M. (2013), Il governo della felicità. Un percorso genealogico e critico sul Abstract: The Ecuadorian Constitution of 2008 has welcomed in its principles and rights some concepts from the indigenous Weltanschauung, such as sumak kawsay and Pachamama. The author tries to show how the constitutional nature of these concepts represents the innovative element of the Andean neoconstitutionalism, which is characterized by founding an intercultural, multinational, social, communitarian, ecological, participatory and pluralistic State. Although many of these concepts are not new for a European jurist, their combination and their intercultural interpretation suggest a need to update the traditional categories of classification, particularly regarding the form of State. Keywords: Indigenous cosmovision, Sumak kawsay, Buen vivir, Nuevo constitucionalismo, Pachamama. 99 Il buen vivir come “autoctonia costituzionale” e limite al mutamento di Michele Carducci12* SOMMARIO: 1. Il buen vivir come clausola costituzionale. – 2. Tra “neocostituzionalismo del rischio” e “autoctonia costituzionale”. – 3. Il buen vivir di fronte al dilemma del cacciatore. – 4. “Autoctonia costituzionale” e resistenza al mutamento. 1. Il buen vivir come clausola costituzionale Diverse e numerose sono ormai le letture e le interpretazioni proposte e discusse per la comprensione e la utilizzazione dei principi o criteri del buen vivir all’interno della scrittura e della struttura nomologica dei testi costituzionali di Ecuador (2008) e Bolivia (2009). L’espressione è desunta dalle lingue aymara e kichwa ed è resa ora con il termine sumak kawsay, formalmente recepito dall’art. 14 della costituzione ecuadoriana ed ivi sintetizzato come «vivere in un ambiente sano ed ecologicamente equilibrato, che garantisca la sostenibilità», ora con quello di suma qamaña (di derivazione aymara), adottato dall’art. 8 della costituzione boliviana. I due testi, tuttavia, non forniscono definizioni del termine, ma ne presuppongono la semantica, con un rinvio evidentemente complesso e plurimo a tutta una serie di predicati di non facile o immediata costruzione (Niel, 2011). Infatti, che cosa può significare aver inserito il buen vivir come vero e proprio enunciato costituzionale? E che cosa può voler dire averlo declinato all’interno di una serie di clausole costituzionali di diverso contenuto linguistico e deontico (ben 99 articoli solo nella costituzione dell’Ecuador)? Ogni risposta appare plausibile e ricca di implicazioni. * Professore ordinario di Diritto pubblico comparato nell’Università del Salento. Il buen vivir come “autoctonia costituzionale” Michele Carducci Se pensiamo al concetto come richiamo alla cosmogonia della tradizione giuridica ctonia (indigena), è evidente che le clausole costituzionali di riferimento ad esso non possono non assurgere a fonte di abilitazione ad un pluralismo giuridico paritario e negoziato, come effettivamente si presenta, almeno formalmente, nella previsione normativa dei due paesi andini. Se lo assumiamo come piattaforma politica di una concezione dello sviluppo alternativa ai modelli euro-nordamericani di accumulazione e sfruttamento, esso sembra ispirare una sorta di ragion di Stato diversa da quella storicamente radicata nel costituzionalismo moderno: quest’ultima limitativa sì del potere, ma (ri)-fondativa anche dell’ordine e della sicurezza nello Stato per la persistenza delle relazioni sociali di mercato (Quijano Valnecia, 2012; Gudynas, 2011a: 441 ss.; 2011b); la prima espressiva invece di una logica di inclusione dei soggetti storicamente ignorati o sfruttati da quel processo (Castro-Gómez, Grosfoguel, 2007). Se lo contrapponiamo al Nomos della terra (Schmitt, 1950), che ha definito gli “standard costituzionali comuni” degli Stati moderni coniugandoli intorno al primato dei rapporti privati della proprietà e del contratto come garanzia della società mercantile e legittimazione della stessa sovranità (Costa, 1974), allora dobbiamo immaginare un diritto controegemonico rispetto a questo standard, proiettato su una diversa scala di valori e di gerarchie, di impronta non più o non esclusivamente individualistica, ma comunitaria e plurale. Se lo consideriamo come legittimazione di una soggettività costituzionale non solo antropocentrica ma ecocentrica (Souza Costa, 2011: 58 ss.), di riconoscimento dei diritti della natura nella “ipotesi di Gaia” – ovvero come autosostentamento dell’ecosistema rispetto a qualsiasi “sostenibilità” da parte dell’intervento umano – allora questa ipotesi andina, nonostante i limiti e le riserve formulate sulla fondatezza della tesi scientifica di riferimento (Tyrell, 2013: 94), militerebbe per una “cattura costituzionale” (una inedita Ergreifung rispetto alle esperienze novecentesche degli Stati interventisti europei) dell’egoismo dei diritti e delle libertà (base delle idee epicuree occidentali di felicità: Fornero, 2006: 154 ss.), a tutela di una armonia non solo sociale, ma appunto naturale. Del resto, armonia è parola fondante delle cosmogonie indigene, mentre essa risulta ormai rimossa dal vocabolario morale e politico del pensiero occidentale, come magistralmente documentato da Leo Spitzer (1963). Tra l’altro, in tale prospettiva, si spiega anche l’atten- zione verso il tema del buen vivir da parte delle chiese latinoamericane, a partire dalla Commissione teologica internazionale e dalla Associazione ecumenica di teologia del Terzo Mondo (Eatwot), fino ai richiami all’idea ecozoica dell’ecologo-teologo Thomas Berry e agli indirizzi dell’Agenda Latinoamericana Mundial “La Otra Economía”, del 2013, sulla funzione sociale della proprietà e dell’attività di impresa come autosostentamento ecologico (Albó: 38 ss.; Mo Sung: 40 ss.; Barros: 216 ss.). In ogni caso, qualunque sia l’opzione di lettura prescelta, non si può negare che questo nuevo constitucionalismo andino, senza padri o indigeno com’è stato classificato (Clavero, 2008; 2010: 195 ss.; 2011), abbia smosso la semantica costituzionale della cultura giuridica, decolonizzandone il linguaggio di riferimento (Walsh, 2009) e le sue traduzioni concettuali (Abasolo, 2010: 1 ss.), nella prospettiva di superare quella geopolitica della conoscenza, secondo cui tutto deve essere osservato dall’Occidente euro-nordamericano come unico vocabolario e parametro universale di comprensione e valutazione del mondo, come «colore della ragione» (León Pesántez, 2013). 102 103 2. Tra “neocostituzionalismo del rischio” e “autoctonia costituzionale” Sarebbe infatti riduttivo e metodologicamente scorretto leggere le clausole costituzionali andine secondo la lente eurocentrica del diritto pubblico (sulle difficoltà di traduzione semantica del termine buen vivir, v. Huanacuni Mamami, 2010; Fatheuer, 2011; Cunningham, 2012). Si può discutere sulla loro forza normativa, ma la novità del loro contenuto è indubbia, soprattutto se paragonata alle recenti formule più innovative del «diritto costituzionale del rischio», circolanti nel panorama comparato (Vermeule, 2014). Di costituzionalismo del rischio si è parlato a seguito della originale riforma costituzionale greca del 2001 (Kontiadis, 2005: 512 ss.; Eleftheriadis, 2005: 38 ss.; Alivizatos, Eleftheriadis, 2003: 63 ss.; Venizelos, 2002: 515 ss.), per la parte relativa alla costituzionalizzazione di clausole rivolte al futuro, come soluzione di problemi non ancora esistenti sulla tutela di diritti “futuristici”. In questo modo, sono risultati enfatizzati elementi connessi ai diritti della personalità: come il consenso informato (art. 5) e Il buen vivir come “autoctonia costituzionale” Michele Carducci la protezione dei dati personali (art. 9), in rapporto soprattutto alla facoltà di manipolazione della identità genetica dell’individuo (art. 5.5), lasciando inalterata la presupposizione della persistenza di un nesso asimmetrico tra essere umano e natura e di una separazione tra ambiente naturale e ambiente culturale (art. 24), da governare attraverso strumenti razionali di precauzione e bilanciamento degli interessi (Kriari-Catranis, 2003: 271 ss.). Il costituzionalismo andino, invece, non è per niente preoccupato dei problemi non ancora esistenti. È invece preoccupato dei problemi del passato: dello sradicamento delle identità provocato dal costituzionalismo di importazione; dell’occultamento delle identità perpetrato dal dominio coloniale; dell’individualismo metodologico che immagina i diritti solo come razionali e calcolate proiezioni individuali. Per tali ragioni, esso ribalta la presupposizione del rischio, come attestano, per esempio nella costituzione dell’Ecuador, gli articoli 378, sulla gestione dei rischi, e 13 e 15, sulla non bilanciabilità della sovranità alimentare con la sovranità energetica (Aparicio Wilhelmi, 2011); afferma il primato di una serie di diritti della natura esigibili, progressivi e concretizzabili (Mamani, Clavero, 2010) in tutte le azioni pubbliche e private (lo certificano le clausole di applicazione diretta e incondizionata della costituzione, contenute in quei testi) (Baldin, 2014: 25 ss.); scongiura quel ripiegamento autoreferenziale dei diritti fondamentali, solitamente emergente dal confronto interculturale sui bisogni e gli interessi di diversa provenienza e soprattutto di diversa visione del mondo (su tale tendenza v. Ricca, 2008). Pertanto, se il costituzionalismo del rischio sembra pur sempre ispirato all’individualismo metodologico della razionalità della previsione e del calcolo costi/benefici, quello andino si proietta sulla sfida delle alternative a quell’approccio, in nome della pluralità di tradizioni e cosmogonie esistenti al suo interno. Così aprendosi, il nuevo constitucionalismo riflette quella autoctonia costituzionale invocata sin dai tempi dei processi di decolonizzazione del secolo scorso (Herrero de Miñon, 1970: 29 ss.), ma mai pienamente sperimentata a causa di influenze e interferenze eteronomiche occidentali di varia forza e contenuto (Garaicoa Ortiz, 2013). Quali implicazioni derivano da tale apertura? In primo luogo, si vede ammettere che clausole costituzionali come quelle del buen vivir devono essere considerate nella loro derivazione appunto autoctona, come recuperata autodeterminazione di una comunità interculturale interna a Stati di origine coloniale, indipendenti sì, ma solo in parte costituzionalmente sovrani, nella misura in cui non avevano ancora sperimentato quel “principio generale”, definitivamente esplicitato dalla Corte internazionale di giustizia nel 1986 (nella problematica controversia Nicaragua vs. Stati Uniti d’America), della scelta effettivamente libera e plurale sul proprio sistema politico, economico e sociale (Kamto, 2000: 127 ss.). Molto significativa, in tale ottica, è la formulazione dell’art. 21 della costituzione dell’Ecuador, per la sua declinazione del diritto fondamentale al pluralismo anche in termini individuali (in sintonia, tra l’altro, con la Dichiarazione Onu del 2007 sui diritti dei popoli e delle nazioni indigene) ma nel quadro dei diritti riconosciuti dalla costituzione: autoctonia costituzionale costituzionalizzata, si potrebbe dire. In secondo luogo, quel costituzionalismo è autoctono anche per il fatto di affermare, come si è accennato, il primato del Kthonos (come identità ecologica) sul Nomos (come identità meramente volitiva), attribuendo alla natura rappresentatività immediata dentro il Nomos (sulle implicazioni di tali ipotesi, v. Whiteside, 2013: 185 ss., con riguardo alle politiche della natura in Latour; e Voigt, 2013, sul ripensamento della categoria della rule of law). Quali implicazioni comporti questa doppia ipotesi di autoctonia è la grande questione di metodo e di analisi, che deve affrontare il diritto costituzionale comparato contemporaneo. Per rispondere, si può ricorrere alle riflessioni risalenti di chi è stato precocemente attento a questa doppia dimensione. Per esempio, già Michael Sandel (1982) constatava che l’emersione delle diverse identità comunitarie non dovesse esser eletta come semplice affermazione di relazioni scelte da individui, bensì come persistenza e attaccamento ad elementi costitutivi differenti da quelli occidentali, nonostante l’espansione universalistica del costituzionalismo euroamericano. Da tale angolo di visuale, l’autoctonia costituzionale racchiusa delle formule del buen vivir costituisce un richiamo, per il contesto andino, a questa specificità, attraverso una declinazione normativa che evoca a sua volta la proposta avanzata da James Tully (1995) sul «costituzionalismo interculturale» come ridiscussione del potere costituente e dei limiti al mutamento costituzionale, attraverso approcci negoziati, funzionali al dialogo fra tradizioni giuridiche diverse. Tully ha parlato di interculturalità costituzionale partendo dalla seguente constatazione: nel mondo non più delle semplici integrazioni fra cittadini, ma delle vere e 104 105 Il buen vivir come “autoctonia costituzionale” Michele Carducci proprie inclusioni culturali, riemerge la domanda iniziale del modo con cui una costituzione possa fornire un comune riconoscimento alle legittime richieste dei membri delle differenti culture, rendendo a ciascuno il suo e permettendo così a tutti di liberamente acconsentire alla medesima forma di associazione costituzionale. Il concetto di Tully di un constitutional dialogue non definitivo perché sempre aperto, condotto con strumenti linguistici nuovi e diversi rispetto al passato e volto a garantire un costante processo di interscambio culturale, si pone agli antipodi delle concezioni unificanti delle costituzioni occidentali, dove il pluralismo è stato declinato nei termini dell’accettazione unilaterale della diversità (al singolare), ossia dell’accettazione di ciò che è estraneo, e non invece del riconoscimento reciproco e circolare delle diversità (al plurale), ossia di un valore comune di reciproco riconoscimento, da porre a base delle costituzioni e sperimentare attraverso le costituzioni. Ecco allora che, rispetto al costituzionalismo dello Stato – con immancabilmente l’invenzione unilaterale dei suoi cittadini e i suoi stranieri – andrebbe perseguito un “costituzionalismo dei trattati”, basato cioè su costituzioni che abilitino continuativi negoziati interculturali, legittimati da scelte costituenti, o riforme costituzionali realizzate nella partecipazione multiculturale delle diverse identità interessate (le diverse autoctonie). Dopo le finzioni dei momenti costituenti latinoamericani del passato (Clavero, 2007), alimentati da imitazioni museali di testi destinati al nominalismo (Linares Quintana, 1981: 557) o al mimetismo (Colomer Viadel, 1990), il nuevo constitucionalismo si è appropriato di questa necessità costituente inclusiva di tutte le identità presenti sul proprio territorio (Viciano Pastor, Martínez Dalmau, 2010a), dotandosi altresì di meccanismi che garantiscano la permanenza di tale necessità, tanto per la interpretazione quanto soprattutto per la modifica della costituzione nata dall’inedito processo interculturale (Viciano Pastor, Martínez Dalmau, 2010b: 18). ca nel suo percorso di sperimentazione, proprio perché soggettivamente plurale: non un complesso di materie di varia natura e contenuto a disponibilità individuale o pubblica, tra loro isolabili e singolarmente tutelabili in bilanciamento reciproco; ma un tutt’uno, di cui comprendere il significato attraverso una sorta di originalismo costituente e una rigidità interpretativa, che salvaguardino il pluralismo che ha prodotto e si è riconosciuto in quella unità, sostenendo in tal modo politiche, processi, prassi e soprattutto interpretazioni vincolate alla volontà originaria (come esplicitamente richiesto dall’art. 196, p.to II, della costituzione boliviana con il richiamo al costituente con i suoi «documenti, atti e risoluzioni») e alla sistematicità del testo nei suoi enunciati (si veda la clausola di interezza inserita nell’art. 427 cost. Ecuador). Nella proiezione dell’autoctonia costituzionale, questa insistenza testualistica è strategica e imprescindibile (Ávila Santamaría, 2011), perché mantiene in vita la complessità del dialogo interculturale come necessità di una sua verbalizzazione esplicita, non semplicemente praticata, a garanzia della chiarezza reciproca, della trasparenza dei comportamenti, della visibilità delle responsabilità degli attori in campo, giudici e interpreti compresi (sulla rilevanza di questa esplicitazione in generale per l’inclusione effettiva delle comunità indigene, già García Ramírez, 1996: 889 ss.). Non a caso, le formule della trasparenza e della responsabilità ricorrono in tutte le clausole costituzionali andine e risultano tutte coniugate con la visione olistica del buen vivir. Si pensi agli articoli 83, sui doveri costituzionali, e 340 della costituzione dell’Ecuador; quest’ultimo esclude dal proprio lessico il termine materia costituzionale (tecnicismo che tende a presupporre ripartizioni di competenze) per parlare invece di «sistema di inclusione ed equità», come architettura istituzionale del buen vivir comprensivo di «sistemi, istituzioni, politiche, norme, programmi e servizi» che, tra l’altro, garantiscano la «esigibilità dei diritti riconosciuti nella costituzione», in tutti gli ambiti (educazione, salute, sicurezza sociale, gestione dei rischi, cultura, habitat e alloggio, comunicazione, cultura fisica, fruizione del tempo libero, scienza e tecnologia, popolazione, sicurezza umana, trasporto, ecc.). In modo analogo, si collocano altre disposizioni, come gli artt. 32 o 275: lette singolarmente, ognuna di queste delimita enunciati di incerta classificazione (ottativi, emotivi, prescrittivi, limitativi, ecc.?). Nella unità testuale – indubbiamente com- 106 3. Il buen vivir di fronte al dilemma del cacciatore Consequenziale a tale schema operativo, non può che essere un’idea di costituzione come unità organica nel suo impianto pluralistico e olisti- 107 Il buen vivir come “autoctonia costituzionale” Michele Carducci plessa, ma perché complesso e difficile non poteva non essere il dialogo interculturale a base di quella scrittura costituzionale – ciascuna gioca la carta della esigibilità e della progressività di tutela a tutti i livelli di azione, pubblici e privati. È solo lungo questo percorso che il costituzionalismo andino può procedere nella sua scommessa della inclusione interculturale. Se noi lo leggessimo attraverso le lenti del costituzionalismo liberaldemocratico fondamentalmente monoculturale e individualistico, non comprenderemmo nulla di quella scommessa. Il costituzionalismo liberaldemocratico ha affidato al primato della libertà, alla rappresentanza individuale e alla limitazione del potere la riuscita delle strategie di cooperazione plurale e di risoluzione dei conflitti nell’attuazione dei suoi disegni normativi (Dani, 2013). Così evolvendosi, esso ha alimentato quella condizione esistenziale che proprio Rousseau, nel suo Discorso sull’origine della disuguaglianza del 1754, inquadrò come dilemma del cacciatore: il problema della prevalenza degli interessi individuali verso i propri benefici immediati rispetto ai benefici, comuni ma non immediati, dei maggiori interessi collettivi garantiti dal patto costituzionale (Skyrms, 2004); ossia il problema della intergenerazionalità dei compromessi costituzionali di fronte alla evoluzione dei bisogni e degli interessi. Il dilemma del cacciatore, com’è noto, spiega come, nella caccia al cervo (inteso quale bene comune accettato da tutti i partecipanti al compromesso costituzionale), la cooperazione sociale e la fiducia reciproca siano condizioni oggettive e necessarie per il conseguimento dell’obiettivo (il cervo). Tuttavia, dimostra anche come il passaggio di una lepre davanti a uno dei cacciatori (il bene o interesse privato immediato) possa indurre ciascuno, senza scrupolo per gli altri, ad abbandonare l’impegno comune, per il diretto conseguimento del risultato di soddisfazione individuale. Proprio per evitare che questa tentazione finisca col prevalere nel tempo, è stata declinata la concezione della costituzione come documento scritto fondamentale, che vincola alla cooperazione, ma al tempo stesso emendabile nel futuro, allo scopo di rimediare agli effetti del dilemma contemplando il rinnovo della scrittura e dei patti di cooperazione tra i partecipanti alla dinamica costituzionale in ragione della dialettica evolutiva di interessi individuali e collettivi. Sempre in questa prospettiva, lo stesso costituzionalismo si è perfezionato, attribuendo al giudice (so- prattutto al giudice costituzionale) il compito di vigilare sui conflitti tra interessi individuali e interessi collettivi, assumendo la scrittura costituzionale stessa, in quanto parametro di legittimità del sistema, come bene pubblico fondamentale di tutti gli appartenenti alla società (sulle varie declinazioni del bene pubblico, comprensive anche delle regole costitutive di un ordinamento giuridico, v. Hargreaves Heap et al., 1992: 193 ss.). Rigidità ed emendabilità costituzionale, da un lato, e controllo di costituzionalità, dall’altro, hanno storicamente contribuito a ridimensionare gli effetti del dilemma del cacciatore. Sussiste, tuttavia, una condizione storica da non sottovalutare in questa evoluzione del dilemma: esso è nato e si è sviluppato sempre in una prospettiva di fondamentale unicità delle visioni umane su interessi individuali e collettivi coinvolti da quel dilemma (escludendo, per esempio, donne, schiavi, “buon selvaggi”, ecc.). Oggi, questa prospettiva è cambiata ed è diventata molto più complessa, e non solo perché donne, schiavi, “buon selvaggi” o altra umanità è stata finalmente inclusa nella cooperazione, ma soprattutto per altre due ragioni: da un lato, la logica di mercato, come logica dell’interesse individuale immediato, si è estesa dai beni privati a tutti i beni pubblici (Sandel, 2012), compresi quelli fondamentali delle stesse regole costitutive della convivenza, ridotte anch’esse a “valori” del mercato (le modifiche costituzionali degli Stati europei sui vincoli di bilancio ne offrono inquietante conferma), sfalsando ulteriormente il delicato equilibrio espresso dal dilemma del cacciatore (quali sono gli interessi veramente collettivi di fronte al mercato?); dall’altro, l’ambiente, nella sua essenza di interesse collettivo, non può più restare escluso dal dilemma o parteciparvi semplicemente al pari di qualsiasi altro bene (si pensi, per esempio, alla logica “chi inquina paga” come rappresentazione di quel dilemma tra beni e attori, posti tutti sullo stesso piano, come se lepri e cervi fossero la stessa cosa: Spotts, 2012: 102). Il dilemma del cacciatore, a questo punto, non può più escludere un tertium comparationis delle sue scelte: un tertium ignorato da tutte le teorie politiche e costituzionali, comprese quelle più critiche verso l’individualismo metodologico sotteso al costituzionalismo moderno, a partire dalla stessa tradizione marxista, che ha sempre negato, salvo alcune eccezioni (come la Dialettica della natura di Engels: Grijalva Jiménez, 2011), ogni ruolo alla natura nel processo di produzione della socialità. La na- 108 109 Il buen vivir come “autoctonia costituzionale” Michele Carducci tura, considerata senza diritti e soprattutto senza rappresentanza, perché appunto rubricata come materia prima della produzione sociale, deve far parte del dilemma del cacciatore; deve diventare soggetto delle decisioni interne a quel dilemma (il che conferma la originalità della proposta del nuevo constitucionalismo, rispetto alle ridondanze marxiste del pensiero critico latinoamericano: si pensi a previsioni come gli artt. 333, 334 e 335 della costituzione dell’Ecuador). Stando così le cose, rispetto ai meccanismi della rigidità/emendabilità costituzionale e del controllo di costituzionalità, cos’altro può essere previsto in costituzione affinché il dilemma del cacciatore accetti la natura non come parte del gioco, ma come cornice indisponibile dello stesso? È plausibile ipotizzare che le innumerevoli clausole costituzionali ispirate al buen vivir mirino a questo scopo? È su questo interrogativo che si radica la doppia valenza dell’“autoctonia costituzionale”. Le due costituzioni andine si presentano come strutture pietrificate dei livelli di cooperazione necessari a scongiurare o comunque limitare gli effetti del dilemma del cacciatore a danno dell’“autoctonia costituzionale” intesa come pluralismo interculturale e come natura-soggetto. Vediamo come. i giudici sovranazionali predicano come metodo, sia nel contesto interamericano (de Oliveira Mazzuoli, de Faria Moreira Teixeira, 2013: 199 ss.) che europeo (Starita, 2010: 275 ss.), senza tuttavia poter incidere sull’assetto interno delle competenze e dei poteri. La costituzionalizzazione della democrazia partecipativa mira invece a reimpostare l’assetto dei poteri e delle competenze, imponendo il dialogo interculturale e l’inclusione della natura come soggetto costituzionale a tutti i livelli di azione pubblica e privata. Ne offrono testimonianza diverse clausole costituzionali andine: penso, tra le altre, alla costituzionalizzazione del metodo negoziato tra giurisdizioni statali, indigene e campesinas, alla positivizzazione delle politiche pubbliche come vere e proprie “fonti” costituzionali (art. 11, n. 8, cost. Ecuador: «Il contenuto dei diritti è sviluppato in maniera progressiva attraverso le norme, la giurisprudenza e le politiche pubbliche»), al rapporto tra riserva di legge ed esigibilità dei diritti, compresi quelli della natura (art. 426 secondo capoverso cost. Ecuador). Si tratta di metodi e approcci che non passano necessariamente o prioritariamente dalla interposizione legislativa né dalla interpretazione del giudice. Sintomatico, su questo fronte, è il regime delle lacune nella costituzione dell’Ecuador: oltre al già citato art. 426 secondo capoverso, è da considerare l’intero art. 11, soprattutto nei nn. 3, 4, 5 e 8. Ma riscontri analoghi si desumono da molte altre disposizioni: per la costituzione della Bolivia, valgono gli articoli 3, 9, 17, 18, 30, 45, 78-81, 93, 95, 96, 98, 100, 108, 176, 186, 218, 241, 345, 346, 380-383, 394-395; per quella dell’Ecuador, gli articoli 3, 10, 13, 15, 21, 31-32, 56-60, 95-102, 156, 242, 249, 334, 336, 340, 357-358, 375, 378, 380, 423. Questa vasta rete normativa di sostegno alla interculturalità e al disegno dell’“autoctonia costituzionale” riscontra le sue giunture in tre blocchi normativi specifici: le clausole di resistenza istituzionalizzata al mutamento anticostituzionale; le clausole di progressività e non regressione di diritti e garanzie costituzionali; le clausole di pietrificazione. Si tratta di disposizioni non facilmente rubricabili nelle classificazioni consolidate della testualità costituzionale euro-nordamericana. Esse, infatti, non fungono da semplici elementi di irrigidimento della forma costituzionale scritta, assolvendo piuttosto ad una funzione di garanzia della legittimazione autoctona di quella scrittura. Partiamo dalle clausole di resistenza istituzionalizzata al mutamen- 110 4. “Autoctonia costituzionale” e resistenza al mutamento Le due costituzioni tentano di instaurare un sistema di democrazia deliberativa articolata su più livelli di dialogo interculturale tra le diverse componenti del pluralismo che le ha prodotte. In tale prospettiva, esse ridimensionano il ruolo del giudice come garante ex post di quel pluralismo, per anticiparne i momenti di emersione su altri fronti di confronto e cooperazione (Palacios Romeo, 2008: 41 ss.). In altre parole, il rimedio alla rottura della cooperazione (la scelta individuale della lepre a danno della cooperazione per la cattura del cervo) non può essere solo il giudice: neppure il giudice di costituzionalità. Ci vuole qualcosa di più, qualcosa che tenga sempre attivo il concorso alla cooperazione. Si spiega così l’enfasi tributata alla democrazia partecipativa come mandato costituzionale di cooperazione (v. per es. l’art. 11 della costituzione boliviana). Il pluralismo non deve semplicemente essere garantito per via giudiziale – quella via giudiziale alla democrazia deliberativa che 111 Il buen vivir come “autoctonia costituzionale” Michele Carducci to anticostituzionale. Ci si riferisce ai Titoli III e IV della costituzione dell’Ecuador, collegati con l’art. 130, nonché agli artt. 26, 139, 140, 196 e ss. della costituzione della Bolivia. Sono tutti strumenti in cui la disponibilità anche interpretativa della scrittura costituzionale conosce dei contrappesi di iniziativa cittadina diretta (come per l’azione straordinaria di cui all’art. 134 cost. Ecuador o le declinazioni della partecipazione di cui all’art. 26 cost. Bolivia) o rappresentativa (art. 130 cost. Ecuador) o giudiziale (art. 88 cost. Ecuador, artt. 196 ss. cost. Bolivia), che mira al controllo sociale del mutamento costituzionale e alla denuncia istituzionalizzata dell’anticostituzionalità come negazione del disegno autoctono scritto in costituzione. Analogamente operano le clausole di progressività e non regressione dei diritti, che definiscono il quadro di contenimento sia delle dinamiche interpretative della costituzione (nel senso che l’applicazione dei diritti dovrà essere progressiva e non regressiva, secondo lo stesso intento originario del testo costituzionale) sia del mutamento formale o informale del documento costituzionale, scandito nella distinzione fra diversi procedimenti, legittimati tutti dall’oggetto di intervento rispetto proprio a quella progressività e non regressione dei diritti posta a base dello sviluppo costituzionale. Non si tratta di clausole di auto-conservazione dello status quo; né siamo di fronte ai classici meccanismi di difesa costituzionale appresi dall’esperienza liberaldemocratica. Si deve riscontrare piuttosto un approccio differente di ottimizzazione della costituzione, il cui mandato è affidato a più attori in più contesti. Si spiega in quest’ottica la tecnica della pietrificazione utilizzata dai due testi proprio sul fronte del mutamento costituzionale formale: tecnica diversa dalla semplice garanzia della rigidità della costituzione (Colombo Morúa, 2011). La costituzione dell’Ecuador non provvede solo ad esplicitare limiti al mutamento (art. 441), ma formalizza la distinzione tra potere costituente e poteri di emendamento e riforma parziale della costituzione, con la corte costituzionale come arbitro (art. 443) non dei contenuti dei limiti, bensì delle regole dei procedimenti interculturali di partecipazione cittadina al mutamento, essendo appunto l’interculturalità l’unica fonte di legittimazione di qualsiasi mutamento. Ecco allora che la dinamica costituzionale potrà operare, nella continuità del metodo partecipato, a livello interpretativo (artt. 171 e 427), di emendamento (art. 441), con condizioni di procedibilità per organicità della materia e dei contenuti (art. 136), di riforma parziale (art. 442), con la partecipazione cittadina interculturale (art. 101), fino all’esercizio di scrittura più prossimo all’evento originario autoctono, l’Assemblea costituente (art. 444), purché quest’ultima espressa dal consenso di tutte le autoctonie presenti nello spazio statale, attraverso la partecipazione referendaria. Analogamente si può scandagliare la scrittura della costituzione della Bolivia, negli articoli 190, 191, 192, 202, 411. Al pluralismo delle autoctonie costituzionali (artt. 190-192), si affianca anche qui un metodo interculturale che vede nel tribunale costituzionale plurinazionale il suo interprete supremo a tutela di qualsiasi forma di mutamento costituzionale sia formale che informale e a tutela della partecipazione cittadina nei procedimenti formali (art. 202), con esclusione esplicita della mutabilità dei diritti interculturali a base della costituzione stessa, per i quali l’unica via non potrà che essere il ritorno alla scelta costituente con la partecipazione popolare delle diverse autoctonie (art. 411). Questi esperimenti di scrittura ci dicono qualcosa di interessante per le nostre tradizioni di formalizzazione e interpretazione dei limiti al mutamento: una costituzione interculturale non si tutela dai suoi mutamenti con il solo irrigidimento formale dei procedimenti o con le astrazioni valoriali delle interpretazioni sapienziali circolanti tra i giudici. La costituzione si tutela riducendo al minimo il dilemma del cacciatore, ovvero garantendo la persistente dialettica tra partecipazione interculturale e interpretazione, tra esperienza popolare (la interculturalità autoctona di quei paesi) e sapienza giuridica, proprio sul fronte della discussione dei limiti al mutamento. Pertanto, quando Ecuador e Bolivia pietrificano persino il potere costituente, non lo fanno per imbrigliare il pluralismo. Lo fanno per preservarlo, prendendo atto che, in un contesto di autoctonia costituzionale come quello dei paesi andini, qualsiasi mutamento costituzionale non può chiamarsi fuori da quella esperienza giuridica di cooperazione interculturale – come verificatosi nelle imitazioni museali del passato – ma dovrà operare nel rispetto di quella autoctonia. Certo, ci si potrà sempre porre contro la “volontà” della costituzione. Ma, a quel punto, diventerà chiaro che il fenomeno non sarà più un mutamento/sostituzione dentro l’autoctonia costituzionale, bensì una sostituzione/soppressione di quella 112 113 Il buen vivir come “autoctonia costituzionale” Michele Carducci autoctonia: significherà, in altre parole, la rottura del quadro di cooperazione e la ricaduta nel dilemma del cacciatore. tions2012/keynote_Cunningham.pdf. Dani M. (2013), Il diritto pubblico europeo nella prospettiva dei conflitti, CEDAM. Eleftheriadis P. (2005), Constitutional Reform and the Rule of Law in Greece, in West European Politics. Fatheuer T. (2011), Buen Vivir: A brief introduction to Latin America’s new concepts for the good life and the rights of nature, Heinrich Böll Foundation, in http://www.boell.de/downloads/endf_buen_vivir.pdf. Fornero G. (2006), Felicità, in Storia della filosofia, vol. 11: Dizionario di filosofia ESP-OPP, Istituto de Agostini. Garaicoa Ortiz X. 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Whiteside K.H. (2013), A Representative Politics of Nature? Bruno Latour on Collectives and Constitutions, in Contemporary Political Theory, 12. 116 Abstract: The article analyzes the function of the constitutional clauses relating to the buen vivir in Ecuador and Bolivia. They are utterances that express the “constitutional autochthony” of the Andean populations, actively involved, for the first time, in the constitutional process of re-foundation of the State. Through the reference to the Rousseau’s “dilemma of the hunter”, the article explains the content of those clauses, aimed to ensure intercultural cooperation as a condition of a peaceful co-existence of different cosmogonies present in the Andean Countries. Keywords: Legal pluralism, Legal traditions, Constitutional autochthony, Constitutional change, Cooperation. 117 L’interculturalità come condizione di sostenibilità del multiculturalismo di Cinzia Piciocchi13* SOMMARIO: 1. Un prima e un dopo: il multiculturalismo nel diritto comparato. – 2. Pluri-, multi-, inter- prefissi diversi per il medesimo termine: cultura. – 3. Alcuni elementi di comparazione tra paesi andini e contesto europeo. 1. Un prima e un dopo: il multiculturalismo nel diritto comparato Ci sono termini che, una volta entrati nell’uso, segnano un prima e un dopo: nell’ambito giuridico, mi pare che il multiculturalismo rientri tra questi. Il concetto del multiculturalismo specie negli ultimi decenni è penetrato nel lessico di diverse discipline e si caratterizza per il riferimento a due termini, la pluralità e la cultura: culture diverse che coesistono nel medesimo contesto sociale e finiscono per confluire nella rappresentazione fornita da questa parola composta. Ampio, in particolare, è l’uso dell’aggettivo multiculturale, che è penetrato in settori disciplinari tra loro differenti ed eterogenei, affiancando e connotando in senso innovativo concetti e definizioni tradizionalmente presenti nei relativi ambiti di riferimento. In quello giuridico, diventano così multiculturali, ad esempio, la cittadinanza (Kymlicka, 1995), i diritti, lo Stato, la costituzione, la forma dello Stato. Questo fenomeno non è esclusivo di un determinato contesto sociale, * Ricercatrice di Diritto pubblico comparato e professoressa aggregata nell’Università di Trento. Il presente contributo rientra nel progetto di ricerca “Jurisdiction and Pluralisms. The impact of pluralisms on the unity and uniformity of jurisdiction” finanziato dal Miur (Prin 2010-2011), coordinatore nazionale prof. Roberto Toniatti (http://www. jupls.eu). L’interculturalità come condizione di sostenibilità Cinzia Piciocchi linguistico, o nazionale: gli esempi proposti sono in lingua italiana, ma i medesimi concetti si rinvengono in altre lingue, come ciudadanía multicultural, État multiculturel o multikulturelle Verfassung. Il multiculturalismo appare quindi come concetto a vocazione transnazionale, descrivendo fenomeni simili che interagiscono con contesti nazionali e disciplinari differenti, seppure in modo non univoco. Un fenomeno non dissimile – e, mi pare, in alcuni ambiti prevalente – vede tali termini affiancati ad un altro concetto, l’interculturalità141: abbiamo così la cittadinanza interculturale, i diritti interculturali, lo Stato interculturale, la costituzione interculturale e la forma di Stato interculturale, riprendendo gli esempi proposti sopra. Anche queste definizioni non appaiono vincolate ad un contesto nazionale specifico poiché, nuovamente, emergono in ordinamenti tra loro differenti, come attestano le definizioni in lingue diverse: citoyance interculturelle, intercultural rights, Estado intercultural. Nasce allora l’esigenza di comprendere a quali motivazioni risponda questo passaggio, se di passaggio si tratta, o quantomeno l’affiancamento dell’uno all’altro concetto – multiculturalismo ed interculturalità – nell’ipotesi di una migliore comprensione di entrambi a partire dal loro raffronto. In particolare, a questo fine, proponiamo una breve riflessione sull’utilizzo del termine interculturalità in ambito giuridico, attraverso la ricerca dei tratti essenziali di tale definizione, applicabili a contesti geoculturali tra loro differenti. Nello specifico, si predilige il contesto dei paesi andini, di particolare interesse specie per l’impiego del concetto di interculturalidad a livello costituzionale. La pluralità sociale che caratterizza tale contesto presenta peculiarità che lo distinguono rispetto al panorama europeo, principalmente per il confronto con le comunità indigene. Tuttavia, l’individuazione di funzioni ed esigenze alle quali l’utilizzo del termine interculturalidad in ambito giuridico risponde, può prescindere da determinati connotati geo-culturali specifici, presentando elementi comuni anche a contesti giuridici ulteriori, quale ad esempio quello europeo, in cui il riferimento all’interculturalità appare sempre più frequente. 2. Pluri-, multi-, inter- prefissi diversi per il medesimo termine: cultura 120 1 In letteratura si trovano sia il termine interculturalismo sia il termine interculturalità; in questa sede si utilizza il secondo essendo quello prevalente. 121 I sostantivi multiculturalismo ed interculturalità hanno in comune il riferimento alla cultura, che non è una nozione prettamente giuridica. A ben vedere, risulta complesso attribuire ad esso una collocazione disciplinare prevalente (antropologia? sociologia?), poiché si tratta di un concetto multiforme e polisemico. La cultura, infatti, può indicare cose diverse tra loro: il patrimonio storico-culturale di un paese, l’istruzione, l’identità, la lingua, la provenienza di gruppi e di individui ed anche l’insieme di tutti questi elementi. Come espressione d’identità, poi, la cultura può risultare dalla stratificazione di livelli diversi: quello individuale di percezione di se stessi, quello collettivo, in cui rileva il concetto di appartenenza, a sua volta proprio di ambiti diversi, famigliare, religioso e lato sensu sociale. Quando penetra nell’ambito giuridico, quindi, la cultura porta spesso con sé un retroterra radicato, eterogeneo e talvolta conflittuale, con una valenza intrinseca anche extragiuridica e pluridisciplinare. La cultura, in questa prospettiva, rientra in quei concetti che assumono rilevanza giuridica ma che nascono altrove: “territori stranieri” ai quali il diritto, talvolta, fa rinvio (Piciocchi, 2014). A fronte di un concetto così complesso ed eterogeneo, poi, si affiancano prefissi diversi, quali pluri- multi- ed inter-culturalismo, a significare che, anche in assenza di un significato univoco, permane comunque la possibilità di un riferimento comune, che può connotarsi in modo diverso, secondo accezioni differenti. Se si guarda all’autore del volume che ha avuto un ruolo determinante nella circolazione del concetto di cittadinanza multiculturale e nel conseguente dibattito su di esso, Will Kymlicka, si nota come già dieci anni fa egli facesse riferimento all’interculturalità. In un articolo del 2003, infatti, Kymlicka affiancava i concetti di multicultural States e intercultural citizens, evidenziando come il primo presupponga il secondo, poiché lo Stato multiculturale necessita del “supporto” dei suoi cittadini: «Ideally, these two levels should work together in any conception of citizenship: there should be a ‘fit’ between our model of the multicultural state and our model of the intercultural citizen. The sort of multicultural reforms we seek at the level of the state should help nurture and reinforce the desired forms of intercultural skills and knowledge at the level of individual citizens. Conversely, the inter- L’interculturalità come condizione di sostenibilità Cinzia Piciocchi cultural dispositions we encourage within individual citizens should help support and reinforce the institutions of a multicultural state» (Kymlicka, 2003: 148). Interculturalità, secondo tale prospettiva, appare come espressione delle condizioni che favoriscono la comprensione reciproca delle culture, nei diversi ambiti in cui ciò possa essere incentivato: l’istruzione, il plurilinguismo, il confronto sui valori religiosi; più in generale in riferimento ad azioni lato sensu culturali, che favoriscano la reciproca comprensione. Una comprensione che, va precisato, non pare solo riferita alla conoscenza del contenuto dei tratti significativi delle identità “altre”, quanto alla percezione dell’importanza che esse rivestono per chi su di essi costruisce la rappresentazione della propria identità. Dove l’interculturalità si avvicina alla conoscenza del contenuto della cultura “altra”, invece, è nel concetto di local interculturalism, ravvisando nella dimensione locale l’opportunità di una comprensione delle culture “vicine”, poiché si collocano in contatto nel medesimo territorio o in ambiti geografici contigui, trovandosi quindi a convivere (Kymlicka, 2003: 159). Dieci anni dopo, Taylor svolgeva considerazioni non dissimili, riferendo l’interculturalità al concetto di integrazione, con riferimento specifico alla situazione del Québec, quindi alla luce della coesistenza tra due gruppi linguistici principali, per i quali la questione dell’opportunità di conoscenza e comprensione della cultura del “vicino” si pone con forza (Taylor, 2012: 417). Taylor lega tale tematica al principio di eguaglianza, secondo una prospettiva di grande interesse, che individua nell’interculturalità l’opportunità di costruire le basi di tale principio, al di là degli assetti costituiti, attraverso una percezione delle identità che sappia andare oltre le diseguaglianze: «It may be the general consensus that women have their ‘place’, and shouldn’t aspire to operate outside it; or that this society has as its basic purpose the preservation of a certain historic culture, and that thus full members of this culture have a privileged position within it. For the sense of multicultural challenge to arise, this normalization has to be put in question, has to be seen as a denial of equality, which is one of the crucial values of a democratic society» (ibid.). Emerge, in queste considerazioni, una nozione di interculturalità come espressione della necessità di un cambiamento, rispetto al quale è necessario trovare in primis un lessico in grado di esprimerlo: «a nar- rative of the transition we’re trying to bring about» (ibid.). L’esigenza di questo cambiamento, al quale l’interculturalità dà voce, appare espressa anche dalle critiche delle quali il multiculturalismo è stato fatto oggetto, perlomeno in alcune sue manifestazioni. Guardando nuovamente alla letteratura, si può allora notare il fiorire di opere in cui il multiculturalismo appare oggetto di ripensamento (rethinking multiculturalism di Parekh, 2000), o in cui esso appare non riuscito, o di aspre critiche, come ricorda Barrett, che parla di «backlash against multiculturalism» e di «multiculturalism under attack» (Barrett, 2013: 21, 54). Ed è ancora Kymlicka (2010: 32 ss.) ad interrogarsi sui concetti di rise and fall of multiculturalism e sulla possibilità stessa di individuare, in quella contemporanea, un’epoca di post-multiculturalità. Ciò che pare oggetto di critica, in particolare, sono le strategie associate – a torto o a ragione – al multiculturalismo che, in alcuni casi, sono state ritenute causa (o concausa) di fenomeni di disaggregazione; quindi le critiche stesse non appaiono imputate tanto al fenomeno in sé, quanto alle possibili conseguenze divisive sulla società. Significative, a questo proposito, sono le considerazioni svolte dal Consiglio d’Europa nel documento White Paper on Intercultural Dialogue, adottato nel 2008 (CM(2008)30): «Whilst driven by benign intentions, multiculturalism is now seen by many as having fostered communal segregation and mutual incomprehension, as well as having contributed to the undermining of the rights of individuals – and, in particular, women – within minority communities, perceived as if these were single collective actors». La dottrina ha individuato nell’interculturalità una risposta a queste critiche, evidenziandone la dimensione più dialogica e più vicina alla realtà delle culture coinvolte ed utile alla costruzione della convivenza, agendo in particolare sul concetto di cittadinanza (Salazar Benítez, 2005: 127, 306 ss.). In particolare, emerge l’esigenza di assumere la tutela della diversità come valore di rilevanza giuridica che non si pone solo come auspicabile obiettivo di carattere politico e sociale (ibid.: 309). L’integrazione tra culture diverse, in tale prospettiva, non pare più un’opzione, ma una direzione in qualche modo obbligata, che prende atto delle differenze anche attraverso un concetto di cittadinanza interculturale, inteso come costruzione di un panorama sociale e giuridico che, senza negare la diversità, favorisce nel modo più ampio possibile le possibilità di recipro- 122 123 L’interculturalità come condizione di sostenibilità Cinzia Piciocchi ca comprensione e, quindi, di un’integrazione funzionale alla convivenza. Il rapporto tra l’interculturalità e una dimensione di integrazione o relazione si ripropone in contesti differenti (ad es. il rapporto canadese Building The Future. A Time For Reconciliation, di Bouchard e Taylor, 2008). Con riferimento al contesto andino, Walsh evidenzia che: «Mientras que lo pluri y multicultural son términos descriptivos que sirven para caracterizar la situación diversa e indicar la existencia de múltiples culturas en un determinado lugar, planteando el reconocimiento, tolerancia y respeto entre ellas, la interculturalidad aún no existe. Es algo por construir. Ella va mucho más allá del respeto, la tolerancia y el reconocimiento de la diversidad; señala y alienta, más bien, un proceso y proyecto sociales y políticos que apuntan a la construcción de sociedades, relaciones y condiciones de vida nuevas y distintas» (Walsh, 2009: 76). L’interculturalità, in altre parole, appare includere in sé l’idea di una progettualità che prende atto delle diversità che il multiculturalismo ha reso visibili, ma si fa carico di promuoverlo, ricercandone le condizioni di sostenibilità: dal pluralismo como hecho al pluralismo como valor (Pérez Tapias, s.d.: 7). quello specifico contesto: «A nivel de sociedad digamos, pues, que la humanidad colapsa en la civilización occidental: el lóbulo izquierdo, y en la civilización oriental: el lóbulo derecho, del cual la indianidad es un subsistema. En adelante, puesto que pensamos desde Bolivia, nos referiremos a la indianidad como lo contrapuesto de occidente: las dos civilizaciones que nos constituyen. Al interior de ambos lóbulos civilizatorios se encuentran las culturas. En el caso de occidente: las culturas portuguesa, italiana, inglesa, holandes… En el caso del oriente: las culturas china, tibetana, aymara, quechua, guaraní, schuar, nahua, hopi… Por tanto, una primera acepción de interculturalidad, en nuestro caso, es para referirse a las relaciones entre aymaras, guaraníes, tacanas… que no es muy usual; una segunda acepción de intercultural, más usual y menos exacta, es la que se refiere a las relaciones entre la cultura hispano-criolla y las culturas indígenas. En este caso es más apropiado hablar de un diálogo entre civilizaciones» (Medina, 2005: 36). Il comparatista, però, non è alla ricerca di coincidenze, ma di elementi che, rispondendo a funzioni comuni, consentano di individuare categorie applicabili anche in contesti differenti (per tutti de Vergottini, 2014; Pegoraro, 2012 e 2013; Toniatti, 2007). Da questo punto di vista, i paesi andini sono di grandissimo interesse per il giurista europeo. In essi il concetto di interculturalità penetra in alcune costituzioni, dando talvolta voce proprio al passaggio dal pluri- o multi-culturalismo all’interculturalità, per cui si evidenzia chiaramente la dimensione costituzionale di tali concetti (su cui v. i contributi di Bagni e Carducci, in questo volume) e la valenza simbolica ad essi attribuita poiché, come ricorda la dottrina sudamericana, la costituzione stessa presenta una «dimensión simbólica, intrínsecamente no menos adecuada que la dimensión fáctica» (Viciano Pastor, Martínez Dalmau, 2011: 321; e v. anche Médici, 2010: 113). Nella costituzione ecuadoriana, ad esempio, prende corpo il passaggio da uno Stato «pluriculturale e multietnico» (art. 1 cost. 1998) ad uno «interculturale e plurinazionale» (art. 1 cost. 2009). Anche nella costituzione boliviana l’interculturalità si affianca alla plurinazionalità negli aggettivi che definiscono lo Stato all’art. 1, e viene poi richiamata a più riprese nel testo fondamentale (López, 2012). Un concetto che, come sottolinea Baldin (2014), «si fonda sulla relazione, comunicazione e apprendimento permanente fra le persone e le comunità di saperi, valori, tradizioni e 124 3. Alcuni elementi di comparazione tra paesi andini e contesto europeo L’utilizzo del vocabolo interculturalità in ambito giuridico e in particolare costituzionale risponde alle peculiarità e caratteristiche proprie dei singoli contesti nazionali. La sua applicabilità ad ambiti geo-culturali differenti, tuttavia, presuppone la possibilità di individuare alcuni tratti essenziali, che caratterizzano il concetto a prescindere da una specifica collocazione geografica e giuridica. Si ripropone per questo termine il medesimo problema incontrato in relazione al multiculturalismo, poiché anch’esso non è oggetto di interpretazione univoca: l’interculturalità proposta nei documenti del Consiglio d’Europa non coincide totalmente con quella fatta propria dalle costituzioni e dalle leggi di alcuni paesi sudamericani né, ad esempio, con quella che emerge nel contesto giuridico canadese. Baldin (2012: 69 ss.) ricorda come esistano diverse possibili interpretazioni dell’interculturalismo in senso descrittivo o prescrittivo mentre, con riguardo all’area andina, Medina fornisce due possibili chiavi di lettura dell’interculturalità, connotata rispetto agli attori sociali di 125 L’interculturalità come condizione di sostenibilità Cinzia Piciocchi logiche distinte, per favorire il pieno sviluppo delle capacità dei singoli e dei gruppi, rompendo con lo schema egemonico di una cultura dominante e altre subordinate». In entrambe le carte costituzionali, la dottrina ha individuato un riconoscimento delle lotte delle comunità indigene, specie nell’accostamento tra plurinazionalità e interculturalità, che per de Sousa Santos (2012: 20) rappresentano una versione antitetica del multiculturalismo inteso come mero riconoscimento della diversità e danno luogo a un «constitucionalismo intercultural, plurinacional y pluricultural» (ibid.: 35; cfr. anche Castañeda Velásquez, 2009: 37; e, per una ricostruzione anche storica della definizione delle comunità indigene, v. Fernández Osco, 2008). L’interculturalità, in particolare, è riferita a una definizione della cittadinanza che incentiva criteri di sostenibilità nel comportamento dei cittadini come criterio trasversale al testo costituzionale stesso, in cui si ripresenta in diverse parti. Si tratta, secondo questa lettura, di «un criterio transversal que atraviesa los capítulos de la Constitución y precisa de una respuesta innovadora que los viabilice como formas sostenibles de adecuación de los comportamientos ciudadanos» (Verdesoto Custode, 2007: 150. Il concetto di sostenibilità del pluralismo emerge inoltre anche a livello europeo, in ambiti differenti; cfr. Toniatti, 2009: 1121). L’interculturalidad si diffonde poi in contesti ulteriori: nella salute (Ruiz-Llanos, 2007: 99 ss.), nella formazione dei giuristi (Cóndor et al., 2010; più in generale, per un’analisi comparata dell’incidenza del pluralismo ed in particolare del concetto di plurinazionalità sul potere giudiziario, cfr. Rey, 2014), nell’istruzione, e in tutti si evidenzia un riferimento prevalente al rapporto con le comunità indigene, focalizzando spesso le forme di partecipazione anche istituzionale, partendo quindi dall’interazione con comunità per le quali si pone la richiesta di riconoscimento come soggetti di diritto. Brunet Ordoñez Rosales (2013: 439) riconduce l’origine dell’interculturalità proprio all’ambito dell’istruzione e del continente sudamericano: «La interculturalidad, a diferencia del multiculturalismo, tiene su origen en América Latina con motivo del reclamo indígena por una educación formal que incluya sus valores culturales». Quest’aspetto connota naturalmente l’interculturalità nel contesto dei paesi andini in modo peculiare: si tratta elementi non riproducibili in via generale nell’ambito giuridico europeo, nel quale il pluralismo culturale ha invece come riferimento principale – sebbene non esclusivo – il fenomeno migratorio. Al di là degli attori specifici coinvolti, però, l’esigenza anche giuridica di un dialogo interculturale appare spesso riferita ad ambiti comuni, secondo chiavi di lettura non legate indissolubilmente alle specificità del contesto di riferimento. L’istruzione, ad esempio, è uno di questi, essendo un settore particolarmente esposto ad un contenzioso che spesso impegna dottrina e legislatore nell’analisi della valenza culturale e/o religiosa di simboli, materie insegnate, abbigliamento di docenti ed allievi, ecc., nonché sulla rispettiva compatibilità con il pluralismo, sovente anche alla luce del rapporto tra ordinamento giuridico e religione. L’attenzione per l’ambito dell’istruzione può ricondursi al ruolo cruciale che essa riveste – e del quale questo contenzioso appare in parte conseguenza –, dovuto ad una constatazione di per sé semplice: che per la scuola passa il tipo di società che si vuole costruire (Piergigli, 2011: 893 ss.). Appare allora sempre più frequente il riferimento all’educación bilingüe e intercultural, a partire dalle espresse previsioni di alcune costituzioni, come quella boliviana in cui l’istruzione interculturale (più precisamente: «intracultural, intercultural y plurilingüe») è menzionata all’art. 30, p.to 12, o quella ecuadoriana, che a più riprese richiama l’«educación intercultural e bilingüe» (es. art. 57) o, ancora, negli analoghi richiami che si ritrovano in altre costituzioni dell’area sudamericana (a titolo esemplificativo, si riporta l’art. 75 della costituzione argentina: «Corresponde al Congreso … Reconocer la preexistencia étnica y cultural de los pueblos indígenas argentinos. Garantizar el respeto a su identidad y el derecho a una educación bilingüe e intercultural»). Il diritto costituzionale all’educazione bilingue e interculturale è stato individuato anche in assenza di previsioni costituzionali esplicite in tal senso, ad esempio nell’ordinamento giuridico peruviano, in cui tale diritto è stato teorizzato sul fondamento dell’identità culturale come diritto costituzionalmente protetto (Brunet Ordoñez Rosales, 2013: 441. Cfr. inoltre Walsh, 2005; Palomino Manchego, 2013: 61 ss.), e in merito all’esperienza cilena (Riedemann Fuentes, 2008: 169 ss., che sottolinea anche alcuni aspetti critici dell’applicazione di tale concetto). Si cerca una risposta alla pluralità culturale e sociale attraverso l’idea che la diversità non ponga solo problematiche da affrontare, ma sia anche 126 127 L’interculturalità come condizione di sostenibilità Cinzia Piciocchi una possibile risorsa. Nuovamente, nell’ambito dell’istruzione nei paesi andini il rapporto con le comunità indigene è un riferimento prevalente, tuttavia non esclusivo, poiché si parte spesso dal dialogo con esse, per guardare poi alla società intera. Un percorso non dissimile è avvenuto nel contesto giuridico europeo, a partire dall’immigrazione, in riferimento alla quale nasce un’attenzione alle politiche linguistiche che assume via via una prospettiva più ampia in relazione, più in generale, all’incontro tra culture diverse (Blanchet, Coste, 2010: 9). Il Consiglio d’Europa dedica attenzione a tale concetto nell’ambito dell’istruzione, evidenziando a più riprese come la diversità tra multiculturalismo e interculturalità nella scuola non sia meramente lessicale, ma faccia riferimento a concetti tra loro epistemologicamente differenti. Concetti non dissimili sono poi ripresi in alcuni testi legislativi nazionali, quali la legge organica spagnola sull’educazione (L.O. 2/2006), con riferimento alle misure di integrazione degli immigrati (Rodríguez García, 2011: 235 ss.). L’interculturalità appare anche come costruzione di spazi di relazione, che presuppongono la consapevolezza dell’esistenza di pluralità di culture, favorendo l’integrazione tra esse (López, 2012) e costituendo, in tale prospettiva, il contesto senza il quale altre misure volte a promuovere l’eguaglianza risultano di scarso significato. Le quote, ad esempio, che appaiono talvolta nell’ambito dell’istruzione e che, secondo la dottrina, possono risultare poco efficaci in assenza di un contesto complessivo che valorizzi la comprensione interculturale (ibid.: 48). Torniamo quindi a un concetto non dissimile da quello espresso da Kymlicka in riferimento al cittadino interculturale, per il quale si prevedono condizioni di sostenibilità di obiettivi altrimenti destinati a rimanere inattuati. Ne deriva la necessità di un riconoscimento che assuma una dimensione necessariamente pubblica, non relegando il pluralismo a quella puramente privata, come attesta l’attenzione per un altro tema, contiguo ma non coincidente con quello dell’istruzione e che si interseca sovente con il concetto di interculturalità: la memoria. L’attenzione per la dimensione storica rappresenta l’espressione di una necessità profonda e significativa, poiché evidenzia una delle esigenze alle quali l’interculturalità tenta di dare una risposta, e cioè che il riconoscimento delle identità passa anche per una dimensione pubblica, che non si pone sul mero piano legislativo o istituzionale. Tale livello – quello istituzionale – sussiste e connota quello che è stato definito come «constitucionalismo intercultural» (come evidenzia de Sousa Santos, 2007: 36); ma presuppone una dimensione culturale, che passa ad esempio attraverso l’esplicitazione delle motivazioni anche storiche che rendono o che hanno reso prevalente una cultura. L’interculturalità, in altre parole, presuppone innanzi tutto una «descolonización mental» (nelle parole di Bartolomé Clavero, s.d.: 9) che assume significato non solo in relazione ai paesi che hanno vissuto l’esperienza coloniale ma contribuisce, in una prospettiva più ampia, alla costruzione di una consapevolezza, che rientra a pieno titolo negli elementi di sostenibilità senza i quali il multiculturalismo rischia di rimanere su di un piano quantomeno teorico. L’importanza della memoria nel dialogo interculturale affiora pure in ambito europeo. Ad esempio con riferimento alle considerazioni svolte dal Consiglio d’Europa, in cui a più riprese è dedicata attenzione alla dimensione storica, che pare orientata ad evitare la costruzione di un “noi” e di un “loro” aprioristico, andando quindi in senso opposto rispetto agli elementi che ostacolano il dialogo e favoriscono la discriminazione, come stereotipi e stigmatizzazione (Council of Europe, 2001: 29). Creare un percorso che consenta alle culture di essere “viste” è un compito affidato anche all’ordinamento giuridico, non lasciando la dimensione interculturale alla sola (buona) volontà politica, ma “istituzionalizzandola”. La transizione del concetto di interculturalità dal piano degli obiettivi meramente politici a quello giuridico si può trovare anche nella riflessione sul legame con il principio di eguaglianza, sotto diversi profili. La dottrina relativa al contesto andino evidenzia come l’assimilazione culturale sia uno degli elementi (naturalmente non il solo) che contribuisce all’esclusione socio-economica di alcuni gruppi (López, 2012: 36). Inoltre, il Consiglio d’Europa richiama un aspetto di grande rilevanza anche nell’ambito europeo, che fornisce una motivazione all’introduzione di una prospettiva interculturale e tocca un punto molto importante quando si parla di eguaglianza. Il dialogo interculturale presuppone la conoscenza dell’“altro”; la predisposizione di azioni che favoriscano tale conoscenza, però, è volta in primis alla maggioranza, per un motivo semplice: i gruppi minoritari si trovano già a praticare il pluriculturalismo sotto diversi punti di vista, come ad esempio le lingue, la scansione dei tempi del lavoro e dello studio, dovendo affiancare ai dettami della pro- 128 129 L’interculturalità come condizione di sostenibilità Cinzia Piciocchi pria cultura d’origine i comportamenti della cultura maggioritaria, che penetrano anche nelle norme giuridiche (Piciocchi, 2006). Il Consiglio d’Europa, trattando di educazione interculturale, afferma come la pluriculturalità sia già una realtà per le culture minoritarie, che si trovano a integrarsi in quella di maggioranza. Nel documento stilato dalla Language Policy Division per la Platform of resources and references for plurilingual and intercultural education si legge che «Many people living within multicultural and plural societies are pluricultural. Pluricultural individuals are more likely to come from ethnic minority than ethnic majority backgrounds, because minority individuals usually have not their own ethnic heritage culture but must also engage with aspects of the dominant majority national culture in which they live. Members of majority groups by contrast have hitherto not needed to adopt any of the values, beliefs or practices of other groups, especially if they live in an ethnically homogeneous area, but are now increasingly obliged to notice the multiculturalism of their own society and others. This gives them opportunity to grow into pluriculturalism through the complex networks which cross-cut established groupings, to acquire the competences needed in such dynamic situations and experiences» (Byram, 2009: 6). La recezione dell’interculturalità a livello giuridico consente di vedere pure questo diverso punto di partenza, che pone anche la maggioranza nelle condizioni di praticare una pluriculturalità non come necessità, bensì come arricchimento. La reciprocità della conoscenza, in altre parole, mette cultura di maggioranza e gruppi minoritari non sullo stesso piano, il che renderebbe irriconoscibile l’una e le altre, non potendo più definirsi in un rapporto reciproco che si nutre anche della diversità del proprio ruolo. La reciprocità della conoscenza conferisce pari dignità al riconoscimento della dimensione identitaria delle diverse culture, favorendo la comprensione non tanto e non solo della cultura in sé, ma del ruolo e dell’importanza che alcuni valori rivestono per alcuni gruppi. Tra questi, anche i principi della maggioranza stessa, che deve comprendere per poter essere compresa, potendo richiedere l’«accettazione e adattamento di norme e valori della società di accoglienza» (Rodríguez García, 2011: 245), nel momento in cui dispone degli strumenti per distinguere la valenza negoziale dei valori in gioco, secondo l’importanza che essi hanno nella cultura dei diversi attori. Il riconoscimento si pone quindi come presupposto di qualsiasi negoziazione: si può chiedere all’identità il rispetto di alcuni principi fondamentali se l’identità stessa percepisce la sua “visibilità”; promuovendo l’idea che non sussiste una minore protezione giuridica in virtù dell’appartenenza culturale, se il “diritto alla cultura” assume però un qualche significato (Wiater, 2010: 9). L’interculturalità veicola l’idea che la reciprocità risieda nel riconoscimento: identità che si sentono reciprocamente “viste”, riescono a negoziare. Nelle parole di Rodríguez García (2011: 235): «La garanzia del fatto che la multiculturalità si orienti verso l’interculturalità è che la prima sia guidata da valori etici universali (valori comuni) e si producano nuovi “meticciati” dei valori differenziali, sempre che tali valori non entrino in contraddizione con i valori etici universali (valori comuni)». In questo senso, l’interculturalità esprime un’esigenza che accomuna contesti giuridici diversi: la previsione di criteri di sostenibilità del multiculturalismo in cui i diversi attori negoziali si percepiscono come espressione di una cultura, inclusa quella di maggioranza che alle altre si rapporta, non necessariamente su di un piano di parità giuridica, ma nella disponibilità a favorire quanto più possibile la reciproca comprensione. Una società che si voglia definire inclusiva deve allora guardare alle conseguenze del riconoscimento giuridico di identità e diversità alla luce dell’idea che la convivenza implichi un’assunzione di responsabilità collettiva. 130 131 Bibliografia Baldin S. (2012), Le minoranze rom fra esclusione sociale e debole riconoscimento giuridico. Uno studio di diritto pubblico europeo e comparato, Bononia Univ. Press. Baldin S. 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Il rispetto della natura e delle specificità culturali: il buen vivir come pratica interculturale Abstract: In the past years, cultural pluralism used to be defined by the adjective “multicultural”, while today the adjective “intercultural” seems to be preferred. This change has occurred also from the legal perspective, for example in the constitutions of some Andean Countries, but also in many documents of the Council of Europe. But what is the meaning of interculturalism and is it possible to construe it as a transnational concept? di Donatella Greco15* SOMMARIO: 1. Buen vivir: radici antiche di un concetto moderno. – 2. Back to basics: i valori fondamentali espressi dal buen vivir – 3. Il buen vivir e la valorizzazione della diversità culturale. Keywords: Multiculturalism, Interculturalism, Cultural pluralism, Andean Countries, Council of Europe. 1. Buen vivir: radici antiche di un concetto moderno Nelle parole di David Choquehuanca Céspedes (2010), intellettuale aymara e ministro degli esteri del governo boliviano, il buen vivir è definito come il recupero di uno stile di vita in armonia con il mondo e con la natura, che contempla il rispetto e la valorizzazione di tutti gli elementi del cosmo. In aggiunta a ciò, a comporre il quadro che tratteggia questa visione del mondo concorre naturalmente anche l’essere umano, il quale deve essere considerato come parte integrante della natura e non concepito, pertanto, come un’entità separata da essa. Il buen vivir, inteso come paradigma interpretativo del vivere contemporaneo, diventa pertanto qualcosa di antico e moderno assieme. È infatti al principio degli anni Duemila che, nel complesso delle critiche mosse allo sviluppo, il dibattito attorno a questa tematica si accresce, arricchendosi di numerosi contributi provenienti in particolar modo dal mondo andino. Alimentato dai principi cosmologici delle popolazioni autoctone dell’America del Sud (Vanhuist, Beling, 2012: 4), il buen vivir si configura come una visione alternativa allo sviluppo (anche quello sostenibile), poiché pone anche l’accento sull’importanza rivestita dai fattori ecologici e sociali nella relazione con l’ambiente e lo sviluppo. Il buen vivir o sumak * Dottoressa di ricerca in Politiche transfrontaliere per la vita quotidiana nell’Università di Trieste. Il rispetto della natura e delle specificità culturali Donatella Greco kawsay o suma quamaña fa pertanto riferimento ad un vivere in armonia ed equilibrio con la Madre Terra, il cosmo, la vita, la storia e, più in generale, con tutte le forme viventi (Huanacuni Mamani, 2010: 7). Tuttavia, con il tempo, il concetto di buen vivir si svincola da una semplice visione filosofico-antropologica della vita ottenendo sempre maggiore visibilità e permeando, adattandosi alle specificità culturali locali, contesti sempre più vasti della vita pubblica e politica dei cittadini. Inoltre, l’importanza assunta dai principi alla base di questa filosofia per le popolazioni andine viene “ufficializzata” con la loro costituzionalizzazione nel 2008 in Ecuador e nel 2009 in Bolivia. Accade così che valori come «non essere pigro, bugiardo e ladro» (art. 8 cost. Bolivia) o il diritto a vivere in un ambiente sano ed ecologicamente equilibrato che garantisca la sostenibilità e il buen vivir (art. 14 cost. Ecuador), vengano percepiti come una priorità, tanto da inserire questi elementi nei testi costituzionali dei succitati paesi; essi divengono così dei veri e propri punti cardine della vita di una comunità. Come afferma tra gli altri Gudynas (2011), un aspetto centrale nella formulazione del buen vivir è rappresentato dalla critica che questo muove alle dinamiche dello sviluppo contemporaneo. Ciò che viene contestato, in prima istanza, è l’enfasi posta nei confronti degli aspetti economici e del mercato, l’ossessione per il consumo e il mito di un continuo progresso. Ne consegue che lo sviluppo convenzionale venga considerato un mal desarrollo, ovvero un cattivo sviluppo che collima con un conseguente mal vivir (Tortosa, 2001); nell’ottica andina tale equazione sembra valere per la maggior parte delle economie avanzate. Da un punto di vista ancora più generale, la filosofia che fa capo al buen vivir contesta che il benessere sia esclusivamente riconducibile al possesso e accumulo di beni materiali affermando, di contro, l’importanza delle relazioni tra gli esseri umani e la natura. Ciò che è importante sottolineare è che il concetto di buen vivir, come mettono in risalto tra gli altri Vanhulst e Beling (2012), ha lo scopo di promuovere l’armonia e l’equilibrio tra i membri della società e gli elementi dell’ambiente circostante, senza considerare che tra questi intercorra un rapporto gerarchico di subordinazione. Metaforicamente, ciò che il buen vivir propone è ciò che potrebbe essere definito un recupero della dimensione panica con la realtà, considerando quindi la natura come una vera e propria forza vi- vente con la quale l’uomo tende ad identificarsi attraverso uno spirito di comunione e di unione con essa. Tale impostazione, per esempio, appare collimare con il pensiero di Amartya Sen per il quale il potere di creare ricchezza per una società e i suoi individui dovrebbe corrispondere non tanto ad un accumulo materiale di beni e denaro, quanto ad un rafforzamento dalle basi delle capacità del singolo essere umano. Ne consegue che lo sviluppo, nell’ottica dell’economista indiano, dovrebbe convertirsi in un meccanismo di empowerment dei soggetti che da questo vengono supportati nel compiere scelte che li conducano a vivere meglio e più a lungo. Riprendendo un concetto già espresso da Marx, Sen (1985: 945) sostiene che si tratta di «sostituire il dominio delle circostanze e del caso sull’individuo con il dominio dell’individuo sulle circostanze e il caso». In linea più generale va sottolineato come il concetto di benessere espresso dal paradigma andino del buen vivir sia sostanzialmente differente dall’idea di questo stesso concetto teorizzata in Occidente. A questo punto appare utile soffermarsi sull’analisi di alcuni dei principi generali che stanno alla base della prospettiva del buen vivir. 136 137 2. Back to basics: i valori fondamentali espressi dal buen vivir Ripercorrendo i principi ispiratori attorno ai quali la filosofia del buen vivir si erige, appare utile sottolineare alcune differenze che intercorrono tra l’interpretazione occidentale del principio di benessere e quanto, invece, viene espresso dalle pratiche del buen vivir. Medina (2006: 105 s.), in modo efficace, pone in rilievo come la tradizione occidentale legata al concetto di benessere e di buona vita sia essenzialmente riconducibile a due fattori. Il primo rimanda alla concezione cristiana dove è Dio a separare la natura dagli esseri umani, creati con lo scopo di dominare la terra e renderla sua servitrice. La natura domata dall’uomo viene così concepita come un piccolo orto chiuso, un’oasi ricavata dalla giungla dove il primo uomo e la prima donna vivono nell’ozio fino alla ben nota cacciata dall’Eden. Non a caso, infatti, per l’uomo il castigo per eccellenza in risposta alla disubbidienza nei confronti di Dio diviene il lavoro; è per mezzo del biblico “sudore della fronte” infatti che Adamo e tutta la sua futura stirpe dovranno, da quel momento in poi, guadagnare da vivere Il rispetto della natura e delle specificità culturali Donatella Greco per sé e le loro famiglie. Il secondo elemento fa, invece, riferimento al principio aristotelico secondo cui la buona vita sia identificata con la vita nelle città. Medina (ibid.) sottolinea come, in origine, la condizione di benessere fosse coincidente, tra le altre cose, con l’accrescimento della cultura, lo sviluppo dell’intelletto, la cura del corpo, lo studio, l’amore per l’arte e, più in generale, l’interesse per la vita politica. In sintesi, questa prospettiva sottolineava come vivere bene volesse dire anche e soprattutto curare il corpo, lo spirito e l’intelletto, disponendo del proprio tempo da impiegare per corrispondere alle esigenze della propria anima. Di contro invece, il lavoro manuale (svolto in prevalenza nelle periferie e nelle campagne) veniva considerato una pratica che abbassava notevolmente la qualità della condizione umana, poiché allontana l’uomo dalle attività contemplative e di cura di sé e delle proprie attitudini. Sulla base di questi presupposti ne consegue che, per Aristotele, la buona vita coincida con quella trascorsa nella poleis, luogo prediletto per la cura e lo sviluppo delle facoltà intellettuali e fisiche. Sulla base di queste considerazioni è di facile intuizione comprendere come, tra le altre cose, anche questo tipo di impostazione abbia contribuito a creare una sostanziale disparità nelle società occidentali dove il benessere di pochi veniva garantito, già nell’antica Grecia, dal lavoro di molti, spesso svolto in condizioni di schiavitù comprensibilmente molto lontane dal principio di benessere ed estremamente penalizzanti per la dignità della persona. A differenza di quanto accade nel contesto andino, si stabilisce così un principio di rottura tra l’uomo – che sceglie la città – e la natura che, nei secoli seguenti, troverà l’apice negativo nelle conseguenze delle rivoluzioni industriali e tecnologiche che hanno supportato l’implementazione del sistema produttivo di stampo capitalistico incentrato sulla massivizzazione del profitto. Differentemente, rispetto a quanto accade in Occidente, il principio alla base del buen vivir implica una relazione molto stretta con la terra e, più in generale, con la natura, intesa sia come fonte di approvvigionamento alimentare ma anche come elemento con cui vivere in armonia ed equilibrio. Sempre Medina (ibid.: 108) sottolinea come il punto non sia trasformare il mondo ma comprenderlo, rispettando mutualmente tutte le forme di vita che lo compongono. Ne consegue, come sintetizza Solo de Zaldívar (2013), che il buen vivir può essere inteso come una forma alternativa di sviluppo che garantisce una maggiore sostenibilità ambientale e uguaglianza nella qualità e negli stili di vita. Se esteso anche al di fuori del contesto boliviano ed ecuadoriano, il buen vivir può altresì essere considerato come «una nuova prospettiva attraverso cui guardare e immaginare il futuro» (Prada Alcoreza, 2013: 148) sposando così una visione di crescita e sviluppo più egualitaria. Tuttavia, la necessità di delineare un nuovo orizzonte di vita maggiormente sostenibile nei confronti dell’economia e dei rapporti con la natura non appaiono gli unici aspetti attraverso i quali la filosofia andina del buen vivir si sviluppa. Condividendo l’impostazione tra gli altri di Acosta (2011: 190), il buen vivir deve più correttamente essere inteso come un approccio olistico alla vita che supera il campo economico e attraversa trasversalmente l’intero apparato societario, passando anche, come accade in Bolivia ed Ecuador, per i principi costituzionali. L’inserimento del buen vivir nelle costituzioni boliviana ed ecuadoriana rappresenta l’esplicitazione di un vero e proprio progetto che comprende l’implementazione di un nuovo Stato e, soprattutto, di una nuova relazione più giusta tra questo e la società. Tale prospettiva, oltre che presentarsi giuridicamente come una novità assume altresì il carattere della decolonizzazione (Alcoreza, 2013: 156) perché risulta in definitiva finalizzata al riconoscimento delle popolazioni autoctone che hanno superato e resistito agli anni di dominio coloniale e che oggi, nonostante l’inevitabile inserimento in circuiti dell’economia globalizzata, tentano di riaffermare i principi riferibili ad una forma di comunità che richiama il rapporto con le origini e con la terra. Questa interpretazione politica del buen vivir cerca di tradurre in principi costituzionali il sumak kawsay ecuadoriano o suma quamaña boliviano, a tutela della visione cosmogonica andina che tende ad una relazione più equa, inclusiva e rispettosa dell’ambiente e degli elementi che lo compongono. In aggiunta a ciò, il buen vivir intende anche perseguire con forza la valorizzazione e l’inclusione delle popolazioni locali al fine di creare una società più armoniosa in grado di promuovere la componente autoctona e con essa anche la diversità etnica e culturale. La valorizzazione dell’elemento autoctono si incrocia con il riconoscimento e l’inclusione della diversità che nell’ibridazione, per esempio, trova una delle sue manifestazioni. 138 139 140 Il rispetto della natura e delle specificità culturali 3. Il buen vivir e la valorizzazione della diversità culturale Se, come detto al principio, il rispetto e l’ascolto della natura rappresenta una parte importante dei principi attorno ai quali l’etica societaria del buen vivir si sviluppa, uguale importanza e attenzione viene rivolta all’insieme delle diversità culturali che le società dei paesi in questione inglobano. Nell’attuale contesto globalizzato, infatti, la presenza di più culture e di diverse rappresentanze nazionali in un medesimo territorio non è certo fattore inconsueto. I flussi migratori internazionali in questo hanno giocato nei secoli un ruolo fondamentale: essi, infatti, non solo hanno rappresentato una costante per tutte le popolazioni ma, in tempi più recenti, hanno anche costituito il propulsore, la vera forza motrice della globalizzazione (Castels, Miller, 2012: 25). Favorire gli spostamenti su di un territorio significa contemporaneamente contribuire a creare delle società in cui elementi diversi si incontrano, si mescolano a quelli locali preesistenti e producono nuovi «universi simbolici» (Canclini, 2001: 14). Ad arricchire questo panorama hanno contribuito, inoltre, le varie campagne di colonizzazione europee (britanniche, francesi, spagnole e portoghesi su tutte) che dall’età moderna in avanti hanno influenzato l’evolversi della storia di numerosi paesi ed etnie del cosiddetto nuovo mondo. Volgendo l’attenzione all’eterogeneità culturale di cui una popolazione può essere manifesto, il contesto latinoamericano appare certamente un territorio privilegiato in virtù del suo passato e delle vicissitudini storiche che lo hanno attraversato. Canclini a riguardo, in riferimento alla condizione dell’America Latina, parla di heterogeneidad cultural multitemporal (Canclini in Mialet, 2000: 134). Per l’autore è questa un’affermazione particolarmente esaustiva in quanto pone in evidenza come l’eterogeneità in questi luoghi non sia solo un fattore di classe sociale, etnia o gruppi culturali ma esprime qualcosa di più. Si tratta, infatti, di una coesistenza di gruppi sociali portatori di elementi e storie culturali differenti. Questi stakeholder culturali partecipano tutti alla contemporaneità, seppur con livelli di coinvolgimento differenti, rimanendo contemporaneamente evidente manifesto di epoche, tradizioni culturali, usi e costumi differenti. Queste “diverse temporalità” (ibid.) possono certamente coesistere, adeguandosi l’una all’altra; per l’autore perché ciò Donatella Greco 141 accada, appare importante sottolineare come non si tratti di una semplice convivenza tra diversi gruppi culturali, quanto del riconoscimento e della valorizzazione dell’esistenza di gruppi con un’identità e una storia differenti. Ciò significa che nel processo di studio e analisi di queste dinamiche è necessario identificare l’eterogeneità diacronica che in questi territori ha sedimentato nel corso dei secoli. Considerando valida questa impostazione lo stesso Canclini (ibid.: 135 s.) afferma che «in America Latina i progetti moderni, anche al costo di grandi ingiustizie, disuguaglianze e meccanismi di marginalizzazione, hanno perseguito l’obiettivo di raggiungere un elevato livello di integrazione. Questo atteggiamento, di contro, ha contribuito a porre in secondo piano l’aspetto dell’eterogeneità, sublimandola in un progetto forzato di integrazione nazionale, atteggiamento che in qualche modo si è ripercosso sui cosiddetti studi culturali in America Latina. A seguito di ciò, mi pare che la diversità venga più che altro considerata come parte della nazione. Ne consegue che è apparso evidente come la diversità di etnie, di gruppi e sottoculture potesse acquisire maggiore senso se concepita come parte dei progetti nazionali e come diretta conseguenza delle contraddizioni imposte dalla modernità e non semplicemente come singole rivendicazioni isolate di ciascun gruppo etnico». Come afferma Lee (2004), già al termine del XIX secolo si rende evidente il fallimento dei programmi di colonizzazione di stampo europeo messi in atto nei secoli precedenti. Nel corso dell’Ottocento, mentre l’Europa intera vive una fase di forte sviluppo economico e industriale, i paesi latinoamericani, di contro, non tengono il passo di queste innovazioni, indugiando in un evidente stato di arretratezza economica e produttiva rispetto al vecchio continente. Questa situazione pone nuove questioni e nuove problematiche al contesto latinoamericano che molto hanno a che fare con la matrice identitaria di questi popoli. Se da un lato, l’identità coloniale è sempre stata vissuta come una imposizione della Spagna imperiale che i latinoamericani spesso hanno mal tollerato, dall’altro l’adozione di una mentalità liberale è apparsa una strada che i locali desideravano percorrere per porsi al passo con i tempi del mondo “civilizzato”. Si trattava, in un certo senso, di un avvicendarsi al timone della colonizzatore: il modello spagnolo veniva sostituito da quello europeo. Secondo l’intellettuale messicano Leopoldo Zea (in Lee, 2004: Il rispetto della natura e delle specificità culturali Donatella Greco 92), infatti, «il vecchio ordine coloniale è stato distrutto ma dalla sua distruzione non è nata nessuna naturale contropartita». Questa affermazione lascia intendere come, dopo essersi affrancati dal proprio passato coloniale, le popolazioni ispanoamericane abbiano dovuto cominciare a difendersi dall’imperare del modello europeo il quale appariva profondamente inadatto al contesto locale. Lo scrittore cubano José Martí (in Lee, 2004: 92), a tal proposito, ha parlato opportunamente di un cambio di servidumbre ponendo in evidenza come, dal vecchio dominio coloniale, l’America Latina rischiasse di passare sotto l’egida di un altro potere esterno, identificabile con i principi e diktat socio-economici provenienti dal sistema occidentale. Ciò pone in evidenza come, a fronte dei cambiamenti socio-economici occorsi negli anni, il recupero di una dimensione locale dei valori e degli stili di vita venisse inteso come un’esigenza imprescindibile per le popolazioni locali. Ne consegue che la posizione di Martí, seppur cronologicamente antecedente161, e il pensiero di Canclini temporalmente più recente, appaiono collegabili con i principi di rispetto e valorizzazione delle specificità e delle diversità culturali espressi dal buen vivir. Nel dettaglio, la prospettiva di Martí si pone come una reazione contro il positivismo e i principi di modernità dei paesi sviluppati, condannando il pragmatismo materialista del progresso occidentale e riaffermando l’importanza dei valori spirituali locali. Il saggio di Martí a cui si fa riferimento in questa sede è Nuestra América, scritto e pubblicato nel 1891 in Messico. Uno dei principali fili conduttori della produzione filosofico letteraria dell’autore cubano è certamente rappresentato dall’analisi e dallo studio dell’America meticcia e dell’impatto culturale di questa sul contesto sociale locale. Martí vive e opera nella seconda metà del XIX secolo in un momento storico in cui le neonate repubbliche latinoamericane erano impegnante nell’emancipazione e nel consolidamento della loro indipendenza dal regime coloniale iberico. Nuestra América è infatti una metafora, espressione non solo di un identità geografica del paese, ma anche evidenza della percezione relativa alla presenza di una duali- tà convivente nel continente latinoamericano. Tale impostazione porta Martí ad affermare che esistano due Americhe. La prima è appunto la nuestra tierra, quella a cui visceralmente i propri abitanti si sentono legati, percependo un sentimento di appartenenza e la presenza di un legame ancestrale con essa, identificabile con l’animo di un popolo e il suo modo di agire e vivere nel mondo, esprimendo le proprie radici e la propria costruzione storica (Streck, 2008). A questa si affianca otra América, ovvero quella che Martí indica come esito dei lunghi anni di colonizzazione e che rischiava di assoggettarsi ad un nuovo dominio coloniale (quello americano). La proposta teorica di Martí, pur essendo stata teorizzata in un contesto storico e politico peculiare ed estremamente connotato, è innovativa e interessante nel panorama degli studi a tal riguardo poiché compie un passo ulteriore nell’analisi del fenomeno. Riaffermando la posizione di Simón Bolívar, Martí considera che l’unico modo per il popolo latinoamericano di sfuggire a nuove dipendenze e ritrovare la propria unità è quello di riconoscere la condizione ibrida dell’America Latina, tenuta insieme dalla componente spagnola ereditata dagli anni di colonizzazione. Si tratta di un passo significativo, specie se compiuto a seguito di un periodo storico che va dagli anni ‘50 del XIX secolo fino al principio degli anni ‘90. Come segnala tra gli altri Lewis (1965), c’è stato un tempo non troppo lontano in cui l’economia dello sviluppo identificava la struttura duale di molti paesi che componevano la regione latinoamericana come la principale causa del sottosviluppo economico di questi territori. Nel complesso del continente latinoamericano, le economie dei paesi seguono percorsi differenti, esprimendo diversi livelli di maturità del loro ciclo economico/ produttivo. Accade così, seguendo la prospettiva degli stadi di sviluppo di Rostow (1962) che all’interno di un sistema paese possano convivere settori economici la cui condizione è del tutto assimilabile a ciò che l’autore definisce come take off, ovvero fase cruciale del decollo dell’economia coincidente con la vera e propria rivoluzione industriale. Questi stadi più sviluppati dell’economia coesistono con altri settori, il cui potenziale di sviluppo appare più lento e complessivamente più arretrato rispetto ad altri. In questi segmenti, la depressione del sistema e la maggiore lentezza dei meccanismi di crescita vengono inevitabilmente collegati con la pre- 142 1 Cronologicamente, l’operato di Martí si colloca negli anni in cui le due ultime colonie spagnole Cuba e Puerto Rico erano impegnate nella conquista dell’indipendenza avvenuta nel 1898 a seguito delle scoppio della guerra combattuta tra Spagna e Stati Uniti. 143 Il rispetto della natura e delle specificità culturali Donatella Greco senza dell’elemento etnico, ciò che abitualmente in America Latina viene identificato come lo indigena, e di conseguenza assimilato ad uno stato di arretratezza e sottosviluppo. Al contrario, i settori che vivono più intensamente la fase del decollo dell’economia si tende, in termini di valori e meccanismi economici e di produzione, ad identificarli con il contesto occidentale, ponendo così indirettamente in evidenza come teoricamente il modello economico produttivo europeo fosse la strada maestra verso lo sviluppo. Ne consegue che, come segnala Solo de Zaldívar (2013), l’alterità culturale in quanto espressione della diversità dei popoli, diventa un ostacolo, una barriera alla modernizzazione. Di conseguenza, affinchè il ciclo evolutivo dello sviluppo possa compiersi in modo omogeneo in tutti i settori, la componente locale del paese deve essere sacrificata. Questo atteggiamento, unito alla frammentazione e alla polarizzazione indotta dai meccanismi della globalizzazione genera disequilibri sulla struttura economica, sociale e culturale dei paesi, elementi negli anni resi sempre più evidenti e acuti nel contesto latinoamericano (Mantecón, 1993). Riconoscere essenzialmente la condizione mestiza dell’America Latina come una delle peculiarità del contesto locale, conduce ad elevare quest’ultima a chiave di volta dell’identità di questi luoghi, affermandone l’importanza rispetto alla costruzione identitaria e opponendosi, nel contempo, alla visione eurocentrica imperante in quegli anni che vedeva la mescolanza delle razze come elemento degradante per la civiltà. Si tratta, dunque, secondo quanto afferma Abellán (1998: 155), di propendere per una “riconciliazione storica” con il passato, funzionale ad ottenere un presente più sereno e consapevole e costruire un futuro di benessere ed equità, fondato sul riconoscere e tutelare le specificità locali. Canclini, invece, in un’ipotetica ottica di continuità con le posizioni di Martí, ferma la sua attenzione sulla diversità considerata nel conteso latinoamericano come parte di una nazione, oltre che a rappresentanza di una chiara presa di coscienza relativa al passato e al presente di un popolo. Questo presuppone l’assunzione di un principio di rispetto, riconoscimento e uguaglianza della differenza, elementi questi che, come sottolineato, vengono valorizzati nel complesso del paradigma del buen vivir. Come posto già in rilievo in precedenza, sono proprio le costituzioni di Bolivia ed Ecuador, infatti, il luogo prediletto per l’esplicitazione dei principi che ispirano e fondano il nuovo corso democratico di questi paesi che si basa sul rispetto dell’ambiente, della natura, della componente autoctona e della diversità dei popoli. Come sottolinea Foroni (2014: 96-97), la costituzionalizzazione del paradigma andino del buen vivir pone infatti in rilievo l’importanza di un insieme di valori considerati come fondamentali che, se rispettati, possono dare vita ad una nuova forma di convivenza, un nuovo patto sociale, dando maggiore rilievo alla tutela e all’inclusione della diversità. Sottolineare l’importanza primaria della giustizia sociale, della solidarietà comunitaria, della plurinazionalità e dell’interculturalità stabilisce un nuovo corso dove la composizione plurale viene non solo valorizzata, ma posta come principio fondamentale attorno a cui erigere la nuova visione dello Stato. Nello specifico, l’impostazione della vita di una comunità all’insegna del buen vivir passa anche attraverso una riflessione da condurre circa il rispetto della diversità e la matrice etnica delle popolazioni. A tal proposito, va ricordato, come afferma Gudynas (2011), che è necessario che il progetto eretto attorno a quella che potremmo definire una filosofia di vita del buen vivir venga costruito e compreso seguendo un doppio filone interpretativo. Da un lato bisogna decolonizzare i saperi e la conoscenza, abbandonando la prospettiva di superiorità imposta della conoscenza occidentale ed eurocentrica. Contemporaneamente, risulta ugualmente importante rispettare la diversità intrinseca delle differenti culture e non leggere questa condizione plurale attraverso un’ottica gerarchica. Attribuire una rinnovata importanza ai principi comunitari identificati come forma di reazione e contrasto alla logica capitalistica, sebbene il sistema paese risulti collocato nei circuiti internazionali economici e politici, rappresenta così l’esplicitazione di un’alternativa concreta allo status quo. In aggiunta a ciò, va considerato come tale atteggiamento divenga anche rappresentativo della volontà di recuperare un nuovo orizzonte di vita, dove la forza e la creatività delle culture e delle tradizioni locali vengano riconosciute, divenendo strumento funzionale ad una crescita e uno sviluppo più etico del territorio (Prada Alcoreza, 2013). Prendendo in prestito nuovamente il lessico dell’antropologo messicano Canclini esposto nel volume Culturas híbridas: estategias para entrar y salir de la modernidad, l’ibridazione, nel panorama della valorizzazione delle specificità locali, viene considerata come un elemento da sviluppare e non più come un tratto connotato da un carattere negativo. Si potrebbe pertanto affermare che, in questo senso, il buen vivir diviene una pratica 144 145 Il rispetto della natura e delle specificità culturali Donatella Greco interculturale trasversale che consente di entrare e uscire dalla modernità, trovando un equilibrio che permette il rispetto dell’ambiente e delle diversità rimanendo, al contempo, sintonizzati con l’attuale contesto economico e culturale. Nel dettaglio, nella concezione dell’autore messicano (2001: 14), l’ibridazione assume le seguenti caratteristiche: «Intendo per ibridazione quel processo socioculturale all’interno del quale si strutturano pratiche differenti e discrete che già esistevano in forma separata e che si combinano per generare nuove strutture, nuovi oggetti, nuove pratiche, nuovi universi simbolici». In effetti, Canclini più che di ibridazione tout court, preferisce parlare di “processo di ibridazione”, in quanto si tratta di un compendio dinamico di fattori che, agendo quotidianamente in sinergia, provocano la nascita di fattori ibridi i cui elementi costitutivi vanno ritrovati nel progressivo mescolarsi degli elementi, nelle continue forme di adattamento poste in essere dai protagonisti nel corso dei cambiamenti sopra citati (immigrazione, spostamenti di varia natura e genere, ecc.). Tuttavia, parlare di ibridazione tout court o di processi di, veicola una serie di considerazioni sul tema. La prima tra queste è che, come numerosi autori sottolineano (Canclini et al., 1993; Canclini, 2001; Fabietti et al., 2000), i processi di ibridazione non rappresentano certamente un elemento recente e non unicamente correlabile a periodi storici riferibili a fasi di intese migrazioni o conquiste coloniali. È possibile, infatti, affermare che non esistono culture che non siano in qualche forma ibride, in quanto «le culture si combinano e si ricombinano» (Fabietti et al., 2000: 165) da secoli nonostante l’intensità di questi scambi si sia indubbiamente accentuata nell’età contemporanea. Tuttavia, ciò che è importante sottolineare secondo Canclini (2001) è il modo in cui le culture, intese come insiemi più o meno coerenti di significati interconnessi, si ricollocano continuamente considerando la rapidità dei tempi odierni. In questo senso, i principi alla base del buen vivir, garantendo il rispetto e l’espressione di una pluralità di stili e di alternative di vita, creano l’ambiente e lo spazio giusto per l’espressione e la tutela dell’ibridazione. Più in generale, ad essere garantita è la visione culturale di ogni singola componente indigena, rifiutando qualsiasi interpretazione a carattere etnocentrico (Prada Alcoreza, 2013). Ulteriormente la riflessione di Canclini sposta l’attenzione sul concetto di cultura: come sottolinea Zires (in Canclini et al., 1993), parlare di ibridazione pone indirettamente in discussione il concetto stesso di cultura, intesa come un insieme di nuclei più o meno omogenei di nozioni e credenze, appartenenti ad una data comunità, gruppo o nazione. Questo tipo di posizione enfatizza l’omogeneità e la coerenza come caratteristiche principali riferibili alla nozione di cultura, posizione che, secondo l’autore, viene scardinata da quella di culture ibride proposta da Canclini. Ne consegue che l’idea di cultura che ben si sposa con il concetto di ibridazione è quella di un compendio composito formato da specifici elementi culturali che assumono molteplici forme e generi e che rimangono in permanente trasformazione. Le culture ibride, pertanto, sono quelle che si producono in un sempre più rapido processo di incontro tra culture. Di conseguenza, esse rappresentano le nuove sintesi, i nuovi profili, i nuovi paesaggi che caratterizzano il mondo contemporaneo e «nascono dall’incontro di individui e gruppi con storie, memorie, conoscenze e identità diverse, spesso fondate su premesse esperienziali e concettuali molto distanti tra loro» (Fabietti et al., 2000: 165). Anche in questa posizione è evidente come non venga contemplata la presenza di un principio di superiorità tra le diverse componenti culturali, le quali non si impongono l’una sull’altra ma divengono complementari o comunque mai antagoniste. Tale atteggiamento risulta essenzialmente consistente con i principi di uguaglianza e rispetto delle diversità espressi dal buen vivir che vede nelle diversità culturali una fonte di ricchezza da tutelare e salvaguardare. Inoltre, nella modernità in cui il passato convive con il presente e il locale si mescola con il globale, è in atto un processo di ibridazione a cui sfuggire non è possibile. In questo senso, la filosofia del buen vivir appare lungimirante e si pone come garante di un atteggiamento inclusivo e che valorizzi le diverse matrici culturali, autoctone o nate dall’incontro di diversi elementi culturali, che compongono un territorio. Come detto in precedenza, va tenuto in conto che il buen vivir deve essere inteso come un complesso di significati, come un paradigma interpretativo che raggruppa diverse posizioni che si fanno portatrici di specificità locali. L’elemento comune è contestare l’attuale regime di sviluppo e affermare l’importanza della relazione tra l’uomo e l’ambiente e la società: ne consegue che anche per questo esso vada inteso come un concetto plurale (Gudynas, 2011: 11). Secondo quanto detto fino ad ora rispetto alla tutela delle specificità 146 147 Il rispetto della natura e delle specificità culturali Donatella Greco e delle diversità locali, è possibile affermare che il buen vivir incorpora i principi di rispetto e tutela delle specificità e delle diversità espressi dall’interculturalità. Tale concetto, estremamente dibattuto negli ultimi decenni, appare connotato da una natura proteiforme e polisemica (Marc 1992: 30). Già sul finire degli anni ‘20 del secolo scorso, l’antropologo culturale Franz Boas (1928: 72) nel dibattere temi come la relazione tra razza e cultura, il nazionalismo e le relazioni interraziali, pone in evidenza come «La soppressione delle differenze culturali o l’isolamento dei differenti gruppi non può rappresentare lo scopo di un intelligente sforzo nel dirigere lo sviluppo umano». Tale affermazione pone in rilievo come, la gestione di una differente matrice etnico culturale all’interno di un territorio, necessiti di meccanismi di valorizzazione di cui l’intera comunità può beneficiare. In anni più recenti, al crescente uso nei contesi nazionali e internazionali del concetto di interculturalità e dei relativi sinonimi, si rende altresì evidente l’esigenza di introdurre elementi di distinzione all’interno della «confusa nebulosa» (Pompeo, 2007: 133) che circonda questo termine. Prendendo spunto da quanto affermato da Pompeo (ibid.), da un punto di vista generale è possibile affermare che il termine interculturalità racchiude al suo interno una serie di significati tra loro diversi. Tuttavia, nel tentativo di dare una definizione si può affermare che esso, come sostantivo, rappresenta le implicazioni culturali che sono relazionabili alla coesistenza di attori provenienti da orizzonti diversi. Come aggettivo, esso viene invece utilizzato per qualificare una specifica attitudine a superare ostacoli e realizzare efficaci meccanismi comunicativi in contesti di convivenza (ibid: 134). Il prefisso inter rappresenta pertanto l’elemento linguisticamente discriminante del termine in quanto esprime dinamiche e dialettiche che presuppongono uno scambio, un’interazione proficua e possibile tra elementi differenti che si contrappone alla multi-culturalità che indica, al contrario, una giustappozione, un «vivere accanto» (ibid.). Proprio come accade per il processo di ibridazione di Canclini, l’interculturalità deve essere intesa come un percorso dinamico, attivo, un work in progress che si relaziona in modo progressivo con i diversi contesti portatori di specificità culturali. Tuttavia, pur auspicando un’armonica convivenza e un reciproco riconoscimento dell’alterità e dell’elemento autoctono, va tenuto ugualmente in conto che, proprio per l’intrinsecità dell’elemento plurale, non esiste un buen vivir indigeno dal momento che la categoria “indigeno” è un artificio, una semplificazione, una chiave di lettura utile per ordinare e categorizzare l’eterogeneità locale di popoli e nazionalità ognuna portatrice di una propria visione di buen vivir. L’elemento che accomuna il suma quamaña, il sumak kawsay e le altre manifestazioni locali di buen vivir è rappresentato dal fatto che ognuna di esse esprime una rielaborazione della comune sensibilità rispetto a determinati temi. Ciò crea un terreno comune fertile per la costruzione e l’accettazione di un meccanismo di vita più sostenibile, per la natura e l’uomo inserito nella collettività. In conclusione, si potrebbe affermare che, nel contesto latinoamericano, parlare di buen vivir significa anche assumere una prospettiva di analisi che tenga conto della valorizzazione dell’elemento diversità che, combinato con le pratiche moderne, ha contribuito a delineare il volto attuale del continente e dei diversi paesi e contesti culturali che lo compongono. Far convivere il recupero di questi orientamenti e stili di vita con la modernità è possibile ed è il proposito che Bolivia ed Ecuador stanno perseguendo nei propri contesti nazionali. Chiaramente, a fronte degli attuali meccanismi, rifiutare completamente le logiche di mercato significherebbe condannare un sistema paese all’isolamento e non è questo a cui le pratiche del buen vivir aspirano. Al contrario, la sfida è proprio quella di adattare la modernità ai principi di benessere e di rispetto della natura, della Pachamama e della diversità e specificità socio-culturale, contribuendo a creare un ambiente economicamente e socialmente più sostenibile. Ne consegue che, in quest’ottica ibrida, interculturale e fondamentalmente dinamica, l’elemento mestizo, assieme all’elemento autoctono, tenderà ad essere così sempre più valorizzato e integrato nelle pratiche pubbliche del quotidiano. 148 149 Bibliografia Abellán J.L. (1998), El 98 Iberoamericano, Editorial Pablo Iglesias. Acosta A. (2011), Sólo imaginando otros mundos, se cambiará éste. Reflexiones sobre el Buen Vivir, in Farah H.I., Vasapollo L. (coords.), Vivir bien: ¿Paradigma no capitalista?, Plural editores. Avendaño T.R. (2009), El sumak kawsay en Ecuador y Bolivia. Vivir bien, identidad, alternativa, in Ecológia Política, 37. Il rispetto della natura e delle specificità culturali Donatella Greco Boas F. 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L’armonia con la natura: un formante culturale in espansione. – 2. La circolazione dei formanti relativi ai diritti della natura. – 3. Lo statuto giuridico di Madre Terra in Ecuador e Bolivia. – 4. Le azioni popolari a salvaguardia dell’ambiente. – 5. Conclusioni. 1. L’armonia con la natura: un formante culturale in espansione Il presente contributo intende esaminare gli aspetti legati al riconoscimento dei diritti della natura. Ci si chiede quale sia il fondamento che giustifica la nascita di questo nuovo soggetto giuridico, che diritti possano rivendicare gli enti non umani e come vengano salvaguardati. Gli interrogativi prendono le mosse dall’evidenza: alcuni paesi hanno già riconosciuto le pretese giuridiche di Madre Terra e altri hanno proposto modifiche costituzionali in tal senso. Essendo la tutela ambientale condizionata – ruota attorno alla salvaguardia umana e non della natura –, le implicazioni giuridiche di questo riconoscimento sono particolarmente significative. Garantire i diritti del mondo non umano significa operare una trasformazione profonda nell’assiologia dei valori, presupponendo che questi si debbano poi inverare in criteri interpretativi che bilancino gli interessi della specie umana e quelli dell’ecosistema in modo diverso dall’attuale. Nell’ipotesi che la tendenza continui a diffondersi nel prossimo futuro, giova approfondire il tema per comprenderne meglio i contenuti. A tale fine occorre specificare i significati di individualismo e olismo. * Professoressa associata di Diritto pubblico comparato nell’Università di Trieste. I diritti della natura Serena Baldin Il primo considera l’umanità un prius ontologico rispetto al tutto, mentre il secondo la concepisce come una parte di un tutto sovrastante. L’antropocentrismo si fonda sulla separazione fra umani e “intorno”. Nel suo ambito si distinguono un indirizzo dominativo, per cui la natura è intesa come una riserva di ricchezze da sfruttare per il benessere della specie umana; uno conservativo, che riconosce la presenza di limiti allo sfruttamento e alla crescita materiale a tutela degli interessi delle generazioni future; e uno preservativo, spesso coniugato assieme al conservativo, teso a salvaguardare quelle aree che ancora non recano l’impronta umana e a difendere le specie in via di estinzione (Viola, 1997: 47 ss.). Le concezioni non antropocentriche sostengono che la natura ha un valore in sé, indipendentemente dall’utilità per gli esseri umani. Gli indirizzi cosmocentrici sono riconducibili alle teorie olistiche che si esprimono nel biocentrismo e nell’ecocentrismo, con ulteriori correnti al loro interno. In breve, le posizioni biocentriche sono quelle più radicali, che riconoscono dignità morale a ogni singolo essere vivente (come l’animalismo) o a gruppi di individui (specie, comunità, ecosistemi). Nella versione ecocentrica, ciò che conta nei rapporti fra umani e ambiente è un mutamento di Gestalt. Sul piano ontologico, l’ecocentrismo nega la divisione esistenziale sulla cui base si afferma la primazia umana e, dal punto di vista etico, rifiuta di assegnare un valore intrinseco agli esseri umani, promuovendo l’eguaglianza fra questi e la natura (Uebel, 2011: 133 s.; Pagano, 2004: 87 ss.; Pisanò, 2012: 91 ss.). Le idee ecocentriche e biocentriche sono contestate da molti studiosi di temi ambientali. Essi reputano illusorio il fatto di poter ragionare in termini diversi da quelli che pongono l’umanità al di sopra degli, o come ontologicamente distinta dagli, enti non umani. In parallelo, nel contesto di grave crisi ecologica che ci troviamo a fronteggiare, dove è in gioco la sopravvivenza della stessa specie umana (Carducci, 2014), la visione cosmocentrica sale alla ribalta sollecitando intense riflessioni sul modo in cui trattiamo la natura. Esperti di varie discipline rimarcano l’urgenza di un diverso approccio a queste problematiche per garantire la sostenibilità a livello globale. Essi sottolineano l’uso responsabile delle risorse da parte delle culture indigene, auspicando una rivalutazione di quelle pratiche e dei loro sistemi di pensiero, fondati su una concezione animistica della natura. L’indagine muove dal concetto di armonia con la natura. Sebbene la parola armonia appaia rimossa dal vocabolario morale e politico del pensiero occidentale (Carducci, in questo volume), altrove si assiste alla sua rivalutazione. Un dato da tenere presente al fine di comprendere, a grandi linee, la sua rispondenza a criteri etici condivisi che ne possano giustificare l’accoglimento in una declinazione giuridica. Ciò in quanto il formante culturale, che plasma la mentalità dei giuristi e rappresenta l’adesione ideologica o culturale a un certo patrimonio di tradizioni, svolge un ruolo primario nella scelta di adottare delle norme e nel garantirne l’effettività (Pegoraro, 2011: 50). Di seguito verrà approfondito il tema dello statuto giuridico di Madre Terra a partire dai formanti dottrinali (sui formanti si v. Sacco, 1992: 43 s.) che hanno reso possibile la circolazione di questa idea in varie parti del globo. Visioni olistiche, religioni che considerano in termini negativi la separazione dell’io al tutto, comportamenti che anelano a uno stile di vita fondato sull’armonia con la natura sono rintracciabili in molte parti del pianeta: il dharma in India, il tao in Cina, il circolo sacro della vita dei nativi nordamericani, ubuntu, unhu, ujamaa in Africa. In Sudamerica, suma qamaña, sumak kawsay, lekil kuxlejal, nande reko, sono le espressioni utilizzate da altrettanti gruppi autoctoni per indicare l’esistenza intesa come equilibrio del singolo all’interno della collettività e dell’ambiente circostante, secondo uno schema di tipo circolare, dove è assente l’idea di progresso (Lanni, 2013: 178 ss.). La dimensione olistica rientra nei valori e nelle credenze ancestrali, e il diritto di questi popoli, il diritto ctonio o indigeno, è «sinceramente ambientalista … Non è semplicemente verde: è verde profondo» (Glenn, 2011: 141). L’olismo trova anche in Occidente autorevoli esponenti, a partire dal fondatore dell’etica ambientale, Aldo Leopold. In Land Ethic del 1949 il naturalista statunitense sostiene che, dal punto di vista evolutivo, tutte le specie viventi sono interconnesse fra loro e con gli ecosistemi, e il rapporto individuo-natura è il campo etico dal quale ricavare le norme prescrittive del comportamento umano. Nel 1973, ulteriore diffusione dell’ideale olistico si deve al filosofo norvegese Arne Naess, che conia il termine deep ecology. Naess rifiuta l’approccio tradizionale all’ambiente di tipo antropocentrico (la shallow ecology), dove l’ecosistema è tale rispetto a un soggetto, a un termine di riferimento. L’ecologia profonda non separa gli esseri umani né ogni altra cosa dall’ambiente naturale, in quanto concepisce il mondo come una rete di fenomeni interconnessi e interdipendenti. 156 157 I diritti della natura Serena Baldin Negli ultimi vent’anni, l’indiana Vandana Shiva si è affermata come una delle voci ambientaliste più accreditate. In Il bene comune della Terra, la studiosa afferma che per dare origine a una democrazia della comunità terrena si debbano considerare non solo gli interessi della specie umana bensì anche quelli di tutte le forme di vita che popolano il pianeta. Queste teorie, si noti, non utilizzano il linguaggio dei diritti per difendere la natura; puntano solo a ridefinire il rapporto etico fra umani e non umani (Andreozzi, 2011: 123 s.; Pisanò, 2012: 97 ss.). Un obiettivo condiviso anche da Hans Jonas, che considera la rivisitazione di tale rapporto un imperativo ineludibile e, senza chiamare in causa l’olismo o i diritti della Terra, si affida al principio di responsabilità. Secondo il filosofo di origine tedesca, la relazione fra umanità e natura si concreta in doveri della prima nei confronti della seconda. La garanzia della sopravvivenza sia della generazione presente che di quelle a venire, nonché dell’“intorno” che condivide il destino della specie umana, si esprime nei termini di un obbligo morale (Jonas, 1979). Riflessioni, queste, che troveranno cassa di risonanza nell’elaborazione del concetto di sviluppo sostenibile enunciato nel Rapporto Brundtland Our Common Future della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo del 1987, quale principio di etica collettiva che impone a ogni Stato di gestire razionalmente le proprie risorse. Esso si fonda sull’assunto che al diritto di beneficiare e sviluppare il patrimonio naturale e culturale ereditato corrisponde il dovere di utilizzarlo in modo da consegnarlo alle future generazioni migliorato e non peggiorato, e si compone di quattro aspetti: ambientale, economico, sociale e politico-istituzionale, tutti essenziali per garantire il mantenimento delle risorse del pianeta. Ora, Ecuador e Bolivia hanno riconosciuto nei loro testi solenni, vigenti rispettivamente dal 2008 e 2009, la cosmovisione dei gruppi autoctoni dell’area andina, traducendola con i termini buen vivir e vivir bien, con l’intento di dare forma a un modello originale di sviluppo (o una alternativa allo sviluppo stesso, secondo alcuni). L’intento è di perseguire un equilibrio che includa la qualità della vita intesa come vivere in armonia con la natura, e non come vivere meglio secondo la logica della crescita lineare, non in grado di garantire né l’equità intragenerazionale né quella intergenerazionale (Carducci, 2012: 319 ss.; Bagni, 2013; Baldin, 2014). Nella Ley de derechos de la Madre Tierra adottata in Bolivia (infra, § 3), l’armonia è il primo dei principi elencati all’art. 2. Essa sta a indicare che le attività umane devono perseguire un equilibrio dinamico con riguardo ai cicli e ai processi inerenti alla natura. L’armonia con la natura è un’aspirazione che trova riflesso nei documenti internazionali. La World Charter for Nature delle Nazioni Unite del 1982, atto privo di efficacia vincolante, introduce una serie di principi generali, primo fra tutti il rispetto della natura e della non alterazione dei suoi processi vitali. Il preambolo pare oscillare fra la dimensione biocentrica e quella antropocentrica. Il primo profilo si ravvisa nell’affermazione che ogni forma di vita è unica e meritevole di essere rispettata, qualunque sia la sua utilità, e che bisogna garantire il valore intrinseco degli organismi viventi; il secondo profilo nell’invito a non subordinare passivamente gli interessi umani a quelli della natura. Dieci anni dopo, l’indirizzo antropocentrico è l’unico ravvisabile nella Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo (Pisanò, 2012: 128 ss.). Il primo principio afferma che «Gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni relative allo sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto a una vita sana e produttiva in armonia con la natura». Dal 2009 l’esigenza di un cambiamento di rotta si palesa nel progetto delle Nazioni Unite che si concreta, sotto la guida boliviana, in negoziati intergovernamentali annuali e in successive risoluzioni dell’Assemblea generale sui principi che vanno sotto la denominazione di Harmony with Nature (http://www.harmonywithnatureun.org). L’obiettivo è di promuovere un approccio olistico allo sviluppo sostenibile, rispettoso dell’ambiente. Nel quarto rapporto del Segretario generale su Harmony with Nature del 2013 si legge che il sistema economico, affinché sia sostenibile, deve riconoscere i limiti e i «diritti» della natura (p.to 72 del Rapporto nr. A/68/325 del 2013). L’ultimo dialogo interattivo, dell’aprile 2014, ha avuto per oggetto l’esame delle caratteristiche di un nuovo paradigma, ecocentrico, e delle strategie che le società dovrebbero mettere in atto per adeguarsi a tale visione, secondo cui la natura non è più concepita come mera fonte di beni materiali e viene posta allo stesso livello degli esseri umani. Segnatamente, il concetto di armonia con la natura «incorpora idee di approcci non antropocentrici allo sviluppo, ossia approcci che considerano il valore intrinseco di ogni parte dell’ambiente e la necessità di realizzare un giusto bilanciamento fra i bisogni economi- 158 159 I diritti della natura Serena Baldin ci, sociali e ambientali delle generazioni presenti e future». Ne consegue l’urgenza di prefigurare un modello economico diverso da quello egemone, che punti alla sostenibilità includendo un dato oramai ineludibile: non possiamo continuare a crescere indefinitamente in un pianeta dalle risorse finite (United Nations General Assembly, 2014). se Christopher D. Stone intitolato Should Trees Have Standing?, uscito nel 1973, ove l’autore concepisce la natura come una pluralità di soggetti giuridici titolari di diritti, ricordando come nel corso dei secoli i diritti si siano estesi a classi sempre più ampie di persone fisiche e giuridiche. Secondo lo schema per cui non si possono sostenere effettivamente delle pretese se queste non sono giustiziabili, conferire titolarità giuridica alla natura implica che essa possa adire le vie legali per il tramite di un tutore; che, essendo portatrice di interessi propri, si possa vedere riconosciuto un danno; e che possa beneficiare direttamente del risarcimento, qui prospettando la creazione di appositi fondi di tutela. Compito dei guardians, nominati dal giudice, dovrebbe essere anche quello di vigilare sugli enti non umani in pericolo. I tutori dovrebbero avere poteri ispettivi, di monitoraggio ambientale, di rappresentanza degli enti vigilati a livello legislativo e amministrativo (Stone, 2010). L’idea dello standing aperto agli enti non umani fece breccia, all’epoca, in una dissenting opinion nella causa Sierra Club v. Morton risolta dalla Corte suprema nel 1973. Il caso riguardava un contenzioso civile nel cui ambito gli interessi del fiume danneggiato dagli interventi edilizi non vennero mai sollevati. Il giudice Douglas, ben disposto verso la teoria di Stone, scrisse che la questione critica dello standing nelle cause ambientali «would be simplified and also put neatly in focus if we fashioned a federal rule that allowed environmental issues to be litigated before federal agencies or federal courts in the name of the inanimate object about to be despoiled, defaced, or invaded by roads and bulldozers» (Baude, 1973: 197 ss.; Stone, 2010: 38). Nell’area latinoamericana le proposte di riconoscimento dei diritti alla natura sono state fatte proprie da insigni giuristi, oltre che dagli ecologisti. L’ispiratore della normativa ambientale cilena, Godofredo Stutzin, alla fine degli anni ‘70 pubblica il saggio La Naturaleza de los Derechos y los Derechos de la Naturaleza ove sostiene l’esigenza di riconoscere la natura quale parte integrante dei conflitti ambientali, consentendole di assumere direttamente la difesa dell’ecosistema. Da interesse giuridicamente protetto, la natura deve divenire soggetto dell’interesse giuridicamente protetto, avente le caratteristiche di una persona giuridica, nello specifico di una «fondazione per la vita». Come le altre fondazioni, la Terra possiede un patrimonio ordinato a uno scopo. Esso comprende 160 2. La circolazione dei formanti relativi ai diritti della natura Con riguardo ai fondamenti filosofici dei diritti della natura, le fonti di ispirazione sono varie. Un illustre difensore di questa tesi è l’ecologoteologo Thomas Berry, considerato il padre della Earth Jurisprudence, il quale si ispirò al modo di vivere dei popoli indigeni per elaborare le sue riflessioni, secondo cui le leggi umane devono rispettare la natura per garantire l’integrità e il benessere di tutti gli esseri viventi e per le generazioni future. La Earth Jurisprudence è la teoria giuridica che propugna il riconoscimento dei diritti della natura sull’assunto che la Terra sia la fonte primaria del diritto. I suoi fautori ricercano soluzioni che affermino, in termini etici e pragmatici, la capacità e la responsabilità degli esseri umani di arrestare le pratiche che mettono in pericolo la sopravvivenza di qualsiasi specie vivente. Di recente, l’avvocato sudafricano Cormac Cullinan ha posto l’accento sui fondamenti valoriali che condizionano i sistemi giuridici, con particolare attenzione alla proprietà. Egli sostiene che la specie umana deve riconoscere le limitazioni ai propri diritti quale conseguenza del rispetto della comunità Terra (Cullinan, 2012). Un’ulteriore corrente filosofica, denominata Law for Nature, ambisce ad articolare in modo nuovo il rapporto fra diritto ambientale e governance. Essa ruota attorno al concetto di normatività ecologica che, mediante un processo continuo di trasformazione, riorienta il diritto e fonda la relazione fra soggetto e oggetto in termini di patrimonium, ossia di eredità comune, ponendo enfasi sul fatto che i beneficiari di un common good debbano avere degli obblighi di preservazione nei riguardi dei posteri. L’ottica intergenerazionale dovrebbe limitare le possibilità di sfruttamento implicite nelle costruzioni giuridiche della proprietà privata e ridurre la distanza fra gli esseri umani e gli ecosistemi (De Lucia, 2013: 167 ss.). Una pietra miliare della Earth Jurisprudence è il libro dello statuniten- 161 I diritti della natura Serena Baldin tutti gli elementi animati e inanimati del mondo naturale. Nel salvaguardare tali beni dalle aggressioni umane, la natura esercita al contempo il diritto alla vita e all’integrità e il diritto di proprietà, essendo l’elemento lesionato sia parte rappresentativa della Terra, sia parte integrante del suo patrimonio. L’impianto teorico di Stutzin, analogamente a quello di Stone, si estende al tema della rappresentanza degli interessi della natura, da affidare sia a persone giuridiche che fisiche. Inoltre, sostiene la necessità di istituire organismi pubblici indipendenti per tutelare l’ambiente seguendo l’esempio dell’ombudsman, e di prevedere un fondo economico destinato agli interventi di ripristino (Stutzin, 1984: 97 ss.). Attualmente in America Latina (e non solo) si assiste a un crescente sostegno agli indirizzi cosmocentrici. L’appello a Pachamama è sotteso alle lotte ecologiche contro deforestazioni, costruzioni di dighe, politiche neoestrattiviste, che mobilitano montagne, fiumi, terra, come entità senzienti, attori che scendono nell’arena politica (Escobar, 2010: 40). Un richiamo indubbiamente favorito dalla presenza di numerosi popoli indigeni, i quali non hanno introiettato la cesura fra società e “intorno” tipica dei paesi industrializzati, e che sono le principali vittime dello sfruttamento dissennato delle risorse naturali. Da un’altra prospettiva, l’area latinoamericana lascia intravedere un disegno transnazionale, aperto alle istituzioni e alla società civile, che mira a una nuova comprensione ambientale fondata su un’ética ambiental exigente, una morale tesa alla protezione della vita sul pianeta (v. Lanni, in questo volume), nel cui schema si possono fare rientrare le iniziative andine sul riconoscimento dei diritti di Madre Terra, disciplinati in via costituzionale in Ecuador dal 2008 e in via legislativa in Bolivia dal 2010. I contributi teorici di Stone e di Stutzin appaiono fondamentali nell’elaborazione seguita dai due paesi andini. Palese è anche l’influenza del pensiero ecofemminista (su cui Pellizzoni, in questo volume), nonché quella di altri strenui difensori dei diritti della natura, come il costituzionalista colombiano Ciro Angarita Barón, ricordato da Alberto Acosta, ex presidente dell’Assemblea costituente ecuadoriana, e da Alberto Gudynas, ecologista che partecipò al processo di stesura della nuova legge fondamentale (Gudynas, 2009a: 40; Sánchez Jaramillo, 2013). E non v’è dubbio della consulenza fruttuosa del Community Environmental Legal Defense Fund (Celdf), organizzazione statunitense che fornisce pareri a Stati ed enti locali in materia ambientale (Margil, 2008). Prima del riconoscimento costituzionale di diritti alla natura in Ecuador (infra, § 3), le pretese giuridiche dell’ecosistema erano già contemplate nelle ordinanze di svariati comuni statunitensi (Burdon, 2011: 9). La loro ratio è quella di controbilanciare il potere delle corporations consentendo a chiunque di adire le vie legali a tutela dell’ambiente. Se poi si confronta l’art. 71 della costituzione ecuadoriana con le idee del Celdf per la revisione delle carte fondamentali di alcuni ordinamenti statunitensi, è evidente la loro forte analogia. L’Ecuador afferma che la natura «ha diritto al rispetto integrale della sua esistenza e al mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli vitali, della sua struttura, delle sue funzioni e dei suoi processi evolutivi. Tutte le persone, comunità, popoli o nazionalità potranno richiedere alle autorità pubbliche la piena applicazione dei diritti della natura». In una bozza di proposta emendativa alla costituzione del Vermont viene sancito, all’art. 24 intitolato Diritti della natura, che «The natural environment within the State, including all of the components and systems thereof, has the inherent and inalienable right to exist, persist, evolve, maintain its systems, and regenerate its own vital cycles, structures, functions, and processes. The State, local governments, and each resident of the State shall have standing to enforce these rights on behalf of the natural environment» (analoghe proposte si riferiscono alle costituzioni degli Stati di Hawaii, Maine, New Hampshire, New Mexico, Ohio, Oregon, Pennsylvania, Washington. Cfr. http:// celdf.org/section.php?id=426). Ulteriori iniziative intraprese dai paesi andini ambiscono ad avere un respiro internazionale. Nell’aprile del 2010 è stata proclamata la Dichiarazione universale dei diritti di Madre Terra nell’ambito della Conferencia Mundial de los Pueblos sobre el Cambio Climático y los Derechos de la Madre Tierra svoltasi a Cochabamba in Bolivia. Il primo articolo proclama Madre Terra un essere vivente, una comunità di creature correlate, tutte aventi titolo ai diritti innati riconosciuti nel testo, senza distinzioni fra esseri, specie, origine, o altro status. Il documento, alla cui stesura ha contribuito Cullinan, è ora al vaglio dell’Onu ai fini della sua adozione (Cullinan, 2011: 12 ss.). Nel dicembre del 2010 lo Stato boliviano ha approvato la Ley de derechos de la Madre Tierra, che riprende l’elenco dei diritti inserito nella 162 163 I diritti della natura Serena Baldin Dichiarazione di Cochabamba. Anche la rinnovata Ley ambiental de protección a la Tierra en el Distrito Federal del Messico del 2013 ricalca lo schema andino. Si discosta però dalla legge boliviana nella parte in cui, laddove quest’ultima enumera le pretese della natura in termini di diritti, lo Stato messicano le concepisce in termini di responsabilità degli abitanti del Distretto federale (art. 86 bis 5; Garza Grimaldo, 2013). Nel 2013 l’Ecuador ha sottoposto al Parlamento latinoamericano, organizzazione che riunisce tutti i paesi dell’area, il progetto di legge quadro dei diritti della natura che riproduce la Dichiarazione universale dei diritti di Madre Terra. Uno dei compiti più importanti del c.d. Parlatino è agevolare il processo di armonizzazione legislativa. Ora che il progetto è stato approvato, verrà preso in considerazione dai legislatori degli Stati membri. Il riconoscimento dei diritti della natura non si arresta all’area latinoamericana. Nel 2012 la Nuova Zelanda ha conferito personalità giuridica al fiume Whanganui sulla base del Whanganui River Agreement fra il governo e la popolazione maori. La teoria di Stone, proposta qualche anno prima da giuristi dell’Università di Otago per dare voce alle aspirazioni indigene di cogestire il territorio fluviale considerato un’entità viva, ha trovato accoglimento (Morris, Ruru, 2010: 49 ss.). L’accordo prevede la nomina di due tutori (uno scelto dalla Corona, l’altro dal popolo autoctono) per rappresentare e agire in nome di questa entità, denominata Te Awa Tupua, ossia «un tutto integrato e vivente dalle montagne al mare, compresi i suoi affluenti e tutti gli elementi fisici e metafisici». I tutori hanno il compito di proteggere la salute e il benessere del fiume; difenderne lo status e i valori; agire e parlare in suo nome; svolgere le funzioni di proprietario terriero su aree prefissate, partecipare agli iter normativi e gestire fondi in nome di Te Awa Tupua (Hsiao, 2012: 371 ss.; Barraclough, 2013: 1 ss.). Seguendo l’esempio ecuadoriano, pure in Turchia e in Nepal (in quest’ultimo ordinamento con l’ausilio del Celdf), sono state avanzate proposte di riconoscimento dei diritti della natura a margine dei rispettivi processi di revisione costituzionale poi interrotti. La bozza turca della Initiative for an Ecological Constitution prevedeva una ridefinizione della qualifica dello Stato, da intendersi come «Stato costituzionale democratico, secolare, ecologico, sociale, basato sui diritti umani, che sono parte della Natura». Merita qui segnalare che lo Stato ecologico, secondo una versione chiaramente antropocentrica, è sancito all’art. 1, c. 2, della costituzione montenegrina del 2007. L’enfasi “verde” discende dalla «convinzione che lo Stato sia responsabile della preservazione della natura, dell’ambiente sano, dello sviluppo sostenibile» (preambolo). L’unico disposto dedicato all’ambiente, l’art. 23, riprende i temi della Convenzione di Aarhus sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale del 1998, vigente dal 2001. 164 165 3. Lo statuto giuridico di Madre Terra in Ecuador e Bolivia Alla luce della disciplina introdotta in Ecuador e Bolivia, ci si chiede quale sia la differenza sostanziale fra il riconoscere solo il diritto all’ambiente e l’affermare anche i diritti della natura. I pensatori riconducibili alla corrente della Earth Jurisprudence contestano l’approccio classico al diritto ambientale – per cui la natura è protetta solo quando la sua distruzione minaccia la sopravvivenza umana, altrimenti il suo sfruttamento è consentito – difendendo l’idea di un cambio di paradigma, ecocentrico, che affermi l’inviolabilità di Madre Terra; ogni allontanamento da tale principio è da ritenersi un’eccezione (De Lucia, 2013: 175). Nelle costituzioni dei due paesi andini l’ambiente si configura come un diritto prestazionale legato alle condizioni di vita del singolo individuo. In aggiunta, tali ordinamenti introducono delle disposizioni che esplicitano le pretese della natura, affermando la cittadinanza ecologica (Gudynas, 2009b: 58 ss.). Comunità politica e cittadinanza si estendono al mondo non umano (animali, piante, fiumi), in quanto provvisto di volontà e sensazioni proprie. Questo assume un’importanza significativa, tanto da elevarsi a soggetto giuridico per configurare un nuovo tipo di «metabolismo sociale». L’espressione designa il rapporto fra natura e società in termini di processo co-evolutivo, in cui entrambe interagiscono nel tempo e non è possibile comprendere l’una senza l’altra, essendo integrate (Jaria i Manzano, 2013: 46; Toledo, González de Molina Navarro, 2007: 85 ss.). Si prende così atto che gli ecosistemi e le comunità naturali non sono beni mercificabili, oggetti di cui si può disporre in qualsivoglia modo, bensì entità con un autonomo diritto di esistere e di prosperare I diritti della natura Serena Baldin (Lanni, 2013: 175 ss.). La natura è qui intesa come il tertium necessario, accanto al binomio libertà-autorità, della dialettica costituzionale per garantire la sopravvivenza umana (Carducci, 2014). La costituzione ecuadoriana, all’art. 10, c. 2, afferma che la naturaleza è soggetto dei diritti che le riconosce la costituzione. Lo statuto giuridico è disciplinato al Capitolo VII: Diritti della natura (artt. 71-74 cost.). L’idea biocentrica si invera nell’art. 71 cost. che enuncia le pretese della natura, ossia il «diritto al rispetto integrale della sua esistenza e al mantenimento e alla rigenerazione dei suoi cicli vitali, della sua struttura, delle sue funzioni e dei suoi processi evolutivi». I successivi due disposti introducono il diritto al ripristino (art. 72 cost.), i principi di precauzione e di restrizione e il divieto di introdurre organismi e materiali organici e inorganici che possano alterare irreversibilmente il patrimonio genetico nazionale (art. 73 cost.). Il ripristino comporta il reintegro dei sistemi di vita degradati, danneggiati o contaminati dallo sviluppo umano e dalle attività industriali mediante l’adozione di una serie di misure per ricreare condizioni ambientali (vegetazione, flora, fauna, clima, acqua, suolo e microrganismi) analoghe a quelle originarie. Il principio di precauzione sottende un criterio prudenziale che deriva dall’esigenza di prevenzione ecologica, rappresentando in anticipo e quindi scongiurando gli eventi potenzialmente dannosi. Esso punta a preservare la stabilità dell’ecosistema e a consentire la continuità delle sue capacità prestazionali (Grassi, 2012: 89, 125). Non si tratta di aspetti vincolati ai diritti della natura, essendo rinvenibili nella normativa ambientale di molti ordinamenti. Infine, l’art. 74 cost. sancisce che «Le persone, le comunità, i popoli e le nazionalità hanno il diritto di beneficiare dell’ambiente e delle ricchezze naturali che consentano il buen vivir. I servizi ambientali non saranno suscettibili di appropriazione; la loro produzione, prestazione, uso e sfruttamento saranno regolati dallo Stato». Un disposto di chiaro tenore antropocentrico, ove il richiamo al buen vivir e alla regolamentazione statale rappresentano i limiti alla disponibilità sconsiderata delle risorse, e che si riallaccia all’art. 14 cost. dedicato al diritto all’ambiente sano. Nello specifico, ivi è riconosciuto il diritto della popolazione a vivere in un ambiente sano ed ecologicamente equilibrato, che garantisca la sostenibilità e il buen vivir, e viene dichiarata di interesse pubblico la preser- vazione dell’ambiente, la conservazione degli ecosistemi, la biodiversità e l’integrità del patrimonio genetico del paese, la prevenzione dei danni ambientali e il recupero degli spazi naturali degradati. In Bolivia, lo statuto giuridico di Madre Terra è ampiamente normato nella legge nr. 71 del 2010. Il fondamento della Ley de derechos de la Madre Tierra si rinviene nella costituzione vigente dal 2009. All’art. 33 cost. si afferma che «Tutti hanno diritto a vivere in un ambiente salubre, protetto ed equilibrato. L’esercizio di questo diritto deve consentire ai singoli e alle collettività della presente generazione e di quelle future, e anche agli altri esseri viventi, di svilupparsi in modo regolare e permanente». La struttura del precetto, che segue lo schema tipico del diritto ambientale, fa trapelare il cambio di prospettiva che apre la strada al riconoscimento dei diritti della natura. La nuova impostazione si coglie nel riferimento agli altri esseri viventi, a cui si riconoscono diritti (Zaffaroni, 2012: 109 ss.). La tipologia delle pretese rivendicabili da Madre Terra non è però desumibile dal testo fondamentale. A differenza dell’Ecuador, dove alla natura è attribuita una sfera di posizioni soggettive in via costituzionale, nell’ordinamento boliviano esse sono riconosciute solo attraverso disposti di rango ordinario. Soluzione che potrebbe inverarsi in una ben distinta graduazione dei diritti a livello attuativo, suscettibile di variazioni legate alla discrezionalità del legislatore. L’art. 2 della Ley de derechos de la Madre Tierra afferma il principio del bene collettivo. Esso implica che l’interesse della società, nell’ambito dei diritti della Terra, prevalga su tutte le attività umane e sopra qualsiasi diritto acquisito, e che il principio della non mercantilizzazione si applichi ai sistemi di vita e ai processi che li sostengono, che non sono parte del patrimonio privato di nessuno. All’art. 3 si proclama Madre Terra sistema vivente e dinamico, formato dalla comunità indivisibile di tutti i sistemi di vita e degli esseri viventi, interrelati, interdipendenti e complementari, che condividono un destino comune. In questo passaggio si nota chiaramente l’adesione all’ideale cosmocentrico, con l’equiordinazione fra umani e mondo non umano. All’art. 5 della Ley si avverte poi l’eco della teoria di Stutzin sulla natura concepita come una fondazione: «Agli effetti della protezione e della tutela dei suoi diritti, la Madre Terra assume il carattere di soggetto collettivo di interesse pubblico … I diritti stabiliti nella presente legge 166 167 I diritti della natura Serena Baldin non limitano l’esistenza di altri diritti della Madre Terra». Sulla base di questa clausola aperta, le pretese della natura sono elencate all’art. 7: alla vita (ossia il mantenimento dell’integrità dei sistemi di vita e dei processi naturali che li sostengono, così come le capacità e le condizioni per la loro rigenerazione); alla diversità della vita (per la preservazione delle diversità e varietà degli esseri viventi, senza alterazioni genetiche); all’acqua (per preservare la funzionalità dei cicli dell’acqua e a protezione da contaminazioni); all’aria pura (per preservare la qualità e composizione dell’aria da contaminazioni); all’equilibrio (per il mantenimento o il ripristino della interrelazione, interdipendenza, complementarietà e funzionalità dei componenti della Madre Terra, per perpetuare i loro cicli e per riprodurre i processi vitali); al ripristino (per reintegrare in modo adeguato ed effettivo i sistemi di vita danneggiati dalle attività umane); alla vita libera da contaminazioni (per preservare Madre Terra). Il diritto al ripristino viene considerato come la novità più significativa dei paesi andini, l’emblema della loro «virata biocentrica» (Gudynas, 2009a: 35). A parere di chi scrive, tale pratica non richiede l’enucleazione di un diritto laddove gli amministratori siano consapevoli delle responsabilità in tema di conservazione ambientale e provvedano al riguardo, e diviene comunque obbligatoria in ipotesi di danno riconosciuto giudizialmente che imponga la bonifica. Ci si chiede inoltre fino a che punto la sfera giuridica della natura sia più ampia rispetto a quella dei singoli che devono poter godere di un ambiente salubre, tanto da giustificare un riconoscimento specifico. Le pretese di Madre Terra (es. aria pura, vita libera da contaminazioni) appaiono ridondanti con il diritto dei singoli a vivere in un ambiente salubre, a eccezione (si potrebbe sostenere) delle aree in cui non vi siano insediamenti umani. Anche il diritto della natura alla biodiversità può essere letto come un valore da proteggere in chiave antropocentrica. La Convenzione sulla diversità biologica sottoscritta a Rio de Janeiro nel 1992 riconosce il suo valore insostituibile quale agente necessario all’evoluzione della vita sulla Terra e dal quale dipende la vita dell’umanità stessa. Nelle costituzioni andine, la biodiversità è anche menzionata nei termini di un interesse pubblico a garantirla (art. 14 cost. Ecuador) e di un dovere dello Stato e della popolazione a conservarla (art. 342 cost. Bolivia). Da ciò si evince una oscillazione fra linguaggio dei diritti della natura e appello alle re- sponsabilità delle istituzioni e della società sia nell’ordinamento ecuadoriano che in quello boliviano. Nemmeno il diritto alla vita, ossia il mantenimento e la rigenerazione dei cicli vitali del mondo non umano, rientra nella sola sfera di disponibilità della Madre Terra, nel senso che ciò che ricade in tale ipotesi può comunque trovare altre formule per garantirne la tutela. Nel testo costituzionale ecuadoriano, si è già sottolineato che l’art. 14 dedicato all’ambiente sano sancisce di interesse pubblico la preservazione dell’ambiente e la conservazione degli ecosistemi. Pure nella Ley de derechos de la Madre Tierra boliviana si ravvisa la doppia impostazione, cosmocentrica e antropocentrica. All’art. 2, p.to 3, la garanzia della rigenerazione viene contemplata fra i principi generali, espressa in questi termini: «Lo Stato nei suoi differenti livelli e la società, in armonia con l’interesse comune, devono garantire le condizioni necessarie affinché i diversi sistemi di vita della Madre Terra possano assorbire i danni, adattarsi alle perturbazioni, e rigenerarsi senza alterare significativamente le loro caratteristiche di struttura e funzionalità, riconoscendo che i sistemi di vita hanno limiti nelle loro capacità di rigenerarsi, e che l’umanità ha limiti nella sua capacità di invertire le proprie azioni». Il principio dello sviluppo sostenibile (artt. 275 e ss. cost. Ecuador; artt. 33 e 311, c. II, p.to 3, cost. Bolivia) e quello precauzionale (art. 73 cost. Ecuador; Ley Forestal nr. 1700 del 1996 della Bolivia) rappresentano rispettivamente il limite e il criterio applicabile per contrastare lo sfruttamento degli ecosistemi. Le dimensioni olistica e individualista convivono in ambedue i sistemi normativi, lasciando supporre che il loro ambito di intervento sia identico, solo affrontato da punti di vista speculari: uno usa il linguaggio dei diritti, l’altro quello dei doveri e degli interessi. Quello che dovrebbe differenziare i paesi andini è il loro orizzonte teleologico: il cosmocentrismo vuole proteggere effettivamente gli interessi della natura. Parificarli a quelli della specie umana significa direzionare altrimenti l’ipotetico ago della bilancia. In Ecuador le pretese della natura di cui all’art. 71 cost. devono intendersi collocate sullo stesso piano di quelle degli esseri umani, in virtù dell’art. 11, c. 6, cost. che statuisce la equiordinazione fra i diritti. L’art. 395, c. 4, cost. specifica poi che in caso di dubbi sulla portata delle disposizioni in materia ambientale, queste si applicano nel senso più favorevole alla protezione della natura. Nella Ley boliviana, lo spostamento 168 169 I diritti della natura Serena Baldin del baricentro viene invece esplicitato in questi termini: «Tutte le boliviane e i boliviani, facendo parte della comunità di esseri che compongono Madre Terra, esercitano i diritti stabiliti nella presente legge in forma compatibile con i loro diritti individuali e collettivi. L’esercizio dei diritti individuali è limitato dall’esercizio dei diritti collettivi nei sistemi di vita di Madre Terra; qualsiasi conflitto tra diritti deve risolversi in modo da non intaccare irreversibilmente la funzionalità dei sistemi di vita» (art. 6; v. anche Vargas Lima, 2012: 258). La norma di rango ordinario potrebbe ancorarsi al principio dello sviluppo sostenibile di cui all’art. 311, c. II, p.to 3, cost., che contempla all’armonia con la natura, alle finalità dello Stato di cui all’art. 8 cost., le quali implicano la soddisfazione condivisa delle necessità umane includendo l’armonia con la natura e con la collettività, e agli altri disposti sottoindicati per cercare di validare questa interpretazione. L’equilibrio fra gli interessi socio-economici e quelli che rilevano sul piano ambientale si rintraccia in svariate norme costituzionali. Il buen vivir non è concepito al servizio del benessere materiale e dell’aumento della ricchezza, bensì al servizio delle opportunità offerte agli individui e alle comunità di mantenere e coltivare le rispettive peculiarità e tradizioni, anche di tipo produttivo (Prada Alcoreza, 2013: 145 ss.; Ruttenberg, 2013: 68 ss.). Tutto ciò implica un cambio radicale nel modo di concepire le relazioni fra Stato, mercato, società e natura. I segni del nuovo bilanciamento si rinvengono nei precetti relativi agli obiettivi e ai limiti alle attività economiche per tutelare l’ambiente, rappresentando la cartina di tornasole del cambio di paradigma. In Ecuador, fra gli obiettivi fissati per lo sviluppo è contemplato il recupero e la conservazione della natura, e il mantenimento di un ambiente sano e sostenibile (art. 276, p.to 4, cost.). L’impegno si sostanzia ulteriormente, ex art. 397, p.to 4, cost., nell’intangibilità delle aree naturali protette, per garantire la conservazione della biodiversità e il mantenimento delle funzioni ecologiche degli ecosistemi. L’ambiente è poi concepito alla stregua di elemento restrittivo del diritto a sviluppare attività economiche (che devono essere conformi alla responsabilità ambientale e sociale e al principio di solidarietà, ex art. 66, p.to 15, cost.) e del diritto alla proprietà privata, che assomma funzioni di ordine sociale e ambientale, del pari all’uso e all’accesso alla terra (artt. 66, p.to 26, e 282 cost.). La politica economica ecuadoriana, ai sensi dell’art. 283 cost., è finalizzata a «una relazione dinamica ed equilibrata fra società, Stato e mercato, in armonia con la natura; e ha per obiettivo garantire la produzione e la riproduzione delle condizioni materiali e immateriali che rendano possibile il buen vivir». L’equilibrio con la natura viene poi riproposto all’art. 284, p.to 4, cost., fra gli obiettivi della politica economica, per promuovere il «valore aggiunto con la massima efficienza, dentro i limiti biofisici della natura e del rispetto della vita e delle culture». L’art. 319 cost. individua varie forme di organizzazione della produzione in ambito economico, affidando allo Stato il compito di promuovere le modalità che assicurino il buen vivir e di disincentivare quelle che attentino ai diritti degli individui e della natura. In Bolivia, tra i fini e i compiti essenziali dello Stato figurano la promozione e la garanzia dell’uso responsabile e pianificato delle risorse naturali e la conservazione dell’ambiente, per il benessere delle generazioni attuali e future (art. 9, c. 6, cost.). La funzione ambientale (e sociale e culturale) è riconosciuta alle risorse idriche, che non possono essere oggetto di appropriazione privata né di concessione (art. 373, c. 2, cost.), e alle aree protette che costituiscono un bene comune (art. 385 cost.). Anche qui, al pari dell’Ecuador, si riconoscono diverse forme di organizzazione economica, sulle quali ricade l’obbligo di rispettare e tutelare l’ambiente (artt. 306 e 312 cost.). Lo Stato detiene la direzione e il controllo dei settori strategici dell’economia. Tra le sue funzioni è contemplata la promozione prioritaria della industrializzazione delle risorse naturali rinnovabili e non rinnovabili, nel rispetto e nella protezione dell’ambiente (art. 316, c. 6, cost.). Un impegno ripetuto anche all’art. 319, c. 1, cost. Queste disposizioni programmatiche fungono da cornice entro la quale fare convivere gli interessi della società e gli interessi della natura in un rinnovato patto solidaristico che, rispetto al passato, tiene in grande considerazione la salvaguardia ambientale. L’esigenza di rispettare l’ecosistema, precondizione della sopravvivenza umana, si collega strettamente anche al tema delle responsabilità (infra, § 5). 170 171 172 I diritti della natura 4. Le azioni popolari a salvaguardia dell’ambiente Negli ultimi anni l’importanza della giustizia ambientale è stata avvertita al punto che, ora, si notano maggiori aperture nella legittimazione attiva al fine di agevolare interventi preventivi e repressivi in questo settore. Le restrizioni che tuttavia vigono ancora in numerosi ordinamenti si giustificano con il timore che, in caso contrario, i giudici sarebbero innondati di ricorsi; o che soggetti non qualificati possano sottoporre casi infondati o strumentali per danneggiare la controparte; o sostenendo che si tratti di questioni di competenza del legislatore o dell’esecutivo; o che questo tipo di cause possa inibire lo sviluppo o comunque imputare costi aggiuntivi al settore economico (Pring, Pring, 2009: 33). In siffatte ipotesi, l’iniziativa generalmente spetta al pubblico ministero e al ministro dell’ambiente (in Italia, fino al 2006 era concesso alle associazioni ambientaliste di proporre, in caso di inerzia degli enti territoriali, le azioni risarcitorie per danno ambientale. A seguito di ricorsi puramente vessatori, il legislatore ha poi deciso di riconoscere loro solo un potere di denuncia, senza la possibilità di intervenire nel giudizio di risarcimento del danno. L’azione ora può essere promossa soltanto dal ministero dell’ambiente, ai sensi del decr. legisl. nr. 152 del 2006. Cfr. Maddalena, 2011: 10 s. Sulla proposta di introdurre l’azione popolare in Italia per tutelare l’ambiente, v. Settis, 2010: 304 ss.). Un’apertura allo standing si ravvisa negli ordinamenti che conferiscono tale facoltà alle associazioni ambientaliste ed eventualmente a singoli o gruppi di individui, a condizione che dimostrino di avere un interesse al ricorso (così in Regno Unito, Austria, Francia, Sudafrica, Filippine). Tale richiesta può rappresentare un serio ostacolo alla garanzia effettiva di accesso alla giustizia, del pari ad altri requisiti di difficile soddisfacimento, trattandosi della difesa di un diritto collettivo che incide, nella maggior parte dei casi, su gruppi indeterminati di persone. Una via ulteriore è contemplata in quegli ordinamenti (Austria, Grecia, Ungheria, Kenya, Costa Rica) che hanno istituito l’ombudsman ambientale o commissioni specializzate all’interno della struttura organizzativa dell’ombudsman (Pring, Pring, 2009: 38 s.; Bonine, 2003: 32 s.). La legittimazione attiva più ampia si registra laddove è contemplata l’azione popolare, strumento solitamente impiegato a garanzia della Serena Baldin 173 tutela di interessi diffusi o superindividuali di rilevanza costituzionale, come l’ambiente. Tale rimedio consente di promuovere un giudizio prescindendo dall’obbligo per il ricorrente di dimostrare un interesse personale e diretto nella causa. Mediante l’intervento del singolo, chiamato a esercitare alcune funzioni a difesa della legalità costituzionale, si valorizza il principio della democrazia partecipativa (Rolla, 2012: 104 s.). Non si tratta di un istituto molto diffuso. Senza pretesa di esaustività, l’actio popularis per le questioni ambientali è accolta in Spagna, Portogallo, Paesi Bassi, Estonia. Nell’area sudamericana si ritrova in Brasile (ove è esplicitato, ex art. 5, p.to 72, cost., l’esonero per l’attore dalle spese giudiziarie e dagli oneri di soccombenza, salvo che non sia comprovata la mala fede), Perù, Colombia e Costa Rica (Rego Blanco, 2007; Siqueira, 2010; Ovalle Favela, 2003: 597 ss.; Ponce Nava, 2012). Pure in Sudan e in Kenya è prevista questa forma di accesso alla giustizia ambientale. Nella nuova costituzione kenyota del 2010, in particolare, si specifica all’ultimo capoverso dell’art. 70 che il ricorrente non deve dimostrare che qualcuno abbia subito perdite o danni (Mwenda, Kibutu, 2012: 85). Ora questo strumento si rinviene anche in Ecuador e Bolivia. Prima di definire meglio i contorni dell’actio popularis in tali ordinamenti giova ricordare che il fulcro della teoria di Stone verte sul riconoscimento della soggettività della natura, da cui discendono due ulteriori profili: la rappresentanza in giudizio conferita a chiunque e l’eventuale risarcimento dei danni a esclusivo vantaggio di Madre Terra. In Ecuador, ai sensi dell’art. 71 cost., tutte le persone, comunità, popoli o nazionalità possono richiedere alle autorità pubbliche la piena applicazione dei diritti della natura. La garanzia processuale si concreta in una azione popolare denominata acción de protección sollevabile, anche da chi non sia direttamente danneggiato, davanti al giudice di prima istanza del luogo dove è avvenuta la lesione del diritto costituzionale (Montaña Pinto, 2012: 122). Nello specifico, l’istituto ha per oggetto la tutela diretta ed efficace dei diritti costituzionali violati mediante atti od omissioni di qualsiasi autorità pubblica non giurisdizionale; da politiche pubbliche che si suppone privino del godimento o dell’esercizio del diritto costituzionale; e da soggetti specifici, a determinate condizioni (art. 88 cost.). L’acción de protección è attivabile, ai sensi dell’art. 40 della Ley Orgánica de Garantías Jurisdiccionales y Control Constitucional (Logjcc) I diritti della natura Serena Baldin del 2009, qualora non vi sia altro meccanismo di difesa giudiziale adeguato ed efficace per tutelare il diritto violato. Questo significa che il diritto in questione non può trovare salvaguardia in una delle altre sei garanzie giurisdizionali previste dalla costituzione o nelle azioni specifiche contemplate da fonti ordinarie (Andrade Quevedo, 2013: 114; Montaña Pinto, 2012: 105). L’immediatezza di giudizio è assicurata da una procedura molto celere (Storini, Navas Alvear, 2013: 84 ss.), con l’obiettivo di tutelare i diritti costituzionali e di dichiarare la conseguente riparazione integrale dei danni causati dalla lesione (Andrade Quevedo, 2013: 115; Montaña Pinto, 2012: 107, 126 ss.). La Logjcc sembrerebbe restringere il contenuto del disposto di rango superprimario sotto il profilo della legittimazione attiva, laddove si riferisce a soggetti o a gruppi lesionati o minacciati di lesione (art. 9), risultando in contrasto con la norma che impone la sola prova della violazione di un diritto costituzionale e non di un interesse diretto o legittimo del ricorrente (Prieto Méndez, 2013: 175 ss.; Storini, Navas Alvear, 2013: 120; Montaña Pinto, 2012: 120 s.). Risale al 2011 la prima sentenza a beneficio della natura, nella fattispecie del fiume Vilcabamba, resa dalla corte provinciale di Loja, sezione penale. Il profilo della legittimazione attiva degli attori non viene neppure considerato, dato che essi esercitano il «principio di giurisdizione universale» a favore del natura. Il passaggio della sentenza conferma in questo modo la lettura estensiva del precetto che delinea una azione popolare. Il collegio statuisce inoltre che l’azione di protezione di cui all’art. 88 cost. è l’unico rimedio processuale idoneo ed efficace per porre fine e rimediare prontamente a un danno ambientale; che il principio precauzionale va interpretato in termini di probabilità, e non di certezza del danno; che l’onere della prova relativo alla dimostrazione dell’impatto ambientale spetta alla controparte in osservanza dell’art. 397, c. 1, cost. Ancora, la corte afferma che il criterio per determinare i danni subiti dalla natura è la portata intergenerazionale, ossia quei danni che per la loro ampiezza si ripercuotono anche sulle generazioni future; e che il bilanciamento di interessi contrastanti (come il diritto della natura versus il diritto allo sviluppo) va risolto applicando il principio di proporzionalità. In merito, la corte specifica che sovente si tratta di conflitti apparenti, come nel caso di specie, in quanto i diritti della natura sono concorrenti con i diritti umani fondamentali quali il diritto alla salute, alla vita degna e a vivere in un ambiente sano. La risposta dei giudici sembra mettere a tacere qualsiasi tentativo di individuare criteri olistici, ossia differenti dai criteri applicati in precedenza nelle cause ambientali, che rappresentino sul versante giudiziale la virata biocentrica dell’ordinamento. Ciò che importa sottolineare attiene agli effetti della sentenza, che coronano la teoria di Stone. Dalle cause sollevate ex art. 71 cost., i promotori del ricorso, quantunque danneggiati, non possono trarre alcun beneficio. Questo procedimento è a esclusivo vantaggio della natura (Suárez, 2013). In Bolivia, la rappresentanza in giudizio è espressamente sancita all’art. 34 cost.: «qualsiasi persona, a titolo individuale o in rappresentanza di una collettività, può promuovere azioni legali a salvaguardia dell’ambiente». Il rimedio giudiziale previsto è la acción popular, esercitabile contro gli atti o le omissioni delle autorità o dei singoli o delle collettività, che violino o minaccino di violare i diritti e gli interessi collettivi, fra i quali è compreso l’ambiente (art. 135 cost.). L’azione si può sollevare nel corso del periodo in cui sussista la lesione o la minaccia ai diritti e agli interessi collettivi. Non è necessario esperire altra via giudiziale o amministrativa esistente (art. 136 cost.). Il carattere intertemporale della misura implica che, una volta cessata la violazione o la minaccia, questa non sia più attivabile. E il principio di sussidiarietà è esplicitamente escluso in quanto tutto il procedimento si basa sulla celerità per una salvaguardia tempestiva del diritto. L’istituto boliviano ha una triplice finalità: preventiva, evitando che la minaccia attenti ai diritti e agli interessi diffusi; sospensiva, mediante la cessazione degli effetti prodotti dall’atto lesivo; riparatoria, con l’obbligo del ripristino delle condizioni precedenti alla lesione (Vargas Lima, 2012: 266 ss.; sent. cost. nr. 1974/2011-R). Ai sensi dell’art. 71 del Código Procesal Constitucional del 2012, se il giudice o il tribunale concede la tutela, ordina l’annullamento dell’atto o il compimento del dovere omesso; e può stabilire l’esistenza di indizi di responsabilità civile o penale. Con riguardo alla legittimazione attiva, nella Ley Marco de la Madre Tierra y desarrollo integral para Vivir Bien, nr. 300 del 2012, si ravvisa una antinomia col dettato costituzionale, analoga a quella individuata in Ecuador. L’art. 39, c. II, della legge statuisce che solamente chi dimostri di avere 174 175 I diritti della natura Serena Baldin un interesse diretto possa agire a difesa dell’ambiente (Pérez Castellón, 2013: 5). Oltre a questa illegittimità, rivelatrice dell’atteggiamento preclusivo del legislatore nei riguardi dell’azione popolare nel settore ambientale, un altro dato smorza la portata dell’intero impianto normativo boliviano. Madre Terra non è la beneficiaria diretta ed esclusiva della pronuncia. Il precetto costituzionale lascia chiaramente intendere che il rimedio è affidato ai singoli (soggetti giuridici) affinché tutelino l’ambiente (oggetto giuridico). Gli effetti positivi ricadranno su tale bene solo in via indiretta. Salta dunque l’intelaiatura che fa perno sulla soggettività di Madre Terra, confermando l’adesione alla salvaguardia ambientale nella sua declinazione classica. L’ideale teorico è attuato integralmente solo in Ecuador. L’eco delle proposte elaborate da Stone e da Stutzin si coglie infine nella previsione di istituire la Defensoría del ambiente y la naturaleza in Ecuador (art. 399 cost.) e la Defensoría de la Madre Tierra in Bolivia (art. 10 della Ley de derechos de la Madre Tierra), quali omologhi dell’ombudsman, e nella istituzione di un fondo pubblico a favore della natura per amministrare e assegnare risorse finanziarie in modo efficiente, trasparente e opportuno, al fine di realizzare i programmi e le attività di mitigazione ambientale e adattamento ai cambiamenti climatici (in Bolivia, ex art. 57, c. II, della Ley Marco). ciocchi, in questo volume). Del pari, è un mezzo politico per esprimere la rinnovata attenzione verso lo sfruttamento indiscriminato e il degrado dell’ambiente. La risposta è no se si considerano gli effetti giuridici di tale scelta. L’indirizzo cosmocentrico impone di assegnare agli interessi economici e alle esigenze sociali che ruotano attorno ai beni della natura un peso inferiore a quello attuale. Non significa necessariamente dover giungere all’estremo di affermare la pariordinazione giuridica fra ecosistemi ed esseri umani. Perseguire un giusto equilibrio vuol dire attribuire un rilievo finora negato al nostro pianeta, che richiede in primo luogo un rafforzamento sotto il profilo etico e un adeguamento della normativa ambientale in svariati paesi. E questo vale anche seguendo la prospettiva antropocentrica. L’attuale approccio all’ambiente implica l’uso consapevole e responsabile delle sue ricchezze, nell’accettazione che lo sviluppo sostenibile del XXI secolo non comprenda più la crescita illimitata e l’idea del vivere meglio radicata in Occidente. Nelle pagine anteriori si è cercato di dimostrare che le pretese di Madre Terra non sono distinte dalla sfera del diritto ambientale tanto da esigere la nascita di un nuovo soggetto giuridico. È la lettura integrale dei disegni costituzionali, che puntano al perseguimento del buen vivir, a dover garantire una interpretazione a maglie più strette delle norme in modo da calibrare gli interessi economici e sociali verso una sostenibilità attenta alle esigenze ecologiche. L’artificio derivante dalla teoria di Stone, poi, il cui solo risultato è di distinguere chi tragga vantaggio diretto da un ricorso giudiziale, non pare incisivo. Trattandosi della difesa di un bene collettivo, la linea divisoria fra comunità umana ed ecosistema è così sottile che la natura, quand’anche non promuova un’azione popolare, riceve comunque dei benefici dall’eventuale decisione favorevole. In termini ancora più netti si esprime Jaria i Manzano (2013: 58, 64), sostenendo che tale riconoscimento non apporti nulla di nuovo e che invece, in questa fase di crisi di civilizzazione della cultura dominante, bisognerebbe prendere più seriamente esempio dal modus vivendi delle culture indigene. La tendenza più interessante che sembra affiorare dall’ambito processualistico è un’altra: l’espansione dell’actio popularis per salvaguardare l’ambiente. Sebbene le probabilità che i singoli si facciano promotori di cause giudiziali siano molto più basse rispetto all’intervento di associa- 176 5. Conclusioni La cittadinanza ecologica andina è il prodotto di molteplici influssi giuridici che, in quest’ambito culturale particolarmente recettivo alle istanze olistiche, sono germogliati nel modo descritto. Serve, alla luce di quanto emerso dall’indagine, sostenere la soggettività giuridica della natura? Sì e no. Sì nel contesto andino (e neozelandese), trattandosi di un modo per affermare il rispetto della cultura indigena mediante la valorizzazione dell’ideale biocentrico. Il valore simbolico della scelta è indiscutibile. Riconoscere la natura significa incorporare nell’ordinamento la visione olistica nell’ottica interculturale elevata a principio informatore dello Stato e intesa come «condizione di sostenibilità del multiculturalismo» (Pi- 177 I diritti della natura Serena Baldin zioni impegnate nella tutela ambientale, quello che importa è l’accento sulle responsabilità di ciascun individuo. I doveri di solidarietà intergenerazionale non si esauriscono nell’operato degli organi pubblici, estendendosi pure ai singoli e alle comunità, mediante la loro partecipazione alla gestione e alla difesa del mondo non umano. Una via per intendere il rapporto etico tra gli esseri umani e la natura più consona, a modesto avviso di chi scrive, rispetto al linguaggio dei diritti, che pure è in ascesa, dapprima indirizzato solo agli animali (in Germania, Svizzera, India e bozza della costituzione islandese) e ora alla natura nel suo complesso. Il costituzionalismo della responsabilità, ravvisabile nella costituzione polacca, in quella svizzera, e nella carta dell’ambiente approvata con legge costituzionale dalla Francia nel 2005, si fonda sul rispetto e sulla cura dell’ambiente (Jaria i Manzano, 2013: 75). In Ecuador, fra i doveri e le responsabilità di ognuno sono contemplati il rispetto dei diritti della natura, la conservazione di un ambiente sano e l’uso delle risorse in modo razionale e sostenibile (art. 83, nr. 6, cost.). A ciò si aggiungono gli obblighi dello Stato, e in particolare il dovere di disciplinare l’uso e l’accesso alla terra soddisfacendo la funzione sociale e ambientale (art. 282 cost.). La responsabilità per la tutela ambientale ricade anche in capo alle amministrazioni periferiche, le quali, per attuare i piani di sviluppo sociale e di gestione sostenibile dell’ambiente, possono del pari allo Stato espropriare beni e dichiarare zone riservate o soggette a controllo per lo sviluppo futuro (artt. 323, 376 cost.). In Bolivia, tutte le persone hanno il dovere di difendere l’ambiente affinché sia adeguato allo sviluppo degli esseri viventi (art. 108, nr. 16, cost.). Lo Stato e la popolazione devono conservare, proteggere e utilizzare in modo sostenibile le risorse naturali e la biodiversità, così come mantenere l’equilibrio ambientale (art. 342 cost.). Si tratta di passaggi che alimentano la dimensione politico-istituzionale dello sviluppo sostenibile. Questo approccio coinvolge i poteri pubblici da un lato e le componenti sociali dall’altro, dato che le istanze in discussione possono trovare soddisfazione solo se dirette anche alle singole comunità (Cordini, 2007: 503). Il nuovo ecodiritto di Ecuador e Bolivia deve ancora dimostrare le sue potenzialità di successo, misurandosi con i meccanismi di governance statali e transnazionali e con i forti poteri economici che nella natura vedono solo una preziosa risorsa da sfruttare indebitamente. In questo percorso in salita, bisogna anche ricordare che si sta trattando di paesi in via di democratizzazione e di modernizzazione (Somma, 2012: 1 ss.), per cui i loro traguardi risultano ancora più ambiziosi. Il modello di sostenibilità ambientale dei paesi andini è indubbiamente significativo per l’enfasi posta sulle responsabilità, sulle norme programmatiche sopra indicate (§ 3) e sugli istituti di partecipazione che garantiscono alla cittadinanza di venire consultati e di poter formulare proposte sui temi ambientali (spec. artt. 57, p.to 7, e 97 cost. Ecuador; art. 30, p.to 15, cost. Bolivia). Modi per manifestare l’adesione all’ética ambiental exigente, come con l’istituzione a Quito, nel gennaio 2014, del Tribunale etico permanente per i diritti della natura e della Madre Terra, una piattaforma di discussione che si propone di perseguire la giustizia globale di fronte ai crimini contro le forme di vita facendosi portavoce mondiale delle questioni ecologiche. Nella prima seduta, presieduta da Vandana Shiva e composta, fra gli altri, da Cormac Cullinan e Alberto Acosta, si è discusso delle gravi violazioni della Dichiarazione universale dei diritti di Madre Terra già perpetrate (es. i danni provocati da Chevron-Texaco nella foresta amazzonica dell’Ecuador; il disastro della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel golfo del Messico) e dei pericoli derivanti da progetti estrattivi su vasta scala (es. il progetto di estrazione di petrolio nel parco nazionale Yasuní-ITT in Ecuador; la minaccia alla Grande barriera corallina in Australia da parte di un’industria carbonifera; cfr. Viale et al., 2014). Il riconoscimento della soggettività giuridica della natura si sta diffondendo a livello globale soprattutto grazie all’attività di avvocati ambientalisti e di studiosi di varia provenienza. Ecuador e Bolivia stanno inoltre alimentando i dibattiti internazionali sullo sviluppo sostenibile, mettendo in luce un laboratorio di idee da cui scaturisce, e potrà ancora scaturire, un’interessante fenomeno di circolazione di formanti giuridici. In conclusione, piace ricordare la legge del Distretto federale del Messico, ove i diritti della natura sono stati declinati nei termini di responsabilità umane; una soluzione alternativa che potrebbe essere accolta più agevolmente in altri sistemi giuridici. 178 179 I diritti della natura Serena Baldin Andrade Quevedo K. (2013), La acción de protección desde la jurisprudencia constitucional, in Benavides Ordóñez J., Escudero Soliz J. (coord.), Manual de justicia constitucional ecuatoriana, CEDEC. Andreozzi M. (2011), Verso una prospettiva ecocentrica. Ecologia profonda e pensiero a rete, LED. Bagni S. (cur.) (2013), Dallo Stato del bienestar allo Stato del buen vivir. 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The contribution suggests that this recognition does not actually improve environmental protection, and that the truly innovative solutions proposed by Ecuador and Bolivia must be sought in the balance between economic interests and ecological interests, in the introduction of the actio popularis, and in the emphasis on everyone’s responsibility in safeguarding the ecosystem. Keywords: Sustainability, Environmental law, Rights of Nature, Actio popularis. 183 Natura, buen vivir e razionalità neoliberale di Luigi Pellizzoni18* SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Buen vivir e natura: una “archeologia” in corso. – 3. Realismo, costruzionismo e co-produzione. – 4. Nuovo materialismo e ontologia della natura. – 5. Neoliberalismo e regolazione della natura. – 6. Conclusione. 1. Introduzione Il buen vivir implica non solo la rivendicazione dei diritti dei popoli indigeni sulla terra che abitano ma anche una concezione della natura diversa da quella occidentale. Natura e cultura, ambiente e società sono poste in una relazione di mutua presupposizione o continuità, il che sembra iscrivere di diritto il buen vivir alla causa della sostenibilità (ecologica, economica e sociale). La crescita di interesse per il tema sembra offrire, anche fuori dal mondo latinoamericano, una alternativa allo sfruttamento della natura e delle comunità umane che la globalizzazione neoliberale sta portando al parossismo. Ma le cose stanno davvero così? Dubbi sono già stati sollevati al riguardo. Qui affronto la questione da una prospettiva specifica: la relazione tra buen vivir, teorie post-costruttiviste della natura e razionalità neoliberale. Ciò che si osserva è una tendenza generalizzata al superamento tanto del realismo tradizionale di matrice cartesiana quanto del costruttivismo linguistico di matrice kantiana. Cosa questo comporti non è però di evidenza immediata. Il ragionamento si svolge nel modo seguente. Da una disamina del concetto emerge l’opportunità di guardare ai fondamenti teorici del buen vivir, come «tradizione inventata» (Hobsbawm, 1994) che legge la cul* Professore associato di Sociologia dell’ambiente e del territorio nell’Università di Trieste. Natura, buen vivir e razionalità neoliberale Luigi Pellizzoni tura indigena alla luce degli sviluppi più recenti della teoria sociale. Al riguardo mi concentro sul “nuovo materialismo”, nella declinazione femminista, cui è sottesa l’idea che una prassi emancipativa efficace sia oggi strettamente legata a una decostruzione delle ontologie classiche, realiste e costruttiviste. Le nuove ontologie si basano tuttavia in misura notevole sulle concettualizzazioni della natura prodotte dalla tecnoscienza, a loro volta in sintonia con la razionalità neoliberale. Il dubbio che si profila, quindi, è che l’approccio post-costruttivista punti a un bersaglio sempre meno attuale, senza prendere nota del proprio allineamento con la visione della natura che soggiace alle politiche neoliberali. Un processo di inclusione e svuotamento della critica si è avuto, in un recente passato, con l’affermazione del post-fordismo. C’è quindi da chiedersi se non stia oggi avvenendo qualcosa di simile. Il buen vivir, tuttavia, mantiene aspetti promettenti, su cui mi soffermo nella conclusione. in quanto radicato nel qui e ora. Non a caso si fa notare la connessione tra buen vivir e il tema recente della decrescita (Agostino, Duebgen, 2012), per esempio in merito al valore della convivialità (Latouche, 2007). Tra i due concetti vi sono però importanti distinzioni, in particolare riguardo alla crescita, oggetto di una condanna radicale nel secondo caso e condizionale nel primo (Garcia, 2013). La costituzione boliviana, per esempio, coniuga buen vivir e industrializzazione nel quadro di una equa distribuzione dei benefici che ne derivano. E c’è chi osserva che una concezione troppo restrittiva di buen vivir pecca di ingenuità e rischia di ostacolare le battaglie per una maggiore equità e contro la dipendenza economica (Lambert, 2011). In sintesi, il buen vivir è un concetto in via di elaborazione e non privo di zone d’ombra (Baldin, 2013). Al centro della sfida allo sviluppismo capitalista sembra stare, in ogni caso, l’affermazione di una differente ontologia dell’umano e del non-umano. È sulle implicazioni di questa ontologia che vorrei concentrare l’attenzione. Che il buen vivir giochi una partita anche, e forse innanzitutto, di carattere ontologico è sottolineato, tra gli altri, da Arturo Escobar (2010a). A suo giudizio l’America Latina è oggi al centro di processi controegemonici tesi al superamento della società liberale fondata sulla proprietà privata e la democrazia rappresentativa. Fulcro di questi processi è l’attivazione politica di ontologie indigene di carattere relazionale, dunque opposte a quelle della modernità liberale, le quali si basano sulla contrapposizione tra natura e cultura e tra individuo e comunità. In Bolivia, Ecuador, Colombia, Perù, Guatemala, Messico, siamo di fronte a “lotte ontologiche”, nel senso di una de-naturalizzazione di tali dualismi a favore di prospettive secondo cui esistono solo soggetti in relazione, incluse le relazioni tra umani e non umani. La costituzione ecuadoriana attribuisce diritti alla Pachamama, la Madre Terra. Ma la Pachamama non è riconducibile al quadro ecologista tradizionale, che si limita per lo più a chiedere un’estensione dei classici diritti liberali. «La nozione è impensabile in base a qualsiasi prospettiva moderna, entro cui la natura è vista come oggetto inerte di appropriazione umana» (Escobar, 2010a: 39). L’idea di Pachamama è sottesa alle lotte ecologiche in corso nelle aree andine e amazzoniche contro dighe, estrazioni petrolifere e minerarie, coltivazioni transgeniche e deforestazione; lotte che «mobilitano enti non umani (montagne, acqua, terra, perfino il petrolio) come entità senzienti, ossia 186 2. Buen vivir e natura: una “archeologia” in corso Il buen vivir è un concetto complesso. La nozione ecuadoriana di sumak kawsay o quella boliviana di suma qamaña esprimono l’idea di una pienezza di vita che include aspetti materiali e spirituali ed è possibile solo entro una comunità che unisce persone e ambiente naturale. Comunità politica e cittadinanza si estendono al mondo non umano (animali, piante, ecosistemi, spiriti), in quanto provvisto di volontà e sensazioni proprie. L’idea di una fusione indissolubile tra individuo, comunità e ambiente si contrappone al dualismo occidentale tra natura e cultura, rifiutando una relazione puramente strumentale con il mondo biofisico. Benché queste idee derivino dalle culture indigene, esse sono di elaborazione recente e in continua evoluzione (Gudynas, 2011). Il buen vivir appartiene alla famiglia delle tradizioni inventate: risposte a problemi attuali che assumono la forma di riferimenti al passato. Un procedimento “archeologico” nel senso di Foucault (2000), per il quale ciò che è in gioco nella ricerca di una arché non è l’individuazione di un’identità o verità originaria, metastorica o metafisica, ma la comprensione di ciò che accade oggi. Il buen vivir, dunque, può essere non- o anti-moderno nel senso di una contrapposizione con la tradizione occidentale, ma è modernissimo 187 Natura, buen vivir e razionalità neoliberale Luigi Pellizzoni attori nell’arena politica» (ibid.: 40). Escobar lega esplicitamente l’ontologia relazionale del buen vivir alla recente svolta post-costruttivista nelle scienze sociali. A suo parere (Escobar, 2010b), dopo l’ecologia politica degli anni ‘70 (basata sull’incontro tra ecologismo e economia politica di derivazione marxiana) e quella tra gli anni ‘80 e ‘90 (imperniata sulle questioni epistemologiche sollevate dal costruzionismo e l’anti-essenzialismo post-strutturalista), siamo ora a una terza generazione, in cui si consuma una vera e propria “svolta ontologica” nella teoria sociale, caratterizzata da un’inedita combinazione di antiessenzialismo e realismo in direzione di una flat ontology: a gerarchie, trascendenze, strutture e dualismi (natura/cultura, mente/corpo, soggetto/ oggetto, realtà/rappresentazione, materia/informazione, epistemologia/ ontologia, ecc.) si sostituisce un’immanenza orizzontale e contingente: pratiche, network, ibridazioni, assemblaggi tra entità umane e non umane, organiche e inorganiche, talvolta anche soprannaturali. La domanda è allora se questo tipo di ontologia costituisca davvero un’alternativa alla logica appropriativa e competitiva neoliberale. Escobar, come molti altri, sembra dare per scontata una risposta affermativa, in base all’assunto che tale logica si basa sul tradizionale naturalismo della modernità occidentale. Ma siamo sicuri che le cose stiano davvero così? caratterizzato a lungo il dibattito nelle scienze sociali, anche riguardo alle implicazioni politiche dell’una o l’altra opzione (meglio rivelare assunti e interessi nascosti dietro pretese oggettività o ancorare a fatti incontrovertibili la critica delle ingiustizie radicate nell’ordine sociale?). A partire dagli anni ‘90, tuttavia, la diatriba è stata progressivamente rimpiazzata da quello che Sheila Jasanoff definisce «idioma della co-produzione». L’idea di base è che «il modo in cui conosciamo e rappresentiamo il mondo (natura e società) è inseparabile dal modo in cui decidiamo di viverci» (Jasanoff, 2004: 2); detto altrimenti, che verità e realtà, epistemologia e ontologia, sono l’esito contingente di assemblaggi di entità eterogenee: persone, teorie, strumenti di indagine, entità materiali di ogni sorta. Questa traiettoria evolutiva – dove i limiti sempre più acutamente percepiti della decostruzione del discorso, come approccio analitico e pratica militante, spingono alla ricerca di nuovi fondamenti ontologici che evitino tuttavia di ricadere in un realismo tradizionale non meno deleterio su entrambi i fronti – è riscontrabile in modo sempre più marcato in numerosi campi: dai science and technology studies alla filosofia, dalla sociologia alla geografia umana. È proprio questo risorgente materialismo dell’incontro mutevole tra agency umana e non umana ciò che, come abbiamo visto, Escobar pone alla base dell’ecologia politica di terza generazione, quindi anche della tradizione inventata del buen vivir. 188 189 3. Realismo, costruzionismo e co-produzione 4. Nuovo materialismo e ontologia della natura In Occidente, l’ontologia della natura sovrappone tradizionalmente tre aree semantiche (Williams, 1983; Pellizzoni, Osti, 2008): natura come tutto ciò che esiste; come ciò che si oppone a cultura, agli artefatti umani; come carattere fondamentale degli enti (vedi nozione di “natura umana”). Quanto alla conoscenza della natura, la modernità è attraversata dal dissidio tra la versione cartesiana e quella kantiana: entrambe dualistiche (mente e corpo, o materia, sono reami distinti), ma divise sul punto se la mente abbia accesso cognitivo alla realtà materiale come tale, o soltanto alla realtà fenomenica, ossia la realtà materiale filtrata dalle nostre capacità percettive e categorie cognitive. Filtro che, rispetto agli a-priori kantiani, nel corso del Novecento assume sempre più carattere sociale, o meglio linguistico-culturale. Da qui la diatriba realismo-costruzionismo che ha Il nuovo materialismo è tuttavia una realtà a sua volta frastagliata e in piena evoluzione. Qui mi limito a considerare una delle declinazioni più interessanti: quella femminista. Nell’introdurre una collezione di saggi dedicati al nuovo materialismo, Diana Coole e Samantha Frost (2010: 3) osservano che «ovunque si guardi … troviamo richieste sparse ma insistenti di approcci d’analisi più materialisti e nuovi modi di pensare la materia e i processi di materializzazione». Le basi di questo movimento sono in sostanza due. Primo, i recenti sviluppi scientifici rendono impossibile concepire la materia nelle forme ispirate dalle scienze classiche, il che impedisce ai teorici dei processi culturali di comprenderle e discuterle. In fisica, nelle scienze della vita, nella biomedicina e altrove i Natura, buen vivir e razionalità neoliberale Luigi Pellizzoni fenomeni materiali sono sempre più concettualizzati in termini di confini porosi. Le distinzioni tra fisico e biologico, naturale e tecnologico, si confondono. Il mondo inorganico, sempre più caratterizzato in termini di auto-organizzazione, si tinge di connotazioni vitalistiche, mentre la vita assume caratteri dematerializzati: informazione, testualità, codificazione (Keller, 2007 e 2011). Secondo, da ciò derivano questioni etiche e politiche di fronte alle quali l’orientamento costruttivista è inadeguato. Il femminismo ha sfidato con successo gli appelli alla fatticità e prescrittività della natura. Quest’ultima, tuttavia, non è necessariamente «un serbatoio di investimenti politici conservatori» (Kirby, 2008: 8). La materia è tutto tranne che «inerte, stabile, concreta, immodificabile e resistente al mutamento storico-sociale» (Hird, 2004: 224). Essa è al contrario attiva, inventiva, recalcitrante, creativa. La materia «non è una cosa ma un fare» (Barad, 2003: 822); un divenire incessante e «vibrante» (Bennett, 2010); una fluidità e plasticità inafferrabile. Anche testi e segni possono essere riconfigurati come materiali da un punto di vista sostantivo o ontologico. «La vita stessa è una codificazione creativa» (Kirby, 2008: 9), una continua riscrittura di sé. Ontologia ed epistemologia non sono più distinguibili poiché il mondo viene conosciuto attraverso pratiche concrete, che incontrano una materialità attiva. In questo contesto, più che di co-produzione di conoscenza e mondo si deve parlare di impossibilità di distinguere chi osserva e chi è osservato, parole e cose. Per l’agential realism di Karen Barad (2007), ad esempio, abbiamo non interazioni tra entità ontologicamente definite ma intra-azioni tra enti in perenne divenire. Ciò che esiste sono solo i fenomeni, quali relazioni ontologicamente primitive, senza relata preesistenti; solo cose e non rappresentazioni di cose. Di conseguenza non regge nemmeno la critica del discorso o della cultura, a lungo ritenuta terreno cruciale della lotta per l’emancipazione. Invece della consueta, e di fatto inconcludente, disamina di errori e controversie occorre assumere posizioni “affermative”; puntare su concretezza e corporeità come luoghi di resistenza, creatività e speranza, eticamente rilevanti in quanto esito di scelte che materializzano stati particolari della realtà (Grosz, 2005). È il corpo, e non il linguaggio, a essere dotato del massimo potenziale emancipativo perché «il regno della materia è irriducibile a quello dei discorsi e gli artefatti culturali non sono arbitrari rispetto alla natura» (Coole, Frost, 2010: 27). Il nuovo materialismo femminista (ma lo stesso vale per altre declinazioni) tende quindi ad attribuire precedenza alla vitalità della materia, alla sua potenza creatrice, che precede, produce e include i processi di significazione. L’operazione non è tuttavia priva di rischi. Uno è di abbandonare troppo frettolosamente la critica del discorso, soprattutto se si riflette che, fuori da contesti particolari, il costruzionismo è tutt’altro che egemonico. Le modalità cambiano, ma la naturalizzazione come pattern culturale è tutt’altro che superata (McNeil, 2010). Tra l’altro, nel concreto dei conflitti sul corpo e la natura, realismo e costruzionismo tendono a perdere di rilevanza come categorie capaci di distinguere posizioni intellettuali e sociali, divenendo piuttosto mosse tattiche scelte di volta in volta dagli attori in campo: industriali e ecologisti, governi e oppositori (Pellizzoni, 2011). La diatriba sulla sussistenza e l’origine antropica del cambiamento climatico è emblematica al riguardo (Freudenburg et al., 2008). Altro rischio è di acquisire acriticamente le immagini della natura fornite dall’avanguardia scientifica. Nello sforzo di superare le secche della decostruzione linguistica si tende a trascurare il carattere “artefatto” degli esperimenti e la natura consensuale delle evidenze che vi si riscontrano (Stengers, 2000). Così come nell’attribuire testualità alle cose o ontologia ai segni – è il caso della decodificazione e ricodificazione chimica espressa dai batteri, che autrici come Kirby (2008) leggono in termini di abilità linguistica e capacità di reinventare se stessi – vi è la tendenza a slittare dalla metafora o dal modello esplicativo all’ontologia dei processi stessi (Pinch, 2011). 190 191 5. Neoliberalismo e regolazione della natura Ma c’è qualcosa di ancora più rilevante per il nostro ragionamento sul buen vivir come “archeologia” post-costruttivista del rapporto uomonatura. Il carattere inevitabilmente metaforico e consensuale delle nuove descrizioni della materia attira l’attenzione sul contesto in cui esse si vanno sviluppando. Se concetti e prassi scientifiche prendono forma solo entro quelli che Ludwik Fleck (1983) chiama “stili di pensiero”, ossia gli orizzonti di senso che gli scienziati condividono con le cerchie sociali più ampie in cui sono inseriti, dobbiamo interrogarci sulla Weltanschau- Natura, buen vivir e razionalità neoliberale Luigi Pellizzoni ung odierna. Da trenta e più anni stiamo assistendo a una variegata ma generalizzata trasformazione sociale e culturale imperniata sull’ideologia neoliberale (Brenner et al., 2010; Baccaro e Howell, 2013). Gli autori marxisti parlano di «neoliberalizzazione della natura» riferendosi a una rinnovata fase di accumulazione del capitale: attraverso strumenti parzialmente inediti (che combinano potere statale e forme di regolazione indiretta e diffusa, la cosiddetta governance), è in atto un poderoso processo di privatizzazione e mercificazione del mondo biofisico, non dissimile da quanto è avvenuto in altre epoche (Harvey, 2003; Castree, 2008). Tuttavia, se guardiamo a un paio di esempi, ci rendiamo conto che in ballo c’è qualcosa di più. Prendiamo i carbon markets, i mercati delle emissioni di CO2, promossi dal Protocollo di Kyoto (1997). L’idea, com’è noto, è che si fissa un tetto alle emissioni e si distribuiscono “diritti a inquinare”, che possono essere poi comprati e venduti. La ricerca dell’efficienza economica dovrebbe quindi spingere ad adottare gradualmente soluzioni tecniche meno impattanti. Senza entrare nel merito dei risultati (deludenti) fin qui ottenuti, notiamo che punto cruciale del meccanismo è che la riduzione del CO2 prodotto in un dato luogo del pianeta è considerata equivalente alla riduzione di un altro gas serra emesso altrove, e ciò in base a un tasso di conversione stabilito dall’International Panel on Climate Change e definito global warming potential (Gwp). Per esempio, il Gwp del trifluorometano (Hfc-23) è fissato in 11.700, quindi una tonnellata di Hfc-23 corrisponde a 11.700 tonnellate di CO2. Un’industria italiana può così decidere di ridurre le sue emissioni di CO2 o comprare crediti venduti da una fabbrica che, da qualche parte nel mondo, sta riducendo l’Hfc-23. Prendiamo adesso i brevetti biotecnologici. Un tempo non erano consentiti, in base all’assunto che l’ibridazione non presenta i necessari requisiti di novità, inventività e applicabilità industriale, posto che il materiale biologico si riproduce, tra l’altro in modo non riducibile a uno schema fisso. Ma nel 1980, la corte suprema statunitense ha sentenziato che un batterio geneticamente modificato è brevettabile quale “composizione di materia” di carattere innovativo (poiché in tale forma non è disponibile in natura), la cui applicabilità industriale risiede nell’identificazione della sua specifica funzione191. Ecco qui due esempi lampanti di neoliberalizzazione della natura, nel senso di estensione della privatizzazione e mercificazione: gas serra e batteri diventano oggetto di appropriazione e compravendita. Tuttavia c’è dell’altro. Il Gwp è un’astrazione (funziona da mezzo di scambio come la moneta) ma anche qualcosa che si suppone avvenga effettivamente nell’atmosfera, o meglio un processo o un’entità fisica il cui concretizzarsi si vuole evitare. Nel caso del brevetto su una sequenza genetica, identificare la sua funzione significa capire la biochimica della proteina che un gene produce e come ciò conduce a un tratto specifico dell’organismo. Il gene ha quindi uno status ambiguo, al tempo stesso entità materiale e informazione. In effetti, come si evince anche dalla giurisprudenza in materia, il brevetto finisce per coprire tanto l’informazione genomica quanto il materiale fisico (Dna) e quindi l’organismo che incorpora tale informazione. Organismo, tra l’altro, diverso da quelli “naturali” (e quindi protetto da un diritto di proprietà) ma anche “sostanzialmente equivalente” a questi ultimi (e dunque non passibile di regolamentazione specifica). In breve, Gwp e brevetti biotecnologici ci pongono di fronte a entità ontologicamente indefinite o oscillanti tra materiale e simbolico, reale e virtuale, costrutto epistemico e realizzazione concreta, differenza ed equivalenza (Pellizzoni, 2011). È questo uno sviluppo puramente endogeno della ricerca e della regolazione tecnoscientifica? È lecito dubitarne. L’indeterminazione ontologica, infatti, è profondamente radicata nella razionalità neoliberale, per la quale è la gestione dell’incertezza e non il calcolo del rischio ciò che sta alla base della creatività imprenditoriale, la quale richiede intuito, flessibilità, anticipazione, giudizio esperienziale (O’Malley, 2004). L’indeterminazione, cioè, non è prospettata come angosciante e paralizzante ma come liberatoria, poiché riduce limiti e costrizioni aprendo spazi d’azione potenzialmente illimitati (Pellizzoni, 2011). L’esplosione dei derivati finanziari ne è la prova evidente. La vita stessa è descritta in termini di emergenza e adattamento complesso, condizione che comporta certo 192 1 193 Questa concezione si è imposta a livello mondiale in quanto inserita negli accordi Trips (Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights) del 1994, la cui sottoscrizione è parte integrante dell’adesione al Wto. Natura, buen vivir e razionalità neoliberale Luigi Pellizzoni pericoli e insicurezze ma che è tuttavia posta «al cuore di ciò che vi è di positivo e costruttivo» (O’Malley, 2010: 502). L’idea di resilienza, quale adattamento contingente a turbolenze sociali e biofisiche imprevedibili, è non a caso sempre più incorporata da azioni di governo che abbandonano la pianificazione tradizionale a favore di tecniche anticipatorie basate sulla costruzione di scenari (Walker, Cooper, 2011). Arriviamo qui al nocciolo della questione. In un lavoro spesso citato, Luc Boltanski e Eve Chiapello (2005) descrivono il “nuovo spirito” del capitalismo post-fordista. Esso ha integrato e messo a valore la critica che i movimenti degli anni ‘60 e ‘70 avevano rivolto al modello fordista e statalista (burocratico, pianificato, standardizzato, industrialmente “pesante”), contrapponendogli autonomia, flessibilità, responsabilizzazione, creatività, smaterializzazione. C’è da chiedersi allora se non siano oggi il neo-materialismo e le ontologie flat a riuscire funzionali alle logiche di un capitalismo fluido e cangiante. La domanda mi pare scarsamente presente nel dibattito. Nonostante l’insistenza sulla stretta relazione tra ontologia e politica (Mol, Law, 2006; Escobar, 2010b; Coole, Frost, 2010), le posizioni post-costruttiviste non sembrano in genere registrare che la propria visione – in particolare la cancellazione di ogni distinzione tra ontologia ed epistemologia, realtà materiale e rappresentazione simbolica – coincide nella sostanza con quella neoliberale. Il problema, mi pare, sta nel fatto che esse continuano a visualizzare un bersaglio, il classico realismo scientifico e costruttivismo culturale, il quale sta rapidamente scomparendo sotto i colpi di una trasformazione nella prassi e nella regolazione tecnoscientifica che va esattamente nella direzione auspicata, ma con esiti opposti. La somiglianza tra neoliberalismo e post-costruttivismo si estende perfino alla concezione del soggetto, in entrambi i casi anti-essenzialista, “decentrata” e contingente. Tra l’agente neoliberale e il soggetto “post-umano” di molta teoria post-costruttivista l’unica differenza è che il secondo trae da anti-essenzialismo e contingenza una critica alla hybris moderna, facendo professione di umiltà, cura e rispetto di un mondo biofisico mutevole e vitale, mentre il primo vede in tutto ciò l’opportunità di rifare il mondo a proprio piacimento, plasmandolo e plasmandosi in un incessante divenire “altro” o “di più”. Differenza importante, senza dubbio, ma non derivabile dalle rispettive posizioni ontologiche; tant’è che teoriche femministe come Donna Haraway (2008) e Rosi Braidotti (2013) si collocano su posizioni così decisamente “affermative” circa le potenzialità di auto-trasformazione offerte dalla tecnoscienza, da risultare difficilmente distinguibili dalla narrativa neoliberale dell’human enhancement (Roco, Bainbridge, 2003). Così come la “cittadinanza biologica” delle scelte responsabili, di cui parlano Nikolas Rose (2007) e altri, si carica di profonda ambiguità quando si tratta di distinguere interventi terapeutici (riparativi di danni o deficit fisici o psichici) e interventi di potenziamento fisico, estetico o mentale (Bard, 2012), la cui soglia di accettabilità sociale è affidata al vaglio di imprecisate agenzie regolative che dovrebbero vigilare su un mercato di cui si ribadisce il ruolo di principale promotore e distributore dell’innovazione (Agar, 2010; Buchanan, 2010). Tra i pochi studiosi che si stanno ponendo questo genere di domande può essere citata la filosofa Nancy Fraser (2009), la quale, richiamandosi proprio a Boltanski e Chiapello, parla di «fastidiosa convergenza» tra alcuni degli ideali espressi dal femminismo nel contesto dell’ascesa del neoliberalismo e le richieste di una nuova forma di capitalismo post-fordista, “disorganizzato” e transnazionale. La questione è, in altri termini, se i cambiamenti culturali promossi dal femminismo siano serviti a legittimare una trasformazione strutturale del capitalismo che va in collisione proprio con la visione femminista di una società giusta. A sua volta il geografo marxista Neil Smith (2005) si interroga sugli approcci “neo-critici”, basati sulle ontologie flat sopra discusse, che stanno fiorendo nella sua disciplina. Approcci per i quali le nozioni di spazio, scala e gerarchia, fino a ieri cruciali per la critica di ingiustizie, disuguaglianze e sopraffazioni, sono da abbandonare a favore di una visione del mondo e della politica frammentata, “affettiva”, “immanente”, centrata su una “ecologia della speranza” e sulla sperimentazione continua (Amin, Thrift, 2005; Marston et al., 2005); nozioni non solo fumose ma visibilmente affini alla retorica neoliberale. Le idee innovative e radicali, osserva Smith, finiscono triturate nella melma culturale. La loro forza, le sfide che esse pongono, le rende appetibili, politicamente e commercialmente, il che le espone a un processo di erosione, generalizzazione e integrazione. L’esempio viene da nozioni come differenza, multiculturalismo, pluralismo, identità, da tempo riciclate dal lessico e dall’iconografia di Cnn, Mtv, McDonald’s e Benetton. 194 195 196 Natura, buen vivir e razionalità neoliberale 6. Conclusione Anche il buen vivir rischia di subire la stessa sorte? Impossibile dirlo in questo momento. Certo, come abbiamo visto, si tratta di un’idea controversa. Soprattutto, si tratta di una tradizione inventata, pienamente inserita nella teoria sociale post-costruttivista, della cui ambigua relazione con l’avversario designato, l’ideologia neoliberale e il suo assalto alla natura e alle comunità locali, essa inevitabilmente partecipa. Questa, almeno, la tesi che ho cercato di argomentare nel presente saggio, il cui obiettivo non era sviluppare una critica distruttiva del buen vivir ma sollevare un problema trascurato. Come osserva Smith, non c’è niente di inevitabile nel processo di integrazione e svuotamento delle idee innovative. Quello che occorre è però «essere sempre parecchi passi avanti al tritatutto capitalista, reinventando i conflitti, trovando nuovi linguaggi, nuove strategie politiche, nuove idee, nuove forme di attivismo» (Smith, 2005: 891). In questo senso il buen vivir ha dalla sua il fatto di innestarsi su una visione del mondo (natura, individuo, comunità) profondamente diversa da quella da cui promanano tanto l’individualismo rapace del neoliberalismo che il post-umanismo decentrato della teoria sociale contemporanea. Una visione che, alla luce di una diversa concezione dell’esperienza, più che cancellare sembra rimodulare la tensione tra mondo e conoscenza. Nozione aperta, bisognosa di ulteriore elaborazione ma non piegabile a qualsiasi lettura, il buen vivir può quindi costituire un punto di riferimento importante nella ricerca di un’alternativa praticabile alla neoliberalizzazione della natura. Bibliografia Agostino A., Duebgen F. (2012), Buen vivir and beyond: searching for a new paradigm of action, relazione alla III Conferenza internazionale sulla decrescita, Venezia, 19-23 settembre, in http://www.venezia2012.it/wp-content/ uploads/2012/03/ws_55_agostino-duebgen.pdf. Amin A., Thrift N. (2005), What is left? 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On their side, new post-constructivist ontologies (this contribution focuses on feminist “new materialism”) build to a remarkable extent on the conceptualizations of nature provided by technoscience, which in their turn are attuned to neoliberal rationality. One may wonder, therefore, if the post-constructivist approach is pointing to a target of decreasing significance, while failing to acknowledge its own alignment with the vision of nature that underlies neoliberal policies. In any case, buen vivir remains a promising framework, especially in regard to its grafting onto a worldview that differs profoundly from the one which underpins both the greedy individualism of neoliberalism and the decentered post-humanism of contemporary social theory. Keywords: Nature, Buen vivir, Neoliberalism, Post-constructivist ontologies, New materialism. 199 Vulnerabilità del bene comune acqua e sollecitazioni di giustizia in America Latina di Sabrina Lanni20* SOMMARIO: 1. Riconoscimento dei diritti indigeni e ripensamento della gestione dei beni comuni. – 2. Vulnerabilità dell’acqua come bene comune tra diritti e garanzie. – 3. Crisis del agua a fronte dell’impegno delle esperienze giuridiche latinoamericane. – 4. A favore di una giustizia alternativa: il Tribunal Latinoamericano del Agua. 1. Riconoscimento dei diritti indigeni e ripensamento della gestione dei beni comuni Il riconoscimento dei diritti indigeni, che è stato promosso dal nuovo costituzionalismo latinoamericano a partire dagli anni ‘80 del secolo appena concluso, riveste un profondo valore euristico nella rivisitazione delle logiche del mercato e nel rilancio della logica dei popoli. Il richiamo in sede costituzionale al sumak kawsay (Ecuador, art. 14), ossia a quel paradigma di vita andina che tiene conto congiuntamente delle esigenze dello sviluppo, dell’economia e di quelle della Madre Tierra, così come il richiamo al suma qamaña (Bolivia, art. 8), vale a dire all’equilibrio materiale e spirituale dell’individuo e alla relazione armoniosa dello stesso con tutte le forme di esistenza, danno voce a principi metagiuridici di popoli e nazioni lasciate dal diritto nel limbo della storia (Lanni, 2011: 23 ss.). Non solo quindi dal punto di vista della dottrina giuridica, ma anche dal punto di vista della politica del diritto. Il suma qamaña e il sumak kawsay non rappresentano la mera costi* Ricercatrice di Diritto civile comparato presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche e professoressa a contratto di Diritto privato comparato nell’Università Magna Graecia di Catanzaro. Vulnerabilità del bene comune acqua Sabrina Lanni tuzionalizzazione di principi generali connessi a determinati popoli indigeni in via endogena ed esclusiva. Al contrario, essi presentano una potenzialità epistemologica ed un’incidenza dirompenti nelle scelte dei governi latinoamericani, in quanto impongono uno sforzo di decodifica e rielaborazione giuridica nella gestione dei beni comuni, favoriscono una ridefinizione del rapporto uomo-natura, confidano nello sviluppo di un senso di giustizia intergenerazionale quale limite all’interesse economico dell’accumulo e dello sviluppo di stampo capitalista e occidentale. L’“uso” e la “partecipazione” nella gestione dell’acqua – così come del sottosuolo, dell’aria e delle conoscenze tradizionali – rappresentano tratti distintivi di un diritto fondamentale cui si tende largamente tra i popoli indigeni nelle scelte politico-economico-sociali dei paesi dell’America Latina. Si tratta tuttavia di un diritto che emerge a livello globale ed è caratterizzato da una significativa forza espansiva: invero l’aspirazione all’uso e alla partecipazione dei beni comuni emerge anche in altri contesti, o meglio in contesti tendenzialmente omologati in una logica dominante, cioè priva del forte dissenso di cui sono portatori da diversi lustri i popoli indigeni nelle scelte politico-economico-sociali dei paesi latinoamericani. È l’esempio dell’Italia, dove negli ultimi anni si registra sul tema un flusso crescente di idee nel dibattito politico e scientifico (Rodotà, 2013), che ha in considerazione il potere conformativo del diritto (Marella, 2012), e che rimarca le violazioni perpetrate da esso contro il quadro giuridico e ideologico dei beni comuni, attraverso indagini che muovono da casi storici (come quello della sentenza della corte di cassazione romana del 1887, che diede ragione al comune di Roma contro il principe Borghese che voleva chiudere i cancelli della Villa, riconoscendo ai cittadini il diritto di passeggiare liberamente in quel luogo; Di Porto, 2013), e che hanno il merito di non rendere avulso il contesto municipale da quello globale (al di là di settoriali allocazioni ideologico-politiche che vedrebbero i beni comuni esclusivamente come “benicomunisti”; Mattei, 2011). Il riconoscimento dei diritti indigeni nelle esperienze giuridiche latinoamericane contribuisce a rendere le stesse comparativamente singolari rispetto a quelle europee. I popoli indigeni, l’incidenza delle loro identità culturali, l’attenzione per la loro cosmovisione presentano un ruolo determinante nella tassonomia del sistema latinoamericano. È possibile per tutto ciò individuare diversi ordini di ragioni, tra i quali: il diritto/dovere alla salvaguardia dei beni comuni è un diritto/dovere connaturato alla tradizione ctonia (Glenn, 2011: 162); il diritto/dovere alla gestione e alla salvaguardia dei beni comuni prescinde dal paradigma occidentale della modernità dello Stato e della privatizzazione dei beni (Marés de Souza Filho, 2009: 67); il diritto/dovere alla gestione e alla salvaguardia dei beni comuni è fondato su un legame di solidarietà che è calato in una dimensione diacronica e collettiva. Tutte le ragioni esposte trovano molteplici appigli nelle indagini già sviluppate dagli antropologi della cultura e da quelli del diritto, o da quanti a vario titolo studiano i diritti indigeni e la loro storia, diversamente il “legame di solidarietà” quale carattere basilare dei diritti indigeni, sembra meritevole di una maggiore attenzione da parte del latinoamericanista, in ragione sia della sua valenza “interculturale” sia della sua propensione “normativa”. Invero, il binomio solidarietà-reciprocità come individuato nelle indagini giuridico-antropologiche (Míguez Núñez, 2013: 435) vanta legami con la solidarietà ribadita nelle costituzioni più recenti, dove al principio stesso è riconosciuta una specifica funzione di intervención (de Cabo Martin, 2006: passim) e di deber (Quinche Ramírez, 2009: 91 ss.). Intervención e deber mettono in crisi gli elementi tassonomici della proprietà del sistema giuridico romanistico. Per un verso, i beni sono ancorati alla logica della titolarità, nel senso che, a seconda della loro appartenenza, in base a quanto dispongono diffusamente i codici civili, sono di dominio pubblico o di proprietà privata. Per un altro verso, non consentono una loro estensione alla proprietà del bene acqua, del bene terra e del bene aria, o di quant’altro tra i beni considerabili nelle tradizioni ctonie come beni comuni per antonomasia, in quanto il giurista della tradizione romanistica sarebbe propenso a sistematizzare i beni stessi tra gli schemi codicistici, notoriamente disegnati in relazione alla proprietà delle cose corporali e alla proprietà fondiaria in particolare. I beni della Pachamama, assieme ad altre categorie di beni – al riguardo può essere significativo richiamare l’esempio dei beni oggetto di proprietà intellettuale – sono invece categorie ontologicamente diverse, che mal si attagliano al concetto di una possibile proprietà indigena. Si tratta di beni che prescindono dal binomio pubblico-privato e che non sembrano “oggettificabili”, in quanto il soggetto è parte dell’oggetto senza possibilità di addivenire a mercificazioni. 202 203 Vulnerabilità del bene comune acqua Sabrina Lanni La ragione di questa differenza risiede in una diversa concezione della esclusività (non del singolo ma della collettività) e del tempo (non solo a favore della vita presente ma anche di quella futura), come anche nella prevalenza della logica del dovere rispetto a quella del diritto (non solo utilizzo ma anche preservazione). Ancor prima, l’uomo stesso risponde per i popoli indigeni ad una visione olistica, e le nuove costituzioni latinoamericane ne hanno colto la relativa istanza conferendo valore giuridico alla simbiosi che unisce i diritti dei popoli indigeni e i diritti della natura. I beni comuni della Pachamama o della Madre Tierra rispondono quindi ad una logica di resistenza verso la loro appropriazione esclusiva, così come verso la sfruttabilità delle risorse naturali di cui sono considerati vittime nella prospettiva capitalistica. Dal punto di vista sistematico, i diritti dei popoli indigeni al riconoscimento, all’uso e alla partecipazione nella gestione dei beni comuni si possono far rientrare in una nuova prospettiva socio-ambientale del diritto, nei cosiddetti diritti di quarta generazione, dove il diritto individuale è chiamato a contemperarsi con il diritto collettivo, sia da punto di vista sostanziale che da quello processuale, nella prospettiva di un dialogo finalizzato al loro riconoscimento effettivo o al loro rafforzamento sostanziale in sede globale (Ferrarese, 2011: 564). È esplicito il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni all’uso e alla partecipazione nella gestione dei beni comuni che si rinviene nelle ultime costituzioni latinoamericane. Invero, il richiamo in sede costituzionale al sumak kawsay e al suma qamaña danno riscontro municipalizzato a principi ancestrali, che si ritrovano in moltissime culture ctonie dell’America Latina, tra le quali si possono ricordare, a titolo di esempio, quella dei tseltal, che parlano di lekil kuxlejal, e quella dei guaraní del Paraguay, che si rifanno al nande reko (Melià, 1988: 33; Paoli, 2003: passim). In altre parole, i richiami stessi incorporano la cultura ctonia nell’identità latinoamericana e sottraggono all’arbitrio dei governi in carica le scelte politiche relative a questi temi: il sumak kawsay e il suma qamaña sono divenuti ufficialmente obiettivi del lungo periodo (Gudynas, 2009: passim). Questi concetti – o meglio questi obiettivi di vita – discussi e illustrati nella bibliografia specialistica (Walsh, 2008; de Sousa Santos, 2010), promuovono comunemente, per tutte le scelte che incidono sulla Madre Tierra, la necessità di una distinzione aprioristica tra “vivere bene” e “vivere meglio”, e quindi promuovono sia una critica alla situazione socio-economica attuale, sia una proposta di ricostruzione sociale, culturale e politica per ciò che pertiene ad ogni paese. La rilettura delle democrazie latinoamericane alla luce dei questi concetti limita le scelte miopi, pone un limite al maldesarrollo, promuove la progettazione del post-capitalismo o, come preferiscono altri, del otro desarrollo (Gudynas, 2009: 275), dell’etnodesarrollo (Bonfi Batalla, 1982: 131-145), del pachamamismo (Houtart, 2011). In sintesi: il desarrollo a servizio del buen vivir e della salvaguardia dell’acqua, della terra, dell’aria, ecc., o in altre parole, la prevalenza delle scelte ecologico-qualitative rispetto a quelle economico-quantitative. Emergono insomma obiettivi di lungo periodo. Il buen vivir rappresenta un principio polisemico e transistematico che è frutto della costruzione e ricostruzione di concetti largamente giuridici operata in seno alla dottrina indigenista: esso incoraggia le distanze dal capitalismo e dal suo archetipo di società eurocentrica-nordamericana, favorendo per un verso la diminuzione della forbice tra tradizioni ctonie e ordinamenti giuridici, e per un altro verso il riequilibrio del rapporto tra Stato e proprietà privata, ripristinando ad ampio raggio i beni comuni fra i temi del diritto costituzionale e delle dimensioni ontologiche che pertengono a questa materia nel nuovo costituzionalismo latinoamericano. 204 205 2. Vulnerabilità dell’acqua come bene comune tra diritti e garanzie Inquinamento dell’acqua, alterazione degli ecosistemi, privatizzazione delle risorse idriche e politiche socialmente irresponsabili ledono diritti e garanzie che in America Latina sono affermate nello specifico a livello costituzionale (Mezzetti, 2012: 554). Invero, il costituzionalismo latinoamericano recente denota sviluppi importanti in relazione al riconoscimento del diritto all’acqua: acqua non solo come bene costituzionale autonomo ma anche come bene incisivo nel quadro di più ampie garanzie precedentemente riconosciute. Il diritto al medio ambiente, già ampiamente tutelato nelle nuove costituzioni latinoamericane dagli anni ‘80 in poi (ad esempio, art. 225 caput del Brasile/1988, art. 268 del Paraguay/1992, art. 41 dell’Argentina/1994, art. 47 dell’Uruguay/1997; art. Vulnerabilità del bene comune acqua Sabrina Lanni 4 del Messico/1999), trova nell’ultimo decennio un ulteriore supporto e specificazione nel riconoscimento normativo dei diritti indigeni e della tradizione ctonia che pertiene al buen vivir (nello specifico, artt. 12-34 dell’Ecuador/2008, artt. 9 e 30 Bolivia/2009). L’acqua è parte del buen vivir, pertanto essa sottende un valore assiologico ed un disegno programmatico che muovono congiuntamente dal piano internazionale a quello municipale senza soluzione di continuità. Se l’acqua come bene comune pertiene a tutti i popoli, a tutte le persone, a tutte le generazioni, è allora evidente che l’acqua rappresenta un bene giuridico globale. Invero, benché riunisca le caratteristiche che si attribuiscono ai beni privati – il suo consumo per una persona o per un gruppo diminuisce la disponibilità del bene stesso da parte di altri, oppure una persona o un gruppo possono escludere altri dal consumo – l’acqua emerge nel panorama giuridico internazionale come un bene sovrastatale. È un percorso snodato in molteplici tappe: dalla conferenza di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo (1992), alla Dichiarazione dell’Unesco sulle responsabilità per le generazioni presenti verso le generazioni future (1997), fino alla Dichiarazione di Montevideo sulla cittadinanza ambientale del Parlamento latinoamericano (2007) e alla Risoluzione dell’Assemblea dell’Onu sul diritto umano all’acqua e ai servizi igienicosanitari di base (2010), che congiuntamente promuovono l’acqua come bene comune e il riconoscimento del ripristino ecologico come pretesa specifica della natura. Si tratta di un percorso fondamentale nella prospettiva giuridica latinoamericana, dove appare utile rimarcare come il passaggio dal pluralismo sociale allo Stato plurinazionale promuova autonomamente l’allocazione della natura da oggetto a soggetto titolare di diritti (Baldin, 2014). L’incidenza della normativa gius-internazionalistica sul tema dell’acqua non vuol dire che l’accesso e l’effettività del bene stesso incombano sul piano esclusivamente internazionale. Certamente l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nella risoluzione 64/292 del 28 luglio 2010, riconosce il diritto all’acqua potabile e al suo risanamento come un diritto umano fondamentale, per il pieno svolgimento della vita e per la realizzazione di tutti i diritti umani. Essa esorta gli Stati e le organizzazioni internazionali affinché intensifichino i loro sforzi per garantire a tutta la popolazione l’accesso all’acqua potabile e alla sua tutela. Diritto all’uso dell’acqua e diritto alla bonifica dell’acqua pubblica costituiscono la base su cui è stato incardinato a livello internazionale il quadro giuridico del diritto all’acqua. Dalla Convenzione internazionale sui diritti del bambino del 1989 (art. 24) al Patto internazionale dei diritti economici, sociali e culturali del 2002 (artt. 11 e 12) emerge una linea di pensiero che rimarca due aspetti fondamentali del diritto in questione, vale a dire: l’acqua è una risorsa naturale limitata; l’acqua è un bene pubblico fondamentale per la vita e la salute (Cescr, 2003: Introduction). Il riconoscimento internazionalistico del diritto all’acqua ha spronato le singole esperienze giuridiche sul piano sostanziale e nello specifico ha dato forza a quelle latinoamericane. In quest’ultime, il diritto stesso già muoveva da comuni dinamiche endogene, sebbene il quadro normativo di riferimento rifletta tuttora una varietà di tecniche legislative adottate in sede nazionale: alcuni ordinamenti sono dotati di una legge generale sulla gestione del patrimonio idrico (Argentina, Bolivia, Brasile, Ecuador, Messico, Perù, Paraguay), che si configura talvolta come normativa settoriale rispetto alla legislazione generale in materia ambientale (così in Bolivia, Cile, Colombia, Messico, Uruguay, Venezuela); altri ordinamenti hanno optato per la collocazione del regime delle acque in un codice di settore (Brasile, Cile, Uruguay). L’analisi comparatistica dell’approccio metodologico prescelto dalle varie esperienze giuridiche sottolinea come gli Stati appaiano comunemente richiamati su tre fronti: accesso all’uso dell’acqua e alla soddisfazione delle necessità vitali; diritto alla somministrazione domiciliare di acqua potabile; preservazione della qualità e della quantità del bene per tutte le persone. Si tratta di un’impostazione affine a quella delle esperienze giuridiche europee, dove si denotano sforzi in tal senso anche a livello di aree giuridiche sub-regionali: nell’Unione Europea non mancano normative di supporto, come ad esempio la direttiva 2000/60/CE, dove la preoccupazione per la qualità dell’acqua assume carattere prevalente. Più accentuato è il panorama latinoamericano dove il recepimento della normativa internazionale e la virata biocentrica del nuovo costituzionalismo (Gudynas, 2009: 34) incidono sui doveri di precauzione verso il bene acqua e di ripristino verso la sua integrità. L’acqua, quale diritto umano recepito nel contesto giuridico latinoamericano, nonché quale 206 207 Vulnerabilità del bene comune acqua Sabrina Lanni elemento basilare della cosmovisione indigena, impone tre obbligazioni agli Stati, vale a dire respetar, proteger e cumplir. In questa prospettiva prendono operatività le osservazioni generali sul derecho al agua del Comité de Derechos Ecónomicos Sociales y Culturales (Ginevra 2002, parr. 20-38). È come dire che l’acqua determina nei singoli ordinamenti giuridici latinoamericani – in quanto bene costituzionalmente garantito a più livelli: a) bene acqua in sé e per sé tutelato; b) bene acqua quale parte del medio ambiente; c) bene acqua quale parte del buen vivir –, per un verso, il diritto alla preservazione dell’acqua come bene intrinseco della natura, che dunque prevale rispetto agli interessi dei singoli; per un altro verso, lo spostamento del baricentro dell’impegno statuale, che muove dal momento riparatorio a quello precauzionale. Significativo è il richiamo agli artt. 72 e 73 della nuova costituzione ecuadoriana, dove si riconosce il diritto al ripristino della natura nonché alla precauzione e alla restrizione dell’alterazione dei cicli naturali e della distruzione degli ecosistemi. capolino l’esigenza dei cittadini di gestire in modo integrato le risorse idriche, o quella dei popoli indigeni di favorire la loro partecipazione nelle decisioni dello Stato sulla gestione del bene comune, nonché quella degli uni e degli altri di eticizzare maggiormente il bene acqua, o in altre parole di preservare quella che la mitologia incas chiama complessivamente la Mama Qocha. Sullo sfondo appare una consapevolezza comune: la gobernabilidad del agua è in crisi. Il punto della questione da circa un decennio è stato focalizzato nitidamente dal Cepal nel precisare che «se habla de la crisis de gobernabilidad en la gestión del agua porque los conflictos por el uso del agua, siguen agravándose, mientras que la capacidad de solucionarlas empeora» (Cepal: 2001: 10). Alla consapevolezza summenzionata se ne aggiunge un’altra in modo strettamente connesso: la ricerca di una giustizia per l’acqua è fondamentale per realizzare una giustizia per la natura o per la Pachamama. La prospettiva biocentrica dei popoli indigeni, a cui ha dato formalmente voce il nuovo costituzionalismo latinoamericano, pervade la concezione dell’acqua come vincolo di tutti i fenomeni della vita (Bogantes, Muiser, 2011: 8). Viene da chiedersi cosa favorisca il permanere della crisi dell’acqua a fronte di assetti normativi internazionali, nazionali e municipali via via sempre più attenti al tema dell’acqua come bene comune. È possibile individuare una matrice comune rispetto alle molteplici cause della crisi sicuramente di natura poliedrica? La risposta a queste domande rappresenterebbe di per sé un primo tentativo di soluzione, e non a caso essa rappresenta il punto di partenza dell’operatività di una significativa istituzione di giustizia alternativa, il Tribunal Latinoamericano del Agua, a cui è dedicata attenzione nel paragrafo successivo. Per motivi di sintesi, in questa sede appare preferibile individuare due ordini di ragioni (l’uno ex ante e l’altro ex post) che incidono sulla persistenza della crisi dell’acqua e della sua vulnerabilità giuridica. Il primo è inerente alla gestione pubblico-privata dell’acqua e delle risorse idriche, e quindi al ruolo latinoamericano della volontà popolare, quale portatrice di un potere politico non delegato ai rappresentanti (gli elettori in un’impostazione di matrice rousseauniana sono anche legislatori e amministratori della res publica nell’interesse della collettività), soprattutto quando la privatizzazione o meno di un bene comune incida sulla 208 3. Crisis del agua a fronte dell’impegno delle esperienze giuridiche latinoamericane Il crescente impegno gius-internazionalistico e i doveri emersi nel sistema giuridico latinoamericano a favore dell’acqua come bene comune non arginano le sue molteplici vulnerabilità. A fronte di un’area geografica dove è localizzato il 31% di tutte le risorse idriche del mondo, emergono problemi legati alla desertificazione di alcune regioni (in modo particolare in Messico, in Cile, nella costa del Perù, nella pampa dell’Argentina), così come all’uso sproporzionato del bene acqua in alcuni paesi rispetto agli altri della stessa regione (ad es. il Messico diversamente dal Brasile), o anche alla deregolamentazione delle monocolture intensive (e quindi alle forme di inquinamento idrico mediato dalle alterazioni biologiche del suolo), nonché all’invadenza dei progetti idroelettrici plasmati sulle esigenze delle metropoli (e sulla globalizzazione delle esigenze), e non da ultimo alle economie di mercato che sono favorite dai trattati di libero commercio (a cui la normativa di protezione ambientale soggiace per essere la prima di gerarchia superiore). Cresce l’esigenza di riportare la ley al servizio del poder: qua e là fanno 209 Vulnerabilità del bene comune acqua Sabrina Lanni gestione e sulla gobernanza del bene stesso. Sullo sfondo si percepisce il timore per la privatizzazione: in molti ordinamenti latinoamericani si paventa la conversione dell’acqua in un bene di mercato, che sia retto dalle leggi dell’offerta e della domanda, sulla scia dell’esperienza cilena culminata nella promulgazione del código de aguas del 1981, quale frutto di una politica estremista (oggi storicamente datata) che ha favorito la mercificazione del bene stesso, la lesione del diritto umano all’acqua e la creazione di molteplici conflitti socio-ambientali (ad es. in Petorca, Caimanes, Copiapó). Nello stesso Cile si cerca di tornare sui propri passi: più parti spingono il legislatore cileno ad una revisione del código, al fine di stabilire le priorità nell’uso e nella gestione dell’acqua, e limitare la prevalenza delle esigenze del mercato e delle parti forti sui cittadini e le parti deboli. Quelli cileni sono timori noti all’osservatore dell’esperienza giuridica italiana, dove lo svilimento del concetto di acqua come bene pubblico ha favorito nell’ultimo trentennio un consolidato trait d’union tra la cosiddetta legge Galli sulle disposizioni in materia di risorse idriche (legge nr. 36 del 1994), il pensiero della corte costituzionale italiana sull’acqua come diritto fondamentale (sent. nr. 259 del 19/7/1996) e il nuovo codice dell’ambiente in relazione al riconoscimento della demanialità di tutte le acque e alla subordinazione ecosostenibile del loro uso (2006). Si tratta di un percorso tracciato da più formanti che può creare un dialogo con l’esperienza giuridica cilena, sia al fine di consentire in quel contesto la riaffermazione della pubblicità dell’acqua e la sua sottrazione a regimi meramente privatistici, come pure la promozione di una tutela integrata e comprensiva dell’intero ciclo delle acque, sia al fine di consentire una riflessione approfondita da parte del legislatore italiano sugli effetti connessi alla qualificazione dell’acqua come bene patrimoniale dotato di valore monetario (a cui né la legge Galli né il codice dell’ambiente sono riusciti ad ovviare). Il secondo ordine di ragioni sopra richiamate incide ex post sulla vulnerabilità dell’acqua: la legittimazione, o meglio la frammentarietà della legittimazione ad agire a tutela dell’acqua, rappresenta il punto cruciale degli assetti normativi delineati a livello formale. Come evidenziato dagli studiosi intervenuti sul tema, la problematica connessa ad un tratto singolo di un fiume latinoamericano può richiamare la competenza e la legittimazione ad agire di circa centocinquanta attori differenti, tra i quali i municipi, le segreterie regionali, i ministeri, i pubblici ministeri, le imprese pubbliche, e gli utenti senza che essi comunichino tra di loro o coordinino le proprie azioni (Bogantes, Muiser, 2011: 10). Come dire che la gestione politica dell’acqua, non solo fa affidamento su una frammentata legittimazione, ma è anche strutturalmente poco efficiente. Entrambe le ragioni esposte indicano la presenza di due forze, che si contendono la visione dell’acqua come bene e conseguentemente della sua gestione, e che quindi suggeriscono la necessità di un bilanciamento tra le istanze dei portatori di grandi interessi economici (gruppi imprenditoriali nazionali e/o stranieri), volte alla ricerca di alleanze politiche ed economiche con i governi in carica (il diritto a servizio degli interessi economici), e tra le istanze degli utenti (singoli, collettività, popoli) e i loro rappresentanti (defensorías, ministeri della salute e dell’ambiente o, in senso lato, rappresentanti della tutela del medio ambiente), volte al rispetto del diritto all’acqua ed al rispetto dell’acqua come bene comune (il diritto a servizio dell’uomo e del pianeta). L’esigenza di questo equilibrio non solo è giuridica ma anche sociale. Il derecho a la consulta previa (cfr. ad esempio artt. 79, 80 e 330 cost. Colombia; art. 56, lett. f, cost. Ecuador; art. 30, c. II, p.to 15, cost. Bolivia) e le garanzie che ad esso pertengono, nel quadro della virata biocentrica del sistema giuridico latinoamericano, riassettano le forze di cui sopra nell’imposizione di una nuova lettura dell’agua como bien público. A questa lettura, che trova molteplici appigli a livello del diritto internazionale, sono chiamate in modo impellente le singole esperienze giuridiche latinoamericane, anche in considerazione dei punti comuni già formalizzati in sede di redazione della Declaración Latinoamericana del Agua. Molteplici manifesti politici sull’acqua, rivoluzioni cittadine (Bolivia, 2000), rivoluzioni democratiche (Messico, 2010; Cile, 2014), proposte di riforme e di integrazioni costituzionali sul diritto all’acqua (Costa Rica, art. 50), progetti di legge attuativi dei riconoscimenti internazionali sul tema (Perù, legge nr. 1456 del 2012): un fermento di idee e attività caratterizza nell’area latinoamericana la rivisitazione dell’acqua come bene comune o come bene globale. Si tratta di un fermento che dà conto di una società evoluta e in fase di operosa trasformazione culturale nonché giuridica, dove prende piede diffusamente una ética ambiental exigente 210 211 Vulnerabilità del bene comune acqua Sabrina Lanni come forma di risposta alla crisi socio-ambientale del pianeta. Proprio a questo riguardo merita attenzione specifica l’istituzione e la promozione di un organo ad hoc, che in chiave transdisciplinare considera il bene acqua quale mixtum compositum, in un sistema assiologico dove l’oggettivazione e la soggettivazione del bene stesso non presentano soluzione di continuità. idrico (con riferimento all’esperienza messicana), ed un ultimo legato ai riflessi ambientali che presenta la costruzione di imprese nell’Amazzonia brasiliana (con attinenza allo sfruttamento del fiume Madeira). L’analisi dei casi affrontati dal Tla mostra una valenza transdisciplinare del suo impegno. Si tratta di un impegno che non è meramente giuridico: esso mostra una forte valenza etica, dialogica e precauzionale. Il processo è inteso come un’azione sovranazionale, che fa perno sul riconoscimento di valori etico-ambientali, espressi in testi normativi, siano essi convenzioni o trattati o leggi nazionali, a prescindere dalla schematizzazione di matrice statuale-legalista, e dal suo riverbero nel vaglio della efficacia e della effettività delle regole giuridiche. Dal punto di vista procedimentale, abilitata a proporre azione è la parte (singolo, collettività di persone, popolo indigeno) che ritenga leso dall’azione od omissione di un’altra parte (persone, governi, imprese) un interesse ultraindividuale di particolare rilevanza per la crisi di governabilità dell’acqua, e quindi per la preservazione della vita e degli ecosistemi. Il procedimento termina con un verdetto, che è proposto sulla base di alcuni principi comuni dell’operare del Tla (l’analisi sistematica dei casi sottoposti, l’individuazione di principi ecocentrici, l’accettazione della prova giudiziaria, l’inversione dell’onere della prova, l’applicazione del principio precauzionale), e che a sua volta contiene oltre alla formulazione della sentenza le raccomandazioni proposte dal Jurado. Si tratta di un carattere di spicco nella dinamica dei sistemi giuridici e della circolazione delle idee. Il processo non si arresta con l’emanazione del verdetto. La soluzione del caso concreto suggerisce all’osservatore straniero un valore ultra partes nel senso che è finalizzata a favorire un consenso politico e sociale di lungo periodo, in modo da favorire la comprensione e la condivisione del cambiamento di un paradigma, grazie al quale l’uomo e il politico dismettano la veste di “predatori” dell’acqua, per guardare oltre i confini egoistici dei propri interessi. Viene fatta salva la logica dell’impegno intergenerazionale: in questa prospettiva è incisiva la Declaración del agua proposta dallo stesso Tla quale sintesi della cosmovisione dei popoli indigeni e delle normative etico-giuridiche di matrice internazionale (dalla Convenzione di Ginevra del 1923 sullo sviluppo di opere idroelettriche che riguardino più di uno Stato, alla Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992 sull’ambiente e sullo sviluppo). 212 4. A favore di una giustizia alternativa: il Tribunal Latinoamericano del Agua Il Tribunal Latinoamericano del Agua (Tla) rappresenta una forma di risposta alle diffuse istanze di giustizia alternativa e di soluzioni fattive per la lesione degli interessi pubblici e sociali connessi all’acqua. Si tratta di un’istituzione che dalla sua prima riunione (San José di Costa Rica, 2000) si è ispirata ad un modello di giustizia improntato all’ética exigente, vale a dire ad una morale ambientale finalizzata alla protezione della vita nel pianeta. I circa cinquanta verdetti finora emanati si collocano in questa prospettiva. Benché l’obiettivo specifico del Tla sia quello di favorire nell’area latinoamericana il recepimento e l’applicazione di norme e principi internazionali per la sostenibilità idrica, ad esso si affianca anche un obiettivo globale che pone la questione idrica all’attenzione degli operatori dell’istituzione stessa a prescindere dalle ripercussioni latinoamericane o meno che il singolo problema possa avere. L’enfasi sul diritto umano all’acqua, sulla tutela dell’acqua come tutela della salute e sulla divulgazione degli effetti nocivi di alcune politiche idriche rappresentano tre obiettivi che enfatizzano la centralità della persona nella logica del sistema giuridico latinoamericano (Catalano, 1990: 116). Dunque, acqua non solo come bene comune latinoamericano, ma anche come bene globale degli uomini. In questa prospettiva si colloca un graduale coinvolgimento del Tla nelle problematiche di altri paesi: invero, ad Istanbul sono stati giudicati a partire dal 2009 cinque conflitti, dei quali tre connessi alla ponderazione tra costi e benefici che emerge in sede di sviluppo dei progetti idroelettrici (con attenzione a quelli dei fiumi Tigre, Eufrate e Çoruh), un altro relativo all’impatto socio-ambientale ad ampio raggio che possono avere le politiche statali di sfruttamento 213 Vulnerabilità del bene comune acqua Sabrina Lanni La vulnerabilità del bene acqua in sé e per sé considerato, così come il cambiamento di prospettiva strategica di cui esso necessita, vede i popoli indigeni promotori naturali delle singole istanze di giustizia di fronte al Tla. Uno degli esempi possibili è quello offerto dai mazahua, il popolo indigeno più numeroso dello Stato del Messico, che ha posto all’attenzione della società latinoamericana i riflessi nefasti connessi, in parte alla costruzione della diga Cutzamala, e quindi all’impatto delle dighe sull’equilibrio ecologico, in parte al depauperamento idrico del loro territorio, e quindi all’alterazione ambientale dei territori indigeni, a favore dell’estensione e delle esigenze delle città-megalopoli (Bogantes, Muiser, 2011: 83). Possono trovare una risposta esauriente nel risarcimento dei danni subiti e nelle azioni inibitorie le alterazioni dei territori indigeni, come pure la violazione delle identità culturali, o anche le logiche capitalistiche usurpatrici dei diritti umani, nonché le migrazioni indigene e contadine e la creazione di nuovi poveri? La lotta del frente mazahua per il diritto all’acqua svela quanto la risposta sarebbe pleonastica e palesa il problema stesso non solo in chiave risarcitoria ma anche in chiave costruttiva. Invero, quello dei mazahua non è un caso isolato, poiché essi insieme alle nazioni indigene coadiuvate dal Consejo Nacional de Ayllus y Markas del Qullasuyu (della Bolivia) e, tra gli altri, ai boruca e teribe (del Costa Rica), hanno posto comunemente all’attenzione della comunità internazionale la necessità di rivalutare l’acqua secondo logiche ctonie, vale a dire: rivisitazione delle politiche economiche nazionali (limite alla monetizzazione di beni comuni), rivalutazione della transgenerazionalità (margine allo sfruttamento temporale dei beni comuni), incentivo dei sistemi di sviluppo ecocompatibili (finanziamento di progetti idrici per il riciclo e/o l’uso delle acque piovane). Concludendo, il Tla irrompe nella tendenza del monismo giuridico e stravolge la pericolosa visione statal-legalista dell’acqua come bene pubblico, come bene lucrativo o produttivo di pertinenza dello Stato, anziché come bene comune degli uomini o come bene a valenza etica e sociale per tutti gli uomini. L’acqua bene comune, che è calata per definizione in una dimensione diacronica, non coincide e non potrebbe coincidere con la somma dei “beni particolari”, poiché si colloca sul piano della convergenza di una pluralità di elementi qualitativi e quantitativi differenziati: le parti non si sommano ma si incorporano su un tutto organizzato nel quale si ha una specificazione di qualità e relativa integrazione. I singoli poteri giurisdizionali degli ordinamenti latinoamericani appaiono tendenzialmente spogliati delle loro prerogative di giudizio e di condanna a favore del Tribunal Latinoamericano del Agua, un’istituzione multiculturale e interdisciplinare dove emerge un’ampia partecipazione (operatori del diritto, contadini, indigeni, politici) ed una competenza multilivello (ambientale, giuridica, economica, antropologica ed epidemiologica), che rendono l’obiettivo cui mira la nuova percezione ambientale. 214 215 Bibliografia Acosta A., Martinez E. (comp.) (2009), El buen vivir. Una vía para el desarollo, Ed. Universidad Bolivariana. Baldin S. (2014), La tradizione giuridica contro-egemonica in Ecuador e Bolivia, in Bol. Mex. Der. Comp., paper in corso di pubblicazione. Bogantes J., Muiser J. (2011), Estrategias erróneas y la vulneración de los sistemas hídricos en América Latina: Experiencias del Tribunal Latinoamericano del Agua, Fundacíon para la Agricultura Biológica y la Comunicacíon. 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Il radicamento della sovranità alimentare in America Latina. – 4. La costituzionalizzazione della sovranità alimentare. Tre casi di studio: Venezuela, Ecuador e Bolivia. – 4.1. La costituzione bolivariana del Venezuela (1999). – 4.2. La costituzione dell’Ecuador (2008). – 4.3. La costituzione della Bolivia (2009). – 5. Cenni conclusivi. 1. Cenni introduttivi «Chi esercita il governo e il controllo sul cibo, governa il popolo; chi esercita il controllo sul petrolio e sulle risorse energetiche, controlla le nazioni». Questa visione veniva rappresentata da Henry Kissinger, ex segretario di Stato americano negli anni ‘70, nel prospettare gli scenari globali del prossimo futuro. Una visione in qualche modo profetica che anticipava la centralità dei problemi relativi al governo e al controllo dei processi di produzione e distribuzione del cibo. Questioni che hanno assunto posizioni nevralgiche in relazione alla diffusione globale dei fenomeni di malnutrizione e di carenza di cibo che colpiscono una parte sempre più vasta della popolazione mondiale. È in relazione a questo complesso e articolato aggrovigliarsi di problemi che si è andata sviluppando l’idea della food sovereignty. Intorno a questa idea si è raccolta l’attenzione e l’interesse di diversi soggetti: ovviamente le organizzazioni degli agricoltori, degli allevatori, dei pescatori; ma anche le organizzazioni rappresentative dei popoli indigeni, le ong, le organizzazioni della società civile. Una rete di soggetti e movimenti so* Professore ordinario di Diritto pubblico comparato nell’Università Lumsa di Roma. Food Sovereignty Angelo Rinella ciali che, ispirandosi al concetto e all’idea di food sovereignty hanno dato vita ad una rete globale di movimenti e ad una serie di conferenze, forum e dichiarazioni che hanno assunto rilevanza internazionale. Agli inizi degli anni ‘90, il movimento latinoamericano La Vía Campesina, un movimento di agricoltori su scala locale, aveva promosso e sviluppato l’idea di sovranità alimentare con l’intento di promuovere politiche innovative e alternative rispetto alle dominanti politiche neoliberali per conseguire gli obiettivi della food security. In occasione del World Food Summit del 1996 (Roma), fu lanciata l’idea di includere sotto il concetto di food sovereignty un insieme di politiche che su scala internazionale avrebbero potuto far fronte ai fenomeni di malnutrizione e di povertà che, specialmente nelle aree rurali più povere del globo, rappresentavano una sfida e, al tempo stesso, una provocazione per i protagonisti della politica internazionale. Per quanto il tema avesse attirato l’attenzione della comunità internazionale, diventando oggetto, ad esempio, della Dichiarazione di Roma del 1996 (World Food Summit) che impegnava gli Stati partecipanti a contribuire a una riduzione significativa della popolazione mondiale povera e affamata entro il 2015; per quanto fosse stato indicato tra gli obiettivi dei programmi di sviluppo del nuovo millennio, sia nell’ambito di accordi bilaterali che multilaterali; malgrado tutto ciò, gli approcci tradizionali ai temi richiamati dalla sovranità alimentare si sono rivelati fallimentari. Tanto è vero che, come risulta dai dati elaborati dalla Fao, la popolazione povera e malnutrita rappresenta oramai una componente cronica della popolazione mondiale e conosce un incremento costante pari a cinque milioni di individui per anno. Dunque, il concetto di food sovereignty pone una questione di ordine globale che vede da un lato il ruolo che viene svolto da quella rete internazionale di soggetti governanti l’economia globale (World Trade Organization, International Monetary Fund, World Bank) secondo categorie neoliberali, e dall’altra il dilagante problema della fame, della malnutrizione e della povertà che minaccia in prospettiva, specie per le sue implicazioni sociali e demografiche, anche le nazioni ricche. Per altro verso, la food sovereignty richiama l’attenzione anche su quelle politiche nazionali che possono essere rivolte a ridurre la povertà nelle aree rurali e a eliminare la malnutrizione e la fame. In linea di principio, il riconoscimento e la corretta applicazione del “diritto al cibo” costituisce uno strumento giuridico in grado di assicurare, all’inter- no di uno Stato, standard legali e misure politiche di contrasto alla fame e alla malnutrizione. Dunque, il concetto di sovranità alimentare richiama necessariamente la questione del diritto al cibo, inteso come fondamentale diritto umano dal quale scaturiscono, anche in virtù dei trattati internazionali sui diritti umani, una serie di obblighi a carico degli Stati. Si stima che per i prossimi quattro decenni la maggioranza della popolazione povera mondiale continuerà a vivere nelle aree rurali. Le politiche coerenti con l’idea di sovranità alimentare rappresentano dunque un importante contributo alla ricerca di vie alternative e innovative per contrastare il fenomeno della fame e della malnutrizione. Il punto di partenza comune rinvenibile nel dibattito internazionale sulla food sovereignty sta nella potenziale idoneità delle politiche correlate a questo concetto a far fronte alla fame e alla povertà nelle aree rurali. Il tema vede coinvolti soggetti della società civile e istituzioni internazionali, oltre che esponenti del mondo scientifico impegnati a ricercare risposte credibili alle questioni emergenti. La ricchezza del dibattito in corso e delle sollecitazioni provenienti da attori nazionali e internazionali, le interpretazioni e le espressioni delle politiche agricole praticate in varie parti del mondo che pure si ispirano all’idea della food sovereignty, rappresentano ancora oggi una sorta di caleidoscopio che non consente di definire un modello unitario di sovranità alimentare; appare piuttosto un concetto dinamico, che può fare da incubatore per nuove idee e da motivo ispiratore per nuove politiche. 220 221 2. La sovranità alimentare di fronte all’attuale governance del “global food system” La crisi alimentare nel 2007 ha messo in luce come l’attuale regime dei processi di produzione e distribuzione del cibo (food system) a livello globale presenti un accentuato grado di volatilità, di imprevedibilità, di rischio per le popolazioni povere e, in definitiva, di iniquità. Alla radice dei movimenti che si ispirano all’idea della sovranità alimentare sta la convinzione che il cibo non può essere trattato come un qualunque altro bene di consumo. L’attuale sistema di produzione del cibo a livello globale nasce all’indomani della seconda guerra mondiale ed è, al momento, Food Sovereignty Angelo Rinella sotto il controllo delle multinazionali agro-alimentari e del Wto. Questo assetto ha determinato condizioni di iniquità su scala mondiale. In primo luogo, l’attuale sistema attribuisce ai paesi cosiddetti sviluppati e industrializzati una serie di vantaggi sproporzionati; questi paesi sostengono in modo consistente i propri agricoltori a differenza di quanto avviene nei paesi in via di sviluppo dove gli agricoltori, per carenza delle risorse, non ricevono alcun supporto dai propri Stati nazionali e dunque non riescono a mettere in campo azioni adeguate per controbilanciare la situazione di squilibrio. Questo sistema tende a penalizzare e a emarginare i piccoli produttori e i paesi non industrializzati. Da parte sua, inoltre, il Wto esercita un potere di interferenza e di influenza sulle politiche agricole statali che appare obiettivamente abnorme. La regolamentazione dettata dal Wto favorisce le multinazionali del settore agroalimentare a danno dei produttori che operano su piccola scala. Infine, la produzione agricola intensiva sostenuta, soprattutto nei riguardi dei paesi in via di sviluppo, dagli organismi internazionali che governano i flussi finanziari, danneggia la biodiversità e presenta forti implicazioni negative per l’ambiente e la salute umana. Contro questo regime, i promotori della sovranità alimentare ne mettono in luce i numerosi fallimenti e la necessità di una radicale riforma. In estrema sintesi i punti che emergono dal dibattito attuale sono i seguenti (Issaoui-Mansouri, 2011; Ariate, 2011; Fabe, 2011): - quanto alla produzione, la prima questione da definire riguarda le politiche commerciali che hanno ad oggetto prodotti alimentari. Il cibo non può essere assoggettato agli stessi accordi di commercio internazionale che governano il commercio degli altri beni di consumo; l’accesso al cibo è un bisogno essenziale ed è un diritto fondamentale. - Allo stato attuale, gli accordi internazionali privilegiano la quantità rispetto alla qualità e alla biodiversità (la varietà dei prodotti). Un sistema ispirato ai principi della sovranità alimentare pone al primo posto nella gerarchia dei valori da preservare la biodiversità, la tutela dell’ambiente e della salute umana, la giustizia sociale. Il cibo, per le funzioni che assolve, non può ricadere sotto le ordinarie norme regolamentari che disciplinano il commercio internazionale; si deve riconoscere la sua condizione speciale e conseguentemente sottoporlo ad una disciplina speciale. - I sostenitori della sovranità alimentare richiamano anche il principio di sussidiarietà. Essi, infatti, criticano l’enorme potere che al momento è riconosciuto al Wto e alle multinazionali del settore agroalimentare (Monsanto, Cargill, ecc.); sostengono la necessità che la governance del cibo venga restituita ai livelli di governo locale, affinché siano preferite politiche di sostegno alla produzione locale commisurata ai bisogni locali, piuttosto che alle colture intensive e devastanti del territorio. - Affermare il principio di sussidiarietà non significa sostenere l’autarchia; piuttosto si guarda ad un sistema sostenibile che tenda a trasferire il potere decisionale al livello di governo più prossimo ai cittadini. - Le politiche di liberalizzazione degli scambi commerciali perseguite dal Wto e sostenute dalla WB e dal Imf hanno messo in ginocchio le economie agricole dei paesi più deboli. Infatti, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale hanno orientato i loro finanziamenti in modo da indurre i governi dei paesi del Sud del mondo a smantellare le politiche di sostegno all’agricoltura locale, ad aprire i mercati nazionali a operatori internazionali, a meccanizzare la produzione agricola per intensificare la produzione e favorire l’esportazione a basso costo; in definitiva, hanno sostenuto riforme che gradualmente hanno emarginato quelle iniziative economiche agricole di piccola dimensione o familiari che garantivano alle popolazioni locali l’accesso al cibo. - Per quanto riguarda la distribuzione dei prodotti agroalimentari, i movimenti sostenitori della sovranità alimentare promuovono una semplificazione della catena distributiva, basata sulla riduzione degli intermediari tra produttori e consumatori, il contenimento dell’influenza (oggi eccessiva) delle aziende della grande distribuzione e il diritto ad una informazione corretta sul cibo a favore dei consumatori (obbligo di apporre l’etichetta sui prodotti). - Infine, la crescente dipendenza dei consumatori dai prodotti altamente trasformati dovrebbe essere contrastata per restituire una posizione primaria ai cibi organici e non trasformati. In definitiva, il regime agroalimentare tuttora vigente a livello globale è un regime senza coltivatori (McMichael, 2013). I movimenti che promuovono la sovranità alimentare denunciano alla comunità internazionale: a) la necessità di riportare al centro del sistema il diritto al cibo; 222 223 Food Sovereignty Angelo Rinella b) il contrasto all’ingannevole affermazione secondo cui per assicurare il nutrimento per la popolazione mondiale si deve garantire la food security, attraverso un sistema di mercato cui solo una minoranza dei popoli a livello mondiale partecipa; c) la ricerca di soluzioni democratiche per la food security, che garantiscano la tutela della salute umana e dell’ambiente. stema agroalimentare. Nel suo significato originale, l’idea della sovranità alimentare richiama il ruolo centrale delle popolazioni rurali e indigene nel controllare e gestire i processi di produzione del cibo in modo ecologicamente sostenibile e culturalmente adeguato. Al tempo stesso, queste popolazioni non possono fare a meno dell’intervento dello Stato che è chiamato a svolgere pienamente le sue funzioni soprattutto nei confronti del sistema agroalimentare globale; allo Stato spetta infatti smantellare le strutture che determinano condizioni inique nel sistema rurale e riconoscere alle comunità locali la piena autonomia nella gestione del proprio micro sistema agroalimentare. Si ritiene comunemente che la sovranità alimentare comporti una trasformazione radicale del sistema economico e sociale di un paese; perché questa si realizzi efficacemente è indispensabile che si stabilisca una alleanza collaborativa tra lo Stato e gli attori della società civile per rimuovere i condizionamenti di potere che impediscono un libero accesso alle risorse naturali ed una partecipazione attiva dei cittadini interessati ai processi decisionali. In questo senso, l’esperienza dei paesi dell’America Latina appare piuttosto significativa. D’altra parte è in questa area del mondo che l’idea di sovranità alimentare ha assunto le sue prime forme espressive con la Declaration on Food Sovereignty presentata dal movimento La Vía Campesina, in occasione del World Food Summit della Fao del 1996. La Dichiarazione voleva rappresentare una prima reazione all’inclusione del settore agricolo nel Wto con l’Agreement on Agriculture. Questo accordo ha facilitato l’invasione dei mercati agricoli dei paesi in via di sviluppo da parte delle aziende statunitensi e europee, sostenute da sussidi pubblici rilevanti, grazie ad alcune clausole inserite negli allegati dell’accordo. Di fatto, per quanto l’accordo nel 1994 mirasse a eliminare i fattori di distorsione del mercato agricolo a livello globale, compresa l’incidenza dei sussidi pubblici alle aziende del settore, esso ha finito per istituzionalizzare una competizione monopolistica tra Stati Uniti e Unione Europea nel settore agroindustriale; grazie ai rilevanti sussidi che queste aziende ricevono dai rispettivi governi, sono in condizione di esportare mais ad un prezzo pari al 20% in meno dei costi di produzione e grano ad un prezzo inferiore del 46% dei costi. È del tutto evidente che i produttori che hanno risorse povere e operano su piccola scala non possono che essere estromessi dal mercato (Jawara, Kwa, 2004; Bello, 2005). 224 3. Il radicamento della sovranità alimentare in America Latina Il concetto di sovranità alimentare, e le implicazioni che da esso derivano sul piano anzitutto politico, ma anche sociale, economico e giuridico, hanno trovato accoglienza e riconoscimento in alcune carte costituzionali per effetto della pressione dei movimenti nazionali promotori di questo ideale. Tra i paesi che hanno aperto il loro ordinamento costituzionale al principio della sovranità alimentare si segnalano in particolare tre paesi dell’America Latina: Ecuador, Bolivia e Venezuela. Come si avrà modo di esaminare, le ragioni che hanno spinto i governanti di questi paesi a includere nelle nuove costituzioni la sovranità alimentare sono assai diverse: da un lato, Ecuador e Bolivia hanno inteso disegnare un diverso modo di intendere l’economia nazionale ed il complesso “regime del cibo” ispirandosi al principio della tradizione indigena del buen vivir/sumak kawsay (Bagni, 2013); dall’altro, il Venezuela ha avviato una radicale riforma agraria basata sulla redistribuzione delle terre e la creazione di organismi decentrati (consigli comunali) che assicurano la partecipazione del popolo al governo delle terre. Questi tre paesi rappresentano interessanti casi di studio relativamente ai percorsi che possono essere perseguiti a livello nazionale da parte delle istituzioni pubbliche per realizzare gli obiettivi della sovranità alimentare. D’altra parte, trattandosi di un concetto eminentemente politico, l’idea di sovranità alimentare può essere facilmente manipolata o mal interpretata. Essa si presta ad essere strumentalizzata per acquisire consenso elettorale; si presta ad essere banalizzata fino al punto da negare l’importanza di recuperare un approccio culturale e tradizionale al sistema agroalimentare; oppure, essa può essere correttamente interpretata e applicata per sostenere trasformazioni strutturali e democratiche del si- 225 Food Sovereignty Angelo Rinella Ad aggravare le condizioni ha contribuito anche il Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights (TRIPs) Agreement, in base al quale sono stati riconosciuti i diritti di proprietà intellettuale su sementi, organismi genetici, farmaci, ecc., a favore delle multinazionali del settore agroindustriale che hanno così visto consolidato il loro controllo sull’intera catena produttiva, dalle sementi alla grande distribuzione commerciale. È in questo contesto manifestamente aggressivo nei confronti dei piccoli agricoltori e delle popolazioni indigene che i principi e gli ideali della sovranità alimentare prendono corpo e, gradualmente, assumono contorni sempre più definiti. Nel 2001, La Vía Campesina riprende la Dichiarazione del 1996 per ridefinire alcuni concetti della sovranità alimentare, sottolineando «il diritto dei popoli di stabilire le loro politiche agroalimentari, regolare e tutelare la produzione agricola locale e stabilire gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile» (La Vía Campesina, 2001). Nel 2007, nella Declaration of Nyéléni adottata in occasione dell’International Forum on food sovereignty (Mali), ulteriori elementi arricchiscono il significato della sovranità alimentare; in particolare si definiscono gli obiettivi da perseguire sulla base di sei fattori chiave: (i) cibo sufficiente, sano, nutriente e culturalmente appropriato per tutti; (ii) valorizzare e sostenere in modo particolare i piccoli coltivatori e le aziende agricole familiari che operano su piccola scala; (iii) promuovere sistemi alimentari localizzati; (iv) assicurare il libero accesso ed il controllo delle risorse della terra su base locale; (v) promuovere le competenze e le conoscenze rurali su base locale; (vi) promuovere la produzione secondo il modello agroecologico. un cibo quantitativamente e qualitativamente sufficiente, sano e culturalmente appropriato alla comunità locale. Per consentire alle popolazioni rurali e indigene l’effettivo godimento del diritto al cibo è necessario che lo Stato agevoli l’accesso alle risorse naturali della terra. Un ruolo determinante spetta dunque anche allo Stato non soltanto in termini di politiche agricole giuste e capaci di valorizzare il ruolo dei piccoli agricoltori e delle aziende agricole di tipo familiare; ma anche in termini di consolidamento sul piano giuridico e normativo dei diritti connessi alla sovranità alimentare. La costituzionalizzazione della sovranità alimentare e del diritto al cibo rappresenta un passaggio rilevante in quanto pone lo Stato in una posizione di non ritorno rispetto agli impegni e agli obblighi assunti per il perseguimento delle finalità contemplate dall’idea di sovranità alimentare. Includere la sovranità alimentare nella propria costituzione significa conferire carattere costituzionale al diritto di accesso alle risorse necessarie a produrre il proprio cibo, al diritto di governare e conservare le proprie colture e le proprie tradizioni alimentari; in definitiva, si tratta di restituire alla sovranità nazionale anche quella componente della sovranità che attiene al governo del cibo. È del tutto evidente che il fatto che il principio della sovranità alimentare sia scritto nella costituzione o nominato nelle leggi, citato nel programma di governo o inquadrato in un dicastero, non è di per sé sufficiente a renderlo effettivo. Alla costituzionalizzazione devono seguire precise politiche in adempimento degli obblighi che dal principio della sovranità alimentare derivano in capo allo Stato. Il principio della sovranità alimentare è stato richiamato nelle costituzioni del Mali, del Senegal, del Venezuela, dell’Ecuador e della Bolivia; in altri ordinamenti le costituzioni richiamano il problema dello sviluppo dell’agricoltura pur senza esplicitamente citare la sovranità alimentare; numerosissime costituzioni, invece, hanno sancito il diritto al cibo che, come è emerso dalle considerazioni fin qui svolte, rappresenta la componente più strettamente giuridica su cui si fonda il concetto di sovranità alimentare. L’America Latina, dunque, si presta a fornire indicazioni dal punto di vista politico-costituzionale riguardo agli effetti del riconoscimento in costituzione della sovranità alimentare. Lo scenario politico che caratterizza alcuni dei più importanti paesi latinoamericani sul finire degli anni ‘90 226 4. La costituzionalizzazione della sovranità alimentare. Tre casi di studio: Venezuela, Ecuador e Bolivia Si è visto nelle pagine precedenti come il concetto di sovranità alimentare si sia andato definendo nel tempo anche con riferimento alla sua qualificazione come complesso di diritti, e in particolare di diritti umani. In tale concetto sono inclusi il diritto a produrre cibo sostenibile, il diritto di accedere alle risorse naturali come la terra, l’acqua, le sementi, la biodiversità; ma soprattutto il diritto al cibo come diritto fondamentale: 227 Food Sovereignty Angelo Rinella e l’inizio degli anni 2000 è la svolta anti-imperialista e controegemonica, che si esprime principalmente nei confronti degli Stati Uniti, che scaturisce dalle urne elettorali: nel 1998 Ugo Chávez viene eletto presidente del Venezuela; successivamente in Ecuador viene eletto Rafael Correa, in Bolivia Evo Morales, in Nicaragua Daniel Ortega, in Paraguay Fernando Lugo, in Brasile Inácio Lula da Silva. Si tratta come è noto di leader politici eletti con il sostegno di quella parte della società civile più sensibile alle scelte anti-imperialiste, particolarmente evidenti in occasione della diffusa protesta contro il Free Trade of the Americas (Cockcroft, 2006; Lomnitz, 2006; Shefner, 2011). Le nuove costituzioni del Venezuela (1999), e soprattutto quella dell’Ecuador (2008) e quella della Bolivia (2009) si inquadrano in quel filone emergente noto come nuovo costituzionalismo andino (Maratan Ruiz, López Castellano, 2011). La novità di queste costituzioni sta principalmente in un modo nuovo di intendere il significato e il valore delle carte costituzionali; costituzioni che traggono il loro Dna dalle identità autoctone del proprio territorio, del proprio popolo indigeno; e non dunque ereditati nella loro struttura portante dalla colonizzazione spagnola. Il fulcro di questo nuovo costituzionalismo sta nel fatto che con esso si vuole siglare un patto nuovo tra le persone (singolarmente intese e in quanto comunità locali o nazionali) e la natura. In tal modo, il nuovo costituzionalismo andino si libera della presunzione di superiorità della civiltà europea e rivendica l’attualità e la modernità di quei modelli sociali che si pongono in armonia con il contesto ambientale e valorizzano una dimensione della socialità che non pone al centro lo Stato, ma la persona, la sua dignità, la sua identità, in relazione alla natura. La natura non è identificata come oggetto dell’azione umana; materia di cui l’uomo può appropriarsi e disporre a suo piacimento; piuttosto la natura è considerata come l’entità che nutre e alimenta gli esseri umani. Si tratta di un costituzionalismo che, pur senza tranciare ogni relazione con il costituzionalismo di matrice liberale, presenta una sua originalità anzitutto nella estensione del testo, dovuta alla necessità di includere la tradizione giuridica indigena; in secondo luogo, nell’utilizzo di un linguaggio accessibile e non sempre giuridicamente proprio, dovuto alla apertura verso le formule linguistiche proprie delle comunità indigene; in terzo luogo, nel rafforzamento delle forme di partecipazione della società intera all’esercizio del potere politico, nel rifiuto di divisioni di ordine sociale e nella valorizzazione dei meccanismi di integrazione interculturale funzionali al dialogo fra tradizioni giuridiche diverse (Carducci, 2012 e 2013; Schilling-Vacaflor, 2011). L’avvento delle nuove costituzioni in questi paesi ha portato con sé politiche fortemente ispirate alle esigenze della giustizia sociale. Le industrie chiave nelle rispettive economie furono nazionalizzate, fu rafforzato il controllo governativo sull’economia, la spesa sociale conobbe un significativo incremento, diverse disposizioni normative per la tutela dei diritti umani furono adottate all’indomani delle riforme costituzionali; malgrado ciò, i principi del libero mercato non furono completamente sacrificati sull’altare dell’anticapitalismo. Nel quadro di questi rivolgimenti normativi, politici e sociali, un particolare peso ebbero (e hanno) le misure volte a dar seguito alla costituzionalizzazione della sovranità alimentare. 228 229 4.1. La costituzione bolivariana del Venezuela (1999) Con riferimento alla sovranità alimentare, la costituzione del 1999 introdusse diversi elementi costitutivi di questo principio, per quanto allora non fosse ancora compiutamente definito. In particolare, sotto il Titolo VI: Del sistema socioeconomico, Capitolo I: Del regime socioeconomico e della funzione dello Stato, troviamo anzitutto l’art. 305 che stabilisce quanto segue: «Lo Stato promuove l’agricoltura sostenibile come base strategica dello sviluppo rurale integrale al fine di garantire la sicurezza alimentare della popolazione; intesa come la disponibilità sufficiente e stabile di alimenti nell’ambito nazionale e l’accesso adeguato e permanente a questi da parte del pubblico consumatore. La sicurezza alimentare deve essere raggiunta sviluppando e privilegiando la produzione agricola e l’allevamento interni, venendo intesa come tale quella proveniente da attività agricole, di pastorizia e di pesca. La produzione di alimenti è di interesse nazionale e fondamentale per lo sviluppo economico e sociale della Nazione. A tal fine, lo Stato detta le misure di ordine finanziario, commerciale, di trasferimento di tecnologia, possesso della terra, infrastrutture, formazione di manodopera ed altre necessarie Food Sovereignty Angelo Rinella per raggiungere livelli strategici di autosufficienza. Inoltre, promuove le azioni nell’interesse dell’economia nazionale ed internazionale per compensare gli svantaggi derivati dall’attività agricola. Lo Stato protegge gli insediamenti e le comunità di pescatori artigianali, così come i loro luoghi di calata delle reti da pesca in acque continentali ed in quelle prossime alla linea di costa indicate dalla legge». Nei successivi artt. 306 e 307 la costituzione sviluppa ulteriormente la visione politica sull’agricoltura e sul relativo regime. L’art. 306 affida allo Stato il compito di promuovere «le condizioni per lo sviluppo rurale integrale, col proposito di generare impiego e garantire alla popolazione contadina un livello adeguato di benessere, come la sua integrazione allo sviluppo nazionale. Ugualmente promuove l’attività agricola e l’uso efficace della terra mediante la dotazione di infrastrutture, credito, formazione professionale e assistenza tecnica». Con l’art. 307 si colpisce il precedente regime latifondista che la costituzione riconosce come «contrario all’interesse sociale». La legge dispone le misure tributarie appropriate per gravare le terre improduttive e stabilisce le misure necessarie per la loro trasformazione in unità economiche produttive, riscattando ugualmente le terre di vocazione agricola. I contadini ed altri produttori agricoli e allevatori hanno diritto alla proprietà della terra, nei casi e nelle forme specificate dalla legge. Lo Stato tutela e promuove le forme associative ed originali di proprietà della terra per garantire la produzione agricola. Lo Stato protegge l’utilizzo sostenibile delle terre a vocazione agricola per garantire il loro potenziale agroalimentare. nali che ancora operavano all’interno del Parlamento, grazie ad una consultazione popolare, Correa riuscì a istituire l’Assemblea costituente che dette vita alla nuova costituzione dell’Ecuador, che entrò in vigore nel 2008 (Ramírez Gallegos, 2013). I lavori dell’Assemblea costituente furono caratterizzati da interessanti forme di partecipazione popolare; tra le istanze che furono rivolte ai membri dell’Assemblea, le richieste di una riforma agraria e del riconoscimento a livello costituzionale del diritto al cibo e della sovranità alimentare ricevettero un ampio sostegno popolare. La costituzione stabilisce all’art. 281, c. 1, che «la sovranità alimentare è un obiettivo strategico e rappresenta un obbligazione per lo Stato affinché garantisca che le persone, le comunità, i popoli e le nazioni raggiungano una permanente autosufficienza nell’accesso ad un cibo sano e culturalmente appropriato». In base a questa definizione la stessa costituzione (art. 281, c. 2) declina ben quattordici obiettivi che è responsabilità dello Stato realizzare nel quadro delle azioni destinate a tradurre in pratica la sovranità alimentare: promuovere la produzione agroalimentare da parte di aziende agricole di piccola e media dimensione, dell’economia sociale e solidale; adottare politiche fiscali e tariffarie per proteggere il settore agroalimentare e della pesca nazionale e per evitare dipendenza dall’importazione di alimenti; rafforzare la diversificazione e l’introduzione di tecnologie ecologiche; promuovere politiche di redistribuzione delle terre che consentano il libero accesso degli agricoltori alle terre incolte, all’acqua e alle altre risorse naturali; promuovere la preservazione e il recupero dell’agro-biodiversità e delle conoscenze ancestrali ad essa connesse, così come l’utilizzo, la conservazione e il libero scambio delle sementi; garantire che gli animali destinati alla alimentazione dell’uomo siano sani e allevati in un ambiente sano; assicurare lo sviluppo della ricerca scientifica e della innovazione tecnologica per garantire la sovranità alimentare; promuovere lo sviluppo di organizzazioni di produttori e consumatori per la commercializzazione e distribuzione dei prodotti alimentari secondo principi di equità tra aree rurali e aree urbane; generare sistemi equi e solidali di distribuzione e commercializzazione dei prodotti alimentari; impedire pratiche monopolistiche e qualunque tipo di speculazione sui prodotti alimentari; fornire alimenti sufficienti alle popolazioni vittime di disastri naturali o antropici che abbiano posto a rischio l’accesso al cibo; prevenire e impedire il consumo di alimenti con- 230 4.2. La costituzione dell’Ecuador (2008) L’elezione di Rafael Correa nel 2007 segnò la vittoria del movimento Alianza Paìs e l’avvio di un processo di radicale cambiamento di natura politica, sociale e istituzionale. La Revolución ciudadana voluta dal movimento di Correa, che aveva raccolto così ampi consensi, aveva indicato come momento determinante del nuovo corso l’istituzione di una Assemblea costituente per l’elaborazione di una nuova costituzione ecuadoriana, che avrebbe dovuto estendere i diritti dei cittadini e ridefinire gli obiettivi di sviluppo del paese. Malgrado la resistenza dei partiti tradizio- 231 232 Food Sovereignty taminati o che mettano a rischio la salute della popolazione o alimenti rispetto ai quali le conoscenze scientifiche mostrino incertezza a proposito dei loro effetti sulla salute umana. Si tratta, come si vede, di un complesso di obiettivi piuttosto ricco e articolato che l’Assemblea costituente ha demandato al governo nazionale ecuadoriano per dar seguito alla costituzionalizzazione della sovranità alimentare. Il successivo art. 282, in stretta correlazione con i principi menzionati nell’articolo precedente, stabilisce che lo Stato deve disciplinare l’uso e l’accesso alla terra secondo criteri coerenti con le finalità sociali e la tutela dell’ambiente. Per consentire questo processo di redistribuzione, la legge dovrà istituire un Fondo Nacional de Tierra con il compito di disciplinare in modo equo l’accesso dei coltivatori e delle coltivatrici alla terra. Lo Stato, quindi, ai sensi della costituzione, governa direttamente le politiche di accesso e controllo delle terre coltivabili; nulla dice invece la costituzione a proposito delle modalità con cui il complesso processo di riforma agraria dovrebbe essere messo in pratica, quali soggetti verrebbero coinvolti e quali terre dovrebbero essere oggetto di redistribuzione. Nello stesso art. 282 si stabilisce il divieto del latifondo e della concentrazione delle terre, nonché il divieto dell’accaparramento e della privatizzazione dell’acqua e delle sue sorgenti. Lo Stato disciplinerà l’uso e la gestione dell’acqua per la produzione alimentare, secondo principi di equità, efficienza e sostenibilità. L’impianto costituzionale sulla sovranità alimentare in Ecuador assegna allo Stato il ruolo centrale nella promozione e attuazione delle politiche connesse; in tal modo si contraddice quanto auspicato dai movimenti sostenitori della sovranità alimentare circa la necessità di coinvolgere le organizzazioni degli agricoltori e della società civile nei processi decisionali. In base alla Dichiarazione di Cuba sulla sovranità alimentare (2001), le riforme agrarie dovrebbero «anzitutto costituire un obbligo per i governi nazionali … da attuare nell’ambito delle politiche di tutela dei diritti umani e di contrasto alla povertà. I processi delle riforme agrarie dovrebbero inoltre essere controllati dalle organizzazioni dei contadini». Sotto questo profilo, dunque, la costituzione dell’Ecuador appare insufficiente. Angelo Rinella 233 4.3. La costituzione della Bolivia (2009) All’indomani della sua elezione, con non poche resistenze, il presidente Morales promosse l’avvio dei lavori dell’Assemblea costituente con l’obiettivo di dare al paese una nuova carta costituzionale che recepisse i valori e le proposte maturate in seno al movimento. La nuova costituzione era destinata dunque a rifondare lo Stato sulla base di un impianto alternativo a quello dello Stato liberale e capitalista: uno Stato sociale plurinazionale, democratico e comunitario (González 2013; Chávez, Mokrani, 2007; Shilling-Vacaflor, 2011). In questo contesto, il ruolo dello Stato muta radicalmente: non più uno Stato apparato quale strumento di dominazione, ma piuttosto uno Stato che nella relazione con i governati, i popoli boliviani, persegue le condizioni di uguaglianza sociale attraverso la democrazia, il decentramento del potere e la redistribuzione della ricchezza. La costituzione del 2009 contiene espliciti riferimenti alla sovranità alimentare, che tuttavia vanno inquadrati e interpretati alla luce dei principi in tema di diritti fondamentali, cui si riferisce l’art. 16, in base al quale «Ogni persona ha diritto all’acqua e all’alimentazione. Lo Stato ha l’obbligo di garantire la sicurezza alimentare, tramite un’alimentazione sana, adeguata e sufficiente per tutta la popolazione». Ma è all’art. 407 che il costituente ha inteso declinare gli obiettivi della politica di sviluppo rurale integrale dello Stato, in coordinazione con gli enti territoriali autonomi e decentrati: 1. Garantire la sovranità e la sicurezza alimentari, dando priorità alla produzione e al consumo di alimenti di origine rurale prodotti nel territorio boliviano. 2. Stabilire meccanismi di protezione della produzione agricola boliviana. 3. Promuovere la produzione e la commercializzazione di prodotti agricoli ecologici. 4. Proteggere la produzione rurale ed agroindustriale prevenendo i disastri naturali e gli incidenti climatici, geologici e antropici. 5. Implementare e sviluppare l’educazione agricola produttiva ed ecologica a tutti i livelli e con ogni modalità. 6. Stabilire politiche e progetti sostenibili, curando la conservazione ed il recupero dei suoli. 7. Promuovere sistemi di irrigazione finalizzati a garantire la produzione rurale. 8. Garantire l’assistenza tecnica e stabilire meccanismi di innovazione e trasferimento tecnologico in tutta la catena produttiva rurale. 9. Istituire la banca dei semi e i centri di ricerca gene- Food Sovereignty Angelo Rinella tica. 10. Stabilire politiche di promozione e sostegno a settori produttivi rurali naturalmente deboli dal punto di vista strutturale. 11. Controllare l’ingresso e l’uscita dal paese di risorse biologiche e genetiche. 12. Stabilire politiche e programmi volti a garantire la sanità rurale alimentare e dei prodotti rurali. 13. Provvedere all’infrastruttura produttiva, manifatturiera ed industriale ed ai servizi di base del settore agricolo. Si tratta, com’è evidente, di un impianto di obiettivi e finalità che sembrano aver pienamente incorporato i principi e i valori della sovranità alimentare. mentare. In quanto produttori agricoli, dobbiamo rispettare, garantire e preservare le produzioni agricole dei nostri antenati. Questo non significa che siamo contro la tecnologia, ma piuttosto che facciamo principalmente uso delle nostre conoscenze e delle risorse naturali; in quanto consumatori reclamiamo che la produzione e la distribuzione dei prodotti alimentari avvenga in armonia con la natura e all’interno del nostro territorio, per garantire un cibo sano e sufficiente». La costituzionalizzazione della sovranità alimentare negli ordinamenti del Venezuela, dell’Ecuador e della Bolivia richiama, come si è potuto osservare, in termini pressoché esaustivi i concetti chiave e i principi fondanti la sovranità alimentare secondo la definizione elaborata dalle organizzazioni internazionali impegnate su questo fronte (in primo luogo La Vía Campesina). Tuttavia, le forze politiche e sociali che all’interno dei tre diversi sistemi ricoprono una posizione dominante hanno manifestato rilevanti differenze nel modo di intendere e attuare la sovranità alimentare. Come risulta chiaro dai documenti dei movimenti sociali che sostengono la sovranità alimentare, essa richiede una radicale riforma del sistema politico e, in modo correlato, dei sistemi economici, sociali e istituzionali. In particolare, punto centrale del programma di realizzazione della sovranità alimentare è garantire il libero accesso alle risorse naturali in modo equo e sostenibile, affinché ciascuno possa organizzare la propria attività di produzione agricola e di distribuzione dei prodotti agricoli nella misura necessaria a rispondere alla domanda dei consumatori. Questo sistema presuppone condizioni di democrazia che devono pre-esistere all’attuazione della sovranità alimentare. 234 5. Cenni conclusivi Ramiro Téllez, esponente di spicco del movimento La Vía Campesina, nel 2007 – mentre si elaborava il testo della nuova costituzione della Bolivia – osservò che non sarebbe stato sufficiente scrivere i principi della sovranità alimentare nella nuova costituzione, né sarebbe bastato che fosse nominata nelle nuove leggi, nei nuovi programmi di governo o addirittura se si fosse istituito un apposito ministero per la sovranità alimentare. Ciò che veramente conta, in termini concreti, è dare avvio ad una vera riforma agraria, garantire la salvaguardia e la tutela delle sementi ancestrali attraverso il divieto di introduzione dei semi geneticamente modificati, assicurare il sostegno dei piccoli e medi produttori agricoli e rafforzare la lotta alle monoculture che causano gravi danni all’ambiente e alla salute dell’uomo. Inoltre, sosteneva Téllez, è necessario garantire l’accesso dei contadini e degli indigeni ad un mercato equo, dove possano vendere al giusto prezzo i loro prodotti. Ma alla radice di tutto sta una nuova visione della società, che pone al centro l’uomo e la natura e affida allo stato il compito di offrire alle popolazioni adeguati servizi sociali, in particolare nel campo della salute e dell’educazione, e l’accesso al cibo sufficiente e adeguato alla loro cultura. Lo spessore e la qualità del principio della sovranità alimentare si coglie poi in un passaggio ulteriore del discorso di Ramiro Téllez (2007): «a tutto quanto si è detto deve aggiungersi un elemento fondamentale, vale a dire che il popolo o la società civile non deve aspettarsi tutto questo dallo Stato. Ciascuno deve contribuire al proprio meglio per difendere la sovranità nazionale anche attraverso l’affermazione della sovranità ali- 235 Bibliografia Ariate J.F. (2011), Doubts and dissents on food sovereignty, in Philippine Journal of Third World Studies, 26. Bagni S. (cur.) (2013), Dallo Stato del bienestar allo Stato del buen vivir. Innovazione e tradizione nel costituzionalismo latino-americano, Filodiritto. Bello W.F. (2005), Dilemmas of domination: the unmaking of the American empire, Metropolitan Books. Carducci M. (2012), Epistemologia del Sud e costituzionalismo dell’alterità, in Dir. Pubbl. Comp. Eur., II. Carducci M. 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Angelo Rinella Abstract: After introducing briefly the concept of food sovereignty, this paper examines the contrasting elements of the idea of food sovereignty with respect to the “global food system”. The second part of the paper is devoted to the roots of food sovereignty in Latin America and, more particularly, to the constitutionalisation of the principle in question in the constitutions of Venezuela, Ecuador and Bolivia. Keywords: Food sovereignty, Food security, Global food system, Latin American Constitutionalism. 237 Pachamanka e sovranità alimentare in Ecuador: due spazi di “cottura” di Paolo Corvo22* e Claudia García23** SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La pachamanka e il principio dell’ayni. – 3. Ambiente, cibo, sovranità alimentare nella nuova costituzione. – 4. Tra buone pratiche e problemi. 1. Premessa Le pratiche quotidiane nelle Ande, come la cucina o l’agricoltura, hanno un carattere epistemologico in quanto spazi di interazione comunitari (Milla, 2003). Di conseguenza, si utilizzeranno due livelli multidisciplinari del sistema alimentare, come punto di partenza e filo conduttore di questo testo: la pachamanka – tecnica andina di cottura degli alimenti sotto terra – e il principio della sovranità alimentare. Questi non sono considerati esempi casuali: la maniera di preparare e consumare gli alimenti è il riflesso della cultura e dell’ambiente di un certo contesto. La frase «siamo ciò che mangiamo» del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach (1862) ha un suo significato in questo senso perché «ciò che mangiamo (e come) risponde ad un’intenzionalità condizionata dalla maniera di pensare, sentire e fare dentro una matrice socio-culturale» (Viera, 2005). Il sistema agro-alimentare rappresenta il rapporto che si ha con se stessi, ma simbolizza anche il rapporto che si ha con gli altri, come una strategia di sopravvivenza e di benessere individuale e collettivo. Nella nuova costituzione dell’Ecuador (2008) si inserisce il sumak * Paolo Corvo è ricercatore di Sociologia generale, dei consumi e del territorio e professore aggregato nell’Università di Scienze Gastronomiche di Bra-Pollenzo. ** Claudia García svolge attività di produzione agroecologica in Ecuador ed è promotrice di campagne di consumo responsabile. Pachamanka e sovranità alimentare in Ecuador Paolo Corvo - Claudia García kawsay o buen vivir come principio ordinatore dello Stato. Si affermano un nuovo rapporto con la natura, accettando che essa è soggetto di diritti e quindi di rispetto, un nuovo orizzonte di convivenza nell’ambito della plurinazionalità, un nuovo modello economico basato nella solidarietà e l’equità e un nuovo modello di democrazia basato sul rafforzamento della partecipazione cittadina. In questo contesto, la sovranità alimentare, diritto di un popolo a decidere sulla propria alimentazione, diventa un obiettivo strategico di carattere multidisciplinare in quanto piattaforma per lo sviluppo di politiche pubbliche finalizzate ad invertire la logica distruttiva del modello agro-alimentare dominante e a raggiungere il sumak kawsay (Acosta, Martínez, 2009). Sia la pachamanka sia la sovranità alimentare sono spazi di “cottura”: di alimenti e di idee. Questi sistemi alimentari funzionano in base al principio della reciprocità comunitaria e rappresentano due livelli epistemologici, non solo per capire, ma per “allevare” il sumak kawsay. argentini, cileni e paraguaiani. La pachamanka non è soltanto una modalità di preparazione degli alimenti con basso consumo di energia; è una forma culturale alla base della proposta del sumak kawsay o buen vivir. La società, nella cosmovisione andina, non comprende unicamente l’aggregato di persone che vivono insieme in una comunità più o meno ordinata, ma comprende anche gli esseri non umani, cioè la natura nella sua totalità: questa è la comunità, la “comune-unità”. Le persone non sono fuori dal tessuto di connessioni costituito dal cosmo e dalla natura e dove l’uomo non occupa un posto privilegiato. Tutto viene da due fonti: Pachatata che significa padre cosmo, energia o forza cosmica, e Pachamama che è la natura, la madre terra, energia o forze telluriche. Questi generano la forza dell’esistenza di tutto il creato (Huanacuni Mamani, 2010). Si osservi come dal vocabolario utilizzato per riferirsi alla natura esca fuori un senso di parentela: la natura è la madre e il cosmo è il padre, esiste appunto ciò che Shapin (1996) chiama una “epistemologia intima” nella relazione uomo-natura. Infatti, nel mondo andino tutto vive, tutto sente, tutto pensa e parla e le piante, animali o pietre sono lo stato transitorio attraverso cui tutti devono passare (Milla, 2003: 148). Con una natura viva e animata gli alimenti sono considerati altrettanto vivi e meritano di essere apprezzati come tali, almeno con rispetto e affetto, altrimenti possono originare effetti contrari; invece di alimentare possono generare malattie (Cachiguango, 2010). Il carattere animato della natura è manifestato nella pratica agricola e culinaria ancestrale: nella pachamanka «trattare bene i grani nella pratica significa utilizzare i prodotti in piena maturità, non interrompere il processo di cottura, perché altrimenti rimangono feriti, piangono e soffrono» (Viera, 2005). I popoli indigeni hanno costruito i principi di sopravvivenza e convivenza in sintonia con le leggi della natura, vivendo in una comunità dove si pratica la reciprocità, la dualità e la complementarietà. L’ayni – in kichwa – o legge della reciprocità simmetrica costruttiva (Milla, 2003: 146) è il principio considerato il più utile per la vita quotidiana e si applica nelle comunità amerindie per ottenere una produzione e una ridistribuzione degli eccedenti dell’economia collettiva al fine di mantenere un’alta qualità della vita in funzione dell’interesse di tutti i membri. Questo intende uno scambio, un dare e ricevere, non solo tra i singoli individui, ma all’interno di tutta la comunità, tutto l’ayllu (la comunità familiare 240 2. La pachamanka e il principio dell’ayni Nella cosmovisione andina la cucina ha una sua identità e complessità. Le Ande sono una delle catene montuose con i climi e microclimi più diversi del pianeta e che presenta un’ampia biodiversità. Sembrerebbe semplice la sopravvivenza umana in queste condizioni vantaggiose, tuttavia, è difficile e complessa proprio per via dei periodici cambiamenti climatici. La pachamanka è un antichissimo metodo di cottura degli alimenti – capace di cuocere grandi quantità di alimenti con poco legname – fatto in una fossa aperta nella terra e che utilizza il calore emesso da pietre inizialmente sottoposte ad alte temperature. Gli alimenti e le pietre sono collocati a strati e coperti ermeticamente con terra per evitare che il vapore esca. Pachamanka, in lingua kichwa, significa pentola di terra. L’origine e la pratica di questa pentola naturale si sviluppano in aree culturalmente forti o considerate poli dello sviluppo dell’odierno continente sudamericano: attorno al lago Titicaca in Bolivia e Perù, nella valle del Cusco, Mantaro e Arequipa. In Ecuador si pratica nelle parti alte della provincia di Tungurahua, Imbabura e Loja. La pachamanka si sviluppa anche tra i popoli mapuches, guaranies, aymaras e quechuas 241 Pachamanka e sovranità alimentare in Ecuador Paolo Corvo - Claudia García estesa), ovviamente Pachamama compresa. «Il dono alla Pachamama è come la restituzione dell’ayni che lei ci dà tramite le piante silvestri e coltivate che ci alimentano e ci curano» (Milla, 2003: 120). La pachamanka, ad esempio, è una forma di vivere l’ayni, è in essenza un atto comunitario, un atto di ringraziamento ai lavori collettivi, alle persone ma anche alla Pachamama. In questi atti collettivi di preparazione delle pietanze si prestano le mani e si scambiano le mani in beneficio delle famiglie, delle comunità, dell’ayllu. Nella pachamanka tutti gli elementi sono complementari nella loro diversità di forma ed esistono in funzione di un equilibrio organico, ossia in funzione dell’armonia del tutto. Il fuoco e il riscaldamento delle pietre garantiscono che gli alimenti non siano inquinati dalle energie negative delle deità cattive, purificando gli alimenti e offrendo una “contaminazione positiva”. Oltre al fuoco, per mantenere gli spiriti cattivi bloccati nelle pietre si completa la pentola con aji (peperoncino), aglio e sale che, aggiunti al cibo, servono anche per spaventarli. Anche il benessere fisiologico dipende dal buon equilibrio tra alimenti e bevande fredde e calde. Questa vitalità si tradurrebbe nel buon vivere, buon lavorare, buon amare, buon pensare, buon parlare, ossia nella vita dell’essere runa (l’essere umano consapevole di esistere), famiglia, comunità (Viera, 2005). Il benessere individuale nel mondo andino non è scollegato dal benessere collettivo. Nell’idioma kichwa, ad esempio, l’equivalente del termine salute è il sumak kawsay stesso. Si indica così che la salute non è solamente relazionata al benessere del corpo umano o benessere personale ma anche a tutto l’ambiente circostante, materiale e spirituale, cioè, un ben-essere e un ben-stare insieme alla totalità. La vita armonica o paradigma comunitario del sumak kawsay invita a non consumare più di ciò che l’ecosistema può supportare e ad evitare i rifiuti che non si possono assorbire con sicurezza. Incita anche a riutilizzare e riciclare tutto ciò che è già stato utilizzato e non può essere concepito senza la comunità. Contraddice la logica capitalista, l’individualismo, la monetizzazione della vita, lo snaturamento dell’essere umano e la visione della natura come una risorsa che può essere sfruttata come un oggetto inanimato (Huanacuni Mamani, 2010: 51). L’economia è così la forma con cui i popoli decidono di entrare in relazione con tutte le forme esistenti e, in questo caso, non ha come fine l’accumulazione, ma l’equilibrio della vita. I popoli andini partono dalla coscienza che tutto è interconnesso e tutti hanno un ruolo complementare. Ognuno ha il diritto di relazione con la Madre Terra che vuol dire che si dà e si riceve in accordo con i bisogni e le responsabilità: la natura non è più vista come un fattore produttivo ma come parte integrante il corpo sociale e la complementarietà genera la distribuzione secondo il bisogno del momento (Huanacuni Mamani, 2010: 58). Non esistono, infatti, le gerarchie ma le responsabilità naturali complementari, come l’albero che produce ossigeno e assorbe anidride carbonica o le pietre che cuociono i cibi grazie al calore fornito dal fuoco. 242 243 3. Ambiente, cibo, sovranità alimentare nella nuova costituzione La stesura della costituzione ecuadoriana del 2008 è il risultato di varie rotture di fronte ad una cultura neoliberale che marca una delle più profonde crisi economiche che causò la migrazione di più di due milioni di persone dal paese nell’ultimo decennio. Le popolazioni indigene con la proposta della plurinazionalità, il movimento contadino per la rivendicazione della terra, dell’acqua, per la difesa della produzione di cibo a livello locale e nazionale di fronte ai trattati di commercio libero e la costante mobilitazione per educazione, salute e mercati, costituirono un’ampissima partecipazione sociale e politica, non solo “per rivendicare il campo” ma contro un modello neoliberale e l’oligarchia che lo costituivano. La nuova costituzione nasce dalla volontà di tradurre il senso e principi di benessere comunitario del sumak kawsay introducendo nuovi ambiti di diritto legati al buen vivir e nuovi soggetti di diritto. Nella costituzione la natura diventa soggetto di diritti: «La natura o Pachamama, dove si riproduce e realizza la vita, ha diritto al rispetto integro della sua esistenza, mantenimento e rigenerazione dei suoi cicli vitali, struttura, funzioni e processi evolutivi» (art. 71). Oltre al riconoscimento giuridico della natura, la costituzione contempla il diritto all’accesso all’acqua, patrimonio nazionale strategico di uso pubblico, inalienabile, imprescrittibile, irrinunciabile ed essenziale per la vita (art. 12) e il diritto ad alimenti sani, sufficienti e nutrienti; pre- Pachamanka e sovranità alimentare in Ecuador Paolo Corvo - Claudia García feribilmente prodotti a livello locale (art. 13). Questi diritti devono garantire alle popolazioni di vivere in un ambiente sano ed ecologicamente equilibrato dove viene dichiarato d’interesse pubblico la preservazione dell’ambiente, la conservazione degli ecosistemi, la biodiversità, l’integrità del patrimonio genetico del paese, la prevenzione del danno ambientale e il recupero degli spazi naturali degradati (art. 14). Lo Stato, inoltre, si impegna a promuovere, nel settore pubblico e privato, l’uso di tecnologie ambientalmente pulite e di fonti di energia alternative non contaminanti e a basso impatto e a proibire tecnologie, agenti, prodotti agro-chimici o organismi nocivi per la salute umana o per gli ecosistemi (art. 15). La costituzione sviluppa anche una visione del sistema economico che prende le distanze dal mercato e dalla centralità del capitale, innescando una prospettiva umanista ed ecologista nell’ambito del sumak kawsay. Viene proposto un ruolo determinante per lo Stato ed apre le porte ad una presenza attiva della società: «Il sistema economico è sociale e solidale; riconosce l’essere umano come soggetto e fine; tende a una relazione dinamica ed equilibrata tra società, Stato e mercato, in armonia con la natura; e ha l’obiettivo di garantire la produzione e riproduzione delle condizioni materiali ed immateriali che consentano il buon vivere» (art. 283). Si afferma anche l’importanza del mercato nazionale su quello internazionale, si accetta la necessità di processi di ridistribuzione della ricchezza, riconoscendo il ruolo delle economie popolari e collocando al centro la questione della natura e costituzionalizzando la domanda delle organizzazioni contadine e dei movimenti sociali con la visione della sovranità alimentare. Quest’ultimo concetto – sottolineato nell’art. 13 dove si enuncia che lo Stato promuoverà la sovranità alimentare – è stato sviluppato in un contesto internazionale già da prima del processo costituente come atto di resistenza e denuncia alle politiche imposte dal modello neoliberale e la conseguente perdita dei diritti legati alla terra, al mare e alla produzione alimentare su piccola scala (Conferenza internazionale della Coalizione internazionale Vía Campesina, Tlaxcala, Messico, 1996). La sovranità alimentare va al di là della sicurezza alimentare (Vertice Fao, 1996) poiché non si tratta solo di garantire la sufficienza del cibo ma di andare d’accordo con la qualità e la volontà popolare nel controllare i fattori di produzione e commercializzazione. La considerazione della sovranità alimentare nella costituzione rappresenta un passo importante nel riconoscimento della produzione contadina come ente articolante dello sviluppo rurale. La sovranità alimentare costituisce un obiettivo strategico e un obbligo dello Stato per garantire che persone, comunità, popoli e nazionalità raggiungano l’autosufficienza di alimenti sani e culturalmente appropriati in maniera permanente (art. 281). Diventa quindi il conduttore delle politiche agrarie e di recupero della biodiversità, prendendo in considerazione che oltre all’accumulo di potere e alla distruzione delle economie locali, il danno che l’agricoltura convenzionale rappresenta per la agrobiodiversità sarebbe molto rilevante, perché crea dei problemi gravi di esaurimento del suolo dovuto alla monocultura, all’uso di agrochimici e fertilizzanti tossici, causando anche la perdita dell’acqua e la perdita della diversità, aspetti che, disgiunti, spezzano l’equilibrio ecologico e riducono la capacità degli ecosistemi nel sostenere la vita. Nella Ley Orgánica del Régimen de la Soberanía Alimentaria (Lorsa), approvata nel 2009, si promuove ampiamente l’agroecologia come meccanismo di produzione di cibo per contrastare la crisi del sistema alimentare attuale. La Lorsa ha come scopo di stabilire i meccanismi mediante i quali lo Stato compia il suo obbligo e obiettivo strategico (come stabilito nell’art. 281 cost.) di garantire alle persone, comunità e popoli l’autosufficienza di alimenti sani, nutrienti e culturalmente appropriati in maniera permanente: «Il regime della sovranità alimentare è costituito dall’insieme di norme connesse, destinate a stabilire in maniera sovrana le politiche pubbliche agro-alimentari per fomentare la produzione sufficiente e l’appropriata conservazione, scambio, trasformazione, commercializzazione e consumo di alimenti sani, nutritivi, preferibilmente provenienti dalla mediana, piccola e micro produzione contadina, dalle organizzazioni economiche popolari e dalla pesca artigianale cosi come dalle micro-aziende e artigianato; rispettando e proteggendo l’agro-biodiversità, le conoscenze e le forme di produzione tradizionali e ancestrali, sotto i principi di equità, solidarietà, inclusione, sostenibilità sociale ed ambientale» (art. 1 Lorsa). 244 245 246 Pachamanka e sovranità alimentare in Ecuador 4. Tra buone pratiche e problemi Con la sovranità alimentare si vogliono articolare relazioni di produzione, distribuzione e consumo consapevoli e sostenibili tramite la messa in rete degli attori coinvolti nelle diverse fasi di lavorazione. Le esperienze di economia comunitaria sono esempi interessanti di questa dinamica di interrelazione. Molte di queste nascono dall’articolazione dei movimenti sociali e, allo stesso tempo, sono l’origine per nuovi movimenti e nuovi scambi ed articolazioni, rendendo l’economia più organica e diversa, cioè più comunitaria. C’è, ad esempio, il caso della Red Nacional Mar, Tierra y Canasta, una rete di 900 famiglie di 18 località ecuadoriane che si integrano in gruppi di agricoltori, pescatori e consumatori e si organizzano per garantire la commercializzazione di alimenti in maniera solidale, con la modalità di canastas comunitarias o cestino comunitario. La rete è un referente nazionale simbolico interessante perché articola una produzione agroecologica, una distribuzione democratica di cibo ed un consumo sano e responsabile, accompagnati da una riflessione costante e consistente sulla capacità di incidenza nelle politiche pubbliche e dallo scambio di esperienze a livello nazionale ed internazionale. La rete fa a sua volta parte del Movimiento de Economía Social y Solidaria del Ecuador, collettivo che articola esperienze di economia solidale del paese. Si dialoga sulle pratiche, sui saperi e sulle esperienze delle diverse imprese familiari concernenti gli aspetti di produzione, distribuzione e consumo. Il Movimento fa anche parte del Colectivo Agroecológico una rete di reti che include dei produttori biologici, la Red de Guardianes de Semillas (rete di guardiani dei semi), associazioni di produttori biologici ed altri. Quest’ultima è formata da 80 famiglie di guardiani di semi e cento soci produttori occasionali e non produttori che lavorano da Nariño e Putumayo al Sud della Colombia, fino a Loja, al Sud dell’Ecuador. Si dedicano, oltre a produrre e a promuovere delle varietà vegetali ed animali contadine, native o meticce, alle pratiche agroecologiche e alla gestione di spazi di commercio solidale orientati alla sovranità alimentare. L’esistenza di tutte queste realtà collegate rende percepibile la lotta per un’economia comunitaria e per una sovranità alimentare, dove l’obiettivo è il benessere comunitario. Un intento di diffusione sociale del sumak kawsay è stata la campagna Paolo Corvo - Claudia García 247 nazionale per la sovranità alimentare “Come Sano, Seguro y Soberano”. Questa campagna di appropriazione pubblica ha origine dall’interesse collettivo per cambiare il sistema alimentale convenzionale e rappresenta il rafforzamento della lotta per una sovranità alimentare incorporata politicamente nella nuova costituzione. La campagna è stata l’opportunità per riunire i diversi movimenti sociali coinvolti in attività affini e connettere idee per rendere consapevole la cittadinanza riguardo i nuovi diritti e le responsabilità attinenti. La campagna trattava precisamente la promozione e l’educazione agroecologica come alternativa all’agricoltura convenzionale moderna, ritenuta causa di gravi problemi contro gli ecosistemi e i cicli naturali. Lo scopo è stato di informare e invitare a partecipare tutti quanti con pratiche quotidiane che rendano possibile il buon vivere. La campagna è stata promossa in fiere agroecologiche o mercati contadini a livello nazionale, in scuole e altri spazi comunitari. Le alleanze create tra alcuni movimenti si rafforzarono ma, al contempo, ci si rese conto che mancava ancora un vero cambiamento di sostanza: «Non servono solo delle campagne e dei progetti internazionali per convincere su come agire di fronte al problema alimentare; servono soprattutto dei cambiamenti strutturali nelle politiche pubbliche che restituiscano ai popoli dei diritti a decidere sulla loro maniera di vivere» (Onorati, 2009). In effetti, il buen vivir, per la sua natura comunitaria, invita alla partecipazione politica e nella costituzione in vigore si stabilisce che le cittadine e i cittadini in maniera individuale e collettiva parteciperanno come protagonisti alla presa di decisioni, alla pianificazione e alla gestione degli affari pubblici e al controllo popolare delle istituzioni dello Stato della società, e dei suoi rappresentanti, in un processo permanente di costituzione del potere cittadino sulla base dei principi di uguaglianza, autonomia, deliberazione pubblica, rispetto della diversità, controllo popolare, solidarietà e interculturalità (art. 95). La sovranità alimentare è un principio attorno al quale ogni popolo costruisce le proprie strategie e metodologie di produzione, distribuzione e consumo di alimenti. Non è un modello di agricoltura e alimentazione ma una piattaforma di lotta che le organizzazioni dei piccoli produttori di cibo (nelle diverse declinazioni) si danno e costruiscono per imporre politiche pubbliche che li sostengano e che tolgano infine il sostegno all’agricoltura dominante. Nel 2009 nasce la Conferencia Nacional por la Soberanía Alimentaria, Pachamanka e sovranità alimentare in Ecuador Paolo Corvo - Claudia García un meccanismo autonomo ed indipendente, istituito dalla Lorsa, come uno spazio di potere cittadino per il dibattito, la deliberazione e la generazione di proposte da parte delle organizzazioni e degli attori della società civile. L’obiettivo della Conferencia è appunto gettare le basi giuridiche per trasformare il sistema agrario ed alimentare dell’Ecuador sotto il nuovo paradigma della sovranità alimentare (Manifesto pubblico). La Conferencia, unico ente di avvicinamento delle istituzioni pubbliche con la cittadinanza, entra in funzione nell’agosto del 2009 ma rimane privo di fondi per un anno. Mentre questo meccanismo rimane a tutt’oggi debole, il grande privato agroindustriale si sta avvicinando alla politica del paese con delle proposte di legge ambigue, approfittando delle contraddizioni e confusioni interne. Si comprende che, in termini concreti e quotidiani, negli ultimi anni, la situazione stia peggiorando: si starebbe perdendo la sovranità alimentare velocemente. Ad esempio, i sussidi statali per l’agrobusiness sono aumentati e l’accesso ai crediti per i piccoli contadini è ancora basso. Si sta promuovendo, invece, la monocultura intensiva di cereali, come il mais e il riso, e anche le piantagioni forestali di palma (lungo la Costa e nell’Amazzonia) e si sta allargando il confine agricolo verso ecosistemi sensibili (i páramos) nelle Ande. Il Programma di Negocios Inclusivos che applica Pronaca, azienda di produzione industriale di alimenti, ad esempio, comprende la consegna delle sementi di miglior qualità certificate, input agricoli, formazione, assistenza tecnica e acquista tutto il raccolto ai produttori registrati nell’iniziativa. Con questo programma, dai 40q di mais raccolti per ettaro si è passati a 120q, triplicando quindi la produzione. Poiché la consegna delle sementi e il servizio di assistenza tecnica si realizzano in base ad un credito – ad interessi bassi – che l’impresa concede ai produttori, questi si impegnano a consegnare tutta la loro produzione all’azienda. Ovviamente, di fronte al rischio di perdite, i contadini accettano qualsiasi suggerimento per evitarlo, diminuendo il loro controllo e la capacità di decisione sulle materie prime e i processi che utilizzano. L’aspetto importante da sottolineare è che prima questa opzione si realizzava in maniera privata, quindi i crediti che si davano ai contadini venivano esclusivamente dall’azienda – pratica comunque criticata; ora, in nome della sovranità alimentare, l’accordo è che i contadini possono entrare in questo business inclusivo, attraverso un credito della Banca Nazionale di Fomento, o la Corporazione Finanziaria Nazionale, entrambi enti statali, che darebbero i fondi direttamente all’azienda. Anche se i crediti, così controllati, sono in apparenza economicamente più sicuri, il principio di equità, sostenibilità e democrazia della sovranità alimentare e l’economia dell’affetto del sumak kawsay vengono ignorati. Ci sono, inoltre, dei programmi per l’introduzione di agrocombustibili nel Sud e lungo la costa del paese ed è oggetto di dibattito un regolamento di bio-sicurezza per la liberazione di organismi geneticamente modificati, in entrambi i casi aggirando le proibizioni espresse e segnalate in costituzione. Inoltre, l’industria dei gamberi, allevamento che cancellò il 70% delle foreste di mangrovie nel litorale del paese, da attività illegale, oggi è in piena regola, senza che si siano modificate le nocive pratiche ambientali o rimediato al danno causato, contravvenendo il dettato costituzionale dove, all’art. 72 si rimarca che «la natura ha diritto ad interventi di ripristino. Tali interventi saranno indipendenti dall’obbligo che hanno lo Stato e le persone fisiche e giuridiche di risarcire gli individui e i collettivi che dipendono dai sistemi naturali danneggiati». I popoli raccoglitori e pescatori, espulsi delle loro terre, non hanno visto alcun beneficio né hanno ricevuto alcun risarcimento per la perdita delle loro attività. Perciò, gli attori dei movimenti sociali non vedono chiari i segnali a favore dell’agricoltura familiare e contadina di orientamento agroecologico, unica via verso una sovranità alimentare. Si osserva che le buone intenzioni e le dichiarazioni politiche non hanno avuto un effetto coerente sulla quotidianità il modello alimentare e culturale è lo stesso di prima. Un conto è la necessità di mantenere i livelli di produzione per l’autoconsumo e la commercializzazione, altra cosa è, però, l’inversione per l’arricchimento delle industrie agroalimentari. Queste decisioni pubbliche in contraddizione ai principi ordinatori del sumak kawsay, sono da un lato frutto della pressione delle transnazionali espresse tramite le Camere della produzione, ma sono anche frutto della superficialità con cui si utilizzano slogan e concetti nuovi riflessi in politiche che orientano la produzione ai mercati esterni e la sottomissione dei piccoli e medi produttori alle grosse catene agro-industriali. Nonostante la ribalta concettuale sia stata molto intrusiva con l’inserimento della cosmovisione indigena del sumak kawsay e la traduzione dei suoi principi ordinatori di reciprocità, complementarietà e circolarità 248 249 Pachamanka e sovranità alimentare in Ecuador Paolo Corvo - Claudia García ad istanze costituzionali, la mancanza di approfondimento, soprattutto per quanto riguarda i metodi di implementazione, rendono questi concetti e queste visioni non solo poco efficaci ma addirittura rischiose per il benessere comunitario. Sia la pachamanka che la sovranità alimentare rappresentano due livelli epistemologici, non solo per capire, ma per “allevare” il sumak kawsay: dalle esperienze di economia sociale e solidale dentro l’ambito della sovranità alimentare si ripropongono i soggetti sociali, non solo come utenti, ma come partecipi della costruzione di una comunità conviviale. In particolare, la sovranità alimentare rappresenta un’opportunità per invertire la logica distruttiva dell’industria agroalimentare convenzionale. Tuttavia, quando i concetti diventano “moda” rimangono, non solo deboli e provvisori, ma esposti alla trasfigurazione del senso, manovra che l’industria del consumo è esperta a fare: non dovremmo stupirci se un giorno trovassimo tra gli scaffali dei supermercati la “Nuova Pachamanka pronta” o il “Sumak Kawsay, nuovo preparato surgelato di produzione nazionale”. lationship with nature, a new economic model based on solidarity and equity, and a new model of democracy based on the strengthening of citizens participation. In this context, food sovereignty becomes a strategic goal of multi-disciplinary character, as a platform for the development of public policies aimed at reversing the destructive logic of the dominant agri-food model. This is showed also in the practice of pachamanka, a space for cooking food and ideas. 250 Bibliografia Acosta A., Martínez E. (comp.) (2009), El buen vivir. Una vía para el desarrollo, Abya-Yala. Cachiguango L.E. (2010), Sumak Kawsay: salud y enfermedad en los Andes, Abya-Yala. Feuerbach L. (1990/1862), Das Geheimnis des Opfers oder der Mensch ist was er isst, in Schuffenhauer W., Ludwig Feuerbach Gesammelte Werke, Akademie Verlag. Huanacuni Mamani F. (2010), Buen Vivir/Vivir Bien. Filosofía, políticas, estrategias y experiencias regionales andinas, Coordinadora Andina de Organizaciones Indígenas. Milla C. (2003), Ayni. Semiotica Andina de los espacios sagrados, Asoc. Cultural Amaru Wayra. Onorati A., Colombo L. (2008), Diritto al cibo. Agricoltura dominante e governance alimentare, Jaka books. Shapin S. (1996), The Scientific revolution, University of Chicago Press. Viera M. (2005), La Pachamanka, Universidad Intercultural Amawtay Wasi. Abstract: In the new Constitution of Ecuador (2008) sumak kawsay or buen vivir is the ordering principle of the State. There’s a new re- Keywords: Buen vivir, Pachamanka, Food sovereignty, Cooking. 251 Agroecologia e buen vivir. Come far giocare l’uomo e l’ambiente di Giorgio Osti24* SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Buen vivir: le dimensioni di fondo. – 3. Sovranità alimentare versus sicurezza. – 4. Buen vivir e agroecologia. – 5. Buen vivir, agroecologia, gioco. – 6. Conclusioni. 1. Premessa Il contributo ha lo scopo di verificare se e come l’approccio derivante dal buen vivir ispiri una nuova e più illuminante rappresentazione del rapporto fra uomo e natura, utilizzando come banco di prova l’ambito che rappresenta la mediazione per eccellenza fra l’uno e l’altra: l’agricoltura. L’esigenza di una simile verifica nasce, da un lato, dalle promettenti prospettive del buen vivir, che proprio su agricoltura e natura pone grande attenzione; dall’altro, dall’insoddisfazione per il dualismo antropocentrismo-biocentrismo, con cui spesso si raffigura la questione ambientale e le sue origini. A questo proposito, gli elementi “fusionisti” fra natura e cultura presenti nelle filosofie andine che ispirano il buen vivir fanno ben sperare che vi siano elementi che vadano oltre lo stantio dibattito pro e contro la posizione privilegiata dell’homo sapiens. Lo sbocco del discorso sarà un accento sulla relazione fra uomo e ambiente, basata sulla metafora del gioco. L’agricoltura stessa potrebbe essere a buon diritto inserita in tale gioco fra le parti. Per arrivare ad un simile approdo si seguiranno quattro tappe: le dimensioni del buen vivir utili al nostro percorso, il tema della sovranità alimentare, l’agroecologia e, infine, gioco e agricol- * Professore associato di Sociologia dell’ambiente e del territorio nell’Università di Trieste. Agroecologia e buen vivir Giorgio Osti tura biologica. La filosofia del buen vivir sembra per ora funzionare bene come modello politico ossia ispiratrice di mete alte di una comunità politica, seguendo una intermittente tradizione rivoluzionaria dell’America Latina. Sul versante epistemologico – modalità di conoscere il rapporto fra uomo e natura – è forse più proficua la sinergia fra la tradizione andina e il pensiero di alcuni studiosi della teoria dei sistemi. alti livelli di civiltà: società e natura erano e sono una totalità; concepirsi ‘parte di’ non era sinonimo di barbarie. Abya Ayala, non era un continente ricco, bensì ‘la terra di abbondante vita’, la natura non era una risorsa, ma rappresentava la Pachamama, ossia, la ‘madre’ di tutto l’esistente» (Benalcázar Alarcón, 2009: 327). Il mistero viene sciolto; viene riconosciuta una origine. Come è noto, il racconto sull’origine sta alla base dei miti fondativi dei popoli (Eliade, 1966); si tratta di un discorso nel quale si accomunano elementi geografici (il luogo di nascita), genetici (discendenza) e storici (percorso condiviso) di un popolo. Inoltre, viene indicato un elemento unificante, la vita. La terra, intesa come ventre fecondato dal seme, dona la vita, permette di venire alla luce; è quel substrato dal quale trae origine ciò che ha esistenza biologica, un mito poi razionalizzato nelle pratiche agricole. Dalla terra emergono tutte le forme di vita, compresa quella umana nella misura in cui per esistere l’uomo deve nutrirsi dei frutti della terra. In tutto questo vi è già un riferimento preciso alla coltivazione della terra e all’allevamento degli animali. Ma prima di addentrarci nel versante agricolo del buen vivir, è utile mettere in luce un altro aspetto centrale: il rapporto fra parte e tutto. Società e natura sono da sempre (“erano e sono”) una totalità; uomo e natura sono intimamente uniti, più precisamente l’uno è parte dell’altra. Volendo interpretare, si può dire che la natura umana è inserita, inglobata in quella più generale che prende le sembianze della Madre Terra. Siamo di fronte ad un rovesciamento completo del cosiddetto antropocentrismo degli anni ‘70 del secolo scorso ritenuto la prospettiva culturale da cui è scaturita la crisi ecologica (Catton, Dunlap, 1978). «Per molti popoli del Sud e per i soggetti del campo delle nuove soggettività, ed in passato anche per i popoli del Nord, la Terra è invece nostra madre e genera la vita di cui siamo solo una parte, seppur rilevante. … (È all’opera un) principio di relazionalità, per descrivere la costruzione teorica che vede la natura come soggetto di diritto. Secondo la cosmovisione indigena tutti gli esseri della natura hanno energia, chiamata samai. Un fiume, una pianta, una montagna, una pietra fanno parte allo stesso tempo della vita, si legano ad essa e mettono in moto un meccanismo di relazioni che investe in maniera interdipendente e complementare anche gli umani su questo pianeta» (De Marzo, 2009: 153). Negli scritti sul buen vivir vi è una presa di distanza dalla concezione 254 2. Buen vivir: le dimensioni di fondo Nella loro antologia su Futuro indigeno. La sfida delle Americhe, Martufi e Vasapollo (2009: 22) inseriscono una citazione sulla spiritualità della terra dei popoli naturali: «I popoli naturali hanno riferimento esperienziale nei valori intrinseci della Natura, intesa come manifestazione di un Mistero che è all’origine dell’esistenza dell’uomo e dell’universo. Una cultura scaturita da una spiritualità formata sul rapporto diretto e pragmatico tra l’uomo e i fenomeni della Natura. Riferimento non rivolto solamente ai ritmi e ai valori pragmatici della Natura intesa come habitat, bensì indirizzato essenzialmente alla qualità della caratteristica esistenziale che esprime la Natura come di esistenza di per sé, e che viene interpretata nel concetto e nella mistica del Mistero». La citazione serve a dare indicazioni sugli elementi genetici più profondi del buen vivir: siamo di fronte a una “mistica della terra”, della quale vi sono e vi sono state nella storia diverse manifestazioni (Thompson, 1995). Probabilmente, questi elementi non saranno riconosciuti da tutti i pensatori del movimento del buen vivir, dato che i riferimenti parareligiosi al mistero sono considerati troppo forti e comunque presuntivamente in contrasto con una visione laica delle istituzioni. Ciò che invece si trova più esplicitamente espresso è il termine Madre Terra; da questa sono scomparsi i riferimenti misticheggianti e prevalgono decisamente quelli culturali e politici: «Il fondamento capitale della filosofia occidentale è concepire l’essere umano come entità separata dalla natura; una società è più civilizzata quanto più lontana si trova dal mondo natura, la natura è la sua contrapposizione che bisogna controllare e sottomettere come mero oggetto di sfruttamento. Ma altri popoli del mondo ebbero (e hanno) altre concezioni che si avvicinano alla natura per raggiungere 255 Agroecologia e buen vivir Giorgio Osti strumentale della natura, anche il linguaggio viene criticato, giustamente: la natura non è una mera risorsa al servizio dell’uomo. Se la presa di distanza dall’antropocentrismo è chiara e netta, non altrettanto si può dire per la parte affermativa del discorso. Madre Terra indica, infatti, qualcosa – forzando un po’ il concetto – che genera con passione la vita; ma poi le forme di vita si rendono autonome. Autonomia significa capacità di normare da sé, ossia di darsi un senso e una direzione relativamente indipendenti dai vincoli o dalle esigenze dell’entità che ti ha generato e che ti contiene. Non a caso si assiste a finalità contrapposte fra specie e fra individui della stessa specie, che possono sfociare in conflitti e nella soppressione dell’altro. Da questo punto comincia una speculazione più ardua; dalla quale si dipanano tre strade; la prima consiste nel ritorno ad una visione mistica o panteistica della Terra (Lovelock, 1991); la seconda, quella probabilmente più battuta, va in direzione di un generico riferimento culturale alla Terra Madre senza entrare nello specifico delle questioni; la terza percorre la strada di una chiarificazione di quali siano le modalità di interazione fra la natura e le sue parti. Quest’ultima è ciò che interessa maggiormente l’agricoltura, pensata con un ruolo speciale dentro la filosofia e le pratiche del buen vivir. La connessione più rilevante fra buen vivir e agricoltura è riferita alla sovranità alimentare. Più etereo appare il legame con i metodi di coltivazione, rispetto ai quali però si registra un’importante omologia strutturale. Essa va sotto il nome di agroecologia. 27% in meno che la sua controparte non indigena con lo stesso livello di educazione; le donne hanno due volte più possibilità di essere analfabete che gli uomini» (Leoni, 2011). A livello commerciale, sempre per restare alla Bolivia, le condizioni sono quelle tipiche descritte nella teoria della dependencia: grandi risorse naturali, ivi comprese quelle agricole, sfruttate (iniquamente) da imprese straniere senza un’industria di trasformazione interna, con la complicità di élites nazionali corrotte e parassitarie (Scidà, 2004). A fronte di questa drammatica situazione Ecuador e Bolivia propugnano la sovranità alimentare ossia un controllo interno dei regimi fondiari, dei processi produttivi, dell’interscambio commerciale. Il bersaglio polemico è l’agricoltura industriale frutto della miscela di tre fattori: aziende agricole di grandi dimensioni, monoculture estensive per l’esportazione, mezzi (fra cui i semi geneticamente modificati, ogm) forniti in via esclusiva da multinazionali, aventi comunque la testa in paesi del Nord del mondo. È evidente poi che una siffatta struttura produttiva si interfaccia con relazioni di produzione di tipo capitalistico, con i pochi detentori dei vari tipi di capitale e i molti “senza terra” costretti a lavorare per i primi, così come emerge sin dagli inizi del Novecento251. Il buen vivir, invece, si ispira ai modelli comunitari di coltivazione della terra, tipici delle popolazioni autoctone: proprietà collettiva dei terreni e/o assegnazione di questi a rotazione, collaborazione fra famiglie per i lavori agricoli, produzioni volte prioritariamente al fabbisogno alimentare interno. I tentativi di ridistribuire le terre, secondo la formula delle riforme agrarie storiche, sono stati molto timidi (cfr. Giunta, Vitale, 2013). Le cose cambieranno, a partire dagli anni ‘90, con il riconoscimento costituzionale dei diritti collettivi dei popoli indigeni. Entra qui in gioco il diritto alla fruizione della terra che deriva dall’abitare i luoghi e dalla consuetudine a prelevare in maniera sostenibile risorse di sostentamento. È agevole notare che siamo di fronte ad una rinnovata attenzione a sancire giuridicamente l’esistenza di proprietà collettive (Costato, 1968), mo- 256 3. Sovranità alimentare versus sicurezza La sovranità alimentare è forse il risvolto più rilevante del buen vivir in quanto comporta il cambiamento di importanti strutture socio-economiche. Bisogna tener conto del contesto in cui nasce il richiamo al buen vivir e la relativa piattaforma politica: paesi latinoamericani da sempre sottoposti a forti squilibri dentro la società e nei termini del commercio con l’estero. «Secondo i dati dell’Istituto Nazionale di Statistica boliviano, il 10% dei proprietari agricoli controlla il 90% della terra; un indigeno dell’area rurale ha il 70% in più di probabilità di vivere in estrema povertà di uno che non lo è; una persona indigena in media guadagna 1 257 «L’agricoltura ecuadoriana del primo Novecento è essenzialmente articolata sulle due strutture dell’hacienda e della piantagione: l’hacienda, istituto di matrice coloniale e concentrato nella zona geografica della Sierra, produce per il mercato interno attraverso un sistema che lega i contadini e le loro famiglie in cambio di una parcella di terra per la sopravvivenza» (Giunta, Vitale, 2013: 81). 258 Agroecologia e buen vivir vimento assai diverso dalle riforme agrarie storiche, fortemente inserite dentro lo schema della proprietà privata dei fondi agricoli. Comunque si realizzi l’accesso e la fruizione della terra, è evidente che nell’attività agricola contano molto i mezzi tecnici di produzione e i canali di commercializzazione. Nel movimento del buen vivir vi sono riferimenti alla formazione di cooperative agricole per gestire sia gli input (mezzi, concimi, saperi) sia gli output (strutture di stoccaggio, trasformazione e commercializzazione dei prodotti) delle unità produttive. In questo senso il riferimento principale è all’agricoltura contadina. Essa stessa è da considerarsi sia un movimento sociale – si veda, ad esempio, La Vía Campesina (Corrado 2010) – sia un modello agronomico, contrapposto a quello dell’agricoltura industriale o capitalistica. Secondo van der Ploeg (2013a), il peasant farming presenta numerosi vantaggi rispetto all’agricoltura tradizionale. Alla lunga, esso risulta economicamente più efficiente e maggiormente compatibile con la salvaguardia della natura (Unctad, 2013). Il modello di agricoltura contadina ha alcuni caratteri tipici della conduzione diretta dell’azienda: base familiare della manodopera, più alto ricorso a fattori produttivi interni, minore esasperazione delle rese. In altre parole, un’azienda agricola più autosufficiente, meno orientata al profitto, più attenta a cogliere le opportunità locali. La sovranità alimentare viene dunque declinata ad almeno tre livelli: quello nazionale, quello comunitario e quello aziendale-familiare. Bisognerebbe aggiungere anche un livello internazionale se solo si pensa all’intenso lavoro di rete svolto da La Vía Campesina sia in America che in Europa. Ma va considerata anche la saldatura continentale fra diversi leader latinoamericani di nuova generazione, accomunati dall’avversione al turbo-capitalismo di marca statunitense. Il buen vivir ha dunque funzionato da cerniera fra livelli di azione e fra territori, una sorta di suggello dei movimenti contadini che lottavano per la sovranità alimentare. Esso, recepito nelle costituzioni di Ecuador e Bolivia, è diventato un punto di riferimento culturale per un vasto movimento transnazionale nel quale per la prima volta l’attività agricola assume un ruolo primario; diventa il simbolo dell’indipendenza dall’oppressione economica delle imprese multinazionali. Giorgio Osti 259 4. Buen vivir e agroecologia Se è indubbio il ruolo catalizzatore del buen vivir sulle istanze più politiche dell’agricoltura, più difficile è stabilire un nesso con i metodi di coltivazione. Il punto di convergenza è ancora una volta la costituzione boliviana. «El ejemplo más notorio es el de Bolivia, donde la filosofía del buen vivir, llevada a la Constitución por el poderoso movimiento indígena, se combina con la decisión del presidente Evo Morales de situar la agricultura ecológica como uno de los objetivos centrales de su gobierno» (Toledo, 2012). Dai testi e dagli interventi concernenti il buen vivir non vi sono molti riferimenti puntuali all’agroecologia; si parla di un vasto movimento latinoamericano di praticanti e studiosi, che sembra rimandare genericamente a quella che in Europa è codificata come agricoltura biologica od organica, per usare una traduzione letterale del corrispondente termine inglese. In realtà, agroecologia sembra una categoria più vasta di agricoltura biologica in quanto rimanda non solo all’uso benefico ed esclusivo di mezzi naturali nella coltivazione dei campi ma anche agli effetti indiretti che un ambiente naturale sano e vario può avere sia per l’agricoltura che per i residenti nelle aree rurali (Kremen et al., 2012). Per capirci non si tratta solo di approntare mezzi per contrastare un certo parassita di una coltura con l’inserimento nell’ambiente di una specie antagonista (la cosiddetta lotta biologica), ma di riservare una consistente parte dei terreni a manifestazioni spontanee della natura (boschi o macchie ad esempio) con la precisa convinzione che la varietà degli ecosistemi favorisce in ultima istanza il lavoro agricolo e l’equilibrio complessivo degli ecosistemi. Agroecologia, in altri termini, rimanda a un più alto e complesso rapporto fra uomo e ambiente da raggiungere con una miscela di elementi artificiali e naturali più spostata sui secondi. È evidente, infatti, che se ogni agricoltore o la comunità agricolo-rurale riserva una quota parte più consistente dei terreni a bosco, a palude o semplicemente all’incolto, sottrae almeno sul breve periodo valore alla produzione. Ma – ragionamento agroecologico – tale limitazione, aumentando il tasso di biodiversità totale dell’area, finisce per creare un equilibrio che si rivela sul lungo periodo più confacente alla stessa produzione agricola. Agroecologia e buen vivir Giorgio Osti Ciò viene spiegato in termini ecologici: se un ambiente è più ricco di biodiversità risponde meglio agli eventi estremi siano essi interni al sistema agricolo stesso – come la diffusione abnorme di un parassita – o esterni, come un’alluvione o lo spandimento accidentale di un inquinante industriale. La complessità biologica avrebbe la funzione di rendere più elastico o resiliente un sistema ecoagricolo (Koohafkan et al., 2012). Ciò ovviamente ha valore su una scala pluriennale, quella che permette di fare una media fra le rese agricole di una serie storica abbastanza lunga nella quale annate buone e meno buone si compensano. La dimensione temporale è fondamentale negli approcci agroecologici; in questi si sostiene, infatti, che i risultati dell’agricoltura industriale sono buoni solo sul breve periodo in quanto non tengono conto: a) del lento ma progressivo impoverimento dei terreni, b) del crescente costo e scarsità degli input artificiali che, nel breve periodo, sostengono le alte rese dell’agricoltura industriale, c) dello sviluppo, sul lungo periodo, di parassiti resistenti ai pesticidi innescando, così, una incessante e costosa corsa all’aggiornamento dei trattamenti fitosanitari. Il discorso a sostegno dell’agroecologia è ancora più articolato perché riguarda anche il benessere delle comunità umane. Una sintesi più alta e complessa fra elementi artificiali e naturali nell’attività agricola porta benefici indiretti all’uomo inurbato (Bocchi, Maggi, 2014). Infatti, un’agricoltura ben congegnata con i principi dell’ecologia può diluire i reflui umani e industriali, può favorire l’autodepurazione dell’acqua destinata alla popolazione, può ridurre l’impatto di eventi alluvionali, può salvaguardare aree boscate in grado di assorbire in maniera più efficiente anidride carbonica, causa primaria dell’effetto serra. Tutte queste funzioni vengono anche dette ecoservizi delle attività agrosilvopastorali. Su di esse esiste già una corposa letteratura, soprattutto di stampo economico, volta a stabilire quale potrebbe essere il valore di detti servizi e la distribuzione del loro costo fra i beneficiari (Marino et al., 2012). Il rapporto fra agroecologia e agricoltura biologica è dunque di inclusione della seconda nella prima, soprattutto se quella “organica” tende ad organizzarsi in senso industriale, rientrando così nell’alveo dell’agricoltura tradizionale. Vi è infatti dibattito fra quello che viene definito il metodo biologico di sostituzione e una funzione più ampia assegnata all’agricoltura biologica o organica (Abitabile, Povellato, 2009). Nel pri- mo caso ci si limita a sostituire input chimici (concimi e antiparassitari) con input organici senza una reale reimpostazione in senso ecologico di tutta l’azienda agricola, secondo quella logica di incremento della biodiversità presente nell’agroecologia. Dunque, potremmo concludere dicendo che agroecologia e agricoltura biologica coincidono quando la seconda adotta una visione sistemica allargata. Essa implica l’inclusione di un maggior numero di specie e di relazioni fra queste nell’attività agricola. Questo, però, non aiuta più di tanto; il nuovo equilibrio ecosistemico dell’azienda agricola dovrebbe includere la protezione della biodiversità e la fornitura di ecoservizi. Ma vi sono ulteriori elementi dirimenti? E, soprattutto, la filosofia del buen vivir può aiutare in questo? Da quanto si apprende da Yolanda Parra (2013), vi è un comune elemento tra filosofie dei popoli originari dell’America Latina e pensatori europei come Edgard Morin nel cogliere un senso di unità di destino per tutte le specie a partire dalla Terra: “Terra-Patria” la chiama infatti Morin. «La dimensione “Territorio” è stata una delle mie priorità in termini di ricerche bibliografiche, cercando di arrivare a studi che andassero oltre lo studio della geografia fisica e che mi permettessero di mettere in relazione il “sentire” e l’“esserci” in una dimensione Spazio/Tempo comune a tutti gli esseri viventi, nell’intenzione di connettere quella “Identità Terrestre” di cui ci parla Morin, o la “Coscienza di Specie” di Toledo con il “Buen Vivir” dei Popoli Originari e con la “Progettualità Esistenziale” di G.M. Bertin e M. Contini» (Parra, 2013: 281). Non è facile catalogare o interpretare questi elementi; analiticamente ne possiamo individuare almeno tre: 1) un elemento olistico, un tutto interrelato avente un proprio equilibrio e senso; 2) un elemento di trasporto o attrazione verso il tutto e le sue parti, un sentimento di unità che si indirizza verso la Terra Madre; 3) un modo di pensare, apprendere e agire conforme, per cui si crea congiunzione piuttosto che disgiunzione, rapporto organico parti-tutto, apprendimento attraverso contesti, vissuti, luoghi; in sintesi, azioni conseguenti ai punti 1 e 2 che mirano a creare una fratellanza universale inclusiva delle specie viventi e del mondo inanimato. Anche il buen vivir, per quanto carico di una visione nuova del rapporto fra specie umana e terra, non fornisce in maniera diretta elementi per quell’enorme spazio di mediazione che è l’agricoltura. Le diverse fi- 260 261 Agroecologia e buen vivir Giorgio Osti losofie del biologico sembrano già racchiudere gli elementi enfatizzati nel buen vivir. Nulla di nuovo sotto il sole, dunque? In effetti, parrebbero aperte solo due strade, già menzionate: o un rispetto degli ecosistemi in forza di una loro sacralizzazione spinta o una coscienza ecologica più sviluppata che riconosca l’interdipendenza di tutte le parti e quindi il bisogno di raggiungere equilibri più complessi fra queste. La prima via è poco praticabile in un mondo secolarizzato nel quale i simboli religiosi finiscono per entrare in competizione gli uni con gli altri. In altri termini, sarebbe assai arduo cercare di diffondere principi e metodi di agroecologia attraverso una legittimazione di tipo religioso; si rischierebbe una babele (incomunicabilità) e molte manipolazioni, oltre che una buona dose di critiche da parte dei non credenti. La seconda strada – una migliore cognizione dei nessi – sembra più percorribile. Le filosofie richiamate, compresa quella andina originaria, sembrano però sottovalutare la specialità umana che, proprio nell’agricoltura, si manifesta in tutta la sua ambiguità: si ama e si rispetta la natura ma solo nella misura che è piegabile al fine di produrre alimenti per la specie umana. Come dice Jairo Restrepo Rivera (in Pellegrini, 2012: 27), non si può scindere il suffisso “coltura” dal prefisso “agri”. Tornano allora le visioni paternaliste della wilderness stewardship, dell’amministrazione saggia, dell’antropocentrismo responsabile che pure affiorano nel caleidoscopio del buen vivir (De Marzo, 2009: 147). Queste finiscono per riproporre un dualismo fra attore e sistema che le scienze sociali ben conoscono. Ma così il discorso si incaglia nuovamente. questione di diversa posizione o ricchezza di risorse umane o ambientali, ma di una relazione per forza di cose asimmetrica, nella quale vi è un potere sull’altro sbilanciato. L’agricoltore, anche quando segue i principi alti dell’agroecologia, mantiene una lieve supremazia. Questa, però, non è dettata da una qualche legittimazione culturale (superiorità della specie umana o dettato divino), ma da un costante interscambio uomo-natura che da luogo ad una prassi relazionale senza interruzioni. Una siffatta asimmetria relazionale è particolarmente evidente proprio nell’agricoltura biologica; in essa, infatti, l’agricoltore si mette in ascolto delle tendenze (ad es. diffusione di un parassita) e adotta la strategia che minimizza i danni a sé, alle colture e all’ambiente circostante. Il punto cruciale è quel “minimizza”, ossia l’accettazione di un danno relativo su un singolo aspetto al fine di mantenere un equilibrio e una produttività dell’insieme. Gli elementi fondamentali sono dunque due: una relazione reiterata e soglie di intervento non stabilite a priori, ma scaturenti dalla relazione stessa. L’intervento con una sostanza di contrasto artificiale o naturale che sia, il suo dosaggio, la modalità di irrorazione deriveranno dall’interazione fra attore – l’agricoltore – ed ecosistema agricolo. Vi è un dominus, un padrone della casa; ma questo interviene inserendosi in una sequenza di eventi: ascolto, valutazione, intervento, di nuovo ascolto e, eventuale, ricalibratura dell’intervento. Questa sequenza ha un nome nella metodologia delle scienze sociali: si chiama pratica, cui aggiungeremo agronomica. La stessa sequenza ha un nome anche negli studi epistemologici: si chiama teoria del gioco e ha molti addentellati con la filosofia olistica del buen vivir. Edgard Morin quando scrive che «la complessità … non vuole tanto strappare all’universo ciò che può venir determinato in maniera chiara, con precisione ed esattezza, come erano le leggi della natura, ma entrare nel gioco fra chiarezza e oscurità, gioco in cui si assiste a quello strano dialogo dove l’organizzazione emerge solo nel confronto e nella continua oscillazione fra l’ordine e il caos. Fra chiarezza e oscurità, come fra ordine e caos, si situa dunque non una legge ma un gioco: e in effetti il “paradigma della complessità” sostituisce al punto di vista del controllo il punto di vista del gioco» (in Marchetti, 2008: 8). Laura Marchetti riprende a riguardo del gioco anche il pensiero di Mauro Ceruti. Il decorso del gioco avviene sempre, infatti, «nell’interazione fra le regole poste come 262 5. Buen vivir, agroecologia, gioco Una modalità per cercare di uscire dall’impasse determinato dall’alternativa secca fra azione paternalista verso la natura e immersione totale nelle interdipendenze funzionali della stessa è quella di esplorare l’asimmetria che si crea proprio in agricoltura fra uomo e ambiente262. Non è una 2 Vi è un altro percorso teorico grazie al quale si cerca di uscire dal dualismo di uomonatura; esso fa capo a termini come co-evoluzione e co-produzione (Pellizzoni, 2010), riscontrabili in contesti speculativi diversi, ivi compresi quelli dell’agricoltura (Ploeg, 2013b). 263 Agroecologia e buen vivir Giorgio Osti vincoli e come costitutive del gioco, il caso e la contingenza di particolari eventi e di particolari scelte, e le strategie dei giocatori volte a utilizzare le regole e il caso per costruire nuovi scenari e nuove possibilità» (ibid.). Vi sono antecedenti illustri come Levi-Strauss, per il quale il gioco rappresenta la struttura; non già un’istituzione fissata una volta per tutte, ma l’insieme degli incontri fra caso, regole e strategie dei giocatori. Tale struttura va oltre la cosiddetta teoria dei giochi (Festa, 2007), la quale insiste esclusivamente sulle strategie di stampo razionale degli attori. Secondo questa tradizione, le norme non sono valori assoluti ma semplici vincoli entro i quali massimizzare le proprie preferenze. Il gioco, invece, è praticato per costruire nuove possibilità fra cui quella di interpretare le norme a fronte di contingenze. A questo punto, il gioco come metafora volta a superare il dualismo attore sistema dovrebbe funzionare bene. Non solo perché coniuga elementi di agency con vincoli esterni, ma anche perché rappresenta assai efficacemente il senso dell’agricoltura biologica: essa si presenta come una sfida ad estrarre dalla natura ciò che all’uomo serve e piace (il cibo); l’uomo conserva un margine di vantaggio; conosce sempre meglio le regole di funzionamento della natura; le può piegare al proprio scopo, sapendo però che non può farlo oltre un certo limite, pena la distruzione dell’avversario (l’ambiente naturale). Se bara, può vincere alcune partite, ma finisce per distruggere l’esistenza stessa dell’avversario; in tal modo si precludono il piacere e la funzionalità del gioco per le partite successive. Sempre dentro la metafora, un buon giocatore ama avere avversari forti, reattivi, capaci seriamente di vincere. In altri termini, più che richiami a presunti stati di armonia ancestrale tra uomo e natura da recuperare, appare più realistico ammettere sia la lieve superiorità relazionale dell’uomo sia la competizione che si accende fra questo e la natura. Il gioco esce in questo caso dal puro significato espressivo entro il quale viene generalmente visto per assumere, invece, una natura ibrida: vi è un intimo piacere nel giocare (questo è indubbiamente l’aspetto espressivo, intrinseco), ma ciò produce anche utilità sia sul piano della conoscenza (imparo dall’altro) sia sul piano materiale (ricevo dall’altro fonti di nutrimento). Difficile negare, sentendo un agricoltore biologico esprimersi, il sottile piacere che deriva dal capire le regole più intime della natura e dal piegarle con dolcezza ai propri fini. Vi è una componente agonistica nel rapporto fra uomo e natura, non estranea per altro a manifestazioni di affetto verso l’avversario laddove si parla, ad esempio, di dono agonistico (potlach) o dell’escalation di stupore che due amanti cercano di procurarsi vicendevolmente attraverso lo scambio di doni (Godbout, 2007). Pensando alle relazioni con la natura, mediate attraverso l’agricoltura, appare appropriato parlare di reciprocità asimmetrica, un dare, ricevere e contraccambiare, che tende a rimanere sbilanciato verso uno dei contendenti. Anche nell’agricoltura industriale esiste un gioco con la natura, ma è decisamente più sbilanciato; l’agricoltore tradizionale è indifferente all’ambiente che è solo un fattore di produzione, da usare in senso puramente strumentale, oggettivo. Nella metafora del gioco egli è disinteressato all’avversario e vuole stravincere273. Invece, il rapporto con la natura e la terra emerge in forma di dialogo appassionato e dolce: «Ho imparato moltissimo da quando la mia vita ha virato verso la terra. Ma l’insegnamento più duro è stato questo: più trasformi la terra coltivandola, più la terra trasforma te … Cominci a dare spontaneamente, poi dai un po’ di più, poi dai il massimo, e allora, solo allora, avrai un ritorno così generoso che riempirà la tua cantina fino a farla traboccare, ma soprattutto farà rinascere quel fazzoletto di terra riarsa e infestata di erbacce che chiamiamo anima» (Kimball, 2012: 10). Il gioco, al pari dell’anima, si presenta come un’astrazione dalla vita reale. Tuttavia, sostiene Caillois (1981), conserva la matrice delle funzioni vitali, fornendo per ogni società un parallelo fra le attività in genere riservate ai bambini e ai momenti di relax e le azioni materiali che servono a garantire la sopravvivenza. I paralleli notoriamente non si incontrano, ma di certo si possono cogliere le loro analogie, nella fattispecie giocare con la natura e trovare allo stesso tempo in essa la fonte del sostentamento. 264 265 6. Conclusioni Il buen vivir è in bilico fra concezioni parareligiose della natura (la 3 Da ultimo, va ricordato un parallelo con la caccia: il rapporto con la selvaggina, termine che in inglese si rende con game, è improntato a conservare un certo equilibrio fra le parti; esso viene interpretato come una ritualità che esorcizza la ferita inferta alla natura (Dalla Bernardina, 1988). In realtà, è qualcosa di più: è anche una relazione nella quale il cacciatore, indubbiamente da una posizione di forza, vuole giocare con la preda. Agroecologia e buen vivir Giorgio Osti mistica della terra) e paradigma della complessità, in ciò risultando una filosofia molto vicina a pensatori cosmopoliti come Morin, Bateson, Maturana e Varela, Ceruti. È una filosofia che funziona bene sul versante politico, laddove raccoglie le istanze del movimento per la sovranità alimentare. Diventa meno pregnante e originale sul versante epistemologico o più specificamente sul versante della riflessione sui metodi di coltivazione ecocompatibili. Ciononostante, lo sbocco di tale frame filosofico verso l’agroecologia come gioco appare promettente perché tiene assieme, con un certo realismo, la parte strumentale e quella espressiva del lavoro agricolo, la materialità e la spiritualità della terra, l’intrinseco piacere di giocare con la dura necessità di procacciarsi i mezzi di sostentamento. Sono tutte coppie che un certo pensiero riduzionista, ampiamente diffuso anche fra le scienze sociali, ha preteso di tenere rigorosamente separate e gerarchicamente ordinate. Non si tratta, però, di fondere tutto nel grande ventre della Madre Terra, ma di scovare nuove distinzioni, cogliere nuove relazioni fra oggetti e semmai abbandonare dicotomie ormai usurate. Sarebbe un bel guaio anche per l’agroecologia se approdasse ad un tutto indistinto senza nessun principio né fine. Politica, 2. Giunta I., Vitale A. (2013), Politiche e pratiche di sovranità alimentare, in AgriRegioniEuropa, 33. Godbout J. (2007), Quello che circola tra noi. Dare, ricevere, ricambiare, Vita e Pensiero. Kimball K. (2012), Dirty life: una storia d’amore, cibo e animali, Elliot. Koohafkan P. et al. (2012), Green Agriculture: foundations for biodiverse, resilient and productive agricultural systems, in Journal of Agricultural Sustainability, 1. Kremen C. et al. (2012), Diversified farming systems: an agroecological, systemsbased alternative to modern industrial agriculture, in Ecology and Society, 17/4. Leoni S. (2011), Dove sta andando la Bolivia del buen vivir?, in Scienzaepace, 3. 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Because of this elusion, the metaphor of game is proposed for a new interpretation of agroecology and, more generally, of relationships between environment and human action. Keywords: Agroecology, Game theory, Environment protection, Land ownership. PARTE III IL BENESSERE E LE SUE MISURAZIONI Il buen vivir tra economia e società di Gabriele Blasutig28* SOMMARIO: 1. Il buen vivir e la messa in discussione del rapporto tra economia e società. – 2. L’economia come fenomeno plurale. – 3. L’azione economica come azione sociale. – 4. Il buen vivir nello scenario della globalizzazione economica. 1. Il buen vivir e la messa in discussione del rapporto tra economia e società Come evidenziano vari contributi contenuti in questa collettanea, il buen vivir non è solo un programma di cambiamento della società, ma anche un paradigma, una visione del mondo, che sfida in maniera sostanziale le categorie ed i modelli della modernità. Tra i vari aspetti messi in discussione, uno dei più rilevanti riguarda il rapporto tra l’economia e la società (Prada Alcoreza, 2013; Ruttemberg, 2013; Walsh, 2010). Viene confutata l’idea che l’economia costituisca un sottosistema separato, basato su principi, sistemi di regolazione, meccanismi di funzionamento e logiche di comportamento sostanzialmente differenziati rispetto a quelli intercorrenti nelle altre sfere. In effetti, il buen vivir può essere considerato un disegno di reincorporazione dell’economico nel sociale (Laville, 2013), delineabile in relazione ai quattro principali aspetti in cui si articola la realtà economica: la produzione, lo scambio, la distribuzione, il consumo. Per quanto riguarda il primo aspetto, nella concezione modernista, il sistema di produzione viene sostanzialmente parametrato in base alle * Ricercatore di Sociologia dei processi economici e del lavoro e professore aggregato nell’Università di Trieste. Il buen vivir tra economia e società Gabriele Blasutig capacità di remunerazione del capitale. Le altre risorse impiegate nel processo produttivo, a cominciare dalle risorse naturali e dal lavoro, assumono un ruolo strumentale. La prospettiva del buen vivir, invece, attribuisce a tutte le risorse pari “cittadinanza”. Il parametro di riferimento è rappresentato dal valore prodotto da e per l’insieme dei soggetti direttamente o indirettamente coinvolti: i lavoratori e le loro organizzazioni, le istituzioni pubbliche, le comunità locali, i movimenti politici e culturali, le associazioni di consumo, ecc. I detentori del capitale sono una tra le componenti, non necessariamente la principale (Prada Alcoreza, 2013). Si consideri, oltretutto, che il modello del buen vivir predilige le forme di imprenditorialità collettive e senza fine di lucro, in particolare le forme cooperative, associative e consortili (Bateman, 2013; Ruttemberg, 2013). Il secondo aspetto da prendere in considerazione è quello dello scambio. Nella prospettiva modernista il mercato costituisce l’unico contenitore degli scambi economicamente rilevanti. Questi ultimi vengono spogliati di ogni contenuto relazionale, data l’irrilevanza dell’identità sociale dei soggetti coinvolti (Barbera, Negri, 2008). Al contrario, il paradigma del buen vivir attribuisce all’aspetto relazionale un’assoluta centralità. Gli scambi economici prendono forma, infatti, all’interno di una rete di relazioni densa, improntata dalle dimensioni comunitaria ed associativa. Inoltre, un ruolo cruciale è attribuito alla c.d. economia informale. Parliamo, a questo proposito, di beni e servizi che vengono scambiati non su base monetaria o contrattuale, ma come modalità di riproduzione dei rapporti sociali (parentali, di vicinato, comunitari, etnici, associativi, ecc.) (Portes, 2010: cap. 7). Nella prospettiva del buen vivir, l’economia informale non è più un corpo estraneo o un settore interstiziale, bensì una parte integrante della vita economica. Un terzo fondamentale aspetto riguarda la distribuzione dei benefici generati dal funzionamento dell’economia. La chiave di lettura modernista è basata sulla cosiddetta “mano invisibile”. Questo concetto sottende la presenza di un meccanismo competitivo che, funzionando in maniera pressoché automatica, è in grado di premiare i comportamenti e gli attori più efficienti. Le società moderne hanno altresì congegnato dei rimedi ai fallimenti distributivi del mercato, istituendo i sistemi di welfare state a protezione delle categorie sociali perdenti o escluse. Il paradigma del buen vivir supera non solo il concetto di “mano invisibile”, ma anche quello di welfare state, assumendo il principio della solidarietà, della reciprocità e dell’uguaglianza su base comunitaria come criterio guida che precede, nel modello di società ideale, quello dell’efficienza economica e della capacità di risposta all’interesse individuale (Monni, Pallottino, 2013: 8). Il quarto e ultimo aspetto da considerare attiene il rapporto tra i bisogni e i consumi. Il programma del buen vivir si propone di superare una concezione riduttiva del benessere legata all’accumulazione di beni materiali, in base a strategie di massimizzazione delle funzioni di utilità attuate dai singoli individui. Viceversa, il benessere viene ricondotto ad una sfera di bisogni più articolata e complessa che comprende la dimensione psicologica, identitaria, valoriale e relazionale (Ruttemberg, 2013). Questo tipo di impostazione sposta quindi gli equilibri del benessere dalla componente materiale a quella immateriale, dal quantitativo al qualitativo, dall’edonismo all’integrità psicologica, dall’individuale al collettivo, dalla razionalità strumentale a quella assiologica. L’economia del benessere (ibid.) si arricchisce dunque di sfumature, dimensioni e componenti segnati da un’impronta marcatamente sociale. Il buen vivir è, pertanto, un paradigma che sfida in maniera profonda le categorie della modernità riferite alla realtà economica. Al contempo, fornisce materiali di varia natura (quadri analitici, modelli, codici normativi, esperienze empiriche) molto utili al dibattito in corso da alcuni decenni sul capitalismo e sul rapporto tra l’economia e la società (Barbera, Negri, 2008; Regini, Ballarino, 2007; Smelser, Swedberg, 2005; Trigilia, 2009). Un dibattito nel quale la sociologia economica ha avuto ed ha un ruolo centrale e che ruota attorno a due principali ipotesi: a) l’ipotesi che il capitalismo costituisca un fenomeno plurale e che quindi i sentieri dello sviluppo si possano diversificare in funzione delle caratteristiche del contesto sociale (Blasutig, 2001); b) l’ipotesi che l’azione economica sia e vada interpretata come una forma di azione sociale (Magatti, 2000). I prossimi due paragrafi saranno dedicati a queste due ipotesi. Si darà sinteticamente conto dei quadri interpretativi elaborati dal pensiero socio-economico. Si tratta di analisi che, per un verso, vengono illuminate e corroborate dai materiali messi a disposizione dal buen vivir e, per l’altro verso, possono fornire a questo modello fondamenti di tipo teorico e concettuale. 272 273 274 Il buen vivir tra economia e società 2. L’economia come fenomeno plurale Per illustrare l’idea del capitalismo come fenomeno plurale è utile partire dalla distinzione proposta da Karl Polanyi tra la concezione formale e la concezione sostanziale dell’economia (v. Trigilia, 2009: 13 ss.). La concezione formale coincide con i modelli della teoria economica, in particolare quelli ispirati dalla dottrina neoclassica. Questi stabiliscono i principi in base ai quali, date le tecnologie disponibili (intese come insieme di conoscenze, metodi e strumenti), il sistema è in grado, in un determinato momento, di impiegare in maniera massimamente efficiente le risorse scarse a disposizione, in relazione ai bisogni, alle necessità ed ai gusti degli attori sociali nella loro veste di consumatori. Per come sono concepiti e costruiti (secondo un procedimento rigorosamente analitico-deduttivo) e per le finalità che si propongono, i modelli così definiti risultano fortemente stilizzati e si connotano per un elevato livello di astrazione. Di qui il riferimento alla loro natura formale. La concezione sostanziale dell’economia, invece, è più vicina ad una sensibilità di tipo sociologico. Fa riferimento alle attività attraverso le quali, in un determinato contesto sociale, l’uomo risponde alle esigenze di sussistenza in relazione alle risorse fornite dall’ambiente naturale ed alle necessità di convivenza con gli altri uomini. Il sistema economico in questo caso non viene interpretato in funzione dell’efficienza allocativa, bensì in funzione del contesto ambientale, sociale ed istituzionale di riferimento. La “forma” assunta dall’economia, ossia il modo in cui le diverse attività economicamente rilevanti vengono coordinate tra loro, dipende dalle istituzioni sociali, cioè dall’insieme di credenze, valori, norme, e relative sanzioni che orientano e delimitano il campo d’azione degli attori sociali. La lettura in chiave sostanziale dell’economia, sostenuta da un approccio metodologico di tipo induttivo e idiografico, significa identificare le diverse forme e modalità che le attività economiche possono assumere nello spazio e nel tempo. Si profila, pertanto, un fondamentale passaggio da un paradigma dell’uniformità ad un paradigma della varietà dell’economia (Blasutig, 2001). Nel primo caso, si fa riferimento a leggi universali fondate su forme di razionalità standard, indipendenti dagli specifici contesti socio-istituzionali e culturali. Nel secondo caso, invece, l’economia viene intesa come un fenomeno plurale, manifestandosi in forme e mo- Gabriele Blasutig 275 dalità diversificate (Laville, 2013: 1; Trigilia, 2009: 17). In questo modo si prendono le distanze dall’idea che i sistemi economici si comportino e vadano analizzati in base al principio del one best way, secondo cui ad ogni problema corrisponde una ed una sola soluzione ottimale verso cui i sistemi inevitabilmente tendono (uniformandosi gli uni agli altri). Viceversa, si assume il principio dell’equifinalità secondo il quale è possibile raggiungere (individualmente e collettivamente) lo stesso fine attraverso una pluralità di percorsi, modalità, forme e soluzioni (Blasutig, 2001: 23). Questo tipo di prospettiva contrasta in maniera sostanziale i tradizionali modelli con cui sono concepiti la modernizzazione e lo sviluppo delle società economicamente più arretrate, fondati su un principio di unidirezionalità e convergenza. Viene invece avanzata l’idea della pluralizzazione, multidirezionalità e diversificazione dei percorsi di transizione. L’aspetto fondamentale che caratterizza questa lettura è rappresentato dal fatto che gli elementi tradizionali della società, ad esempio i valori religiosi o i legami familiari/comunitari, vengono a formare delle combinazioni variabili con i caratteri moderni della società e che tali mix variabili di tradizione e modernità costituiscano una chiave analitica fondamentale nell’interpretazione dei percorsi di transizione economica a sociale (Mutti, 2007; Trigilia, 2009: cap. 2). Pertanto, l’economia e i sistemi produttivi si caratterizzano per essere dei processi differenziati in funzione del contesto in cui sono situati: «ciascun luogo mobilita nella produzione la propria conformazione naturale, la propria storia, la propria cultura, la propria organizzazione sociale: tutte risorse e circostanze che, prese nella loro combinazione, sono diverse da quelle che possono venire mobilitate da ogni altro luogo» (Bacattini, Rullani, 1994: 320). Da questo punto di vista, la componente cognitiva, attraverso continue rielaborazioni delle conoscenze contestuali, diviene un elemento centrale. I contesti locali, infatti, non sono solo e semplicemente dei contenitori di varietà storiche, «ma costituiscono dei veri e propri laboratori cognitivi, in cui nuove varietà vengono continuamente sperimentate, selezionate, conservate» (ibid.: 323). Si determinano dei cicli di apprendimento in cui la conoscenza si produce e riproduce, utilizzando i saperi, gli schemi, i frame formatisi nel corso dell’esperienza storica e conservati nella memoria collettiva nei diversi contesti. Viene pertanto messa radicalmente in discussione l’idea dello svi- Il buen vivir tra economia e società Gabriele Blasutig luppo economico come un processo lineare, unidirezionale, scandito da tappe predeterminate, fondato sul mito del progresso, inteso come crescita economica, plasmato essenzialmente da forze esogene e, in qualche misura, pilotato dall’alto. Si tratta di una lettura critica in forte sintonia con le riflessioni e le indicazioni provenienti dal paradigma del buen vivir secondo cui lo sviluppo socioeconomico viene plasmato in base alle peculiarità sociali, culturali ed ambientali del contesto in cui si innesta (Monni, Pallottino, 2013). Lo sviluppo non è più concepito al servizio del benessere materiale e della crescita della ricchezza, ma al servizio delle opportunità offerte, da un lato, agli individui di accrescere le capacità necessarie per esercitare la propria libertà di azione nelle diverse sfere (Sen, 1999) e, dall’altro lato, alle comunità locali di riprodurre e valorizzare le proprie identità, peculiarità e tradizioni, anche di tipo produttivo (Prada Alcoreza, 2013; Monni, Pallottino, 2013; Ruttemberg, 2013). centro politico-amministrativo che detiene il potere di normazione, decisione, comando nei confronti degli attori assoggettati a tale autorità. Si possono trarre molteplici esempi dalla storia antica (i grandi imperi) e recente (le economie pianificate dei regimi comunisti), ma anche dalla contemporaneità (i sistemi di welfare state). Infine, il terzo principio, quello della reciprocità, si riferisce alla regolazione degli scambi, della produzione e distribuzione dei beni in base alle norme sociali che regolano le obbligazioni reciproche tra attori, da intendere come flussi di doni e controdoni che circolano nelle reti di relazioni sociali in cui prendono forma, a diversi livelli, le diverse identità collettive: famiglia, comunità locali, gruppi etnico-nazionali, comunità professionali, movimenti civili o religiosi, ecc. In questo caso, il comportamento degli attori deriva da codici morali interiorizzati e dall’istanza di riconoscimento sociale. È prevalente un atteggiamento solidaristico, collaborativo, partecipativo e fiduciario. Lo schema tripartito inizialmente proposto da Polanyi è stato ripreso in numerose occasioni da diversi studiosi dei fenomeni socio-economici, con varie declinazioni terminologiche che lo hanno arricchito di sfumature. Ciò si riscontra soprattutto con riferimento al concetto di reciprocità rispetto al quale sono rilevabili in letteratura alcune interessanti varianti che concorrono a chiarirne maggiormente il significato: comunità, solidarietà, clan, rete (Blasutig, 2001: 149). L’aspetto più interessante, alla luce del concetto e della progettualità sociale del movimento del buen vivir, riguarda il rapporto che assumono le tre forme di integrazione dell’economia, il modo in cui queste si combinano tra loro, in un prospettiva diacronica e sincronica. In una prospettiva diacronica, Laville riprende la lezione polanyiana, dipingendo un quadro evolutivo della società moderna caratterizzato dalla successione di ondate di disembedding (scorporamento) e di reembedding (reincorporazione) dell’economia dalla e nella società, esito di una costante tensione discrasica tra questi due “movimenti” (Laville, 2009 e 2013). Il primo movimento deriva dalla prevalenza delle forze che spingono l’economia verso l’autoregolazione sulla base delle leggi del mercato competitivo. Il secondo movimento è dato dalle forze di reembedding che sono sostenute dai principi della redistribuzione e della reciprocità. 276 3. L’azione economica come azione sociale Per quanto concerne l’ipotesi dell’azione economica come azione sociale, la sociologia economica, rivitalizzata negli ultimi decenni nel quadro della c.d. nuova sociologia economica, ha fornito importanti contributi analitici (Smelser, Swedberg, 2005; Steiner, 2001; Trigilia, 2009; Portes, 2010). Un utile punto di partenza può essere rappresentato dal modello di Polanyi sulle tre forme di integrazione dell’economia, intese come principi fondamentali di regolazione delle attività di produzione, distribuzione e scambio dei beni (Cella, 1997). I tre principi sono, com’è noto, lo scambio di mercato, la redistribuzione e la reciprocità. Il primo, lo scambio di mercato, è caratterizzato dal fatto che la regolazione principale è affidata al sistema dei prezzi, determinati in base al libero gioco della domanda e dell’offerta. In questo contesto gli attori agiscono secondo una logica di razionalità strumentale, motivati esclusivamente dalla massimizzazione dell’interesse individuale. Pertanto, la dimensione relazionale si esaurisce nel rapporto di mercanteggiamento e nel conseguente accordo contrattuale. Il principio della redistribuzione, invece, riguarda la regolazione delle attività economiche (quanto, cosa, come e per chi produrre) fondata su regole e disposizioni dettate da un 277 Il buen vivir tra economia e società Gabriele Blasutig Questi mobilitano una serie di meccanismi di “autodifesa della società”: riducendo le disuguaglianze e le situazioni di esclusione sociale prodotte dal mercato; incapsulando le forze competitive entro stringenti quadri regolativi (formali ed informali) che limitano le situazioni di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura; estendendo il concetto di interesse rispetto a esigenze non solo inerenti il benessere materiale e non solo relative ai singoli individui. Nel lungo periodo si sono storicamente alternate fasi di disembedding e di re-embedding. Fasi del primo tipo si sono prodotte nel corso delle stagioni dominate dall’ideologia liberista, all’inizio ed alla fine del secolo scorso. La parte centrale del Novecento è stata connotata invece da un incisivo e prolungato movimento opposto, descritto da Polanyi nella sua opera maggiore, La grande trasformazione. Laville (2009 e 2013) ravvisa nella lettura della contemporaneità alcuni segnali di una ripresa di tale contromovimento, osservando l’emergere di una nuova economia sociale e solidale le cui protagoniste sono organizzazioni senza fine di lucro, gestite prevalentemente in forma associata e cooperativa e operanti in settori a forte impatto socio-ambientale (servizi alla persona, cultura, consumo critico e solidale, energie rinnovabili, ambiente, ecc.). Nell’evidenziare tali spinte di opposizione all’ondata neoliberista degli anni ‘80 del secolo scorso, Laville sottolinea la necessità che il principio della redistribuzione sia costantemente bilanciato da quello della reciprocità, per evitare le derive totalitarie che si sono prodotte in passato. Da questo punto di vista risulta fondamentale il rafforzamento dei meccanismi democratici (a tutti i livelli) in particolare attraverso il potenziamento delle forme più partecipative (Ruttemberg, 2013). Come scritto poc’anzi, l’analisi dell’interazione tra le tre forme di integrazione dell’economia può essere sviluppata anche in un’ottica sincronica, osservando le forme, gli assetti ed i meccanismi di funzionamento dei sistemi economici alla luce di tale interazione. La letteratura ha evidenziato alcune chiavi di lettura che risultano particolarmente interessanti nella prospettiva del buen vivir. Il primo riguarda l’idea che la vita economica funzioni ineludibilmente sulla base dell’interazione dei tre meccanismi di integrazione. Questi interagiscono sempre tra loro, dando vita a combinazioni e composizioni variabili, definibili come mix regolativi (Blasutig, 2001: 149). Vengono così a formarsi specifici setting istituzionali legati soprattutto al comportamento degli attori collettivi: ad esempio, istituzioni pubbliche, imprese, organizzazioni, partiti politici, associazioni di interessi, movimenti d’opinione, comunità locali, mass media, ecc. Tale comportamento dipende dalle norme formali che il sistema si è dato, ma viene plasmato in particolar modo dalle culture e subculture presenti in quel determinato contesto sociale. Su questo terreno analitico si può riscontrare una certa convergenza di molteplici filoni: dal tradizionale filone di studi della political economy (Regini, Ballarino, 2007), alla scuola regolazionista francese (Boyer, Saillard, 1995), all’approccio neoistituzionalista elaborato sia sul versante sociologico (Powell, DiMaggio, 1991) che su quello delle scienze economiche (North, 1994). La seconda chiave di lettura riguarda quelle prospettive d’analisi in cui l’interazione tra le tre forme di integrazione si spinge fino al punto in cui il mercato diviene “un fenomeno sociale in sé”. Ovverosia, «qualsiasi scambio … è da considerarsi intrinsecamente sociale e politico» (Barbera, Negri, 2008: 43). Si tratta dell’elemento cardine su cui si basa la cosiddetta nuova sociologia economica (Granovetter, 1985) e che si esprime analiticamente attraverso l’ipotesi dell’azione economica come azione sociale (Magatti, 2000). Il presupposto fondamentale è che «gli elementi sociali entrano in modo costituitivo nel funzionamento del mercato» e che le attività economiche hanno una «intrinseca valenza sociale, culturale e politica» (Barbera, Negri, 2008: 56). Gli scambi generano una trama di relazioni (costituite da legami forti o deboli, simmetrici o asimmetrici, ecc.) da cui gli attori traggono informazioni, sostegni, credenze, schemi cognitivi, regole pratiche che supportano in maniera imprescindibile la loro azione. E, soprattutto, i network sociali producono i vincoli di reciprocità necessari a controbilanciare le tendenze opportunistiche dell’azione sociale (dettata in particolare dalla matrice razionale e strumentale della stessa) e a fornire quindi le risorse fiduciarie necessarie per risolvere problemi ampiamente studiati come quello del dilemma del prigioniero nella teoria dei giochi o del free riding nell’azione collettiva, a sostegno della gestione o produzione di beni pubblici (Parri, 2004). È a partire da questa fondamentale proprietà delle relazioni sociali che si è sviluppata la vastissima letteratura sul capitale sociale (Portes, 2010), un concetto che negli ultimi anni ha concorso 278 279 Il buen vivir tra economia e società Gabriele Blasutig in maniera decisiva a spiegare molteplici fenomeni economici, come ad esempio il funzionamento dei mercati del lavoro, il ruolo dei network sociali nella “costruzione” dei mercati finanziari, i distretti industriali e le economie locali, le economie etniche o le esperienze di produzione di beni pubblici e di gestione dei beni comuni (Aoki, Hayami, 2001; Grootaert, Van Bastelaer, 2002). derivanti da una divisione internazionale del lavoro sempre più spinta e costantemente in divenire (ibid.). Pertanto, il quadro è caratterizzato da una decisa intensificazione del livello di interdipendenza: qualsiasi tipo di politica locale o nazionale deve fare i conti con le dinamiche della globalizzazione, adottando strategie che non siano esclusivamente reattive in senso oppositivo. Peraltro, è sotto gli occhi di tutti che la partecipazione ai benefici della globalizzazione è stata distribuita in maniera fortemente squilibrata. Anche quando la partecipazione dei paesi cosiddetti emergenti al sistema di produzione globale determina un upgrading sul piano economico (capacità di apportare un maggiore valore aggiunto alla catena globale del valore) quasi sempre non si verifica un parallelo processo di upgrading sul piano sociale. Non si ravvisano, infatti, sostanziali ricadute positive rispetto ai diritti umani, agli standard di lavoro, al livello di sostenibilità ambientale ed alla lotta alla povertà (Barrientos et al., 2011). Questi mancati effetti benefici della globalizzazione sono da imputare sia alla innata vocazione “predatoria” delle imprese transnazionali (data la logica di massimizzazione del profitto che le muove) sia agli indirizzi d’azione di impronta marcatamente neoliberista assunti dalle organizzazioni internazionali deputate alla regolazione dell’economia globale, come il Fondo monetario internazionale o l’Organizzazione mondiale del commercio (Gereffi, 2005). Riconoscendo pienamente il peso, l’intensità e la cogenza delle forze che agiscono su scala globale, risulta abbastanza evidente che se le spinte verso la reincorporazione dell’economia nella società si limitassero ad agire a livello di comunità locali o, tuttalpiù, nazionali, probabilmente questi tentativi di resistenza rischierebbero di restare schiacciati sotto il peso della globalizzazione. Sembra pertanto necessario che le buone pratiche fondate sulla valorizzazione della dimensione collettiva, dei rapporti di reciprocità e dei processi partecipativi aspirino a diventare sempre più questioni di «dominio pubblico globale» (Gereffi, 2005: 176). Da questo punto di vista si possono rilevare alcuni segnali incoraggianti. Emergono, infatti, soggetti, strumenti e soluzioni (ad es., codici di condotta, sistemi di certificazione e controllo, accordi e forme di regolazione, ecc.) che spingono le relazioni economiche transnazionali sul terreno della responsabilità sociale ed ambientale (ibid.). In tutto questo un ruolo 280 4. Il buen vivir nello scenario della globalizzazione economica Il buen vivir è un paradigma, un movimento e un programma di cambiamento sociale innescatosi in una chiave reattiva rispetto ai modelli neoliberisti che hanno dominato lo scenario mondiale a partire dagli anni ‘80. Come abbiamo evidenziato in precedenza, ciò corrisponde ad un disegno di reincorporazione dell’economia nella società. Una questione su cui si interrogano gli studiosi è fino a che punto questo disegno possa rivelarsi incisivo in senso sostanziale. Si paventa, infatti, il rischio che tale sistema di idee resti vincolato al piano ottativo, a quello dei principi giuridici o, peggio, a quello delle retoriche (Walsh, 2010). Se questo fosse vero, la portata del cambiamento stimolato e generato dal buen vivir risulterebbe limitata. Nei casi peggiori corrisponderebbe, infatti, a operazioni superficiali e di facciata; in quelli migliori, ad esperienze identificabili come buone pratiche, significative, innovative e coerenti con il sistema di valori di riferimento, ma circoscritte e limitate in termini di capacità di radicamento, diffusione e disseminazione dei modelli d’intervento e dei risultati conseguiti. I diversi esiti possibili sul piano delle realizzazioni concrete sembrano dipendere in maniera significativa da come il movimento del buen vivir riuscirà a rapportarsi alle dinamiche ed alle le forze che si esprimono su scala globale. Com’è noto, la globalizzazione negli ultimi decenni si è fortemente intensificata ed ha cambiato volto rispetto alle fasi precedenti (Gereffi, 2005). In particolare, sono notevolmente cresciuti i flussi internazionali corrispondenti agli scambi di capitali, merci, lavoro, tecnologie e conoscenze. Inoltre, l’assetto del sistema risulta molto più frammentato, essendo strutturato sulla base di catene globali del valore configurate come reti di scambi transnazionali articolate, complesse e dinamiche, 281 Il buen vivir tra economia e società Gabriele Blasutig fondamentale viene assunto dai soggetti organizzati (organizzazioni non governative, movimenti d’opinione, associazioni di rappresentanza della società civile, ecc.), che sono in grado di veicolare e proiettare le istanze della socialità, della reciprocità e dell’equità su una scala e su un orizzonte globale. and solidarity economy, May 6-8, Geneva. Magatti M. (2000), Azione economica come azione sociale. Nuovi approcci in sociologia economica, FrancoAngeli. Monni S., Pallottino M. (2013), Beyond growth and development: Buen Vivir as an alternative to current paradigms, in Working Paper del Dipartimento di Economia Università degli Studi Roma Tre, 172. Mutti A. 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The first hypothesis argues that capitalism constitutes a plural 283 284 Il buen vivir tra economia e società Altre economie e buen vivir phenomenon, the second that economic action is a form of social action. The last comments concern the possible impact of the buen vivir model in relation to the intensification of economic globalization in recent decades. di Chiara Zanetti29* Keywords: Buen vivir and economic reality, Economy and society, Economic sociology, Social and solidarity economy, Varieties of capitalism. «Ci troviamo al bivio tra due scelte alternative: tentare di perfezionare e prolungare la via della sviluppo, cercando di fronteggiare con più raffinate tecniche di dominio della natura e degli uomini le contraddizioni sempre più gravi che emergono … o invece tentare di … rielaborare gli elementi di una civiltà più ‘moderata’ (più frugale, forse, più semplice, meno avida) e più tollerante nel suo impatto verso la natura, verso i settori poveri dell’umanità, verso le future generazioni e verso la stessa ‘biodiversità’ (anche culturale) degli esseri viventi» (Langer, 1991: 126 s.). SOMMARIO: 1. Economia e buen vivir. – 2. Echi dal Sud del mondo: una prospettiva emergente. – 3. Pratiche di economia solidale nel contesto occidentale. 1. Economia e buen vivir Nel contesto latinoamericano la contraddizione tra uno sviluppo economico, indirizzato al massimo vantaggio possibile, ma al contempo incapace di risolvere fenomeni quali la povertà estrema, la fame, la disoccupazione e il degrado ambientale ha portato alla definizione del buen vivir come un’alternativa all’idea di sviluppo occidentale. Questo si costituisce non solo come un frame teorico, ma anche come un insieme di pratiche e di esperienze concrete. Dal punto di vista filosofico, il buen vivir rappresenta una cosmovisione ovvero una concezione globale della vita che mette al centro i diritti e la responsabilità di ciascuno nei confronti della collettività, nonché la ricerca di armonia con la natura e del benessere collettivo (Acosta, 2010). Esso costituisce il tentativo di disegnare una nuova prospettiva di cambiamento sociale, a partire da una visione plurinazionale e interculturale * Dottoressa di ricerca in Politiche transfrontaliere per la vita quotidiana nell’Università di Trieste. Altre economie e buen vivir Chiara Zanetti che, traendo spunto dalle esperienze delle comunità indigene, pone una particolare attenzione all’ambiente naturale, definito come Terra Madre (Bagni, 2013). Cambia, quindi, l’approccio con cui ci si pone in relazione con la natura: essa non costituisce un insieme di risorse da accumulare per raggiungere uno scopo, ma fa parte di un ideale di vita armonico in cui rientra anche l’esistenza umana. Questo porta a un’idea diversa di sviluppo ove il fine non è l’accumulazione continua di ricchezza, quanto il garantire alla popolazione la soddisfazione dei bisogni essenziali, in un’ottica di giustizia sociale e ambientale. Attualmente, la crisi economica, culturale, valoriale e identitaria che sta vivendo il mondo occidentale pone degli interrogativi circa la sostenibilità del modello consumista su cui esso si fonda. Da questo punto di vista, molti autori evidenziano come l’attuale crisi occidentale sia una crisi di tipo strutturale: in questo contesto le risposte alle tensioni e alle crescenti disuguaglianze sociali appaiono sempre più complesse, poco definibili, deboli e limitate (De Marzo, 2009). Al contrario, gli stimoli provenienti dal mondo andino suggeriscono l’emergere di pratiche politiche e sociali in grado di cogliere tale complessità, mirando a ridurre la frattura tra sviluppo umano e ambiente e costituendo un’ispirazione anche per il mondo occidentale. A tal proposito, Gudynas (2011) sottolinea come questa visione del mondo sia saldamente ancorata ai saperi e alle tradizioni indigene – collegati dalla credenza nella Pachamama, che gioca un ruolo centrale diventando a tutti gli effetti portatrice di un diritto di tutela – e come tale si propone di conservare una spiritualità che riesca a rafforzare il rapporto tra la natura, l’universo e gli esseri umani, in cui trova spazio un’economia di tipo sostenibile. In questo senso, la riflessione sul buen vivir si incentra su una decostruzione radicale della base culturale dello sviluppo occidentale quale risposta dei popoli indigeni al processo di decolonizzazione. Come sottolinea Prada Alcoreza (2013), a partire dagli anni ‘90, i popoli indigeni si sono interrogati sul concetto di sviluppo e di progresso così come inteso nell’ideale liberista. Infatti, nella letteratura di riferimento spesso si sottolinea come il concetto di sviluppo lineare non trovi piena corrispondenza semantica nelle lingue amerinde. Gudynas (2011), ad esempio, mette in luce la mancanza di un vocabolo analogo che esprima l’idea di sviluppo orientato alla sempre maggiore accumulazione di capitale che, a sua volta, permette un’espansione continua dei consumi e un’accumulazione incrementale dei beni materiali. Non è un caso, quindi, che il buen vivir compaia nel movimento indigeno nel 1992 in occasione dei “500 anni della conquista e della resistenza indigena” in contrasto all’estrattivismo, responsabile dei danni ambientali e sociali provocati dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali. Il buen vivir si costituisce quindi come un modello alternativo di sviluppo. Come tale, gli autori che ne analizzano le caratteristiche evidenziano come esso possa essere considerato un «umbrella for a set of different positions» (Gudynas, 2011: 444); un concetto, quindi, multisfacettato che racchiude al suo interno una serie eterogenea di posizioni. In questo contesto, la letteratura di riferimento – in particolare Acosta e Gudynas – evidenzia in modo trasversale come esso abbia ripreso alcuni elementi della cultura andina proponendo un modello sviluppo che si è cercato di tradurre a livello operativo attraverso una vera e propria visione politica. Tuttavia, come evidenzia il filosofo aymara Fernando Huanacuni Mamani (in Morsolin, 2014: 25), ancor prima di acquisire tale valenza politica, esso si costituisce come la ricerca di un paradigma di riferimento: «Il buen vivir, più che un’originalità della costituzione, fa parte di una lunga ricerca di modelli di vita promossi particolarmente dagli attori sociali dell’America Latina negli ultimi decenni, come parte delle loro rivendicazioni rispetto al modello economico neoliberale. Nel caso ecuadoriano e boliviano tali rivendicazioni sono state riconosciute e incorporate nella costituzione del 2009, convertendosi nei principi e nelle orientazioni del nuovo patto sociale». La diversa concezione dello sviluppo comporta una declinazione specifica dell’economia che diviene, a sua volta, uno strumento finalizzato a un ideale di vita armonico. Partendo dall’analisi dell’attuale crisi economica, che è primariamente una crisi finanziaria, l’approccio andino sostiene che porre in modo esclusivo il capitale e la sua accumulazione al centro dell’economia significa perseguire la massimizzazione del profitto, favorendo speculazioni di vario tipo che nel lungo periodo producono crisi che gli economisti occidentali ritengono sistemiche (Stiglitz, 2013). Al contrario, afferma uno dei maggiori teorici del buen vivir: «El valor básico de la economía, en un régimen de buen vivir, es la solidaridad» (Acosta, 2010: 23). In questo senso, quindi, anche l’economia si ispira a principi di concretezza, relazionalità, reciprocità, pluralità e comple- 286 287 Altre economie e buen vivir Chiara Zanetti mentarietà. Si evidenzia così una definizione funzionale dell’economia e delle sue forme: come evidenzia Prada Alcoreza (2013), non si tratta di minimizzare il ruolo dell’economia, ma di declinarla in modo plurale e comprensivo delle diverse realtà che non sono omogenee, poiché nell’economia vengono incorporati anche aspetti sociali e culturali. Da questo punto di vista, il modello cui guardare non è unitario ma deve essere necessariamente plurale, in modo da poter essere aderente alle diverse specificità locali. Nella costituzione ecuadoriana, si dedica un’intera sezione ai rapporti economici, in cui si enfatizza la ricerca un’economia diversa che aspiri a costruire rapporti di produzione, di scambio e di collaborazione orientati all’autosufficienza e alla qualità. Acosta (2010) parla di produttività e competitività sistemica: la proposta è di un rapporto dinamico tra mercato e società. Si afferma che il solo mercato governato da relazioni di scambio non è sufficiente a garantire la conservazione delle risorse naturali e a mantenere la coesione sociale. Al tempo stesso, vengono messi in luce anche i fallimenti delle visioni Stato-centriche, per cui si propone l’organizzazione del sistema economico intorno ad una pluralità di attori che perseguono finalità e si ispirano a principi diversi301. In questo contesto, non tutti gli attori economici perseguono come fine ultimo il profitto, ma alcuni sono mossi da principi di solidarietà, reciprocità e redistribuzione. La diversa concezione dei rapporti con la natura comporta anche conseguenze operative dal punto di vista dei rapporti economici, che vengono ridefiniti nell’ottica di preservare i beni comuni di tutta l’umanità. Le riforme più rilevanti messe in campo dall’Ecuador riguardano la terra e la sua gestione (in particolare la riforma agraria, con la ridistribuzione e l’espropriazione delle terre, e il controllo da parte dello Stato di settori strategici come quello dell’estrazione). Quest’approccio si propone di creare nuove alleanze tra produttori, proprietari e lavoratori proponendo uno schema che si articola secondo un modello di corresponsabilità e complementarità. Acosta (2010) richiama i concetti di autonomia, sovranità, reciprocità e di redistribuzione delle risorse e della ricchezza secon- do criteri di equità. Così, il modello proposto si propone di includere e dotare di un diverso orizzonte di senso gli attori del mercato stesso: ad esempio, Prada Alcoreza (2013) evidenzia come sia importante anche capire come la finanza possa essere a supporto dell’economia reale e del sistema produttivo. Analogamente, anche in Bolivia è presente un’economia plurale composta da varie forme di organizzazione. Nel complesso queste organizzazioni sono complementari e necessarie a coniugare gli interessi privati con il benessere collettivo nell’ottica di creare un’economia solidale comune (Prada Alcoreza, 2013: 151). In questo quadro, lo Stato svolge un ruolo centrale nel regolare i processi economici, supportato da processi democratici e consultativi. Tali indicazioni possono essere interpretate come un mantello istituzionale (Polanyi in Trigilia, 2009) che permette di attuare un processo di transizione che concretamente mostra alcune difficoltà. Infatti, la realizzazione concreta delle politiche appare più complessa e problematica di quanto le elaborazioni teoriche possano far intravedere. Come evidenziano Monni e Palottino (2013) quando si parla di buen vivir si intrecciano necessariamente due aspetti: uno teorico, quale approccio strategico al cambiamento sociale e uno più prettamente legato alle buone prassi. In Ecuador e in Bolivia i concetti di buen vivir e vivir bien sono stati pienamente riconosciuti nelle costituzioni e nelle prassi politiche, come il Plan Nacional para el Buen Vivir 2013-2017 che in Ecuador cerca di rendere operativi alcuni concetti teorici di riferimento. Tuttavia, tali dichiarazioni di principio non trovano sempre riscontro nella realtà. A tal proposito si citano due episodi emblematici: la decisione da parte del presidente ecuadoriano Rafael Vicente Correa di approvare lo sfruttamento petrolifero nel parco nazionale amazzonico Yasuní (Calligaris, Bellini, 2013) e, in Bolivia, il progetto di costruzione di un’autostrada nel parco nazionale Tipnis, area altresì ricca di idrocarburi (http://www.yurileveratto. com/it/articolo.php?Id=243). In questo contesto, il conflitto tra interessi particolaristici di tipo economico e principi teorici è evidente, in quanto i proventi del petrolio costituiscono una componente rilevante della ricchezza nazionale, permettendo investimenti in termini di inclusione e benessere sociale. Il buen vivir è considerato come una categoria in continua trasformazione e costruzione (Gudynas, 2011), con l’aspirazione di poter creare 288 1 Tale pluralità si rispecchia, ad esempio, nella definizione di uno dei capisaldi dell’economia moderna occidentale: la proprietà. A tal proposito, la costituzione ecuadoriana prevede cinque tipologie di proprietà: pubblica, privata, mista, popolare e solidale. 289 Altre economie e buen vivir Chiara Zanetti una possibile alternativa allo sviluppo in termini economici e tecnologici a partire dai principi culturali dei nativi indigeni, dalle loro tradizioni culturali, dal sapere contadino, dalle esperienze e dalle conoscenze del mondo indigeno tradizionale. Al di là delle molteplici declinazioni pratiche, gli elementi comuni alle diverse concezioni sono soprattutto il fatto che il benessere è legato strettamente all’idea di comunità e al fatto che la vita dell’essere umano e dell’ambiente naturale sono legati tra di loro in modo indissolubile. Il benessere è dunque inteso in maniera collettiva e non ha alcuna connotazione individualista, non è basato sull’accumulazione di beni materiali e si fonda, invece, sulla reciprocità, sullo scambio e sulla solidarietà. stra molte affinità con il buen vivir. L’ubuntu è una visione sviluppata all’interno di società ancestrali, tramandata oralmente e oggi diffusa in molta parte dell’area sub sahariana. Se, quindi, la specificità del modello andino risiede nel richiamare un vivere armonico con la terra in una visione legata al ciclo della terra e alla sua continua rinascita, in contrasto con il concetto di sviluppo lineare tipico del mondo occidentale e che si è accentuato a partire dalla rivoluzione industriale, molti autori sottolineano come questo paradigma non sia così nuovo come sembra. Ad esempio, sottolinea Houtart (2011: 19 s.) che «nelle società precapitaliste di tutto il mondo abbiamo avuto dei riferimenti di questo tipo, ossia una visione completa (olistica) del destino umano sulla terra. In molti casi questa visione si è espressa in termini religiosi, sia nelle tradizioni con base filosofica (taoismo, confucianesimo, induismo, buddismo, giudaismo, cristianesimo, islamismo), sia nelle religioni tradizionali dei popoli primitivi. Si tratta di riscoprire, in termini contemporanei, per le varie società di oggi, le prospettive adeguate e le traduzioni». Nel contesto occidentale, la letteratura che affronta il tema della necessità di un cambiamento nel modello di sviluppo è rilevante e si incentra su diversi aspetti. C’è chi mette al centro della riflessione aspetti quali la valorizzazione della dimensione collaborativa (Sennett, 2012) ed empatica dell’essere umano (Rifkin, 2010) e chi il recupero del senso del limite attraverso percorsi incentrati sul concetto di decrescita (Latouche, 2012). Anche nel mondo squisitamente economico vi sono autori che rilevano i limiti del modello capitalista. Basti pensare al premio nobel Stiglitz (2013) o al recente testo di Piketty (2014) che fanno notare come la pratica economica, orientata ad una libertà sfrenata e connessa ad una sostanziale sudditanza del mondo politico, generi livelli sempre maggiori di disuguaglianza economica, in un circolo vizioso negativo. Alla base di tutte queste riflessioni vi è la difficoltà di spiegare le esternalità negative dell’attuale contesto economico. In molte di queste nuove narrazioni compare anche l’attenzione all’ambiente e in generale la necessità di individuare nuovi approcci allo sviluppo che siano sostenibili per il futuro della vita sulla terra: tuttavia, l’approccio rimane molto più antropocentrico rispetto a quanto evidenziato dai teorici del buen vivir. Cercando di dare una risposta, seppur limitata e circoscritta a specifici ambiti, sia a livello internazionale sia nazionale, emergono filoni di analisi 290 2. Echi dal Sud del mondo: una prospettiva emergente Crimella e Giordano (2013) rilevano come le idee provenienti dal contesto latinoamericano vengano prese in considerazione ed elaborate anche nel contesto occidentale, ribaltando quindi le dinamiche classiche di influenza Nord-Sud. Come sottolineano Monni e Palottino (2013: 3), è stata proprio l’evoluzione seguita dai paesi maggiormente sviluppati a far presumere a livello globale che lo sviluppo sarebbe coinciso con la crescita economica, nella speranza che i benefici di questa fossero distribuiti nella popolazione riducendo in questo modo la povertà. Tuttavia, la persistenza di differenze economiche ha portato lo stesso mondo occidentale ad interrogarsi sulla tenuta dello sviluppo economico senza un parallelo sviluppo sociale. Particolarmente indicativo è il pensiero di Sen (2000) che identifica lo sviluppo con l’incremento delle opportunità di scelta e delle possibilità dei singoli, legando quindi tale concetto non solo ai livelli delle prestazioni economiche di un paese ma anche ad elementi sociali e politici. Di conseguenza, anche se come evidenziato in precedenza, il buen vivir è un elemento culturale specifico dei popoli andini, esso costituisce anche un aspetto comune a molte altre culture: il desiderio di vivere bene è un elemento comune che «sostiene i legami segreti tra i popoli» (Potente, 2013: 234). Ad esempio, Crimella e Giordano (2013) sottolineano come l’ubuntu sia una prospettiva proveniente dal continente africano che mo- 291 292 Altre economie e buen vivir che cercano di mediare tra l’economia monetaria di mercato (il settore privato), l’economia monetaria non di mercato (l’economia pubblica e il welfare) e l’economia non monetaria (le reti informali, l’economia domestica, l’autoproduzione, il volontariato e le società civile). Laville (1998), in particolare, evidenzia come in un sistema economico i tre poli si combinano in modo diverso a seconda del contesto e dei compiti che ci si propone di realizzare. Tuttavia, nel contesto occidentale così come in quello andino, l’interrogativo da porsi è se i diversi filoni proposti possano ridursi ad una mera “decolonizzazione dell’immaginario” o piuttosto necessitino più che di un approfondimento degli approcci teorici anche di un’analisi delle modalità operativo-pratiche per cercare di traghettare l’attuale sistema economico con tutte le sue criticità verso un sistema fondato su presupposti e logiche diverse (Nilla et al., 2012: 1). In tal senso, l’economia assume una valenza sostanziale. Un autore di riferimento è Polanyi (2000) che considera l’economia come embedded nelle istituzioni che caratterizzano un determinato contesto storico. Egli, infatti, definisce l’economia come sostanziale e partendo dall’assunto che l’uomo, per sopravvivere, dipende dagli altri uomini e dalla natura, definisce i sistemi economici come un processo istituzionalizzato di interazione tra questi elementi che dà luogo ad uno scambio di mezzi per il soddisfacimento dei bisogni. Nello specifico, nel suo saggio La grande transizione, egli rappresenta le società occidentali come caratterizzate da tre forme di integrazione tra economia e società coesistenti: la comunità con relazioni di reciprocità, lo Stato che svolge una funzione regolativa e redistributiva e il mercato caratterizzato da relazioni di tipo strumentale. Oggi, il mercato ha eroso il ruolo delle altre due sfere, facendo prevalere forme di economia formale ovvero di economia di mercato basata sul principio di scarsità e sulla figura dell’homo economicus, in cui terra, lavoro e moneta vengono considerati come merci. Per Polanyi è quindi fondamentale disporre di attori ed istituzioni che sostengano la transizione dei diversi attori sociali verso un’economia sostanziale a servizio della società. Chiara Zanetti 293 3. Pratiche di economia solidale nel contesto occidentale Nel contesto occidentale e, nello specifico, in quello italiano, è possibile individuare prassi operative che cercano di valorizzare e mettere in rete modalità di organizzazione che valorizzano economie di tipo alternativo: un’economia solidale, altra da quella convenzionale poiché finalizzata al bene comune, rispettosa dei diritti umani, diretta a garantire l’ambiente e volta a favorire l’arricchimento del tessuto sociale. Molte sono le esperienze che stanno cercando di riagganciare il lato sociale e politico dell’economia (Bertell et al., 2013). Il tentativo di queste pratiche parte dai comportamenti che fanno leva su nuovi stili di vita, ipotizzando sistemi di relazioni economiche alternativi derivati da diversi approcci alla produzione e al consumo. Si tratta di forme organizzative che occupano lo spazio lasciato libero dallo Stato e dal mercato, in cui soggetti principali sono movimenti, gruppi, associazioni e cooperative che promuovono stili di vita legati al consumo critico, alla partecipazione e alla sostenibilità. A tal proposito Pianta (2009: 50) utilizza la categoria “altra economia” che rimanda ad un sistema emergente di attività orientate al cambiamento economico e sociale. Nello specifico, egli definisce come altra economia «il sistema di attività economiche – che producono beni sul mercato o servizi legati all’azione dello stato – e di attività sociali che hanno l’obiettivo di migliorare il benessere dei cittadini, la solidarietà sociale e la sostenibilità ambientale». Biolghini (2007: 45), invece, ne mette in evidenza l’aspetto solidale con la proposta di «democratizzare l’economia, di sostenere l’economia locale, di legittimare l’economia non mercantile, di valorizzare gli scambi non monetari ed informali». Lo sviluppo del sistema dei Gruppi di acquisto solidale (Gas), la continua espansione dell’esperienza di Banca Etica, lo sviluppo di iniziative di microcredito, l’incremento delle filiere del biologico, il crescere di laboratori di partecipazione sono solo alcune conferme di queste tendenze. Non si tratta solo di un aumento in termini numerici, ma anche di una maggiore consapevolezza collettiva. Recenti indagini rendono evidente come coloro che partecipano ai Gas facciano parte dei cosiddetti cittadini critici ovvero di soggetti che presentano un forte sostegno e consapevolezza dei processi democratici, ma che mostrano una sfiducia crescente nei confronti dei canali istituzionali e partecipativi tradizionali (Osser- Altre economie e buen vivir Chiara Zanetti vatorio Cores, in Tavolo per la Rete italiana di economia solidale, 2013). Inoltre, tali dati confermano come la partecipazione ai Gas sia associata a motivazioni sia di tipo individuale – ad es., la tutela della propria salute – sia di tipo sociale, nello specifico la volontà di sostenere, con il proprio comportamento, un processo di cambiamento del modello dominante di consumo. Da questo punto di vista, anche se al suo interno vi sono filoni diversi, l’economia solidale e le sue pratiche mostrano molti punti di contatto con gli approcci orientati al buen vivir, poiché entrambi si propongono di produrre relazioni nuove articolando la dimensione economica con quella politica e ambientale. In particolare, emerge una visione plurale dell’economia che si costruisce negli spazi lasciati liberi dalle logiche dominanti e sperimentata a livello locale in modo consapevole (Laville, 1998). Secondo Laville, la sfida è di operare per una “globalizzazione della solidarietà”, facendo spazio all’iniziativa dei singoli cittadini. In questo modo si può arrivare a coniugare etica ed economia partendo dai comportamenti economici quotidiani. Riprendendo la metafora proposta da Bertell et al. (2013) e già proposta dal movimento femminista degli anni ‘70, si tratta di vedere nel “partire dal sé” una possibilità di cambiamento e trasformazione del mondo e della società. Gli interessi individuali vengono collegati all’interesse collettivo, nel momento in cui l’etica dei comportamenti individuali viene trasmessa anche alle istituzioni economiche, instaurando un nuovo legame tra mercato, Stato e società civile. In questi percorsi, un elemento fondamentale sono il radicamento nel tessuto sociale e la “ricostruzione” della comunità nella sua organicità. A titolo esemplificativo, un’esperienza in tal senso è quella dei Bilanci di giustizia, un’esperienza collettiva che, attraverso le relazioni, fornisce alle persone un’opportunità di cambiamento delle proprie scelte quotidiane orientandole verso una maggiore equità sociale e ambientale (http:// www.bilancidigiustizia.it). Tra le proposte che emergono nell’ambito italiano, è rilevante il percorso operato dalla Rete di economia solidale, che prende avvio nell’ottobre del 2002 a Verona e che porta l’anno successivo all’elaborazione della Carta per la Rete italiana di economia solidale (Biolghini, 2013). Questa si proponeva di costituire una rete ecosolidale organizzata in Distretti di economia solidale (Des). I Des si configurano quali laboratori di sperimentazione civica, economica e sociale che prendono forma da una rete di soggetti in cui circolano buone pratiche, prodotti e servizi. Tale rete si sviluppa attraverso modalità di produzione e di consumo di beni e servizi ispirati ai principi dell’economia solidale. In questo senso, i flussi di fornitura e approvvigionamento sono rivolti prevalentemente all’interno della rete, in modo da sostenersi reciprocamente aprendo spazi di un’economia finalizzata al benessere collettivo. A titolo esemplificativo, gli attori che fanno parte di un Des possono essere Gas, botteghe del commercio equosolidale, realtà di finanza etica e di turismo responsabile, piccoli agricoltori biologici, ecc. La creazione di reti di economia solidale e nello specifico di Des ha l’ambizione di creare circuiti di scambio alimentati da consumatori critici e realtà produttive di beni e servizi che prendono in considerazione principi etici rispetto all’ambiente, alle condizioni di lavoro e al ruolo sociale. I Des dovrebbero quindi mirare a valorizzare le risorse locali nell’ottica di generare circuiti economici positivi, non perdendo di vista la sostenibilità sociale ed ecologica. Nel dettaglio, Bonaiuti evidenzia quali principi ispiratori dei Des la valorizzazione della dimensione locale, la sostenibilità sociale e la partecipazione attiva dei soggetti nella gestione dei processi economici propri del distretto stesso. In questo senso, i distretti quindi sono strettamente ancorati a quelle che sono le realtà e le specificità locali sia in termini di peculiarità ambientali, economico-produttive sia in termini di capitale sociale e culturale. Il territorio viene quindi visto come un sistema aperto in connessione con altri sistemi (Bonaiuti, 2003: 12 s.) e pervaso da flussi di risorse che, in quanto tali, devono essere preservate. La realizzazione pratica di tali esperienze è carica di valenze ideali. Tuttavia, è innegabile la crescita di alcuni attori che fanno parte di queste reti: il caso più eclatante è probabilmente quello dei Gas che, nati alla metà degli anni ‘90, sono oggi più di 900 (prendendo in considerazione esclusivamente quelli censiti nella rete 2013). I Des costituiscono l’evoluzione politica dei Gas e vanno nella direzione di creare una rete tra gli attori in precedenza messi in evidenza. Anche in questo caso si registra nell’arco di una decina d’anni una crescita non indifferente: infatti, a settembre 2013 si contano 39 esperienze di rete che hanno aderito formalmente o che si rifanno al Tavolo Res (2013) e 9 organizzazioni di supporto che aderiscono all’iniziativa. 294 295 Altre economie e buen vivir Chiara Zanetti Analizzando per quanto a grandi linee il paradigma andino del buen vivir e quanto proposto dall’economia solidale emergono alcuni elementi comuni, in quanto entrambe le teorizzazioni cercano di dare risposta a problematiche simili: disoccupazione, dissesti finanziari, povertà, sfruttamento delle risorse territoriali. Mentre, però, il buen vivir è strettamente interconnesso con le culture indigene preesistenti, nel contesto occidentale i movimenti incentrati sulla solidarietà appaiono come una scoperta recente, più orientata a mettere in evidenza le discontinuità piuttosto che gli elementi di vicinanza con un passato comunitario orientato alla preservazione delle risorse naturali che pur nei contesti rurali è stato presente e centrale per la preservazione della comunità e del territorio stesso. Un elemento di continuità, tuttavia, si intravede nelle diverse narrazioni che mettono al centro il bene comune quale risposta alle diverse crisi che attraversano il mondo occidentale. L’impressione è che vi siano diverse esperienze che si stanno muovendo nella stessa direzione e che queste costituiscano una reazione dal basso alla logica del mercato e ai suoi fallimenti. Esse contribuiscono a creare un nuovo orizzonte di senso che indica la transizione verso una società maggiormente orientata verso un’economia di tipo solidale, quantomeno a livello di singoli attori. between buen vivir, ubuntu and western world, paper in http://www.eaepeparis2013.com/papers/Full_Paper_Margherita-Giordano.pdf. De Marzo G. (2009), Buen Vivir: per una nuova democrazia della Terra, Ediesse. Gudynas E. (2011), Buen Vivir: Today’s tomorrow, in Development, 54(4). Houtart F. (2011), Dai beni comuni al bene dell’umanità, Fondazione Rosa Luxemburg. Langer A. (2005/1991), La scelta è tra espansione e contrazione, in Id., Fare la pace: scritti su Azione nonviolenta, 1984-1995, Cierre. Latouche S. (2012), La scommessa sulla decrescita, Feltrinelli. Laville J. (1998), L’economia solidale, Bollati Boringhieri. Monni S., Pallottino M. 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(2013), Indigenous voices: enriching contaminations 297 298 Altre economie e buen vivir Le nuove città del sogno e del buen vivir: il Movimento Cittaslow Abstract: In the national and international context, there are different good practices that try to apply the principles of a different development in the daily life. These experiences show a plurality of voices, actors, languages and visions that contrasts with the neoliberal path of development widespread in the Western context. Solidarity economy can be consider an umbrella for the set of these experiences. This paper aim to highlight the connections between the emerging paradigm of buen vivir and the experience of the Italian network of solidarity economy. Keywords: Buen vivir, Development paradigms, Solidarity economy, Districts of solidarity economy, Ethical purchasing groups. di Chiara Beccalli31* SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Le città: dallo spazio onirico rinascimentale alla città diffusa. – 3. Qualità della vita: cenni agli indicatori. – 4. Cittaslow: obligados a vivir bien! 1. Premessa L’etica del buen vivir è un’etica volta a recuperare ciò che è pubblico e comune, basata sulla soddisfazione dei bisogni primari e volta alla ricerca dell’equità tra tutti gli esseri umani all’interno del proprio spazio comunitario e nel rispetto delle diversità (Pérez, 2014). L’attenzione è volta al recupero del bene comune e della dimensione collettiva politica e sociale per rifondare ontologicamente il vivere insieme. Buen vivir significa «vivere una vita piena e dignitosa, un’esistenza armonica che include la dimensione cognitiva, sociale, ambientale, economica, politica e culturale al pari interrelate e interdipendenti» (Baldin, 2014: 29) ed è il risultato di una lunga ricerca e attenzione a modelli di vita derivati dalla tradizione indigena. Con esso si sceglie di affermare costituzionalmente il principio per cui individui e comunità possono esercitare i propri diritti e le loro responsabilità in un contesto interculturale e non solo multiculturale (Sartori, 2002). La nuova architettura è il frutto di un processo bottom up portato avanti da attori sociali latinoamericani che, nel caso dell’Ecuador, sono diventate parte integrante della costituzione affinché chiunque, compresa la natura, possa liberamente godere e veder salvaguardati i propri diritti. La prospettiva offerta dall’approc* Assegnista di ricerca in Sociologia generale nell’Università di Trieste. Le nuove città del sogno e del buen vivir Chiara Beccalli cio olistico recupera i valori ancestrali delle comunità andine rivolti ad “un’etica cosmica” per la quale il buen vivir si esplicita completamente in un dialogo e un confronto reciproco tra uomo, comunità e Madre Terra che dà origine a un senso comunitario di inclusione e accettazione del prossimo; una tale propensione all’altro non può trovare eguali nell’idea di “vita buona” occidentale, nemmeno nell’idea di amore totale e disinteressato verso il prossimo professato dal cristianesimo (Cortez, 2010). Una trasposizione della filosofia e dei valori del buen vivir, specialmente quelli legati al cosmocentrismo non trova completa traduzione nel mondo occidentale. Tuttavia, il lavoro e il pensiero sviluppato dal Movimento Cittaslow, che ha stimolato il dibattito sul ruolo e la vita nelle/delle città, sembra avere qualche punto di contatto con gli ideali del buen vivir. Gli spazi urbani tornano ad essere centri di socialità, di coesione e di affermazione delle comunità grazie anche a politiche di governance (Tocci, 2009) volte non solo a creare città sostenibili, bensì vivibili, inclusive e che pongono al centro l’originalità degli abitanti. loci intellettuale e culturale che si esprimeva attraverso le forme architettoniche urbane: palazzi, chiese e spazi pubblici. I mecenati hanno avuto il merito di riuscire a trasformare le città e materializzare le espressioni culturali di cui si facevano portatori, sviluppando non più città utopiche, bensì città del sogno caratterizzato dalla materialità delle immagini oniriche, come spiegano gli studi psicanalitici del Novecento. La concretezza delle immagini deriva dal bagaglio dell’esperienza e delle conoscenze del singolo e, pertanto modificabili nel tempo; la tangibilità attribuita alle figure del sogno non rende questo un semplice momento premonitore, in cui si esplica un destino immodificabile, ma un momento in cui viene lasciato spazio al cambiamento e alla trasformazione dell’individuo (ibid.: 15 s.). Pertanto, gli spazi urbani e le istituzioni che compongono la città rinascimentale e moderna, non sono il frutto di regole e espressioni astratte, bensì manifestazione della “personalità di base”, in cui cultura e individualità si fondano, fornendo al singolo (all’epoca al mecenate, al nobile o all’industriale) la possibilità di farsi portatore, di orientarsi nella società e di modificare le categorie culturali di riferimento, proprio attraverso l’esperienza. Il singolo, le cerchie sociali cui partecipa e i comportamenti attuati influenzano, in maniera diretta o indiretta, l’orientamento e il percorso decisionale interno allo spazio urbano. Secondo tale concezione, gli spazi istituzionali sono costruiti a partire dalle necessità e dai bisogni culturali espressi dalla società stessa, pertanto, parlare di città del sogno significa parlare di città la cui struttura e conformazione ricalca la cultura dei suoi abitanti e che trova espressione nelle forme architettoniche e urbanistiche della stessa. Gli spazi pubblici urbani rinascimentali e moderni riproducono l’essenza della vita urbana e le competenze dei suoi cittadini, il genius loci specifico, le tradizioni e l’espressione della quotidianità di chi vive e anima quegli stessi spazi. L’idea di urbanità come esternalizzazione della cultura e funzionale all’educazione dei cittadini è, altresì, garante di continuità con il passato e di universalità secondo cui esiste un modello univoco, condiviso e trasversalmente accettato di cultura (Secchi, 1999). Le città contemporanee, invece, si caratterizzano per essere città frattali, dove non è possibile tracciare una linea di continuità – e nemmeno di ricorsività – culturale giacché gli spazi urbani si presentano come un melting pot non solo legato alle differenti origini etniche di chi li popo- 300 2. Le città: dallo spazio onirico rinascimentale alla città diffusa Partiamo dalla domanda che si pone Stroppa nel testo Le città del sogno (1998): è possibile pensare alle città odierne come le città del sogno di epoca rinascimentale (Palmanova, Pienza, Sabbioneta, ecc.), in cui i mecenati riuscivano a dare concretezza alle utopie urbane? Certamente, la città rappresenta il cuore e l’essenza della società e degli individui che la vivono (Gasparini, 2001: 10); la città è metafora della vita degli uomini, delle loro relazioni, luogo privilegiato in cui la collettività e il mondo politico concorrono nel ragionare sulle città e sviluppare il tessuto urbano affinché sia espressione della cultura dei suoi abitanti. La città è il “regno dell’uomo” (Stroppa, 1998: 36) in cui è possibile ritrovare le tracce della cultura intesa sia come insieme di valori, simboli e saperi da trasmettere, sia per socializzare i nuovi membri alla realtà cittadina. In quest’ottica, la città è mezzo educativo che introduce alla cultura urbana ed è manifestazione concreta e tangibile della società e degli individui che partecipano alla sua costruzione e cambiamento. Come spiega Stroppa, le città rinascimentali e le figure dei mecenati hanno rappresentato il fulcro, il genius 301 Le nuove città del sogno e del buen vivir Chiara Beccalli la, ma legato ad una commistione di funzioni e attività che intercorrono, o dovrebbero intercorrere, a rispondere alle esigenze espresse dalle diverse realtà culturali. Il dibattito della sociologia del territorio circa l’evoluzione e il cambiamento delle strutture delle città contemporanee (post-moderne), come conseguenza della globalizzazione, ha portato allo sviluppo di innumerevoli definizioni e concettualizzazioni: città globale, città a rete, sprawltown, arcipelago metropolitano, città metropolitana, ecc. Le diverse riflessioni concettuali e teoriche suggeriscono lo sforzo e la volontà di concorrere a ridefinire la città al fine di attribuirle un senso ed un ruolo se non più universalmente condivisibile, almeno nel mondo occidentale, ampiamente condiviso. Molti ragionamenti teorici tentano di fare ordine tra possibili prospettive di evoluzione, tra le svariate tendenze di cambiamento dello spazio urbano contemporaneo nel tentativo di suggerire possibili percorsi di governance urbana, in quanto i cambiamenti economici, politici e sociali hanno modificato la struttura fisica delle stesse città che si riverbera (o è riverberata) nella struttura sociale della città contemporanea (Indovina, 2003; Tocci, 2009: 77). Gli studi sulle città tentano di dare conto dello scardinamento dell’equilibrio centro-periferia, poiché l’urbanizzazione si allarga verso poli secondari spesso generando situazioni caotiche e di conflittualità, visto che alle nuove forme di urbanità si affiancano nuove forme di potere e di gerarchia spaziale. Il logoramento o, meglio, lo sfaldamento della visione organica e unitaria sulla città è rintracciabile anche nella dissoluzione tra gruppo sociale e spazio cittadino. Se nelle città rinascimentali e industriali era possibile individuare spazi specifici legati all’attività produttiva, alle comunità a coloro che le popolavano (Castrignanò, 2006), la forma della città diffusa non consente più di ricostruire i legami socio-spaziali uniformi. Gli abitanti delle città diffuse, degli spazi del peri-urbano (Colleoni, Caiello, 2013) o delle città evanescenti si trasformano, in parte assumendo una forma ibrida, in parte del tutto nuova e «tendono a vivere le pratiche di vita quotidiana fruendo di uno spazio urbano sempre più diffuso e policentrico» (Castrignanò, 2006: 23) e facendo ricorso a risorse spesso molto diverse tra loro. Lo studio sulla realtà milanese curata da Martinotti (2005) e la riflessione ivi contenuta di Nuvolati (2005) mossa dalle analisi sugli indicatori della qualità della vita, portano a ragionare attorno alle conflittualità che si innescano tra le diverse tipologie di popolazione che vivono, occupano e percorrono/attraversano lo spazio urbano e che producono, si appropriano o sfruttano le risorse della città metropolitana. I conflitti si giocano su più livelli: utilizzo e accesso allo spazio, accesso alle risorse socioeconomiche e importanza culturale, cui partecipano diversi attori e che sfociano in effetti differenti. Volendo soffermare il ragionamento sugli aspetti culturali e sulle nicchie di recupero della cultura locale e delle tradizioni del territorio, lo studio condotto dal gruppo di ricerca capeggiato da Martinotti rileva come negli ultimi decenni le figure classiche della città sono quelle che faticano a trovare spazio fisico, risorse economiche e a ottenere riconoscimento sociale, poiché surclassate dalle figure quali city-users e iperborghesia internazionale – ricchi uomini d’affari con importanti risorse economiche e che raggiungono la metropoli per rimanerci un tempo breve o brevissimo (Martinotti, 2005: 43). Queste figure sono nomadi del lavoro senza radicamento che attraversano la città e la campagna senza mai appartenere a nessuno spazio, modificando la relazione tra il contenitore città e le sue parti, scardinandone la corrispondenza. Le figure marginali, quali residenti e abitanti detentori di saperi specifici, devono riuscire a ritagliarsi una nicchia all’interno delle conflittualità che caratterizzano le città metropolitane contemporanee. La capacità di emergere, di non essere inghiottiti dagli effetti negativi delle nuove relazioni spazio-individuo e di contrastare l’omologazione dei contesti risiede nelle competenze che i gruppi marginali posseggono, vale a dire: conoscenza delle specificità e delle tradizioni locali. L’affermazione, la ricerca e la costruzione delle tradizioni agevola il recupero degli spazi fisici per ristabilire un nuovo equilibrio voltando lo sguardo verso i centri più piccoli e il recupero di una legata alla località e all’incentivo della qualità della vita (cfr. Tab. 1). 302 303 Le nuove città del sogno e del buen vivir 304 Tab. 1. Tipologie di conflitti di popolazione Tipologie Occupazione dello spazio Accesso nello spazio Conflitto culturale Polarizzazione socio-economica/Conflitto fiscale Contendenti principali Abitanti vs. iperborghesia internazionale e attori economici forti Abitanti vs. pendolari e city users Abitanti e cultura locale vs. iperborghesia internazionale e modelli culturali globalizzati Gruppi deboli dei residenti e non residenti vs. city users e iperborghesia internazionale Effetti Terziarizzazione, gentrification Congestione della rete dei servizi e delle vie di comunicazione Omologazione dei contesti Marginalità, esclusione sociale, distacco (disenfranchisement) e disparità contributiva della popolazione locale Fonte: adattamento dell’autore da Nuvolati, 2005. 3. Qualità della vita: cenni agli indicatori Attualmente, il dibattito attorno agli indicatori da prendere in considerazione per analizzare la qualità della vita urbana si fa sempre più intenso specialmente da quando le politiche di pianificazione sono passate da una logica di government (top down) ad una di governance (bottom up) (Gilli, 2010). Gli stakeholder sociali sono andati sempre più aumentando e diversificandosi; non più solo attori pubblici, ma anche privati e soggetti operanti nel settore del volontariato, del non profit e dell’associazionismo rivolto al mondo dell’ambiente, della protezione degli animali oppure del sostegno alla persona. Generalmente, gli stakeholder sono chiamati alla discussione e al processo partecipativo (Pellizzoni, 2005; Tocci, 2009) in qualità di conoscitori del territorio che vivono quotidianamente e che assumono su di sé il ruolo di decisori seguendo una logica deliberatoria collettiva e dove a prevalere è, o dovrebbe essere, la collaborazione, la condivisione e il senso di comunità. È evidente che una logica simile è volta all’aumento di capitale sociale, dove a contare sono i rapporti sinergici e di reciproca fiducia. La scelta condivisa degli indicatori su cui lavorare per l’implementazione di Chiara Beccalli 305 politiche urbane, li rende strumenti di comunicazione tra e con i cittadini. Gilli (2010) spiega che questi indicatori per divenire comunicabili e intellegibili hanno un livello tecnico inferiore, divengono più semplici, ma sono caricati di valenza etica e morale. La mancanza di neutralità li rende sempre meno puro strumento di ricerca scientifica e sempre più strumento politico, su cui far convergere posizioni e necessità differenti. Gli indicatori di sostenibilità urbana, in questo caso, mettono in luce quanto detto: infatti, la complessità della vita urbana non limita lo studio al rapporto tra la natura e l’uomo, tra il centro e la periferia oppure tra la campagna e la città, ma si interessa di altri aspetti in cui entrano in gioco gli strumenti di comunicazione, le tecnologie, i mezzi di trasporto, il lavoro, l’immigrazione e, non da ultimo, i rapporti interpersonali. Un approccio partecipativo nella costruzione degli indicatori di sostenibilità urbana permette «un’effettiva redistribuzione dei poteri sociali urbani e alla legittimazione delle pratiche di autogoverno dei cittadini, delle comunità locali e della società civile, tanto nel valorizzare stili di vita, esperienze collettive, pratiche quotidiane di reciprocità, di mutuo-aiuto, di economia sociale, di auto-organizzazione, quanto nel definire un nuovo ordine istituzionale» (Di Bella, 2012: 811). In generale, i movimenti collettivi portano a formulare decisioni che consentono di trovare spazio ai bisogni e alle necessità di mettere in gioco le proprie competenze e risorse. Inoltre, l’ascolto e il recepimento bottom up consente di strutturare progetti e politiche mirati alle differenti realtà cittadine e a differenti target group (Gilli, 2010: 90), costruendo obiettivi maggiormente efficaci e che riescano a garantire una più ampia partecipazione, condivisione e puntando, proprio, all’accrescimento del capitale sociale degli abitanti degli spazi urbani presi in considerazione. La governance consente ai gruppi di abitanti e residenti, portatori del genius loci, di far emergere la propria nicchia di specificità e di scardinare gli effetti di uniformazione e omologazione, presentati nella tabella precedente. Per poter dare spazio alle specificità e permetterne l’emersione, sarebbe opportuno far precedere ogni indagine sulla qualità della vita da una indagine che si soffermi sulla storia di determinate località, da cui trarre e costruire le tradizioni culturali; sulle dimensioni urbane a cui si collegano le questioni di sostenibilità e di definizione, sempre più complessa dei confini entro cui “rinchiudere” la città (Petrillo, 2009); infine, sulla den- Le nuove città del sogno e del buen vivir Chiara Beccalli sità data dal rapporto tra abitanti e spazio occupato. Parlare di densità, in sociologia, apre diverse problematiche; oltre a quelle classiche legate alle questioni psicologiche relazionali e di orientamento/spaesamento nelle città moderne (Simmel, 1903/1996), la densità urbana porta la riflessione lungo direttrici differenti: se, da un lato, la densità intesa come prossimità può aumentare la coesione sociale, dall’altro, la densità intesa come compattezza potrebbe portare alla riduzione delle risorse e, di conseguenza, alla diseguaglianza nell’accesso alle stesse. Non a caso Platone definiva la città ideale come una città che non dovesse superare i 5.040 abitanti, esattamente come le città aderenti al Movimento Cittaslow non devono superare i 50.000 abitanti. I macro-indicatori impiegati dall’Eurobarometro (2013) per costruire un indice di qualità della vita sono quattro: 1) soddisfazione relativamente alla propria città (soddisfazione generale e dei servizi); 2) opinione in merito alla città in cui si vive (possibilità lavorative; situazione abitativa; livello integrazione degli stranieri, ecc.); 3) opinione sulla qualità dell’ambiente (qualità dell’ambiente; pulizia; livello di rumore; lotta all’inquinamento, ecc.); 4) opinione sul proprio stile di vita (lavoro; situazione economica, ecc.). Nell’indagine, alcuni tra gli indicatori hanno ricoperto una rilevanza maggiore, vale a dire: salute, disoccupazione, educazione e formazione, sicurezza e altri legati all’inquinamento, alle infrastrutture stradali, ai servizi sociali e al livello di rumorosità. Secondo l’Eurobarometro, Vienna e Zurigo sono le città europee che occupano le posizioni più alte nella classifica delle capitali europee per la qualità della vita. Soffermandoci sugli indicatori relativi alla cultura, alla soddisfazione per i servizi culturali ed educativi leggiamo che Roma occupa le ultime posizioni: solo il 44% si dice soddisfatto dei servizi educativi, facendo segnare anche un peggioramento rispetto al 2012 pari a 11 punti percentuali. Le prime tre capitali in classifica sono: Lubiana (87%), Nicosia (80%), Helsinki (79%) (Vienna 71%), mentre le due ultime posizioni, proprio sotto la nostra capitale, sono Bucarest (43%) e Atene (39%). Anche per i servizi culturali (cinema, teatri, biblioteche, ecc.) Roma fa segnare un livello di soddisfazione pari al 65% con un distacco di 30 punti rispetto alla capitale austriaca, che si colloca al primo posto (95%) a pari merito con Helsinki e seguite da Parigi e Praga (92%). Impressiona, in negativo, il livello di scarsa soddisfazione, generale, indicato dai cittadini di Roma che si colloca nelle parti più basse della classifica delle capitali (80%); ancora una volta appena sotto troviamo Atene (52%) ultima tra le capitali. Nella parte alta, invece, si collocano Copenaghen, Amsterdam, Stoccolma e Vienna con valori percentuali che oscillano tra il 97% e il 95%. Guardando all’Italia, le città di Napoli e Palermo si classificano al terzultimo e quartultimo posto, rispettivamente (29% completamente soddisfatti); Verona occupa la posizione più alta (54% del campione si dichiara completamente soddisfatto), la segue Bologna (49%) e Roma si colloca poco sopra le città del Sud Italia (37%). Anche per quanto concerne la soddisfazione per la presenza di spazi pubblici e aree verdi, Roma raggiunge solo il 60% dei pareri positivi, rispetto a Vienna che arriva a 88% e pessima la posizione occupata dalla capitale italiana in merito a pulizia e attenzione alle politiche ambientali: solo il 25% dei cittadini romani ritiene che il livello di pulizia sia soddisfacente, un’inezia rispetto agli 80 punti percentuali raggiunti da Vienna e i 92 dal Lussemburgo. Infine, Roma si colloca all’ultima posizione per il livello di soddisfazione in merito alle politiche ambientali (62%) seguita da Madrid (58%), Riga (57%) e Atene (56%), mentre le capitali maggiormente attente alle politiche di sostenibilità dell’ambiente si ritrovano Lussemburgo e Stoccolma (livello di insoddisfazione per l’implementazione delle politiche ambientali: 18%, 23% rispettivamente). Vienna si colloca al settimo posto tra le città meno insoddisfatte (32%). Per trovare la prima città italiana nella classifica bisogna arrivare alla 36a posizione con Torino. Ampliando lo sguardo verso gli Stati nord e sudamericani, le indagini sul livello della qualità della vita misurato su 39 fattori per 233 città, secondo la classifica Mercer (http://www.mercer.it), collocano Vienna tra le città maggiormente vivibili al mondo e, in generale, le città europee occupano due terzi delle prime posizioni; infatti, nella graduatoria mondiale si leggono Zurigo, Monaco, Düsseldorf e Francoforte. Roma si colloca al 51° posto rispetto alla capitale austriaca. Tra le prime cento città del mondo, l’America Latina ne conta cinque: Pointe-à-Pitre (Guadalupe), San Juan (Portorico), Montevideo (Uruguay), Buenos Aires (Argentina) e Santiago (Cile). L’attenzione ai livelli della qualità della vita suggerisce come, non solo a livello nazionale, ma anche europeo e mondiale si dia grande importanza agli aspetti culturali, educativi, ambientali e sociali; i dati qui riportati suggeriscono la necessità di attuare delle politiche che 306 307 Le nuove città del sogno e del buen vivir Chiara Beccalli tengano in considerazione i settori qui citati, al fine di migliorare la qualità della vita urbana partendo, come si suggeriva nelle pagine precedenti, dal trovare soluzioni mirate e attivare progetti che partono da situazioni di densità più limitata, in cui rintracciare specificità e tradizioni fondate storicamente e che coinvolgano una dimensione limitata, o spazialmente inquadrabile. In America Latina, il dibattito in merito alla vita delle città, all’innalzamento della qualità della vita e alla formazione dei cittadini rinvia all’idea di città come cuore pulsante della comunità che, all’interno dello spazio urbano, partecipa all’implementazione di politiche di governance del territorio. Eventi internazionali come la Cumbre de la Tierra a Rio de Janeiro (1992), Hábitat II (Istanbul, 1997) e la prima Assemblea mondiale dei residenti: Ripensare la città a partire dai cittadini (Città del Messico, 2000) furono momenti molto importanti per la formulazioni di proposte concrete volte alla pianificazione territoriale urbana e al diritto alla città, inteso come l’utilizzo eguale degli spazi a partire da principi di sostenibilità, democrazia, equità e giustizia sociale (Zárate, 2011: 56). In quest’ottica, molte città hanno elaborato piani di sviluppo urbano del buen vivir. Quito capitale dell’Ecuador, ad esempio, ha avviato un piano legato al miglioramento della mobilità urbana, incentivando gli spostamenti con mezzi non motorizzati e la realizzazione di sistemi integrati sulla situazione delle infrastrutture viarie, la situazione del traffico urbano e altre informazioni sui servizi cittadini al fine di fornire informazioni a residenti, a turisti e per garantire un maggior controllo sulla sicurezza e l’efficienza delle infrastruttura. In Argentina, la città di Rosario sta implementando un progetto di ristrutturazione urbana volto all’ampliamento delle aree verdi e pedonali; l’attenzione si rivolge in due direzioni: le politiche di sostenibilità ambientale e le politiche della salute in un’ottica di equità sociale. Il primo obiettivo è chiaro: la possibilità di ampliare le aree ad uso esclusivo dei pedoni rendono la qualità dell’aria migliore; il secondo, più importante e di più lungo periodo, è volto al miglioramento della salute dei propri abitanti. Inoltre, momenti di formazione e sensibilizzazione che coinvolgono cittadini e istituzioni pubbliche vorrebbero ampliare le opportunità di condurre uno stile di vita più salutare a più soggetti possibili che, per svariate ragioni, sono impossibilitati a raggiungere gli spazi urbani verdi e esclusi al traffico (Rovere, 1998). Nella stessa direzione, si muove la “lumaca arancione” del Movimento Cittaslow, che dalla fine degli anni ‘90 lavora per incentivare i piccoli centri urbani alla pianificazione di progetti di sostenibilità con l’obiettivo di mantenere l’identità urbana e lo spirito di comunità nel confronto con le questioni e le problematiche quotidiane quali: inquinamento, crisi economica ed esclusione sociale (http://www.cittaslow.org). Proprio quest’anno, il movimento ha organizzato un concorso per promuovere best practices messe in atto dalle città della rete in riferimento a: politiche energetiche e ambientali; politiche infrastrutturali; politiche per la qualità urbana; politiche agricole, turistiche, artigianali; politiche per l’ospitalità, la consapevolezza e la formazione; coesione sociale. 308 309 4. Cittaslow: obligados a vivir bien! Le parole del presidente del Movimento Cittaslow internazionale definiscono chiaramente gli obiettivi principali del network che, da quindici anni è andato ampliandosi riuscendo ad esportare fin oltre oceano: «i cardini attorno a cui si sviluppano i concetti e i progetti di Cittaslow, unici nel panorama mondiale, sono il rispetto per l’identità locale, la memoria, il patrimonio di comunità; il rispetto dell’ambiente naturale, del paesaggio e della biodiversità l’inserimento di tecnologie per la sostenibilità, il risparmio e il riuso in città e in campagna; la responsabilità come elemento imprescindibile di sviluppo locale» (Oliveti, 2012: 9), attraverso il recupero del senso di lentezza, innalzandola a valore, di inclusione implementando progetti di sviluppo urbano basato sulle 3E: equità, economia sostenibile e protezione ambientale richiamandosi ai lavori di Campell (1996). La necessità di recuperare il paradigma della lentezza, di valorizzare il patrimonio, la dimensione locale e ristabilire il senso di comunità emerge dalla volontà, sempre più alta, di innalzare la soglia del vivere urbano, slegandola dalla materialità e dalla ricerca dell’individualità e dell’isolamento, tipico delle società “veloci” del secondo Novecento. L’essere lenti non contrasta con l’essere efficienti, ma consente di dare maggiore spazio alla qualità e ai contenuti del vivere urbano riscoprendo l’economia sostenibile, facendo ricorso anche al mondo dell’arte (Kagan, Hahn, 2011) e Le nuove città del sogno e del buen vivir Chiara Beccalli poggiandosi sulle nuove tecnologie sempre mantenendo il focus del mantenimento, scoperta e creazione delle tradizioni e delle specificità locali. Le città aderenti al network internazionale hanno implementato progetti volti all’innovazione tecnologica di tipo smart, come nel caso della piattaforma Finesse (Future Internet Networked Enterprises for Smart Sustainable Ecosystems) pensata per coordinare e promuovere progetti pilota capaci di supportare modelli economici sostenibili attraverso l’adozione di sistemi internet avanzati. L’obiettivo generale si lega alla realizzazione di forme innovative di business, nuove forme di relazione con i clienti, siano essi privati o pubblici (Catalano, Tocci, 2012: 46). Il progetto Cittaslow guida alla ricerca del benessere; in generale, le città che intendono prendere parte al network devono lavorare per conformarsi a criteri inerenti le politiche ambientali, la pianificazione urbana, la valorizzazione dei prodotti locali incentivando l’ospitalità e la convivialità (Mayer, Knox, 2010). “Benstare” esula dal possesso di beni materiali e dalla possibilità economica di accedere ai beni di consumo, ma per chi vive nelle città del network, la chiave di lettura è, al contempo, interna ed esterna. Per gli abitanti dei centri urbani slow, il Movimento li incentiva e li sostiene al mantenimento delle tradizioni a livello agricolo e artigianale, stimolandoli a occupare nicchie di mercato incentrate sull’unicità e la qualità dei prodotti. Ampia attenzione è rivolta alla collaborazione tra cittadini, pubbliche amministrazioni e privati per il miglioramento di sistemi di trasporto pubblico sostenibili a livello ambientale, oppure per la realizzazione di piste ciclabili più estese e sicure per la circolazione. Le iniziative promosse dalle città aderenti al Movimento sono accompagnate da un percorso di formazione e di sensibilizzazione dei residenti, specialmente in materia di inclusione e accoglienza. La miglior accessibilità e fruibilità dei piccoli centri e la formazione all’accoglienza sono aspetti che consentono alle città slow di aprirsi all’esterno e di farsi conoscere intercettando flussi di turisti slow che seguono una filosofia del viaggio legata alla lentezza, alla scoperta e alla conoscenza della realtà in cui si scegli di immergersi. Il viaggio slow si trasforma in un’esperienza profonda, di incontro diretto con i locali e di immersione alla ricerca dell’autenticità e della qualità delle tradizioni alimentari, enogastronomiche, artigianali e culturali. Il turista slow è alla ricerca di un contatto diretto con i locali, portatori del genius loci che si riproduce negli spazi che questi occupa- no e nelle attività che svolgono (Zago, 2012). La necessità di rallentare, di abbracciare la lentezza e ricercare il benessere sono indicativi di una «generale insoddisfazione dovuta alla velocità della vita e alla perdita di qualità in favore, invece, di un incremento della qualità e dell’accelerazione» (Radstrom, 2011: 94 ss.). Il successo, la longevità e l’internazionalità del Movimento sono il risultato di tre aspetti principali: il primo è l’attenzione rivolta a località che contano un massimo di 50.000 abitanti; il secondo riguarda la capacità inclusiva dell’approccio bottom up e il terzo si lega all’ampio respiro delle attività e degli aspetti che le buone pratiche delle città aderenti al circuito possono mettere in atto. Come recita il Manifesto di Cittaslow per l’Europa, i comuni che vi fanno parte devono puntare alla qualità di vita più alta possibile, perché questa diventa un valore cui educare e formare i cittadini per un ritorno alla terra. La formazione avviene seguendo gli obiettivi e i principi del Progetto Terra Madre, volti alla creazione di un rapporto costante, costruttivo ed economicamente e socialmente proficuo tra la città e la campagna. Attraverso il sito ufficiale del Movimento (http://www.cittaslow.org) è facile verificare la numerosità dei progetti, delle iniziative di formazione e divulgazione che i diversi centri urbani europei ed americani realizzano. Non mancano attività progettuali legate alla realizzazione di orti sociali i cui prodotti divengono parte del commercio a chilometro zero; conosciuti sono i progetti legati alle tradizioni agroalimentari come le strade del vino che collegano Orvieto ai suoi sobborghi, oppure il progetto realizzato nella cittadina turca di Gokceada per il recupero delle tradizioni culinarie volano, altresì, del turismo e dell’economia femminile della cittadina (Yurtseven, Karakas, 2013). Altresì importante è il lavoro volto alla formazione di imprese locali per la realizzazione di progetti legati alla bioedilizia, per il ripopolamento di territori marginali come Racheath, nel Sud dell’Inghilterra, oppure all’utilizzo nei piccoli comuni delle energie rinnovabili in collaborazione con importanti aziende del mondo dell’energia, quali Enel e Beghelli. Dalla contea di Norfolk giunge l’esempio di un progetto di sostenibilità ambientale che ha avuto la capacità di coinvolgere più livelli della cittadinanza: allievi delle scuole primarie, famiglie, negozianti e acquirenti, in quanto il progetto si è posto l’obiettivo di eliminare le borse di plastica dai negozi e supermercati della città di Aylsham; il progetto ha 310 311 Le nuove città del sogno e del buen vivir Chiara Beccalli previsto spazi di formazione ed educazione sui temi dell’ecologia rivolto ai bambini delle classi primarie e ai loro genitori, nella decorazione di borse di stoffa da distribuire negli esercizi commerciali. Anche la città di Novellara (Re) si è attivata nella realizzazione di progetti legati alla sostenibilità ambientale e che hanno coinvolto differenti attori sociali: scuole, famiglie e alunni con il “Bici-bus” per la realizzazione di percorsi casa-scuola sicuri; progetti di tutela della biodiversità che ha visto la collaborazione delle guardie giurate ecologiche volontarie (gev) nei siti di interesse comunitario e nelle zone di protezione speciale, denominate Valli di Novellara e Reggiolo. Infine, un esempio di inclusione sociale viene dalla città di Monteregio, in provincia di Grosseto, che ha coinvolto in un corso di degustazione culinaria i detenuti della casa circondariale di Massa Marittima; un progetto che ha inteso avvicinare i reclusi al progetto Taste of Freedom che intende essere un esempio di cittadinanza attiva europea (coinvolge più paesi europei: Italia, Turchia, Lituania, Portogallo, Spagna) e che si estende alle situazioni di vita sociale estreme e marginali. Sulla base dell’esperienza del libro Avanzi di galera. Le ricette dei poco di buono, la pubblicazione del cook book pensata con il progetto intende far conoscere il mondo carcerario sconosciuto e ignorato in un modo originale, trovando nel cibo un efficace espediente per parlare della vita carceraria e per incentivare la collaborazione tra operatori sociali, istituzione carceraria e detenuti. Per concludere, è bene sottolineare come esista un fil rouge che unisce la realtà andina con il Movimento Cittaslow, qui brevemente presentato. Entrambe le filosofie rivolgono l’attenzione alla tradizione, al concetto di comunità, al rispetto per il territorio e la natura e all’educazione della popolazione ai principi di sostenibilità e inclusione, senza negare le opportunità e le occasioni offerte dall’economia e dalla tecnologia. Per le due realtà, andina e occidentale, la tecnologia offre ampie occasioni per far conoscere, comunicare e coinvolgere altre realtà oppure per consentire la riduzione dell’inquinamento, dello sfruttamento del suolo o il deturpamento del paesaggio. Pare chiaro come i progetti di sviluppo, recupero, educazione e inclusione messi in atto dal Movimento Cittaslow non si discostino dai valori promossi dal buen vivir, anzi esistono esempi di progettazione sudamericana che fanno esplicito riferimento al Movimento, ritenendolo portatore di principi fondamentali per lo sviluppo locale. Ad esempio, la città di Pijao, in Colombia, da cinque anni promuove un modello di turismo sostenibile impregnato di filosofia slow e che intende dare spazio all’economia locale legata a piccoli imprenditori o aziende a conduzione familiare. Su stimolo delle istituzioni, quindi, le attività turistiche e commerciali sono state orientate seguendo i parametri del Movimento Cittaslow mettendo in pratica un turismo di prossimità volto alla preservazione e all’esaltazione delle bellezze naturali e culturali locali. Il progetto è nato dall’idea di Monica Florez, etnografa ed esperta di comunicazione ha dato vita al progetto Pueblo del buen vivir ed è presidentessa della fondazione Pijao Cittaslow. In un’intervista all’indomani della candidatura di Pijao come prima Cittaslow dell’America Latina (Tejera, 2012), la presidente afferma come il Movimento rappresenta una opportunità unica per l’America Latina, in quanto avanza proposte per la protezione della cultura locale in un mondo sempre più omogeneo. L’esperienza della città colombiana mostra come il Movimento, nel lavoro e nella diffusione dei suoi principi, ha la capacità di saper accogliere e interessare realtà culturali, strutture sociali differenti tra loro e che rispondono a tradizioni fondative tutt’altro che omogenee. Il Movimento Cittaslow è in grado di creare delle città del sogno, costruite a partire dall’esperienza, dalla conoscenza e dalle esigenze espresse da chi le popola, senza forzarle all’interno di contenitori utopici: insignificanti e vuoti. 312 313 Bibliografia Baldin S. (2014), I diritti della natura nelle costituzioni di Ecuador e Bolivia, in Visioni LatinoAmericane, 10. Campbell S. (1996), Green cities, growing cities, just cities?, in Journal of the American Planning Association, 62(3). Castrignanò M. (2006), Città consistente e città evanescente, in Sociologia urbana e rurale, 81. Catalano G., Tocci G. (2012), Le Comunità Urbane Ecocompatibili. Città lente e intelligenti, in Calzati V., De Salvo P. 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South American cities and the cities of the Cittaslow International Network have implemented governance policies for local planning that put citizens at the center in accordance with the founding traditions for a better quality of life. Keywords: Buen vivir, Cittaslow, Social cohesion, Planning, Quality of life. 315 Benessere psicofisico: etica, persona e armonia con la natura di Elisabetta Pontello32* SOMMARIO: 1. Polisemia del concetto di benessere. – 2. Lo stare bene nelle culture individualiste e collettiviste. – 3. Promozione della salute e life skills. – 4. Considerazioni conclusive. 1. Polisemia del concetto di benessere Il concetto di benessere presenta svariate estensioni nel campo semantico. Ben-essere (well-being) richiama l’etimo di bene. Sotto un primo profilo, implica lo sviluppo delle potenzialità umane, dell’individuo e della comunità. Esso comprende l’espressione delle capacità cognitive e relazionali, la costruzione di relazioni positive, la gestione dei conflitti personali e sociali, lo sviluppo del senso critico e la presa di decisioni. Se, in particolare, ci si riferisce al soggetto, il concetto viene ricompreso nell’idea di assenza di malattia o, meglio, nella dimensione psicofisica della salute intesa come stato di buona condizione fisica e psichica, inclusa la percezione che la persona ha del proprio stato di benessere e la felicità che da esso ne deriva. Se si pensa alla qualità della vita, si osserva che il concetto è polisemico ed è stato oggetto di svariate interpretazioni nell’ambito dell’etica teorica, dell’etica applicata alla prassi biomedica (Fornero, 2005: 74 ss.), nonché degli Human Development Reports redatti dal Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, riconducibili per Fornero a tre paradigmi filosofici di base (le teorie edonistiche, delle preferenze e perfezioniste) le * Dottoressa di ricerca in Sociologia, Servizio sociale e Scienze della formazione nell’Università di Trieste. Benessere psicofisico Elisabetta Pontello quali, pur nelle diversità degli approcci, trovano fondamento nel valore della capacità decisionale del soggetto. Inoltre, sotto il profilo economico, il dominio di benessere può essere articolato in due sottodimensioni: il reddito disponibile e la ricchezza; la spesa per i consumi e le condizioni materiali di vita. In tal caso, le variabili considerate per misurare il benessere economico includono il reddito, il tenore di vita, i consumi, le condizioni abitative, il possesso di beni durevoli ma anche la loro distribuzione tra la popolazione. Le capacità reddituali e le risorse economiche rappresentano il mezzo attraverso il quale un individuo può raggiungere e sostenere un determinato standard di vita (Istat, 2014). Il concetto di benessere dal punto di vista politico-collettivo, caratteristico delle società moderne, viene messo in crisi verso la fine degli anni ‘80 del secolo scorso con l’affermarsi del neoliberismo, dando luogo a riflessioni critiche che portano all’estensione del concetto agli aspetti relazionali e solidaristici (Secondulfo, 2005: 77 ss.). Nella definizione del termine, che trova origine nel godimento da un lato di beni materiali e di servizi che garantiscono il soddisfacimento di bisogni primari (cibo, abitazione, lavoro, ecc.) e dall’altro di bisogni secondari come quelli affiliativi e relazionali, va posta una distinzione rispetto al concetto di salute e va osservato come, nel tempo, il concetto di benessere abbia assunto significati e dimensioni di tipo olistico (benessere psicofisico e relazionale), collegandosi sempre più con il concetto di stile di vita. D’altra parte, la crescente diffusione di attività fisiche come fitness, wellness o well-being, sembra aver prodotto diversi aspetti del concetto nelle rappresentazioni di senso comune, in rapporto all’affermarsi di una cultura sportiva centrata sul benessere individuale (Pontello, 2013: 157). Per delineare il concetto di benessere sembrano doversi superare alcuni riduttivismi che lo definiscono e lo misurano secondo approcci settoriali (umano, ambientale, economico) legati ai fondamenti epistemologici delle discipline di studio e invitare innanzitutto a una riflessione sul soggetto in relazione, sulla comunità e sulla società, privilegiando un approccio etico-personalista per il quale l’uomo è persona intesa come ens subsistens ratione praeditum e «a fondamento della soggettività sta un’esistenza ed un’essenza costituita nell’unità corpo-spirito» (Sgreccia, 1994: 87). Secondo tale prospettiva, l’individuo risulterebbe essere una realtà indivisibile (dal latino in-dividuum), una unitotalità, che non può venire considerata secondo un criterio nomotetico, proprio delle scienze della natura, ricercando le leggi aventi un carattere di generalità, ma secondo un criterio idiografico, proprio delle scienze umane, e quindi per la sua singolarità (Windelband, 1883: 145). Un individuo che è al contempo essere biologico e culturale dotato, per usare le parole di Morin (2001: 52), di una «unidualità originaria», in quanto portatore di natura e cultura, soggetto dotato di “essenza” o “natura”, chiamato a realizzare il proprio dover essere e le proprie potenzialità, secondo principi morali e valori fondati sulla razionalità. Il presente contributo si incentra sull’accezione di ben-essere complessivo della persona, non riducibile al mero soddisfacimento soggettivo dei bisogni primari e secondari, bensì al suo star bene globale implicante processi decisionali che hanno a che fare con la capacità di fare e di essere, con funzioni propriamente caratteristiche della persona umana: prendere decisioni, pensare, ragionare, esprimere la propria creatività, valorizzare la corporeità, vivere in buona salute, relazionarsi nella comunità e parteciparvi attivamente, vivere a contatto con la natura e rispettarla (piante ed animali), secondo un orientamento che fa riferimento alle capacità funzionali essenziali per sviluppare le proprie potenzialità umane (Nussbaum, 2000). Con ciò si desidera fare riferimento, in particolare, al modello etico-personalista che richiama i fondamenti etici ritenuti necessari per una riflessione adeguata sul concetto di salute della persona, della comunità, della società e che risolve le antinomie caratterizzanti i modelli bioetici come quello soggettivista, utilitarista, sociobiologico, ecc. (Sgreccia, 1994: 74 ss.): valori che orientano possibili interventi ispirati ad una progettualità esistenziale centrata sull’essere umano e fondata su valori indispensabili caratterizzanti l’intra e l’inter-soggettività per i quali la persona umana è sorgente e fine per la società (Giorio, 1990). Lazzari (2004: 35) auspica una concreta forma di umanocentrismo di tutte le forme delle azioni umane e una democratizzazione di tutte le forme di vita umana, in modo tale che “sistemi” e “strutture” possano esprimere qualificanti mondi vitali intersoggettivi per «uno sviluppo equo ed ecosostenibile capace di far sapientemente dialogare l’uomo e la natura». In tal senso, il concetto di qualità della vita che si sta affermando anche nel mondo occidentale non può essere riconducibile a limitati aspetti (economico, psicologico, ambientale, ecc.), bensì deve essere visto in una 318 319 320 Benessere psicofisico dimensione olistica che comprende tutte le dimensioni dello sviluppo della persona (cognitivo, psicomotorio, affettivo-morale, sociale) e della comunità, nell’equilibrio tra esse, integrata nella dimensione etica della vita dell’uomo, nella sua responsabilità individuale e sociale, in rapporto alla cultura di appartenenza. 2. Lo stare bene nelle culture individualiste e collettiviste Nel 1946, l’Organizzazione mondiale per la sanità ha definito la salute come «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale», e non soltanto come «un’assenza di malattie e di infermità», e il concetto di qualità della vita ha compreso il significato di benessere relazionale e sociale. Da un lato, quindi, si può parlare di qualità della vita che riguarda la persona e la sua razionalità anche nell’autovalutazione del proprio benessere, dall’altro, al concetto economico e sociale di pari opportunità nella salute (equality of opportunity) originatosi nei paesi anglosassoni che conferisce un ruolo chiave alle possibilità di preservare la salute dell’individuo e di prevenire le malattie e l’handicap, considerati un ostacolo alla realizzazione di pari opportunità economico-sociali nella promozione del benessere accessibile a tutti e dell’equità. In tal senso, il desiderio di stare bene non può essere ancorato alla sola dimensione della qualità della vita, ma deve essere riferito a un sistema di valori e alle diverse culture. La salute è da considerarsi, dunque, un concetto essenzialmente globale e nel definire il binomio salute/malattia si possono individuare due approcci: uno medico-biologico, per il quale salute e malattia si fondano su evidenze mediche basate su parametri misurabili; e l’altro antropologico-culturale, secondo cui salute e malattia sono forme dell’esperienza, influenzate dalla cultura e determinate dai gruppi sociali che condividono modelli e pratiche (Salmaso, 2005: 559 ss.). Il sistema di valori di riferimento viene influenzato dal concetto di cultura e dalle sue rappresentazioni sociali. Riguardo all’elaborazione dell’identità personale e sociale, Oyserman e Markus (1998: 107 ss.) hanno osservato come le varie culture elaborano rappresentazioni sociali differenti delle caratteristiche che specificano il Sé. Tali differenti rappresentazioni sono evidenti se si confrontano le culture orientate all’individualismo con quelle collettiviste, come nello schema qui delineato. Elisabetta Pontello 321 Tab. 1. Il Sé e l’identità. Distinzione fra sistemi socio-culturali Culture individualiste - Il Sé è l’unità di base - Il principale compito di sviluppo è il raggiungimento di un senso di realizzazione personale - L’elaborazione della propria unicità è alla base dell’identità - Sono valorizzate caratteristiche come intelligenza e competenza - La distinzione più saliente è fra Sé e non-Sé e, in seconda istanza, fra ingroup e outgroup Culture collettiviste - Il gruppo è l’unità di base - Il principale compito di sviluppo è il raggiungimento di obiettivi comuni - L’identità è organizzata intorno al senso di affiliazione - Sono valorizzate caratteristiche come costanza e persistenza - La distinzione più saliente è fra ingroup e outgroup; ostilità a priori nei confronti dell’outgroup Fonte: Palmonari et al. (2002: 134). Si può osservare come nell’ambito della ricerca transculturale (Hofstede, 1984) sia emersa la dicotomia individualismo/collettivismo o, meglio, come la differenza tra le culture emerga nel concepire le relazioni come criterio fondante (Palmonari et al., 2002: 158). Secondo tale interpretazione, nel mondo occidentale si affermano prevalentemente culture a carattere individualistico ove prevale l’importanza dei singoli individui per i quali i propri obiettivi e scopi sono più importanti di quelli della collettività. Nelle culture collettiviste, invece, prevalenti nel mondo orientale, ma non solo – si pensi, ad esempio, ai modelli sociali di vita del Sud Italia –, esiste una forte interdipendenza tra le persone e gli scopi e gli obiettivi del gruppo sono più importanti di quelli individuali. Pare utile citare, al proposito, le ricerche nel campo della psicologia sociale di Semin e Smith (2002) che, per quanto riguarda la comunicazione nella relazione, hanno rilevato l’importanza del contesto (situated and embodied cognition) e di come il linguaggio sia differente e influenzi le culture. Persone appartenenti a culture collettiviste esprimono le proprie emozioni utilizzando un linguaggio relativamente concreto in confronto a persone appartenenti a culture individualiste, le quali preferiscono descrivere le proprie emozioni utilizzando termini astratti, autoriferiti e decontestualizzati. Profonda è anche la differenza nella scelta del partner se si osservano le due tipologie di culture delineate: nelle culture individualiste la scelta del partner è determinata dal bisogno di soddisfazione personale, nelle culture collettiviste la scelta dipende dalla famiglia e dai Benessere psicofisico Elisabetta Pontello bisogni della collettività. L’amore romantico è prerequisito nella formazione di una coppia – la coppia è già un gruppo nella prospettiva della social cognition secondo Brown (2000: 17) – nel primo caso, non lo è nel secondo. Nel confronto tra culture sul significato di salute, analizzando la prospettiva dal punto di vista antropologico, si osserva che la medicina tradizionale e non convenzionale, intesa come complesso di saperi e competenze, si radica nei dispositivi culturali delle comunità specifica. Come nel caso dell’America Latina, ove le dimensioni concettuali e pragmatiche della malattia e della salute si intrecciano con i rituali indigeni e con la visione cosmogonica che vede la patologia come rottura dell’equilibrio con il contesto (individuo/contesto, comunità/contesto). Rottura che richiede “pratiche collettive” per ricreare “l’ordine del mondo” e la coerenza culturale messa in discussione dall’infrazione di alcune regole. Così, i trattamenti medici tradizionali si basano sull’utilizzo di piante naturali e sono accompagnati da formule verbali che concorrono a ricomporre lo stato di salute e svolgono una funzione terapeutica (Rasetti, Zanella, s.d.: 7). Se ci si sposta sul piano dell’etica e del giudizio morale, le linee di ricerca transculturale hanno messo in evidenza da un lato alcune dimensioni comuni del pensiero morale, dall’altro profonde differenze rispetto, ad esempio, al concetto di responsabilità collettiva e di solidarietà. Secondo alcune ricerche condotte in India, il giudizio morale è condizionato dalla necessità di una soluzione collettiva piuttosto che riferito alla coscienza individuale. A differenza dell’Occidente, dove sono ben definite le norme convenzionali e i principi morali nell’educazione, nelle culture orientali non vi è questa distinzione e i comportamenti quotidiani come mangiare, vestirsi o altri rituali, fanno parte più dell’ordine morale che delle convenzioni sociali. Si osserva, nel confronto tra culture occidentali e culture orientali, una concezione maggiormente pluralistica, convenzionale, relativistica per le prime e una concezione tendente a considerare le pratiche morali come legami di natura universale nelle seconde (Camaioni, 1993). In questo quadro, l’importanza della natura nella concezione del benessere, come nella cosmovisione andina del buen vivir, risulta fondamentale. Nel campo semantico del buen vivir sono assenti le idee di sviluppo e di qualità della vita tipiche dell’Occidente. La concezione in- digena anela alla vita in armonia con la collettività e con la natura, dove la sfera privata e quella comunitaria, e la sfera materiale e quella spirituale, non sono separabili. Il benessere è possibile solo all’interno della comunità e nel rispetto della Pachamama, il cosmo spazio-temporale interconnesso nella sua totalità (Baldin, 2014). Con riferimento al mondo asiatico, Cazzolla Gatti (2013a) osserva che «l’ideologia religioso-filosofica fondata sull’unione degli elementi e sull’interdipendenza con l’ambiente di cui si è parte integrante, forniscono la chiave di risoluzione del conflitto individuo-società e mantengono l’essere umano in una condizione di armonia con il resto della Natura, simile a quella dei popoli indigeni. Questi ultimi non sanno nemmeno se possa esistere qualcosa di alternativo al benessere, poiché la loro condizione perfettamente integrata alla Natura non li allontana mai dall’equilibrio dinamico omeostatico in cui si sono evoluti». Celata dietro la parola rmonia, agevolmente rinvenibile in alcune civiltà orientali come nelle culture indigene latinoamericane, vi è una aspirazione condivisa anche a livello internazionale. Il primo principio della Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo del 1992 recita: «Gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni relative allo sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto a una vita sana e produttiva in armonia con la natura». Anche nel contesto europeo si ravvisano pensatori che enfatizzano il nesso fra esseri umani e ambiente quale fonte di benessere e di realizzazione del sé. In prospettiva ermeneutica, Tomatis analizza il rapporto dell’uomo con la natura intendendolo come fonte di emozioni forti, domande profonde sull’esistenza e risposte decisive. Egli interpreta il camminare (andare, condurre, viaggiare, traversare) in montagna come una “rivoluzione alpina” del pensiero umano, forma di civiltà che permetta all’uomo una «diversa dimensione umana e assieme naturale, al di là di tecnicismi di fatto e di ragione, nonché delle relazioni o repulsioni da questi suscitate» (2005: 25). Lo stesso Nietzsche, passeggiando sui pendii a picco su mare della Costa azzurra o per i sentieri dell’Engadina, ebbe alcune intuizioni che lo portarono a dire che la filosofia è la libera scelta di vivere fra ghiacci e alte cime. Spiritualità e naturalità per il filosofo italiano sono un profondo intreccio di ragione e sentimento, di materialità e concretezza che attraverso la costanza e la fatica che la montagna esige permettono all’uomo di cogliere valori profondi (libertà 322 323 Benessere psicofisico Elisabetta Pontello interiore, amicizia, solidarietà, amore per ogni forma di realtà e di vita). «Naturalmente culturale e solo culturalmente naturale» è il chiasmo che indica l’uomo in una visione escatologica del proprio futuro, ed è «proprio nella umana apertura vivente a un divino che la costituisce e trascende in divenire dall’avvenire, che ogni essere fra terra e cielo, divini e mortali, trova il proprio esser partecipante natura» (Tomatis, 2005: 135). L’uomo solamente in quanto natura vivente può divenire «ciò che è a venire», in quanto precedente «co-scienza creativa dell’Unitotalità». Tale visione umana non pare sostanziare le critiche al modello occidentale di vita, quanto piuttosto aprire alle innumerevoli prospettive esistenti sul concetto di natura umana e benessere. La montagna è solo una delle forme che assume la natura; anche l’individuo fa parte di essa e riconoscersi come tale può riportare l’equilibrio fra sé e il mondo, fra sé e gli altri. Inoltre, le scelte del singolo si ripercuotono nel mondo e viceversa. Ciò significa che l’essere umano può conservare o distruggere la natura e, quindi, come sostiene Hillmann (1977: 130), non possiamo ripristinare un rapporto armonioso con la natura restando semplici spettatori. Se vogliamo «restaurare, conservare e promuovere la natura ‘là fuori’, anche la natura ‘dentro di noi’ deve essere restaurata, conservata e promossa in egual misura. In caso contrario, le nostre percezioni della natura esterna, le azioni che compiamo su di essa e le nostre reazioni a essa, continueranno a mostrare come in passato gli stessi strazianti eccessi di inadeguatezza istintuale». Tali riflessioni fanno emergere la necessità di porre a confronto modelli, metodi e strumenti per garantire lo sviluppo del concetto di salute riferito a persone, gruppi, comunità, attraverso la negoziazione di concetti ma anche col confronto di paradigmi e prassi concrete. Sembrano positive, per indicarne alcune, le recenti esperienze nel campo medico della salute della rete internazionale Health promoting hospitals and health services (Aa.Vv., 2014). In particolare, nell’ambito dei diritti alla salute dell’infanzia, piace segnalare il modello Tat (Think and action tank on children’s rights to health: a rights and equity based platform to child health and well being), i cui ideatori hanno avviato una rete internazionale per la promozione dei diritti dal bambino, del benessere e dell’equità. Il Tat sui diritti alla salute del bambino è una rete aperta e inclusiva di professionisti, decisori politici ed altri professionisti che operano per l’infanzia. Il Tat è stato fondato nel 2013 per analizzare le conoscenze, le teorie, le idee e le esperienze legate alla sfida di tradurre i principali diritti dei bambini alla salute, giustizia sociale ed equità nella pratica pediatrica e nella salute (Simonelli, 2014). Principi espressi nel 1989 nella Convention on the rights of the child delle Nazioni Unite. 324 325 3. Promozione della salute e life skills La promozione della salute, pur essendo un concetto teorizzato in varie epoche storiche, è stato codificato nel 1986 nella Carta di Ottawa. A distanza di quasi trent’anni costituisce un importante quanto attuale documento di riferimento per lo sviluppo di politiche orientate alla salute. La promozione della salute viene vista come un processo per raggiungere uno stato di benessere che include fattori determinanti quali patrimonio genetico (sesso, età) e ambiente sociale; i fattori socio-economici (lavoro, condizione sociale, istruzione, educazione) e l’ambiente fisico; i fattori ambientali (aria, acqua, cibo, luogo dove si vive, clima, territorio) e gli stili di vita (alimentazione, attività fisica, dipendenze). Si tratta di una concezione dinamica della salute, atta a preservare la persona e la collettività nell’ambiente fisico e sociale di vita, che riconosce l’adattabilità dell’essere umano nel mantenere in armonia i piani della sua esistenza (biologico, psicologico, ecologico e sociale). Una concezione della persona responsabile e cosciente, in grado di fare fronte e adattarsi alle variazioni ambientali e sociali mantenendo e ristabilendo la condizione di equilibrio personale e sociale. Nella Carta di Ottawa sono sanciti anche i principi che riguardano la possibilità di riconoscere e realizzare le proprie aspirazioni nel soddisfacimento dei bisogni primari e secondari. I prerequisiti della salute sono identificati in: pace, abitazione, istruzione, cibo, reddito, ecosistema stabile, risorse sostenibili, giustizia sociale ed equità. La salute emerge come un concetto positivo che enfatizza le risorse personali e sociali, è un mezzo non un fine, una risorsa per la vita non un obiettivo. Ne consegue che la promozione della salute non è responsabilità del solo settore sanitario, interessa tutte le dimensioni della vita dell’uomo e rinvia alla necessaria assunzione di competenze quali lo spirito critico, la creatività, il problem solving, l’autoefficacia e Benessere psicofisico Elisabetta Pontello tutte le cosiddette abilità di vita da parte dei giovani in crescita ma anche degli adulti secondo la prospettiva di lifelong learning. È importante rilevare che tra le strategie di tutela della salute mentale, vi sono l’attivazione e l’implementazione di fattori protettivi, ovverosia tutti quei fattori che aiutano a sviluppare resilienza di fronte ad eventi stressanti e/o traumatici. Essi includono fattori organici (intelligenza, salute fisica e vitalità), fattori socio-emozionali (il sentirsi rispettati, valorizzati e supportati) e più generali fattori socio-economici quali la qualità della genitorialità, la scuola, l’occupazione, la sicurezza finanziaria e abitativa. Al proposito, si osserva che il modello della salutogenesi (Simonelli, Simonelli, 2010: 126 ss.) individua nel soggetto l’origine e la possibilità di sviluppo della salute attraverso l’apprendimento e l’esercizio delle life skills (abilità di vita), identificate nella capacità di prendere decisioni e di risolvere problemi, nel pensiero creativo e nel senso critico, nella comunicazione e nell’abilità interpersonali, nella autoconsapevolezza ed empatia, nella gestione delle emozioni e dello stress. Le life skills sono abilità che permettono all’individuo di avere un grado di autonomia tale da affrontare i problemi ed attivare processi di auto protezione della salute. Quindi lo “stare bene” della persona è strettamente connesso con il possesso di tali abilità e con il benessere collettivo misurabile in termini di autonomia dei soggetti sociali, gruppi, comunità, organizzazioni. L’approccio salutogenico, basato sul modello dell’influenza sociale e delle competenze relazionali, vede come fondamentale il ruolo del soggetto e della comunità nella promozione della salute e nella possibilità di “guadagnare salute” ai diversi livelli generazionali. Esso si fonda su un processo che ha una funzione essenziale per l’individuo e la comunità e che comprende i seguenti caratteri: forza vitale in grado di costruire percorsi originali, disentropico (ovvero che rifugge da stati di degenerazione e di morte), autopoietico o rigenerativo a fronte delle variazioni ambientali, conglobante tutte le dimensioni e i livelli di salute, nonché individuale e sociale, generazionale e intergenerazionale. Ulteriori caratteri sono l’orientamento alle risorse interne ed esterne per la salute piuttosto che ai servizi sanitari; focus su fattori interni quali autoefficacia, capitale umano, e su fattori esterni legati al contesto quali capitale economico, culturale, sociale, ecc. (Simonelli, Simonelli, 2010: 126 ss.). La salute, in conclusione, non può essere definita semplicemente come una condizione di piena efficienza funzionale ma «comprende anche funzioni logiche, affettive, relazionali, in contesti interpersonali sociali» (Galimberti, 2000: 836 ss.). Se è specifico dell’individuo essere al mondo per decifrarne i significati attraverso un sistema di segni, ogni compromissione di questa capacità di lettura investe globalmente il suo stato di salute, che ha dunque riferimenti non solo organici, ma anche culturali. Da un concetto di salute statica si passa a un concetto di salute dinamica, dipendente da quella condizione di equilibrio realizzabile attraverso l’inserimento del soggetto in un sistema sociale complesso, ponendo l’accento sulla capacità di vivere pienamente e positivamente le proprie condizioni di bambino, di giovane, di adulto o di anziano (Donati, 1987: 1803). Come tradurre allora principi e modelli in azioni concrete? La metodologia nell’apprendimento delle abilità di vita in fase evolutiva, centrata sul processo di apprendimento piuttosto che sul prodotto, risultata efficace sulla base dalle evidenze scientifiche emerse nei progetti di apprendimento in età adolescenziale è quella del learning by doing (imparare facendo), metodo partecipativo basato sulla teoria del noto pedagogista americano John Dewey. Lo sviluppo del metodo e la sua applicazione risulta possibile sia nei diversi livelli generazionali che in progetti di carattere interculturale. Gli strumenti possono venire così riassunti: approccio produttivo vs. approccio processuale; tradizione vs. innovazione; progettualità e lavoro creativo; metodologia peer to peer; emozioni; relazioni; presa di decisioni; gestione dello stress; efficienza (programma personalizzato); pedagogia di genere (Pontello, 2014: 366). L’orientamento è centrato sul processo più che sul prodotto. Tale metodo ha trovato validazione e positiva applicazione nell’ambito del progetto “Guadagnare salute in adolescenza” promosso nella Regione Friuli Venezia Giulia dalla A.S.S. n. 2 “Isontina” in collaborazione con il Coni e l’Istituto liceale Isis Dante Alighieri di Gorizia, in linea con le politiche dell’Unione Europea per la salute e il benessere dei giovani. Le iniziative realizzate si sono concentrate sull’ampliamento delle esperienze motorie e sportive, sull’elaborazione in didattica interdisciplinare con le tecnologie informatiche dei dati e dei contenuti fondamentali (diario alimentare e scheda Met o quota metabolica), su lezioni sulla dieta vegetariana, sul cibo e sulle piccole impresa economiche. Il tutto in un approccio integrato tra i settori disciplinari di studio ed olistico nella formazione della persona. 326 327 Benessere psicofisico Elisabetta Pontello Riguardo alla percezione del proprio stato di benessere, Cazzolla Gatti (2013b) osserva che le popolazioni che ancora vivono in stretto contatto con la natura soffrono meno dei mali della civiltà e la percezione del disagio è minore. Il senso di deprivazione relativa, ossia lo scarto tra i risultati e le aspettative e le esperienze fatte dall’individuo che sostanziano tale differenza (Gurr, 1970), si ha nel confronto tra ciò che si aspetta e ciò che si esperisce per sé o per il proprio gruppo (Runciman, 1966). Gli individui diventano scontenti percependo il disagio nel momento in cui si rendono conto che esiste una discrepanza tra «lo standard di vita di cui godono e quello di cui credono di dover godere» (Brown, 2000). Nei paesi non occidentali tale discrepanza si percepisce meno o, meglio, la non conoscenza e la non percezione di altri possibili standard di vita riduce il contrasto tra la volontà istintiva alla libertà dell’individuo e le costrizioni imposte dalla società civile. In Occidente, il consumo di antidepressivi, nel tentativo di riduzione degli stress di varia natura e di ritorno a uno stadio di equilibrio dinamico, indica uno stato di disagio della popolazione e un’alta incidenza di forme di squilibrio dette distress. Il termine indica l’aspetto negativo dello stress e viene contrapposto a eustress, che rappresenta l’aspetto positivo, di stimolazione fisiologica, dello stress inteso nel senso originario di sindrome di adattamento, spesso dovuto agli stili di vita presenti nel modello occidentale e alla percezione dell’inadeguatezza del proprio vivere rispetto a un modello esistenziale ideale. L’Organizzazione mondiale della sanità sottolinea l’aumento significativo dell’interesse per la cura della persona nella sua interezza. Nel World health organization traditional medicine strategy 2014-2023, rapporto sulle strategie in tema di medicine tradizionali e non convenzionali, si analizza il loro contributo nel sviluppare il concetto di salute, benessere e sanità ponendo al centro la persona e promuovendo l’uso di questo approccio attraverso un’appropriata regolamentazione dei medicinali e delle figure professionali. Pratiche come l’agopuntura di origine cinese rientrano nella medicina non convenzionale e si sono diffuse su scala globale dimostrando come l’influenza tra le culture sia determinante per una migliore comprensione del benessere psicofisico nella sua accezione olistica. Si può, in tal senso, fare inoltre riferimento alla pet therapy, alla considerazione per l’omeopatia e per la fitoterapia, ovverossia a tutte quelle pratiche che si affiancano alla terapia medica ricomponendo l’equilibrio tra l’uomo e la natura. Questa visione olistica proveniente dall’ambito internazionale si rinviene pure nel Rapporto Onu Sustainable development: harmony with Nature del 2010, che segnala come gli approcci e le iniziative allo sviluppo sostenibile devono consentire alle comunità di riconnettersi con la terra, ponendo accento sulla relazione evolutiva fra salute umana e natura. In conclusione, i concetti di benessere e salute non sembrano affatto sgombri da incertezze semantiche. In effetti, è difficile stabilire un confine netto fra benessere e felicità, fra salute e malattia. Come si è detto, occorre superare un facile riduttivismo che attribuisce alla definizione di salute la semplice assenza di malattia per cui, nell’interrogarsi su che cosa si intenda per benessere del soggetto, sembra utile invitare ad una profonda riflessione sul significato stesso della corporeità in armonia con l’ambiente di vita. In una realtà come la presente, in cui il progresso igienico e tecnologico hanno favorito un deciso miglioramento delle condizioni di vita (migliore alimentazione, migliore igiene personale e delle abitazioni, ecc.) e una conseguente minore incidenza di alcune malattie, si è allungata l’aspettativa di vita. Al contempo, però, nelle società occidentali si assiste al manifestarsi di forme di disagio che sempre più spesso hanno a che fare con la sfera della relazionalità, rimettendo in discussione il concetto di benessere e la qualità della vita. In prospettiva futura sembrano doversi potenziare gli interventi in età evolutiva: studi internazionali dimostrano la necessità di operare su strategie multisettoriali per diminuire fattori di rischio e aumentare i fattori protettivi (cfr. O’Connell et al., 2009). In Occidente si stanno affermando modelli integrati che comprendono i diversi approcci al tema precedentemente esaminati, modelli che pongono una crescente attenzione al rapporto uomo-natura nel tentativo di ricomporre un’armonia originaria, spesso perduta, essenza stessa dell’essere umano inteso, per dirla con Tomatis, come «natura vivente, esistente, ventura». Un essere umano che solo in tal modo potrà «liberamente divenire ciò che è a venire, forse perché in tempi immemorabili già co-scienza creativa dell’unitotalità (poi sospensivamente infranta) di multi-cessante divino universo naturale» (2005: 135). 328 4. Considerazioni finali 329 330 Benessere psicofisico Bibliografia Aa.Vv. 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Beyond an analysis of values related to health and well-being many point of view are examinated: personalistic philosophical ethic approach, salutogenic approach, the influence of social determinants of health, inequities in access to healthcare and equality of opportunity, health research and youth programme. Keywords: Well-being, Life skills, Ethic, Nature, Culture. Dal Pil al Buen vivir: paradigmi di sviluppo, indici e paesi a confronto di Moreno Zago33* SOMMARIO: 1. Misurare il benessere. – 1.1. Indici compositi di sviluppo, benessere e qualità della vita. – 1.2. Indici compositi di sostenibilità ambientale. – 1.3. Indici compositi di privazione economica, disuguaglianza sociale e libertà. – 1.4. Indici compositi di governance e sicurezza internazionale. – 1.5. Indici compositi di felicità. – 2. Misurare il buen vivir. – 2.1. Risultanze: Svezia o Costa Rica? 1. Misurare il benessere Dagli anni ‘30, il Prodotto interno lordo (Pil), ossia la somma dei beni e servizi prodotti all’interno di un paese, è stato l’indicatore maggiormente impiegato per misurare non solo la crescita di un paese ma anche il suo grado di benessere ritenendo ci fosse un rapporto diretto tra ricchezza posseduta e sviluppo. Un raffronto tra venti paesi dell’America Latina, inclusi quelli andini dove si rinvengono i principi della cosmovisione del buen vivir (Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador, Perù e Venezuela) e quaranta paesi dell’Europa, nell’accezione di una realtà politico-geografica che si estende dall’Atlantico fino al confine con la Russia, aiuterà a comprendere i limiti di questa misura e di suggerire gli indispensabili correttivi. La classifica dei paesi sulla base del Pil espresso in dollari americani pro capite colloca nelle prime posizioni ben cinque paesi europei con il Lussemburgo in testa (103.925$) seguito da tre paesi nordici, mentre bisogna scendere in 48a posizione per trovare il primo paese dell’America Latina – il Cile (15.452$) – cui seguono a breve distanza Uruguay, Venezuela, * Professore associato di Sociologia dell’ambiente e del territorio nell’Università di Trieste. Dal Pil al Buen vivir Moreno Zago Argentina e Brasile; sette paesi, infine, si collocano oltre la 100a posizione (Paraguay, El Salvador, Guatemala, Bolivia, Honduras, Nicaragua, Haiti) con redditi inferiori ai 4.000$ (cfr. Tab. 1). Tuttavia, sebbene l’aumento di produzione di beni sia indice di crescita economica, non necessariamente lo è anche di sviluppo, progresso o benessere (Jackson, 2011; Tiezi, 2007). Le differenze si evidenziano laddove si vogliano mettere in luce fenomeni come l’intensificarsi delle diseguaglianze, lo sfruttamento non sostenibile delle risorse ambientali o la qualità della vita collettiva e individuale. Il Prodotto interno lordo o l’utilizzo di altri indicatori monetari escludono quei beni e servizi che non hanno un mercato (attività di volontariato), le esternalità negative legate ai costi derivanti dalle attività di produzione (inquinamento) o del declino sociale (criminalità) o la qualità della spesa pubblica. Non tengono nemmeno conto delle disuguaglianze sociali, delle relazioni comunitarie, della tenuta degli attuali ritmi di crescita, del livello di soddisfazione della partecipazione delle famiglie ai processi di formazione, distribuzione e impiego delle risorse (Alvaro, 2011: 231). Per ovviare ad alcuni di questi limiti, nel corso del tempo sono stati proposti ulteriori indicatori che affinano il Pil come l’Indicatore di progresso autentico (Genuine Progress Indicator)341, l’Indice di risparmio autentico (Genuine Saving Sindex)352, il Prodotto interno lordo verde (Green Gdp)363 e il Prodotto interno di qualità374. Il dibattito negli ultimi anni ha avuto un’accelerazione a livello internazionale, nel 2006, con il Global Project on Measuring the Progress of Society dell’Oecd (http://www. oecd.org), nel 2007, con l’iniziativa europea BeyondGDP (http://www. beyond-gdp.eu) e con il terzo set di indicatori per lo sviluppo sostenibile elaborati dalla Commission for Sustainable Development delle Nazioni Unite e, nel 2008, con l’istituzione da parte del governo francese della Commission sur la Mesure de la Performance Économique et du Progrès Social presieduta da tre illustri esperti internazionali quali Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi (2009). La Commissione suggerisce di spostare l’attenzione dagli aspetti produttivi a quelli riguardanti la distribuzione del reddito e del consumo e a preferire un approccio family-oriented alla tradizionale misurazione pro capite con particolare riferimento alla quantificazione delle attività non market. Gli indicatori di qualità della vita devono altresì fornire una valutazione esaustiva delle disuguaglianze e dello stato di salute, istruzione, attività personali, condizioni ambientali, della partecipazione politica e della sicurezza delle persone. 334 1 Introdotto da Redefining Progress nel 1995, l’indicatore sottrae dal Pil le spese per risolvere problemi sociali (i costi per la riduzione dell’inquinamento o le perdite economiche dovute al degradamento dell’ambiente) e aggiungendo il valore di servizi non pagati (come i lavori domestici) o del tempo libero. 2 Proposto dalla Banca mondiale nel 1999, l’Indice di sostenibilità ambientale include nel Pil le spese per la formazione mentre vengono detratte quelle per la contrazione delle risorse naturali e i danni ambientali. 3 Originato dalle riflessioni degli anni ‘70 di Nordhaus e Tobin (1972), il Pil verde pondera la crescita economica per le conseguenze ambientali come il rischio di perdita delle biodiversità e le emissioni di anidride carbonica. 4 Lanciato da Symbola e Unioncamere nel 2006, l’indice è la risultante della sommatoria delle quote percentuali di qualità, in ciascun settore di attività previsto dalla contabilità nazionale, moltiplicate per il rispettivo valore aggiunto. 335 1.1. Indici compositi di sviluppo, benessere e qualità della vita Per superare un’interpretazione strettamente economica della crescita, le Nazioni Unite dagli anni ‘90 hanno iniziato a proporre l’Indice di sviluppo umano (Human Development Index) costruito su tre elementi essenziali: una vita lunga e sana (misurata dall’indicatore dell’aspettativa di vita alla nascita), l’accesso alla conoscenza legata all’indice di istruzione (misurata dagli indicatori degli anni medi di istruzione e degli anni previsti di istruzione) e uno standard di vita dignitoso (misurato dall’indicatore del Pnl pro capite in termini di parità di potere d’acquisto) (Undp, 2013). La scelta degli indicatori trova origine nella volontà di collocare la persona al centro dello sviluppo. L’analisi dell’indice (calcolato su 187 paesi) riferito al 2012 pone la Norvegia al primo posto, seguita da Australia e Stati Uniti d’America e il Niger all’ultimo posto, preceduto da Congo e Mozambico (cfr. Tab. 2). Su una scala 0 (basso)-1 (alto), il valore medio dei 187 paesi analizzati è di 0,694 laddove alla Norvegia corrisponde il valore 0,955 e al Niger quello 0,304. La quasi totalità dei paesi europei qui considerati si colloca nel gruppo di valori dell’indice molto alti e alti, inclusi Cile, Argentina e Uruguay mentre i restanti paesi Dal Pil al Buen vivir Moreno Zago latinoamericani si collocano prevalentemente oltre la 70a posizione con Guatemala e Haiti oltre la 130a posizione. Non sono mancate le critiche all’indice sia per quanto concerne la scelta degli indicatori inadeguati a spiegare le dimensioni in oggetto (Pyatt, 1992; Lind, 1991; Kelley, 1991), sia per la loro robustezza rispetto agli errori della misurazione (McGillvray, 1991; Noorbakhsh, 1998) e sia per la mancanza di informazioni aggiuntive sulla posizione dei paesi rispetto a quante non ne danno i singoli indicatori (Mintcheva-Ivanova et al., 1994). Tuttavia, la critica maggiore nasce dalla mancata inclusione delle dimensioni dei diritti umani (Pyatt, 1992) e ambientali (Hamilton, 1993). Per superare alcune di queste critiche, dal 2011 l’Organisation for Economic Co-operation and Development propone un indice per misurare il benessere. Il Better Life Index costruito su 25 indicatori attorno a 11 dimensioni identificate come essenziali alla definizione di benessere in termini di condizioni di vita materiali (abitazione, reddito, lavoro) e qualità della vita (relazioni comunitarie, istruzione, ambiente, impegno civico, salute, soddisfazione per la vita, sicurezza e equilibro tra tempo libero e del lavoro). L’indice risponde a quattro criteri. In primo luogo si concentra sulle persone (individui e famiglie), la loro situazione e il loro rapporto con gli altri nella comunità in cui vivono e lavorano. Secondariamente, si focalizza sugli output del benessere e non tanto sugli input: ad esempio, sulla soddisfazione delle persone con acqua piuttosto che su quanto è stato speso per la fornitura di acqua potabile. Successivamente, prende in considerazione le disparità tra i diversi gruppi per età, genere e provenienza economica. Infine, analizza sia le componenti oggettive sia quelle soggettive del benessere, come le esperienze personali o la valutazione delle circostanze della vita (Durand, Smith, 2013: 3). L’Oecd ritiene queste dimensioni come universali, ossia rilevanti per le persone che vivono in società diverse; ciò che può variare è l’importanza relativa attribuita a ciascuna dimensione che riflette le priorità attribuite dalle esperienze del singolo individuo o dalla cultura di provenienza. Infatti, l’Oecd non propone alcuna graduatoria dei paesi membri analizzati lasciando al visitatore del sito (http://www.oecdbetterlifeindex.org) la possibilità di pesare le singole dimensioni e così di graduare i paesi e comparando i risultati con quelli degli altri utenti, promuovendo un di- battito su cosa rende la vita migliore. Un’analisi delle risposte fornite dai visitatori del sito provenienti dai paesi oggetto di questo studio evidenzia come ad essere ritenuti fattori del benessere più importanti per i cittadini europei siano la salute e la soddisfazione per la vita, mentre per quelli latinoamericani sia l’educazione. 336 337 1.2. Indici compositi di sostenibilità ambientale Altri indici compositi si concentrano maggiormente su alcuni aspetti della vita sociale (diseguaglianze di genere, povertà), politica (sicurezza, partecipazione, diritti385) o economica (crescita). Particolarmente sentito è il problema della sostenibilità ambientale e della produzione396. Negli anni ‘90, Mathis Wackernagel e William Rees introducono il parametro di Impronta ecologica (Ecological Footprint) che misura il consumo umano di risorse naturali in relazione alla capacità della Terra di riprodurle (1996). L’impronta, a livello individuale o collettivo, non è né positiva né negativa poiché va confrontata con la biocapacità ambientale. L’indicatore evidenzia complessivamente come l’umanità stia 5 Sul tema si vedano gli studi della Banca mondiale sugli indicatori compositi di governance (Worldwide Governance Indicators) che analizza la capacità dei governi di implementare delle politiche efficaci e di creare un ambiente di fiducia nel rapporto Stato-cittadino (http://info.worldbank.org/governance/wgi/index.aspx#home) e la guida dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani (http://www.ohchr. org; Ohchr, 2012) finalizzata ad individuare quegli indicatori più idonei a misurare i progressi nell’attuazione dei principi e delle norme internazionali sui diritti umani. Il Guatemala è stato il primo paese nel 2009 ad utilizzarli nel redigere i rapporti sul diritto alla salute, cibo e istruzione seguito anche da Brasile, Messico, Svezia e Regno Unito. 6 Sul tema, si veda anche lo studio svolto dall’United Nations University-International Human Dimensions Programme on Global Environmental Change in partenariato con lo United Nations Environment Programme (2012), qui semplicemente citato in quanto sono solamente venti i paesi tra cui cinque latinoamericani (Brasile, Cile, Colombia, Ecuador, Venezuela) per i quali è stato costruito l’Indice della ricchezza inclusiva (Inclusive Wealth Index) che aggrega una complessa gamma di attività – capitale industriale, umano e naturale – per arrivare a determinare lo stato reale della ricchezza e della sostenibilità della crescita di una nazione. Il confronto temporale con il 1990 evidenzia come, ad esempio, l’economia del Brasile sia cresciuta del 31% in termini del Pil ma solo del 18% in termine di Iwi. Dal Pil al Buen vivir Moreno Zago consumando risorse naturali a un ritmo più veloce rispetto a quelle che il pianeta è in grado di rigenerare; gli africani, ad esempio, sono quasi il triplo dei nordamericani, ma hanno un’Impronta tre volte e mezzo più piccola (Gnf, 2010). Nel 2008 i paesi ad alto reddito hanno prodotto un’Impronta ecologica pari a 6,09 ettari pro capite che, raffrontata con la bio-capacità, ha generato un deficit di 3,03 gha. Sulla base di questo indicatore, ad eccezione di Haiti (2°), i paesi latinoamericani si collocano molto distanti dal vertice – la Rep. Dominicana al 40° e successivamente Nicaragua, Honduras Guatemala e Colombia – in cui si trovano paesi africani (Ruanda, Congo, Malawi, Mozambico) e asiatici (Afghanistan, Bangladesh, Pakistan, Nepal) (cfr. Tab. 3). L’Ecuador, piazzato al 75° posto, dal 2009 ha deciso di includere nel Plan Nacional para el Buen Vivir 2009-13 l’obiettivo di mantenere l’impronta ecologica ad un livello accettabile per l’ecosistema nella consapevolezza che la protezione del proprio patrimonio naturale e della biodiversità significhi salvaguardare la sicurezza dei propri cittadini e del pianeta intero (Gfn, 2012: 53; Senplades, 2013). I paesi dell’Unione Europea si piazzano nelle posizioni medio-basse: il Lussemburgo alla 150a posizione, preceduto da Danimarca, Belgio e Paesi Bassi. Dal 2006 l’olandese Sustainable Society Foundation pubblica l’Indice della società sostenibile (Sustainable Society Index). Sviluppato a partire dalla definizione della Commissione Brundtland (1987), l’indice aggrega 21 indicatori suddivisi in otto categorie (bisogni di base, salute, sviluppo individuale e sociale, natura e ambiente, risorse naturali, clima e energia, transizione, economia) ed è uno dei pochi ad includere contemporaneamente le tre dimensioni del benessere: umano, ambientale ed economico. Una società sostenibile è quella che soddisfa i bisogni della generazione attuale e non compromette la capacità di quella futura a soddisfare i propri, dove ogni individuo può crescere in libertà, in armonia con l’ambiente e in una società equilibrata. La graduatoria costruita su questo indice vede la Svizzera al vertice assieme a Svezia e Austria (cfr. Tab. 4). Ma nei primi dieci si trova anche il Costa Rica seguito, a breve distanza, da Rep. Dominicana, Guatemala, Argentina e Uruguay. Viceversa, le ultime posizioni sono occupate da Yemen (151°), Iraq, Turkmenistan, Qatar e Oman. Tra i paesi considerati in questo studio, oltre la centesima posizione si trovano – oltre ad Haiti – Ucraina, Grecia, Irlanda, Bosnia-Erzegovina e Malta. La Fondazione Eni Enrico Mattei propone dal 2009 l’Indice di sostenibilità (Feem Sustainability Index) che focalizza l’attenzione sulla sostenibilità in ambito economico, sociale ed ambientale consentendo, così, di fare raffronti temporali, fino al 2030, date specifiche assunzioni sulla crescita mondiale (Feem, 2009; Campagnolo, 2012). L’indice è composto da 23 indicatori che misurano l’indebitamento pubblico, la posizione sui mercati internazionali e l’investimento in ricerca e sviluppo; lo stato dei sistemi di welfare in termini di salute e istruzione, la rilevanza della spesa alimentare sul bilancio delle famiglie, l’entità delle emissioni di gas serra, l’utilizzo di energie rinnovabili e la perdita di biodiversità. L’indice è, così, una misura aggregata di sostenibilità che consente di classificare i paesi del mondo secondo la loro performance di sostenibilità complessiva. Dalla Tab. 5 emerge che l’Europa è la regione più sostenibile trainata dai paesi scandinavi mentre il Brasile si colloca a metà classifica e il Messico in posizione di molto inferiore. Si può sostenere che i paesi più industrializzati sono caratterizzati da un livello soddisfacente di sostenibilità a differenza di quelli in via di sviluppo, caratterizzati da economie poco sostenibili. 338 339 1.3. Indici compositi di privazione economica, disuguaglianza sociale e libertà Dal 1997 l’Undp elabora l’Indice multidimensionale di povertà (Multidimensional Poverty Index) che va a completare le valutazioni sulla povertà fondate sul reddito. L’ottica di analisi è quella dell’esclusione: vita breve, mancanza d’istruzione di base e di accesso alle risorse pubbliche e private (acqua pulita e assistenza sanitaria). Per gli oltre cento paesi per i quali è stato calcolato l’indice, tra i paesi dell’America Latina, Uruguay ed Ecuador sono quelli che presentano i risultati migliori nel senso che la povertà è stata ridotta a meno del 2% della popolazione mentre delle criticità sono ancora presenti ad Haiti dove oltre il 56% dei cittadini è vittima della povertà o in Honduras (32%), Nicaragua (28%), Guatemala (26%) e Bolivia (21%) (cfr. Tab. 6). Il World Economic Forum propone dal 2006 l’Indice di disparità di genere (Global Gender Gap), un indicatore sintetico che coglie le dise- Dal Pil al Buen vivir Moreno Zago guaglianze di genere in ambito di occupazione, remunerazione e carriera, risultati formativi, salute e potere di rappresentanza politica. L’indice, tuttavia, non fornisce alcuna indicazione sulle discriminazioni cui sono sottoposte le donne appartenenti a classi sociali o a gruppi etnici diversi all’interno dello stesso paese. Il trattamento di diseguaglianza che colpisce le donne costituisce non solamente un elemento di frustrazione individuale ma anche un’opportunità persa di sviluppo. Pur costituendo un importante forza lavoro – spesso poco retribuita – che contribuisce al processo di crescita economica di un paese, le donne, come nei paesi latinoamericani, svolgono attività economiche informali non riconosciute poiché il loro operato avviene all’insegna dell’invisibilità. L’Indice, pertanto, è progettato per misurare l’impatto negativo sullo sviluppo umano delle disparità economiche e sociali tra uomini e donne. Dai valori degli indici si evince che gli islandesi, assieme ai residenti dei paesi scandinavi sono i più egualitari e gli yemeniti quelli meno. Con riferimento ai paesi considerati in questo studio, tra i primi dieci paesi si trova il Nicaragua e nei primi trenta anche Cuba, Ecuador e Bolivia. Agli ultimi posti si trovano paesi che, sulla base del reddito e dell’Indice di sviluppo umano si trovano in posizioni più elevate: Guatemala, El Salvador, Cile, Paraguay, Honduras, Uruguay, Rep. Dominicana. Tuttavia, questi paesi sono in buona compagnia con i paesi dell’Unione Europea come Ungheria, Malta, Rep. Ceca, Grecia, Cipro e Slovacchia. L’Italia, al 71° posto, si colloca appena sopra alla Rep. Dominicana ma sotto al Brasile e al Messico (cfr. Tab. 7). Il Fraser Institute canadese ha recentemente proposto l’Indice di libertà (Worldwide Index of Human Freedom) calcolato a partire da due misure: l’Indice di libertà economica (Economic Freedom) e l’Indice di libertà personale (Personal Freedom) (McMahon, 2012). La visione di libertà proposta dagli indici coincide con il principio di volontarietà per il quale una persona è libera quando le sue scelte sono volontarie, cioè non soggette a coercizione da parte di terzi o dello Stato. Il primo indice, elaborato dagli anni ‘70, analizza 42 variabili raggruppate in cinque aree: dimensioni del governo (entrate, tasse e imprese), struttura giuridica e garanzia dei diritti di proprietà, stabilità monetaria, libertà nel commercio internazionale, regolamento del credito, lavoro e affari (Gwartney et al., 2012). L’Indice di libertà personale prende in considerazione 34 variabili suddivise in quattro categorie: sicurezza, libertà di movimento, libertà di espressione, libertà di relazione. La tesi di fondo è che una politica che mira alla crescita della libertà economica crea terreno fertile affinché attecchiscano le altre libertà non economiche. Nelle prime dieci posizioni, al cui vertice si colloca la Nuova Zelanda, si trovano solo tre paesi europei (Olanda, Irlanda e Danimarca), mentre nelle ultime si trovano Zimbabwe, preceduto da Burma, Pakistan, Sri Lanka, Siria e Congo. Tra i primi venticinque, oltre ai paesi dell’Unione Europea, si trovano Svizzera, Norvegia, Albania e ben quattro paesi latinoamericani: Cile, Costa Rica, El Salvador e Uruguay. Il Venezuela si trova in 109a posizione, preceduto da Turchia, Colombia, Ucraina, Ecuador, Rep. Dominicana, Messico, Romania, Grecia e Bolivia (cfr. Tab. 8). Dal 2002, Reporters Without Borders pubblica annualmente l’Indice di libertà di stampa (World Press Freedom Index) che si propone come misura del livello complessivo della libertà di informazione (2014). Costruito su un set di indicatori quantitativi e di domande sottoposte a giornalisti, ricercatori, attivisti, ecc., l’indice riflette il grado di libertà di cui godono giornalisti, agenzie di stampa e cyber-cittadini e le azioni intraprese dalle autorità per assicurare il rispetto di tali libertà. Le informazioni includono le violenze subite dai giornalisti, i mezzi di comunicazione censurati, il grado di autocensura dei providers di informazione, l’ingerenza governativa nei contenuti editoriali, la concentrazione delle testate giornalistiche e la normativa. La classifica 2014 evidenzia come i paesi scandinavi dimostrino la capacità di conservare un ambiente ideale per i mezzi di informazione; lo stesso non si può dire per l’Eritrea, la Corea del Nord, il Turkmenistan, la Siria o la Cina che occupano la parte inferiore della graduatoria (cfr. Tab. 9). Nell’America Latina, sebbene gli apparati statali abbiano compiuto balzi in avanti sulla strada delle libertà, molti giornalisti e attivisti dei diritti umani sono esposti ad elevati livelli di violenza come in Honduras, con tassi di omicidi paragonabili a quelli di uno stato di guerra, in Perù, in Colombia o in Messico i cui operatori dell’informazione sono sottoposti a rappresaglie nei traffici di droga, corruzione, conflitti di territorio407. 340 341 Sul tema si vedano altresì il Ciri Human Rights Dataset calcolato dall’American Binghamton University che, dal 1981, propone un set di indicatori quantitativi sul rispetto 7 342 Dal Pil al Buen vivir 1.4. Indici compositi di governance e sicurezza internazionale Dal 2009, il Legatum Institute di Londra pubblica l’Indice di prosperità (Prosperity Index) costruito su un set di 89 variabili suddivise in otto sub-indici: economia (capacità di raggiungere gli obiettivi macropolitici), imprenditorialità e opportunità (capacità di creare un clima di fiducia e sviluppare occasioni d’affari), governance (capacità di gestione della cosa pubblica, partecipazione politica e rispetto delle leggi), istruzione (capacità di garantire l’istruzione, qualità del capitale umano), salute (capacità di prevenire e curare), sicurezza (capacità di garantire la sicurezza nazionale e personale), libertà individuale (capacità di garantire la libertà individuale e ad incoraggiare la tolleranza sociale), capitale sociale (capacità di creare coesione sociale e reti familiari) (Li, 2013). A guidare la classifica sono i paesi europei, in particolare quelli nordici, mentre Congo, Rep. Centroafricana e Ciad la chiudono. Buono è il risultato dei paesi latinoamericani che, rispetto all’anno precedente, hanno scalato le posizioni, in particolare nel sub-indice economia. L’Uruguay e il Costa Rica, collocati al 30° e 31° posto, precedono di poco Cile, Panama, Argentina e Brasile. Tuttavia, tra i paesi analizzati, fatta eccezione per Haiti che si piazza oltre la 100a posizione, in fondo alla classifica si trovano El Salvador, Bolivia e a chiudere Guatemala e Honduras (cfr. Tab. 10). Dal 2003, con cadenza biennale, la Bertelsmann Stiftung calcola l’Indice di trasformazione (Transformation Index) che valuta la capacità dei paesi in via di sviluppo e in transizione a transitare verso la democrazia e un’economia di mercato considerate una delle sfide principali della società odierna. Un panel di esperti internazionali attribuisce dei punteggi su 52 temi e l’indice aggrega i risultati elaborando due sub-indici: l’Indice di status (Status Index) e l’Indice di management (Management Index). L’Indice di status classifica i paesi lungo il percorso verso la democrazia sotto uno Stato di diritto e verso l’economia di mercato ancorata a principi di giustizia sociale. I temi affrontati sono: statalismo, partecipazione politica, Stato di diritto, stabilità delle istituzioni democratiche, integrazione degli Stati di quindici diritti umani internazionalmente riconosciuti (humanrightsdata. blogspot.it) e l’Indice di libertà nel mondo (Index of Freedom in the World) elaborato da Freedom House che propone una misura dei diritti politici e delle libertà civili (http:// www.freedomhouse.org), oggetto di diverse critiche (Ieraci, Paulon, 2010). Moreno Zago 343 politica e sociale, sviluppo socio-economico, concorrenza e mercato, valuta e stabilità dei prezzi, proprietà privata, welfare, performance economica, sostenibilità. Taiwan, Rep. Ceca ed Estonia sono i paesi al vertice della graduatoria. Tra i primi dieci si trovano altresì Uruguay (4°), Cile (8°) e Costa Rica (10°). Somalia, Eritrea e Corea del Nord chiudono l’elenco di paesi (cfr. Tab. 11). Basato su venti indicatori, l’Indice di management, invece, si concentra su quanto efficacemente i politici facilitano i processi di trasformazione relativamente a: difficoltà gestionale, uso efficiente delle risorse, capacità di guida, costruzione del consenso, cooperazione internazionale. Una trasformazione di successo necessita coerenza nel perseguire i propri obiettivi, un uso saggio ed efficiente delle risorse, un ampio consenso politico ed una collaborazione con gli Stati limitrofi. Tra i primi dieci paesi, si trovano tre paesi latinoamericani: Uruguay (2°), Brasile (3°) e Cile (4°) seguiti a breve distanza da El Salvador e Costa Rica. Questi condividono il vertice con i paesi dell’Est: Estonia, Polonia, Slovacchia, Lituania e Lettonia. Il Venezuela si trova tra gli ultimi dieci assieme a Bielorussia, Bosnia-Erzegovina, Haiti e Cuba (cfr. Tab. 12). Dal 1995 la tedesca Transparency International propone l’Indice di percezione della corruzione (Corruption Perceptions Index), una misura del livello di corruzione percepita nei pubblici uffici e nella politica (Ti, 2013). L’indice di corruzione è calcolato utilizzando tredici diverse fonti statistiche delle principali organizzazioni internazionali che catturano la percezione della corruzione, intesa come l’abuso di pubblici ufficiali per il guadagno privato, i cui valori vengono standardizzati su una scala 0 paese percepito come molto corrotto-100 paese con una percezione della corruzione nulla. I paesi percepiti come più corrotti sono Somalia, Corea del Nord, Afghanistan, Sudan e Libia. Nuovamente i paesi del Nord Europa occupano la testa della classifica mentre ben dodici paesi dell’America Latina si collocano oltre la centesima posizione. Un po’ meno bene Costa Rica, Cuba e Brasile, molto meglio Uruguay e Cile, rispettivamente al 19° e al 22° posto (cfr. Tab. 13). L’Institute for Economics and Peace (2013) pubblica un rapporto sulla pace nel mondo, denominato Indice di pace globale (Global Peace Index). L’indice comprende 22 indicatori qualitativi e quantitativi per 162 paesi selezionati da un panel internazionale di esperti e suddivisi in tre tematiche: conflitti interni ed internazionali (numero di conflitti arma- Dal Pil al Buen vivir Moreno Zago ti, numero di decessi in conflitti armati, relazioni con i paesi confinanti, ecc.), sicurezza sociale (instabilità politica, attività terroristica, percezione della criminalità, numero di omicidi, numero di carcerati, impiegati nelle forze dell’ordine, ecc.), sicurezza e militarizzazione (spese militari, impiegati nelle forze armate, capacità di armamenti pesanti e nucleari, ecc.). L’indice colloca al vertice l’Islanda, seguita da Danimarca, Nuova Zelanda, Austria, Svizzera, Giappone. In fondo alla graduatoria si trovano, invece, l’Afghanistan, preceduto da Somalia, Siria, Iraq, Sudan, Pakistan, Congo, Russia, Corea del Nord, Rep. Centroafricana. L’Europa è considerata la regione più pacifica con ben 13 paesi classificati tra i primi 20 (cfr. Tab. 14). Diverso è il discorso per i paesi del Sudamerica, considerata una delle regioni più violente al mondo – Brasile, Colombia, Honduras, Venezuela registrano preoccupanti tassi di omicidi – a causa anche della presenza di gruppi criminali internazionali, corruzione (Messico), debolezza degli indicatori sociali. La presenza di Stati forti (Cile, Uruguay, Cuba) e la volontà a risolvere per via diplomatica le controversie – ad es. tra Colombia e Venezuela o tra Cile e Perù – hanno attenuato questa tendenza nonché ridotto le spese militari. Rimane ancora aperto il conflitto civile in Colombia nonostante i costanti tentativi del governo di trovare un accordo di pace con le forze armate rivoluzionare del paese (Iep, 2013: 10 s.). L’Istituto propone dal 2012 anche l’Indice di pace positiva (Positive Peace Index) che misura la forza degli atteggiamenti, delle istituzioni e delle strutture di 126 paesi per determinare la loro capacità di creare e mantenere una società pacifica. I 24 indicatori elaborati ruotano attorno a otto categorie: governo efficiente, ambiente economico propositivo, distribuzione equa delle risorse, rispetto dei diritti, buone relazioni con i paesi vicini, libera circolazione delle informazioni, alti livelli di capitale umano, bassi livelli di corruzione. Un indice elevato contribuisce a degli output sociali ed economici altrettanto positivi: i paesi con un elevato indice hanno un reddito pro capite più alto, una distribuzione più equa delle risorse, migliori livelli di salute e istruzione, una maggiore fiducia tra i cittadini e una maggiore coesione sociale (Iep, 2013: 18). L’analisi dei risultati evidenzia nelle prime dieci posizione ben cinque paesi nordici (Danimarca, Norvegia, Finlandia, Svezia e Islanda) – gli altri sono Svizzera, Paesi Bassi, Austria, Nuova Zelanda e Australia – mentre nelle ultime dieci si trovano sei paesi dell’Africa subsahariana (Congo, Burundi, Costa d’Avorio, Nigeria, Rep. Centroafricana, Ciad), tre asiatici (Pakistan, Uzbekistan, Yemen) e uno latinoamericano (Haiti). Fatta eccezione per il Cile e l’Uruguay che si collocano in classi di indice elevato, parte degli altri paesi latinoamericani si piazzano in posizioni medio-basse (cfr. Tab. 15). 344 345 1.5. Indici compositi di felicità Il benessere e la qualità della vita passano anche attraverso la felicità, un concetto complesso che si costruisce attraverso la relazionalità tra le persone ma anche nella capacità di tenere assieme le diverse esperienze della vita: dall’innamoramento all’elaborazione di un lutto, dalla gioia per un successo alla tristezza per una sconfitta, dalla complicità con gli amici all’abbandono del partner (Schmid, 2014) e il termine inglese – happiness, da happen – ricorda la dimensione fortuita degli stati edonici. Costruire un indice della felicità facilita i governi a valutare l’efficacia delle proprie azioni sulla soddisfazione complessiva dei propri cittadini aiutandoli a vivere meglio o, perlomeno, a percepire una realtà per cui dichiararsi soddisfatti. Il Buthan, piccolo Stato alle pendici dell’Himalaya, il cui art. 1 della costituzione recita che «Tutti i cittadini hanno diritto a essere felici», già dagli anni ‘70 propone l’Indicatore della felicità interna lorda (Gross National Happiness). L’indice si focalizza su 33 indicatori suddivisi in nove dimensioni: benessere psicologico, salute, istruzione, cultura, uso del tempo, buon governo, vitalità della comunità, diversità ecologica e resilienza, standard di vita. Essendo finalizzato a promuovere uno sviluppo economico equo e sostenibile affinché ogni cittadino possa godere degli stessi benefici di partenza, esso non è dunque incentrato esclusivamente sulla produzione e consumo di beni e servizi (Ura, 2012). Un importante punto di riferimento sullo stato della felicità a livello mondiale è costituito dal Rapporto sulla Felicità Mondiale edito dal Earth Institute della Columbia University, sponsorizzato dal Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite che dal 2012 propone un indice di soddisfazione degli abitanti del pianeta (Helliwell et al., 2013). A differenza dei precedenti approcci basati sugli indicatori Dal Pil al Buen vivir Moreno Zago quantitativi, il metodo di analisi è quello delle interviste ad un campione di persone residenti nei vari paesi invitate ad esprimere una valutazione sulla loro condizione di vita. Le variabili prese in considerazione sono: il reddito, l’aspettativa di vita in buona salute, il sostegno sociale nei momenti difficili, la percezione della corruzione, la diffusione della generosità, la libertà di fare le proprie scelte. A livello globale, la felicità del pianeta si attesta su un punteggio medio di 5,1 (su scala 0-10). I paesi più felici sono europei: Danimarca, Norvegia, Svizzera, Paesi Bassi, Svezia, mentre in fondo alla classifica della felicità si trovano paesi africani: Ruanda, Burundi, Rep. Centroafricana, Benin e Togo (cfr. Tab. 16). Il divario tra i primi e gli ultimi cinque paesi è notevole: circa 2,5 volte la media (7,48 vs. 2,94). Rispetto al precedente rapporto, i valori per i paesi latinoamericani migliorano mentre è in declino la qualità della vita nei paesi europei maggiormente colpiti dalla crisi economica come Grecia, Portogallo, Spagna e Italia (45a posizione). Si segnala, in particolare, come gli Stati Uniti d’America (17i) si collochino al di sotto di Costa Rica, Panama e Messico (16°): sicuramente un elemento di dissuasione per quei sudamericani che si spingono illegalmente oltre il confine americano! Più recentemente, la New Economic Foundation di Londra ha proposto l’Indice del pianeta felice (Happy Planet Index) basato sul presupposto che vi sia un collegamento tra felicità umana e rispetto dell’ambiente (Abdallah, 2012). L’indice adotta tre criteri: la soddisfazione per la propria vita (includendo le relazioni con gli altri, il senso di appartenenza a una comunità, le opportunità, il coinvolgimento in attività utili e appaganti), l’aspettativa di vita e l’impronta ecologica. Calcolato su 151 paesi, l’obiettivo dell’indice non è stabilire quali siano i paesi più felici, ma quali siano in grado di raggiungere lo scopo senza abusare delle risorse naturali disponibili. Se nella parte inferiore della graduatoria si piazzano i paesi africani e medio-orientali che peccano di attenzione ambientale e di prospettive sociali (Botswana, Chad, Qatar, Rep. Centroafricana, Mali, Bahrain), al vertice della felicità si piazza il Costa Rica, un paese ricco di biodiversità ed una meta turistica per gli amanti della natura. È naturale che la sostenibilità ambientale sia diventata, quindi, un fattore decisivo di sviluppo; inoltre, il paese investe molto in programmi educativi e sociosanitari. Si collocano, inoltre, ai primi posti, quasi tutti i paesi dell’America Latina mentre quelli europei, pur presentando elevati valori negli indici dell’aspettativa di vita e una buona qualità della vita, registrano un’elevata impronta ecologica che li fanno scivolare verso posizioni di metà classifica (cfr. Tab. 17). 346 347 2. Misurare il buen vivir Gli indici di sviluppo e di benessere presentati nel paragrafo precedente risentono di una visione occidentale neoclassica poiché l’attenzione è incentrata principalmente sulla crescita o il raggiungimento di certi risultati e le comparazioni, anche temporali, avvengono sempre spingendo verso l’alto l’output complessivo. L’inserimento delle problematiche ambientali ha evidenziato il bisogno di porre attenzione allo sviluppo di un paese non solo nelle sue dimensioni economica e umana418. Il buen vivir o vivir bien, analogamente, è un concetto complesso che assume sfumature di significato diverse a seconda del popolo andino che lo ha sviluppato. Sumak kawsay – nella lingua kichwa – esprime l’idea di una vita buona non in confronto a quella di altri ma definita nei termini della propria cultura; suma qamaña – nella lingua aymara – introduce l’elemento della comunità così da renderlo traducibile in “buon convivere”, una società buona per tutti e in armonia con la Madre Terra (Huanacuni Mamani, 2012; Maité, 2011). Il buen vivir è un concetto che include i modi di vita e la cosmovisione dei popoli indigeni delle Ande ma si proietta al di fuori di questa realtà poiché rappresenta l’opportunità di costruire un società diversa, pacifica, in armonia con la comunità e con la natura (Monni, Pallottino, 2013; Rojas, 2009). L’idea di sviluppo che si propone è basata sulle specificità etniche (etnodesarrollo), autoctone (autodesarrollo) Ramírez Gallegos (2012) propone una misura del buen vivir, denominata Indice di vita sana e ben vissuta (Indice de Vida Saludable y Bien Vivida). L’Ivsbv è funzione della percentuale di tempo ben vissuto, l’aspettativa di vita, la parte di vita trascorsa in malattia, il tasso di scolarizzazione e l’indice di disparità (coefficiente di Gini), dove il tempo ben vissuto è quello dedicato alla contemplazione (produzione e consumo di arte, sport, crescita individuale, lettura, musica, natura, riflessione e meditazione) + il tempo sociale + il tempo pubblico (partecipazione ad associazioni, volontariato, attività sociali, azioni di cittadini, politiche o religiose) + il tempo di lavoro. Sulla base di questa misura, gli ecuadoriani hanno un indice di 11 anni, spendendo in media solo il 14% della loro vita a vivere bene. 8 Dal Pil al Buen vivir Moreno Zago e identitarie (desarrollo con identitad), modalità proposte dai popoli indigeni che sono le principali vittime dei modelli di sviluppo occidentali, della crisi economica e ambientale, della perdita di biodiversità e degli spazi di vita delle comunità locali di questi ultimi anni ma desiderosi di incrementare la capacità di decisione nello scegliere il modello di sviluppo a cui ispirarsi (Canqui Mollo, 2011: 27 ss.). È inoltre curioso osservare che il termine sviluppo (desarrollo) non trova traduzione nelle lingue indigene, utilizzando il termine buen vivir. Differentemente dal concetto occidentale di benessere, prevalentemente incentrato sull’accumulazione di beni materiali, il buen vivir si basa su tre principi – complementarietà, reciprocità, valori – e su cinque pilastri: armonia con la natura (utilizzo sostenibile delle risorse), recupero dell’identità (personale ed etnica in termini di affettività, dignità, riconoscimento, autonomia), comunione (partecipazione sociale, politica ed economica), spiritualità e intrattenimento, soddisfazione dei bisogni di base (evitando l’accumulo) (Canqui Mollo, 2011: 31 ss.). L’inserimento di questa visione nelle costituzioni boliviana (2009) ed ecuadoriana (2008) e nei piani pluriennali di sviluppo di questi paesi costituisce un ulteriore passo verso una maggior attenzione degli Stati all’individuo, alla comunità, ai popoli e alla Terra. Secondo Huanacuni Mamani (2012), lo Stato deve avere: capacità di prendersi cura della vita e di produrre senza depredare l’ambiente; capacità sociale basata su politiche di distribuzione e redistribuzione; capacità produttiva mirata a ottenere il necessario per garantire l’accessibilità ai servizi essenziali; capacità di articolare e relazionarsi o convivere con i paesi circostanti. Qui si vuole proporre una misura del buen vivir alla luce delle definizioni date. Il punto di partenza è il Plan Nacional de Desarrollo para el Buen Vivir 2009-2013 dell’Ecuador, che segue l’approvazione della costituzione e che individua nel buen vivir un approccio multidimensionale e olistico da sviluppare attraverso il raggiungimento di dodici obiettivi (parzialmente ripresi anche nel Piano successivo 2013-17) e qui suddivisi in quattro dimensioni. Per ciascuno di essi saranno proposti degli indicatori di output – intesi in termini di redistribuzione delle risorse, dei consumi, delle dipendenze dall’esterno, ecc. – disponibili presso le principali banche-dati internazionali che andranno a definire l’indice composito tale da consentire una comparazione tra i paesi latinoamericani con quelli europei. A. Dimensione della giustizia sociale Ob. 1. Favorire l’uguaglianza, la coesione e l’integrazione sociale e territoriale nella diversità. Compito dello Stato è garantire i diritti a tutti e prevenire l’esclusione sociale, economica e politica per raggiungere una vita dignitosa con accesso ai servizi di base (sanità, istruzione, prevenzione, ecc.). Ob. 2. Migliorare le capacità e potenzialità dei cittadini. Compito dello Stato è garantire la parità d’accesso all’istruzione, promuovere il ruolo della conoscenza, della ricerca responsabile nei confronti della società e della natura. Ob. 3. Migliorare la qualità della vita della popolazione. Compito dello Stato è creare le condizioni per soddisfare i bisogni materiali, psicologici e sociali dei cittadini incrementando la soddisfazione individuale e collettiva nella costruzione di un progetto di vita comune. Indicatori di risultato: 348 - 349 Prodotto interno lordo ($ pc PPP; Wp 2012) Anni di scuola frequentata (media; Undp 2010) Spesa pubblica in istruzione (% Pil; Undp 2005-10) Spesa pubblica in ricerca e sviluppo (% Pil; Undp 2005-10) Soddisfazione per la qualità del sistema educativo (% soddisfatti; Undp 2011) Speranza di vita alla nascita (anni; Undp 2012) Spesa pubblica sanitaria (% Pil; Undp 2010) Soddisfazione per la qualità dell’assistenza sanitaria (% soddisfatti; Undp 2007-09) Miglioramento delle fonti acquifere (% pop. con accesso; Wb 2012) Soddisfazione complessiva per la propria vita (% soddisfatti; Undp 2012) Spesa familiare per i consumi (% Pil; Wb 2012) Indice composito di disuguaglianza di genere (Undp 2012) B. Dimensione della giustizia economica e intergenerazionale Ob. 4. Garantire i diritti della natura e promuovere un ambiente sano e sostenibile. Compito dello Stato è preservare lo status della natura, garantire la sua riproducibilità e rigenerazione come impegno intergenerazionale attraverso azioni sostenibili. Ob. 6. Garantire un lavoro stabile, giusto e dignitoso nelle sue diverse forme. Compito dello Stato è far sì che il lavoro non sia considerato un fattore di produzione ma un elemento chiave per vivere meglio rispettan- 350 Dal Pil al Buen vivir Moreno Zago do e potenziando le capacità degli individui. Ob. 11. Consolidare il sistema economico sociale, solidale e sostenibile. Compito dello Stato è implementare un sistema di regole che favoriscano la creazione di posti di lavoro stabili e inclusivi, una produzione rispettosa della natura, una redistribuzione della ricchezza. Indicatori di risultato: Popolazione occupata (% pop. tot. ≥25 anni; Undp 2011) Disoccupazione giovanile (% pop. età 15-24 anni; Undp 2005-11) Impiegati precari (% impiegati tot.; Wb 2012) Soddisfazione per il proprio lavoro (% soddisfatti; Undp 2007-11) Coefficiente di Gini del reddito (Undp 2000-10) Soddisfazione per lo sviluppo locale (% soddisfatti; Undp 2007-11) Indice composito dell’Impronta ecologica (Gfn 2008) Esaurimento delle risorse naturali (% Pnl; Undp 2010) Fornitura di energia rinnovabile (% energia tot.; Undp 2009) Emissione di CO2 (t pc; Undp 2008) Popolazione in città con oltre un milione di abitanti (% pop. totale; Undp 2012) - Popolazione che vive in terre degradate (% pop. tot.; Undp 2010) - C. Dimensione della giustizia democratica partecipativa Ob. 7. Costruire e potenziare spazi pubblici, interculturali e di incontro. Compito dello Stato è assicurare le condizioni per esprimere la diversità nell’unità attraverso l’uso di simboli derivanti dalle memorie individuali e collettive e dal patrimonio culturale tangibile e intangibile. Ob. 8. Sostenere e rafforzare l’identità nazionale, le identità diverse, il plurinazionalismo e l’interculturalismo. Compito dello Stato è preservare e rivitalizzare il patrimonio culturale nazionale e delle realtà etnicolinguistiche e favorire il rispetto delle differenze. Ob. 10. Garantire l’accesso e la partecipazione pubblica e politica. Compito dello Stato è favorire la partecipazione dei cittadini nelle decisioni relative alla pianificazione, gestione e controllo delle politiche pubbliche, garantendo trasparenza nelle informazioni, l’accesso agli atti pubblici e rimuovere gli ostacoli che non garantiscono la parità di rappresentazione. Indicatori di risultato: - Fiducia nella gente (% soddisfatti; Undp 2011) - Indice composito di libertà di stampa (Rwb 2014) - 351 Libertà di scelta (% soddisfatti; Undp 2007-11) Utenti di internet (% pop.; Undp 2010) Utenze telefoniche fisse e mobili (% pop.; Undp 2010) Donne elette nel Parlamento nazionale (% seggi; Undp 2012) Motorizzazione (veicoli a motore x 1.000 ab.; Wb 2011) Mobilità per turismo (% partenze x pop.; Wb 2012) D. Dimensione della giustizia nazionale e transnazionale Ob. 5. Garantire la sovranità e la pace, promuovere l’inserimento strategico del paese nel mondo e l’integrazione latinoamericana. Compito dello Stato è rafforzare le relazioni con i paesi limitrofi in un’ottica di sicurezza regionale e di sovranità alimentare. Ob. 9. Garantire il rispetto dei diritti e della giustizia. Compito dello Stato è rafforzare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nell’amministrazione della giustizia, garantire il rispetto dei diritti e ridurre il senso di insicurezza. Ob. 12. Costruire uno Stato democratico per il buen vivir. Compito dello Stato è rafforzare il proprio ruolo a garanzia di una redistribuzione delle risorse, riconoscere il carattere plurinazionale e interculturale, promuovere il decentramento amministrativo. Indicatori di risultato: - Indice composito di pace positiva (Iep 2013) - Spesa pubblica militare (% Pil; Undp 2010) Indice composito di corruzione (Ti 2013) Fiducia nel governo nazionale (% soddisfatti; Undp 2007-11) Tasso di omicidi (x 100.000; Undp 2004-11) Percezione della sicurezza interna (% sicuri; Undp 2007-11) Indice di produzione alimentare (2004-06=100; Wb 2012) Produzione agricola (% importazioni; Undp 2010) 2.1. Risultanze: Svezia o Costa Rica? L’Indice composito del Buen Vivir è costruito applicando il metodo tassonomico di Wraclaw429. La Tab. 18 riporta la graduatoria dei paesi sulla 9 Il metodo, formulato nel 1952 da un gruppo di matematici dell’università di Wroclaw, Dal Pil al Buen vivir Moreno Zago base dell’indice calcolato sui 40 indicatori. Al vertice si piazzano i paesi nordici (Svezia, Finlandia, Islanda, Norvegia, Danimarca) e quelli di lingua tedesca. I primi paesi latinoamericani sono il Costa Rica, l’Argentina e l’Uruguay, rispettivamente al 19°, 24° e 25° posto. Nelle ultime dieci posizioni si trovano ben sette paesi: Colombia, Bolivia, Venezuela, Perù, Rep. Dominicana, Honduras e a chiudere Haiti, preceduti da Guatemala ed Ecuador. Questi paesi condividono i risultati negativi con Macedonia, Ucraina, Moldavia, Bosnia-Erzegovina. La differenza di valore tra il primo e l’ultimo paese è di appena 0,476 punti. In effetti, sebbene l’ultimo paese (Haiti) abbia un valore prossimo a 1, il valore del paese in testa è di 0,489, ben distante dallo 0 che rappresenta l’insieme dei valori migliori di ciascun indicatore (paese ideale). Ciò significa che i paesi presentano delle performance sostanzialmente differenti alternandosi nelle diverse posizioni nelle graduatorie dei singoli indicatori. La Tab. 20 evidenzia le dimensioni che hanno pesato maggiormente sulla graduatoria complessiva. Questa, infatti, riporta le posizioni raggiunte da ciascun paese all’interno delle quattro dimensioni analizzate: giustizia sociale, economica e intergenerazionale, democratica partecipativa e politica nazionale e transnazionale. Per il Costa Rica, è la giustizia economica e intergenerazionale a incidere sul buon risultato, in particolare le performance ambientali, così come per il Paraguay (1°), Panama (13°), Brasile (15°). In questa dimensione, pur trovandosi tra gli ultimi venti, emergono anche Guatemala (4°) e El Salvador (6°). Particolarmente buono è il risultato concernente la giustizia politica: Uruguay, Argentina, Panama e Brasile si piazzano nei primi venti. Le posizioni degli altri paesi, in particolare di Ecuador e Bolivia, riflettono quelle relative all’interno delle singole dimensioni. Per i paesi europei, pur trovandosi fra i primi venti, il Portogallo scende al 45° posto per quanto concerne la giustizia sociale, mentre risultati che hanno compromesso significativamente la posizione finale, li fanno registrare nella dimensione della giustizia economica e intergeneraziona- le: Lussemburgo (59°), Spagna (50°), Belgio (43°), Irlanda (40°). Anche Italia, Montenegro, Ungheria e Croazia hanno avuto scivolamenti analoghi. Nella dimensione della giustizia politica nazionale e transnazionale, performance negative si hanno per Portogallo (45°) e Slovenia (40°). Non meglio sono andate Italia (48°), Lettonia (47°), Lituania (42°) e Cipro (44°) anche se le posizioni per l’indice complessivo di questi paesi non si trovano nelle prime venti. Da un raffronto con la graduatoria della misura del Pil emergono alcune differenze sostanziali (cfr. Tab. 19). Ben 27 paesi hanno migliorato il piazzamento nella graduatoria dell’Ibv rispetto a quella del Pil: 7 paesi di dieci posizioni ed oltre. In particolare, sono proprio alcuni paesi dell’America Latina a fare il balzo in avanti: Costa Rica e Argentina (+23), Paraguay e Nicaragua (+16), El Salvador (+10). Dei paesi europei solo Albania (+14) e Montenegro (+10) registrano performance così elevate. Ma se c’è qualcuno che sale, ci deve essere necessariamente anche qualcuno che scende: Venezuela (-19), Cile, Perù, Rep. Dominicana (-10), Cuba (-9), Colombia (-7). Questi sono, però, in compagnia di Grecia (-25), Lussemburgo (-15), Italia (-13) e Romania (-11). Dal confronto emerge l’inadeguatezza del Pil a cogliere le sfumature di una qualità della vita fatta di cose non necessariamente legate all’accumulo di ricchezza. L’Indice qui proposto mescola, sulla base di surveys e indicatori internazionali stabili e condivisi, misurazioni oggettive e giudizi di merito (Guardiola, 2011; Pallante, 2009). Questo perché individui soddisfatti tendono a essere anche più produttivi, a vivere più a lungo e a essere cittadini migliori (Helliwell et al., 2012). Tuttavia, l’Indice, come del resto lo stesso Pil, non è in grado di registrare il complesso di fenomeni non market o le differenze regionali ed etniche, così come trascura il ruolo svolto dalle famiglie e dalla solidarietà comunitaria nella produttività, nella formazione del capitale umano, nel sostegno economico ai figli o ai genitori o nell’assorbire l’aumento dei costi dei servizi essenziali. Tuttavia, è importante ribadire che nessun indice sul benessere o sullo sviluppo è perfetto poiché implica la disponibilità e l’affidabilità degli indicatori e riflette la visione delle priorità di chi lo propone che poi orientano le esigenze e le politiche da attuare (Phélan, 2011). L’indice proposto trae origine proprio dalle esigenze e dalle politiche messe in campo da uno dei paesi – l’Ecuador – dove l’approccio del buen vivir 352 individua un paese ideale costituito dall’insieme dei valori standardizzati migliori di ciascun indicatore. Poi, calcola la distanza di ogni paese dal paese ideale e distribuisce il valore nell’intervallo 0-1 dove 0 rappresenta il risultato del vettore riga dei valori migliori degli indicatori (Faenza, Zago, 1992). I pochi valori assenti (2,7%) sono stati sostituiti dalle medie del gruppo regionale o reddituale di appartenenza. 353 Dal Pil al Buen vivir Moreno Zago ha trovato supporto nelle azioni statali e governative improntate a vivere meglio nel segno della giustizia sociale, economica, politica e, soprattutto, ambientale. Il cammino dei paesi latinoamericani si è avviato in tal senso e si è visto che la differenza nei valori dell’Ibv con i paesi europei non è poi così elevata, segno che entrambe le regioni hanno qualcosa da imparare l’una dall’altra. In particolare, è il rapporto con la natura che influisce positivamente sull’indice. L’importanza che il buen vivir assegna all’ambiente, il patto intergenerazionale che obbliga a consegnare alle generazioni future un pianeta migliore di come lo si è ereditato, la costruzione di uno spazio di partecipazione in cui dibattere le problematiche ecologiche sono senza dubbio elementi che suggeriscono un paradigma di sviluppo socio-economico più rispondente ai delicati equilibri naturali del nostro pianeta (Gudynas, 2011) e che evidenziano anche una sensibilità particolare alla sostenibilità made in Latinoamérica (Vanhulst, Beling, 2012). Guardiola J. (2011), ¿Qué aportan los estudios de felicidad al buen vivir, y viceversa?, in Revista de Ciencias Sociales, 1. Gudynas E. (2011), Buen vivir: Today’s tomorrow, in Development, 54(4). Gwartney J. et al. (2012), Economic freedom of the world: 2012 Annual Report, Fraser Institute, in http://www.freetheworld.com. Hamilton K. (1993), Greening the Human Development Index, in Statistics Canada. Helliwell J.F. et al. (eds.) 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The remedies offered by international organizations seek to provide a more realistic measure of the social, political, economic and environmental performance of a Country; however, the composite indexes proposed are mainly the result of a Western conception. The author, after having introduced the main indexes and the results applied to a set of European and Latin American Countries, suggests an index based on the Andean cosmovision of buen vivir which highlights the relationship with the land and the community, the balance with nature and the psychological well-being. Keywords: Gross Domestic Product, Cultural paradigms, Well-being Indexes, Buen vivir Index, International comparison. 357 Dal Pil al Buen vivir Moreno Zago Tab. 1. Il prodotto interno lordo pro capite in $ Usa (2012) Tab. 3. L’Impronta ecologica in ettari globali pro capite (2008) 358 N. 1 2 5 9 10 14 15 16 17 19 20 21 24 25 28 30 32 39 40 42 Paese Lussemb. Norvegia Svizzera Danimarca Svezia Austria Paesi Bassi Irlanda Finlandia Belgio Germania Islanda Francia Regno Un. Italia Spagna Cipro Grecia Slovenia Malta Valore 103.925 99.636 78.928 56.364 55.040 46.822 45.990 45.951 45.723 43.427 42.625 42.339 39.772 38.920 33.837 28.292 26.070 22.456 22.011 20.793 N. 43 44 46 47 48 50 52 54 55 58 59 60 62 63 66 69 71 72 74 76 Paese Portogallo Rep. Ceca Slovacchia Estonia Cile Uruguay Lituania Lettonia Croazia Venezuela Polonia Ungheria Argentina Brasile Turchia Messico Panama Costa Rica Romania Colombia Valore 20.188 18.690 16.856 16.844 15.452 14.703 14.172 13.947 13.879 12.729 12.710 12.560 11.573 11.340 10.666 9.749 9.534 9.386 8.437 7.748 N. 82 83 86 88 93 95 99 101 103 104 109 110 111 112 122 130 132 134 137 162 Paese Monteneg. Bulgaria Perù Bielorussia Cuba Rep. Dom. Ecuador Serbia Macedonia Bosnia-Er. Albania Ucraina Paraguay El Salvad. Guatemala Bolivia Honduras Moldavia Nicaragua Haiti Valore 7.041 6.977 6.796 6.685 6.051 5.746 5.425 5.190 4.565 4.556 4.000 3.867 3.813 3.790 3.331 2.576 2.323 2.038 1.754 771 Fonte: data.worldbank.org. Val. max: 103.925$ (Lussemburgo); val min: 251$ (Burundi) N. 2 40 46 52 56 57 58 63 66 67 71 75 77 78 79 82 84 85 86 90 Paese Norvegia Paesi Bassi Germania Irlanda Svezia Svizzera Islanda Danimarca Belgio Austria Francia Finlandia Slovenia Spagna Italia Regno Un. Lussemb. Rep. Ceca Grecia Cipro Valore 0,955 0,921 0,920 0,916 0,916 0,913 0,906 0,901 0,897 0,895 0,893 0,892 0,892 0,885 0,881 0.875 0,875 0,873 0,860 0,848 N. 32 33 35 37 39 40 41 43 44 45 47 50 51 52 56 57 59 59 61 62 Paese Malta Estonia Slovacchia Ungheria Polonia Cile Lituania Portogallo Lettonia Argentina Croazia Bielorussia Uruguay Monteneg. Romania Bulgaria Cuba Panama Messico Costa Rica Valore 0,847 0,846 0,840 0,831 0,821 0,819 0,818 0,816 0,814 0,811 0,805 0,793 0,792 0,791 0,786 0,782 0,780 0,780 0,775 0,773 N. 64 70 71 77 78 78 81 85 89 90 91 96 107 108 111 113 120 129 133 161 Paese Serbia Albania Venezuela Perù Macedonia Ucraina Bosnia-Er. Brasile Ecuador Turchia Colombia Rep. Dom. El Salvad. Bolivia Paraguay Moldavia Honduras Nicaragua Guatemala Haiti Fonte: hdr.undp.org. Val. max: 0,955 (Norvegia); val min: 0,304 (Niger). Valore 0,598 1,423 1,560 1,733 1,780 1,801 1,812 1,895 1,993 2,030 2,096 2,368 2,520 2,555 2,567 2,606 2,709 2,739 2,837 2,935 N. 91 92 93 95 96 97 98 99 101 102 105 107 110 111 113 115 116 118 120 121 Paese Panama Paraguay Venezuela Ucraina Cile Messico Bulgaria Ungheria Polonia Lettonia Bielorussia Portogallo Croazia Malta Lituania Cipro Italia Germania Slovacchia Regno Un. Valore 2,966 2,995 3,025 3,194 3,238 3,298 3,565 3,591 3,938 3,954 3,988 4,117 4,194 4,255 4,384 4,442 4,525 4,566 4,661 4,713 N. 122 123 124 125 126 127 128 129 130 131 132 134 137 138 139 141 144 147 150 Paese Estonia Spagna Norvegia Francia Grecia Svizzera Uruguay Slovenia Rep. Ceca Austria Macedonia Svezia Finlandia Irlanda Paesi Bassi Islanda Belgio Danimarca Lussemb. Valore 4,735 4,740 4,769 4,911 4,921 5,013 5,079 5,211 5,274 5,291 5,364 5,708 6,211 6,215 6,336 6,539 7,111 8,254 10,724 Fonte: www.footprintnetwork.org. Val. min: 0,540 gha (Afghan.); val min: 11,676 gha (Qatar). Tab. 4. L’Indice della società sostenibile (2012) Tab. 2. L’Indice di sviluppo umano (2012) N. 1 4 5 7 8 9 13 15 17 18 20 21 21 23 25 26 26 28 29 31 Paese Haiti Rep. Dom. Nicaragua Honduras Guatemala Colombia Albania Cuba El Salvad. Perù Moldavia Ecuador Costa Rica Turchia Serbia Bolivia Argentina Bosnia-Er. Romania Brasile 359 Valore 0,769 0,749 0,748 0,741 0,740 0,740 0,735 0,730 0,724 0,722 0,719 0,702 0,680 0,675 0,669 0,660 0,632 0,599 0,581 0,456 N. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 12 13 15 16 17 19 20 21 22 23 24 Paese Svizzera Svezia Austria Lettonia Norvegia Costa Rica Slovenia Finlandia Slovacchia Rep. Dom. Albania Guatemala Italia Lituania Monteneg. Rep. Ceca Argentina Germania Uruguay Croazia Valore 7,36 6,73 6,56 6,46 6,38 6,15 6,12 6,09 6,01 5,77 5,76 5,69 5,69 5,68 5,60 5,57 5,57 5,56 5,56 5,55 N. 25 26 27 28 29 32 33 34 35 37 40 42 43 44 45 46 48 49 50 56 Paese Polonia Honduras Lussemb. Regno Un. Romania Brasile Ecuador Danimarca Colombia Francia Panama Ungheria Messico Paesi Bassi Portogallo Perù Nicaragua Paraguay Bulgaria Spagna Valore 5,54 5,53 5,53 5,52 5,48 5,47 5,47 5,45 5,45 5,38 5,31 5,29 5,27 5,26 5,23 5,23 5,14 5,13 5,13 5,07 N. 61 63 65 66 68 70 74 76 78 80 88 89 92 97 102 108 121 126 132 135 Paese El Salvad. Bolivia Venezuela Estonia Macedonia Bielorussia Moldavia Cuba Belgio Turchia Cile Cipro Islanda Serbia Ucraina Grecia Irlanda Haiti Bosnia-Er. Malta Fonte: www.ssfindex.com. Val. max: 7,36 (Svizzera); val min: 2,96 (Yemen). Valore 5,00 4,98 4,96 4,96 4,94 4,94 4,87 4,83 4,79 4,77 4,68 4,66 4,62 4,50 4,42 4,32 4,16 4,04 3,92 3,87 Dal Pil al Buen vivir Moreno Zago Tab. 5. L’Indice di sostenibilità Feem (2012) Tab. 8. L’Indice di libertà umana (2011) 360 N. 1 2 3 4 5 6 7 10 Paese Svezia Norvegia Svizzera Austria Finlandia Francia Danimarca Benelux Valore 0,625 0,581 0,580 0,560 0,541 0,530 0,504 0,487 N. 11 12 14 15 16 17 20 21 Paese Ue altri Irlanda Regno Un. Germania Eu altri A.L. altri Brasile Italia Valore 0,481 0,479 0,461 0,455 0,449 0,444 0,429 0,426 N. 23 24 25 26 28 29 35 Paese Portogallo Polonia Turchia Spagna Messico Mondo alt. Grecia Valore 0,419 0,413 0,408 0,405 0,380 0,377 0,318 Fonte: www.feemsi.org. Val. max: 0,625 (Svezia); val min: 0,281 (India). Tab. 6. L’Indice multidimensionale di povertà (vari anni) N. 1 1 1 7 7 10 13 13 13 17 Paese Slovenia Slovacchia Bielorussia Serbia Bosnia-Er. Albania Lettonia Uruguay Monteneg. Moldavia Valore 0,000 0,000 0,000 0,003 0,003 0,005 0,006 0,006 0,006 0,007 N. 18 18 22 23 25 25 27 28 28 31 Paese Ucraina Macedonia Ecuador Rep. Ceca Argentina Brasile Messico Ungheria Croazia Rep. Dom. Valore 0,008 0,008 0,009 0,010 0,011 0,011 0,015 0,016 0,016 0,018 N. 38 41 42 49 51 54 57 58 64 78 Paese Colombia Estonia Turchia Paraguay Perù Bolivia Guatemala Nicaragua Honduras Haiti Valore 0,022 0,026 0,028 0,064 0,066 0,089 0,127 0,128 0,159 0,299 Fonte: hdr.undp.org. Val. max: 0,000 (Slovenia et al.); val min: 0,642 (Niger). Tab. 7. L’Indice di disparità di genere (2013) N. 1 2 3 4 6 8 9 10 11 12 13 14 15 18 19 21 25 27 28 30 Paese Islanda Finlandia Norvegia Svezia Irlanda Danimarca Svizzera Nicaragua Belgio Lettonia Paesi Bassi Germania Cuba Regno Un. Austria Lussemb. Ecuador Bolivia Lituania Spagna Valore 0,8731 0,8421 0,8417 0,8129 0,7823 0,7779 0,7736 0,7715 0,7684 0,7610 0,7608 0,7583 0,7540 0,7440 0,7437 0,7410 0,7389 0,7340 0,7308 0,7266 N. 31 34 35 37 38 42 43 45 49 50 51 52 54 57 59 62 64 68 70 71 Paese Costa Rica Argentina Colombia Panama Slovenia Serbia Bulgaria Francia Croazia Venezuela Portogallo Moldavia Polonia Macedonia Estonia Brasile Ucraina Messico Romania Italia Valore 0,7241 0,7195 0,7171 0,7164 0,7155 0,7116 0,7097 0,7089 0,7069 0,7060 0,7056 0,7037 0,7031 0,7013 0,6997 0,6949 0,6935 0,6917 0,6908 0,6885 N. 72 74 77 79 80 81 85 83 84 87 89 91 96 114 120 Paese Rep. Dom. Slovacchia Uruguay Cipro Perù Grecia Honduras Rep. Ceca Malta Ungheria Paraguay Cile El Salvad. Guatemala Turchia Fonte: www.weforum.org. Val. max: 0,8731 (Islanda); val min: 0,5128 (Yemen). Valore 0,6867 0,6857 0,6803 0,6801 0,6787 0,6782 0,6773 0,6770 0,6761 0,6742 0,6724 0,6670 0,6609 0,6304 0,6081 N. 2 6 8 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 27 Paese Paesi Bassi Irlanda Danimarca Estonia Svizzera Norvegia Finlandia Austria Lussemb. Cile Islanda Regno Un. Slovacchia Costa Rica El Salvad. Uruguay Spagna Albania Portogallo Malta Valore 8,47 8,33 8,30 8,28 8,26 8,26 8,16 8,13 8,12 8,12 8,10 8,08 8,07 8,05 8,04 8,03 8,00 7,98 7,97 7,94 N. 28 29 31 32 33 34 35 36 37 38 40 41 42 43 45 48 50 51 52 53 Paese Panama Svezia Ungheria Belgio Francia Rep. Ceca Germania Guatemala Polonia Perù Italia Lituania Bulgaria Slovenia Cipro Lettonia Brasile Haiti Honduras Nicaragua Valore 7,92 7,91 7,87 7,83 7,78 7,78 7,75 7,73 7,73 7,68 7,62 7,61 7,60 7,56 7,53 7,44 7,35 7,34 7,31 7,30 361 N. 54 56 57 64 65 66 68 72 73 79 81 83 109 Paese Paraguay Argentina Croazia Bolivia Grecia Romania Messico Rep. Dom. Ecuador Ucraina Colombia Turchia Venezuela Valore 7,27 7,22 7,20 7,07 7,03 7,03 7,00 6,84 6,80 6,49 6,41 6,37 5,42 Fonte: www.freetheworld.com. Val. max: 8,73 (Nuova Zelanda); val min: 3,38 (Zimbabwe). Tab. 9. L’Indice di libertà di stampa (2014) N. 1 2 3 4 7 8 10 11 12 13 14 15 16 19 20 21 23 25 26 30 Paese Finlandia Paesi Bassi Norvegia Lussemb. Danimarca Islanda Svezia Estonia Austria Rep. Ceca Germania Svizzera Irlanda Polonia Slovacchia Costa Rica Belgio Cipro Uruguay Portogallo Valore 6.40 6.46 6.52 6.70 7.43 8.50 8.98 9.63 10.01 10.07 10.23 10.47 10.87 11.03 11.39 12.23 12.80 14.45 16.08 17.73 N. 32 33 34 35 37 38 39 45 47 49 51 54 55 56 58 64 65 66 68 71 Paese Lituania Regno Un. Slovenia Spagna Lettonia El Salvad. Francia Romania Haiti Italia Malta Serbia Argentina Moldavia Cile Ungheria Croazia Bosnia-Er. Rep. Dom. Nicaragua Valore 19.20 19.93 20.38 20.63 21.10 21.57 21.89 23.48 23.53 23.75 23.84 25.05 25.27 25.35 25.80 26.73 26.82 26.86 27.17 27.70 N. 85 87 94 95 99 100 104 105 111 114 116 123 125 126 127 129 152 154 157 170 Paese Albania Panama Bolivia Ecuador Grecia Bulgaria Perù Paraguay Brasile Monteneg. Venezuela Macedonia Guatemala Colombia Ucraina Honduras Messico Turchia Bielorussia Cuba Fonte: en.rsf.org. Val. min: 6,38 (Finlandia); val max: 84,83 (Eritrea). Valore 29.92 30.20 31.04 31.16 31.33 31.42 31.70 31.81 34.03 34.78 35.37 36.43 36.61 36.68 36.93 37.14 45.04 45.87 47.82 70.92 Dal Pil al Buen vivir Moreno Zago Tab. 10. L’Indice di prosperità (2013) Tab. 12. L’Indice di management (2014) 362 N. 1 2 4 6 8 9 10 12 13 14 15 16 17 20 23 24 25 27 29 30 Paese Norvegia Svizzera Svezia Danimarca Finlandia Paesi Bassi Lussemb. Irlanda Islanda Germania Austria Regno Un. Belgio Francia Spagna Slovenia Malta Portogallo Rep. Ceca Uruguay Valore - N. 31 32 34 35 36 37 38 40 41 43 45 46 48 49 53 54 55 58 59 64 Paese Costa Rica Italia Polonia Cile Estonia Cipro Slovacchia Panama Ungheria Lituana Argentina Brasile Lettonia Bulgaria Croazia Grecia Romania Bielorussia Messico Ucraina Valore - N. 67 68 70 71 73 74 75 76 78 79 83 85 86 87 89 90 96 97 134 Paese Colombia Paraguay Rep. Dom. Monteneg. Nicaragua Ecuador Perù Serbia Venezuela Macedonia Albania El Salvad. Bolivia Turchia Moldavia Guatemala Honduras Bosnia-Er. Haiti Valore - Fonte: www.prosperity.com. Pos. min: 1 (Norvegia); pos. max: 142 (Ciad). Tab. 11. L’Indice di status (2014) N. 2 3 4 5 6 7 8 9 10 12 13 14 16 17 Paese Rep. Ceca Estonia Uruguay Polonia Slovenia Lituania Cile Slovacchia Costa Rica Lettonia Croazia Bulgaria Ungheria Brasile Valore 9,51 9,42 9,33 9,16 9,11 8,98 8,82 8,79 8,74 8,41 8,17 8,14 8,05 8,02 N. 19 20 20 22 25 27 31 32 33 34 37 38 39 41 Paese Romania Serbia Turchia Monteneg. El Salvad. Macedonia Panama Perù Messico Argentina Colombia Albania Bolivia Bosnia-Er. Valore 7,90 7,51 7,51 7,50 7,20 7,17 7,07 7,04 6,85 6,76 6,56 6,55 6,50 6,37 N. 43 45 50 55 57 65 67 79 93 101 104 114 Paese Rep. Dom. Moldavia Paraguay Honduras Ucraina Ecuador Nicaragua Guatemala Venezuela Bielorussia Cuba Haiti Fonte: www.bti-project.org. Val. max: 9,58 (Taiwan); val min: 1,32 (Somalia). Valore 6,35 6,33 6,13 5,95 5,89 5,62 5,57 5,15 4,60 4,31 4,13 3,58 N. 2 3 4 5 6 7 8 11 12 13 14 17 18 19 Paese Uruguay Brasile Estonia Cile Polonia Slovacchia Lituania El Salvad. Lettonia Costa Rica Turchia Rep. Ceca Croazia Monteneg. Valore 7,46 7,30 7,26 7,22 7,21 7,09 7,08 6,87 6,82 6,76 6,66 6,57 6,46 6,42 N. 21 21 28 29 36 37 39 42 45 47 47 51 52 54 Paese Slovenia Bulgaria Serbia Macedonia Perù Colombia Romania Paraguay Messico Moldavia Honduras Rep. Dom. Panama Bolivia Valore 6,30 6,30 6,13 6,12 5,94 5,88 5,80 5,75 5,61 5,52 5,52 5,41 5,40 5,34 363 N. 57 63 65 69 69 79 87 100 108 111 119 121 Paese Albania Argentina Ungheria Nicaragua Guatemala Ecuador Ucraina Bosnia-Er. Cuba Haiti Bielorussa Venezuela Valore 5,17 4,99 4,96 4,84 4,84 4,55 4,25 3,95 3,65 3,53 2,75 2,52 Fonte: www.bti-project.org. Val. max: 7,68 (Taiwan); val min: 1,34 (Eritrea). Tab. 13. L’Indice di percezione della corruzione (2013) N. 1 3 3 5 7 8 11 12 12 14 15 19 21 22 22 26 28 31 33 38 Paese Danimarca Finlandia Svezia Norvegia Svizzera Paesi Bassi Lussemb. Germania Islanda Regno Un. Belgio Uruguay Irlanda Cile Francia Austria Estonia Cipro Portogallo Polonia Valore 91 89 89 86 85 83 80 78 78 76 75 73 72 71 71 69 68 63 62 60 N. 40 43 43 45 47 49 49 53 57 57 61 63 67 67 69 69 72 72 72 77 Paese Spagna Lituania Slovenia Malta Ungheria Costa Rica Lettonia Turchia Croazia Rep. Ceca Slovacchia Cuba Macedonia Monteneg. Italia Romania Bosnia-Er. Brasile Serbia Bulgaria Valore 59 57 57 56 54 53 53 50 48 48 47 46 44 44 43 43 42 42 42 41 N. 80 83 83 94 102 102 102 106 106 106 116 123 123 123 127 140 144 150 160 163 Paese Grecia El Salvad. Perù Colombia Ecuador Moldavia Panama Argentina Bolivia Messico Albania Bielorussia Rep. Dom. Guatemala Nicaragua Honduras Ucraina Paraguay Venezuela Haiti Fonte: www.transparency.org. Val. max: 91 (Danimarca); val min: 8 (Somalia). Valore 40 38 38 36 35 35 35 34 34 34 31 29 29 29 28 26 25 24 20 19 Dal Pil al Buen vivir 364 Moreno Zago Tab. 14. L’Indice di pace globale (2013) N. 1 2 4 5 7 9 10 11 12 13 14 15 18 22 23 24 25 27 28 30 Paese Islanda Danimarca Austria Svizzera Finlandia Svezia Belgio Norvegia Irlanda Slovenia Rep. Ceca Germania Portogallo Paesi Bassi Ungheria Uruguay Polonia Spagna Croazia Romania Valore 1.162 1.207 1.250 1.272 1.297 1.319 1.339 1.359 1.370 1.374 1.404 1.431 1.467 1.508 1.520 1.528 1.530 1.563 1.571 1.584 N. 31 33 35 34 38 40 41 43 44 49 53 56 60 62 65 66 68 69 71 73 Paese Cile Slovacchia Italia Bulgaria Estonia Costa Rica Lettonia Lituania Regno Un. Cipro Francia Panama Argentina Serbia Cuba Nicaragua Grecia Albania Bosnia-Er. Monteneg. Valore 1.589 1.622 1.663 1.663 1.710 1.755 1.772 1.784 1.787 1.840 1.863 1.893 1.907 1.912 1.922 1.931 1.957 1.961 1.967 1.976 N. 74 79 81 83 84 86 92 94 96 109 111 112 113 123 128 133 134 147 Paese Moldavia Macedonia Brasile Ecuador Paraguay Bolivia Haiti Rep. Dom. Bielorussia Guatemala Ucraina El Salvad. Perù Honduras Venezuela Messico Turchia Colombia Tab. 16. L’Indice di felicità (2010-12) Valore 1.984 2.044 2.051 2.059 2.060 2.062 2.075 2.103 2.117 2.221 2.238 2.240 2.258 2.332 2.370 2.434 2.437 2.634 Fonte: www.economicsandpeace.org. Val. min: 1.162 (Islanda); val max: 3.440 (Afghanistan). N. 1 2 3 4 5 7 8 9 12 15 16 18 19 20 21 22 24 25 26 28 Paese Danimarca Norvegia Svizzera Paesi Bassi Svezia Finlandia Austria Islanda Costa Rica Panama Messico Irlanda Lussemb. Venezuela Belgio Regno Un. Brasile Francia Germania Cile Paese Danimarca Norvegia Finlandia Svizzera Paesi Bassi Svezia Islanda Austria Irlanda Germania Belgio Regno Un. Francia Slovenia Portogallo Rep. Ceca Estonia Spagna Cile Italia Valore 1,25 1,28 1,30 1,32 1,35 1,37 1,46 1,50 1,54 1,59 1,65 1,67 1,82 1,87 1,87 1,91 1,91 1,97 2,06 2,13 N. 28 29 30 31 32 33 34 39 40 42 44 48 49 50 52 54 56 57 59 66 Paese Polonia Lituania Cipro Ungheria Uruguay Grecia Lettonia Bulgaria Croazia Romania Panama El Salvad. Argentina Macedonia Albania Brasile Messico Perù Rep. Dom. Moldavia Valore 2,14 2,14 2,15 2,16 2,18 2,23 2,25 2,49 2,51 2,58 2,68 2,73 2,73 2,75 2,81 2,84 2,87 2,91 2,92 3,03 N. 67 68 72 73 74 75 76 84 87 96 101 117 Paese Colombia Turchia Ucraina Guatemala Paraguay Nicaragua Honduras Ecuador Bolivia Bielorussia Venezuela Haiti Valore 3,04 3,04 3,10 3,11 3,12 3,13 3,16 3,26 3,28 3,40 3,42 3,73 Fonte: www.economicsandpeace.org. Val. min: 1,25 (Danimarca); val max: 4,27 (Congo). Valore 7,693 7,655 7,650 7,512 7,480 7,389 7,369 7,355 7,257 7,143 7,088 7,076 7,054 7,039 6,967 6,883 6,849 6,764 6,672 6,587 N. 29 34 35 37 38 39 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 58 62 Paese Argentina Cipro Colombia Uruguay Spagna Rep. Ceca Slovenia Italia Slovacchia Guatemala Malta Ecuador Bolivia Polonia El Salvad. Moldavia Paraguay Perù Croazia Albania Valore 6,562 6,466 6,416 6,355 6,322 6,290 6,060 6,021 5,969 5,965 5,964 5,865 5,857 5,822 5,809 5,791 5,779 5,776 5,661 5,550 N. 65 66 70 71 72 77 80 84 85 87 88 90 95 106 107 110 118 126 144 Paese Nicaragua Bielorussia Grecia Lituania Estonia Turchia Monteneg. Honduras Portogallo Ucraina Lettonia Romania Rep, Dom. Serbia Bosnia-Er. Ungheria Macedonia Haiti Bulgaria Valore 5,507 5,504 5,435 5,426 5,426 5,345 5,299 5,142 5,101 5,057 5,046 5,033 4,963 4,813 4,813 4,775 4,574 4,341 3,981 Fonte: unsdsn.org. Val. max: 7,693 (Danimarca); val min: 2,936 (Togo). Tab. 15. L’Indice di pace positiva (2013) N. 1 2 3 4 5 6 7 8 11 13 14 15 18 20 21 22 23 24 25 27 365 Tab. 17. L’Indice del pianeta felice (2012) N. 1 3 5 7 8 9 10 12 13 17 18 19 21 22 23 24 29 33 34 40 Paese Costa Rica Colombia El Salvad. Panama Nicaragua Venezuela Guatemala Cuba Honduras Argentina Albania Cile Brasile Messico Ecuador Perù Norvegia Rep. Dom. Svizzera Moldavia Valore 64,0 59,8 58,9 57,8 57,1 56,9 56,9 56,2 56,0 54,1 54,1 53,9 52,9 52,9 52,5 52,4 51,4 50,7 50,3 48,0 N. 41 44 46 48 50 51 52 57 59 62 64 66 67 70 71 73 74 75 78 79 Paese Regno Un. Turchia Germania Austria Francia Italia Svezia Paraguay Cipro Spagna Bolivia Malta Paesi Bassi Finlandia Polonia Irlanda Bosnia-Er. Romania Haiti Serbia Valore 47,9 47,6 47,2 47,1 46,5 46,4 46,2 45,8 45,5 44,1 43,6 43,1 43,1 42,7 42,6 42,4 42,4 42,2 41,3 41,3 N. 82 83 87 88 89 92 93 97 100 103 104 107 110 117 118 120 123 138 140 Paese Croazia Grecia Slovenia Islanda Slovacchia Rep. Ceca Uruguay Portogallo Ucraina Bielorussia Ungheria Belgio Danimarca Estonia Lettonia Lituania Bulgaria Lussemb. Macedonia Valore 40,6 40,5 40,2 40,2 40,1 39,4 39,3 38,7 37,6 37,4 37,4 37,1 36,6 34,9 34,9 34,6 34,1 29,0 28,3 Fonte: www.happyplanetindex.org. Val. max: 64,0 (Costa Rica); val min: 22,6 (Botswana). Dal Pil al Buen vivir 366 Moreno Zago Tab. 18. Indice del Buen Vivir (2012) N. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 Paese Svezia Finlandia Svizzera Islanda Norvegia Austria Danimarca Paesi Bassi Germania Regno Un. Francia Irlanda Belgio Slovenia Portogallo Lussemb. Malta Estonia Costa Rica Spagna Valore 0,489 0,526 0,527 0,533 0,538 0,543 0,557 0,567 0,588 0,618 0,640 0,641 0,642 0,672 0,677 0,687 0,691 0,696 0,698 0,699 N. 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 Paese Rep. Ceca Cipro Polonia Argentina Uruguay Slovacchia Lettonia Italia Lituania Panama Monteneg. Ungheria Messico Brasile Croazia Albania Bielorussia Paraguay Cile Cuba Valore 0,702 0,718 0,719 0,730 0,737 0,744 0,750 0,754 0,763 0,771 0,773 0,775 0,790 0,791 0,793 0,804 0,809 0,810 0,814 0,823 N. 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 Paese Bulgaria Nicaragua El Salvad. Serbia Romania Grecia Turchia Guatemala Ecuador Colombia Macedonia Ucraina Bolivia Venezuela Perù Moldavia Bosnia-Er. Rep. Dom. Honduras Haiti Valore 0,826 0,827 0,833 0,838 0,847 0,855 0,861 0,867 0,869 0,870 0,871 0,872 0,879 0,880 0,881 0,882 0,885 0,887 0,903 0,965 Tab. 19. Differenza in graduatoria tra il Pil $ pc PPP e l’Indice del Buen Vivir (2012) N. 1 1 3 3 5 6 6 8 9 9 11 11 11 14 14 14 17 17 19 20 Paese Costa Rica Argentina Paraguay Nicaragua Albania Monteneg. El Salvad. Finlandia Islanda Uruguay Portogallo Panama Guatemala Svezia Estonia Brasile Slovenia Messico Regno Un. Polonia Valore 23 23 16 16 14 10 10 9 8 8 7 7 7 6 6 6 5 5 4 3 N. 20 20 23 23 25 25 25 28 28 28 28 28 33 33 35 35 35 35 39 39 Paese Bolivia Moldavia Francia Serbia Danimarca Malta Lettonia Svizzera Germania Ecuador Ucraina Haiti Rep. Ceca Bielorussia Austria Paesi Bassi Bulgaria Honduras Norvegia Belgio Valore 3 3 2 2 1 1 1 0 0 0 0 0 -1 -1 -2 -2 -2 -2 -3 -3 N. 39 42 42 44 44 44 47 48 48 48 51 52 52 52 55 56 57 57 59 60 Paese Slovacchia Spagna Lituania Cipro Ungheria Croazia Bosnia-Er. Irlanda Colombia Macedonia Cuba Cile Perù Rep. Dom. Romania Italia Lussemb. Turchia Venezuela Grecia Valore -3 -4 -4 -5 -5 -5 -6 -7 -7 -7 -9 -10 -10 -10 -11 -13 -15 -15 -19 -25 Nota: Un valore positivo indica una posizione nella graduatoria dell’Indice del Buen Vivir migliore rispetto a quella nella graduatoria del Prodotto interno lordo. 367 Tab. 20. Posizione nelle graduatorie delle dimensioni rispetto all’IBV (2012) N. Paese 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 Svezia Finlandia Svizzera Islanda Norvegia Austria Danimarka Paesi Bassi Germania Regno Un. Francia Irlanda Belgio Slovenia Portogallo Lussemb. Malta Estonia Costa Rica Spagna N. Paese 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 Bulgaria Nicaragua El Salvador Serbia Romania Grecia Turchia Guatemala Ecuador Colombia Macedonia Ucraina Bolivia Venezuela Perù Moldavia Bosnia-Er. Rep. Dom. Honduras Haiti I 3 6 5 10 2 7 1 4 9 20 13 12 8 11 45 15 24 18 41 16 Dimensioni II III 5 2 18 1 12 4 2 12 8 13 9 6 32 3 25 5 14 7 24 11 21 20 40 14 43 9 19 17 20 10 59 8 26 22 29 15 3 36 50 19 IV 5 8 1 11 3 6 13 2 4 16 18 9 24 40 45 7 14 12 27 23 I 37 58 53 30 36 32 56 59 50 52 47 34 42 49 48 35 46 55 57 60 Dimensioni II III 37 28 10 56 6 43 57 32 31 42 56 33 45 58 4 54 51 49 48 52 58 39 47 41 52 55 46 50 33 51 55 47 60 45 34 46 11 53 53 59 IV 37 34 57 43 51 55 17 50 52 56 38 54 33 58 39 59 49 41 60 53 N. Paese 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 Rep. Ceca Cipro Polonia Argentina Uruguay Slovacchia Lettonia Italia Lituania Panama Monteneg. Ungheria Messico Brasile Croazia Albania Bielorussia Paraguay Cile Cuba I 14 22 29 38 44 19 26 25 27 40 23 21 43 54 31 33 28 51 39 17 II 28 17 36 27 22 30 7 41 23 13 42 49 38 15 54 16 39 1 44 35 Dimensioni III IV 18 31 16 25 27 24 26 23 21 38 34 30 37 48 29 44 35 57 40 60 32 44 22 15 10 31 47 48 42 19 35 29 30 20 28 46 21 26 25 36 Legenda: Le quattro dimensioni sono: I. Giustizia sociale; II. Giustizia economica e intergenerazionale; III. Giustizia democratica partecipativa; IV. Giustizia politica nazionale e transnazionale. Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita): si possono misurare? di Giovanni Delli Zotti43* SOMMARIO: 1. Misurare la felicità? – 2. Felicità e soddisfazione per la vita: sono la stessa cosa? – 3. Quanto si è felici? – 4. Chi è felice? – 5. Perché si è felici? – 6. Cosa è importante nella vita? – 7. Geografia della felicità. 1. Misurare la felicità? La prima edizione di un bel libro dedicato ai sondaggi (Pitrone, 1984) ospita in copertina una vignetta dove è raffigurata, seduta sui gradini dell’ingresso di una tipica casa inglese, una donna con le calze allentate. Intorno alla donna un paio di marmocchi con il moccio al naso, da una parte un secchio nel quale è infilato uno spazzolone, mentre di fronte, brandendo questionario e matita appuntita, si erge, con un piede appoggiato sul primo scalino, un ragazzotto azzimato che, come si legge nel fumetto, chiede alla donna: «Lei attualmente si sente molto, abbastanza, poco o per nulla felice?». Quell’immagine fa ovviamente sorridere ma, allo stesso tempo, fa riflettere su alcune questioni assolutamente centrali. Tra esse, certamente l’argomento dell’intrusività (a volte) della ricerca sociale, ma anche un aspetto più tecnico-metodologico. Ci si può infatti legittimamente chiedere se abbia senso porre una domanda diretta su un aspetto così personale e centrale nella vita di ognuno (peraltro, la stessa Pitrone ha affrontato recentemente la questione in un volume dedicato a La sfida della misurazione nelle scienze sociali: grandezze e proprietà osservabili ma non “misurabili”, 2012). La felicità, infatti, appartiene a pieno titolo alla categoria delle pro* Professore ordinario di Sociologia generale nell’Università di Trieste. Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita) Giovanni Delli Zotti prietà che magari sono anche osservabili, si dice non a caso che una faccia “sprizza felicità”, ma proporsi di misurarla appare una sorta di mission impossible. Ciò nonostante, nelle più importanti ricerche comparate e longitudinali in ambito sociologico i questionari affrontano il tema e, più spesso di quanto si pensi, pongono la domanda formulandola proprio come fa l’ineffabile intervistatore della citata vignetta. Così è, ad esempio, per il questionario del World Values Survey (Wvs), nel quale la domanda è posta in questi termini: «Tutto considerato, Lei direbbe che è: molto/abbastanza/non molto/per nulla felice?» Simile è la formulazione nel questionario dell’European Social Survey (Ess): «Tutto sommato, quanto direbbe che è felice?», dove le risposte vengono registrate su una scala auto-ancorante a 11 posizioni (da 0 estremamente infelice a 10 estremamente felice). Notiamo, di passaggio, che la prima formulazione consente di dicotomizzare il campione di intervistati in più o meno felici e più o meno infelici, ma ciò non è possibile utilizzando la seconda scala, perché prevede un numero dispari di modalità di risposta. In entrambe le rilevazioni, il questionario utilizza una seconda domanda, similmente generalista, che sembra quasi andare a cercare il motivo dell’asserita felicità/infelicità. Nel questionario del Wvs si chiede: «Tutto sommato, Lei è soddisfatto o insoddisfatto della vita che fa ora? Usando questa scala sulla quale 1 significa che Lei è completamente insoddisfatto e 10 significa che Lei è completamente soddisfatto, a quale livello si colloca la Sua soddisfazione nei confronti della vita nel suo complesso?». Nel questionario dell’Ess la domanda è uguale nella formulazione ma, come per la domanda sulla felicità, le risposte vengono registrate su una scala a 11 posizioni, che non consente pertanto di dicotomizzare il campione. Quest’ultima domanda, proposta da Cantril nel 1965, si può definire “scala” più appropriatamente di altre, perché la formulazione evoca esplicitamente questa metafora: «La prego di immaginare una scala con gradini numerati da 0 nella parte inferiore a 10 nella parte superiore. La parte superiore della scala rappresenta la vita migliore possibile per Lei e la parte inferiore della scala rappresenta la vita peggiore possibile per Lei. Su quale gradino della scala pensa di trovarsi personalmente in questo momento?». La domanda con riferimento alla situazione attuale (scala-presente) viene poi ripetuta chiedendo dove l’intervistato pensa che si collocherà tra circa cinque anni (scala-futuro) ed entrambe sono utilizzate, ad esempio, dalla società Gallup in molte indagini, compreso il Gallup’s World Poll, realizzato in più di 150 paesi che rappresentano oltre il 98% della popolazione mondiale. Con scale come quella di Cantril, per effettuare le comparazioni si usano i punteggi medi oppure le complete distribuzioni, ma può essere ancora più utile categorizzare le risposte. Gallup, per evitare di combinare arbitrariamente i punti della scala, lo fa su base empirica, utilizzando i dati del citato Gallup’s World Poll e del Gallup-Healthways Well-Being Index, un sondaggio effettuato quotidianamente negli Stati Uniti. Ai fini della categorizzazione sono state combinate le valutazioni relative al presente e al futuro sulla base di analisi statistiche le quali mostrano, essendo fortemente correlate, che le due variabili misurano una stessa dimensione del benessere e formano una scala attendibile e indipendente rispetto ad altri specifici aspetti del benessere soggettivo, legati al vivere quotidiano e alle condizioni di salute. Le scale sono state combinate in un Life Evaluation Well-Being Index e, dopo aver individuato i punti di taglio appropriati, sono stati formati tre gruppi di intervistati: - I fiorenti sono caratterizzati da un benessere forte, coerente e in aumento, e valutano positivamente la loro attuale situazione di vita (7+) e quella dei prossimi cinque anni (8+). Dichiarano inoltre significativamente meno problemi di salute, meno giorni di malattia, meno preoccupazione, stress, tristezza, rabbia, e più felicità, divertimento, partecipazione e considerazione sociale. - I combattenti sono caratterizzati da un benessere moderato, apprezzano moderatamente la loro attuale situazione di vita e vedono in modo moderatamente positivo o negativo il loro futuro. Lottano nel presente, o si aspettano di lottare in futuro e riferiscono più stress quotidiano e preoccupazione per le finanze e, rispetto ai fiorenti, dichiarano più del doppio di giorni di malattia. - Per i sofferenti il benessere è ad alto rischio perché forniscono valutazioni basse della loro situazione attuale e fanno previsioni pessimistiche sul loro futuro a cinque anni (quattro punti o meno su entrambe le scale). Sono più propensi a riferire che mancano loro le condizioni di base quanto a cibo e situazione abitativa e vivono condizioni di dolore fisico, stress, preoccupazione, tristezza e rabbia. Hanno meno accesso all’assicurazione sanitaria e all’assistenza, e più del doppio di malattie, rispetto agli intervistati fiorenti (Gallup, 2014). 370 371 Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita) Giovanni Delli Zotti Le elaborazioni della Gallup mostrerebbero che la percentuale degli intervistati che rientrano in ciascuna categoria è correlata con altre caratteristiche a livello di paese e ciò, come cercheremo di documentare anche nel resto del presente lavoro, fornirebbe la prova della validità di costrutto delle categorie (Gallup, 2009). Presentati gli strumenti più frequentemente usati per misurare la felicità e/o la soddisfazione per la propria vita, in questa sede ci ripromettiamo, tra l’altro, proprio di effettuare una verifica su questo aspetto, e cioè innanzitutto, sul legame tra i diversi aspetti del benessere soggettivamente percepito e poi, verso la fine del lavoro, tra queste percezioni soggettive e le condizioni materiali della vita degli intervistati e del contesto nel quale vivono. Likert e quelle sulla soddisfazione per la propria vita nella forma della scala auto-ancorante. 2. Felicità e soddisfazione per la vita: sono la stessa cosa? C’è però un’altra differenza importante da notare; mentre il Wvs comprende paesi di tutto il mondo, l’Ess comprende solo paesi europei. Dunque, potrebbe darsi che le due variabili siano più connesse nell’area culturale europea e lo siano meno se si allarga la rilevazione ad altre aree del mondo. Per verificare se questa ipotesi abbia qualche fondamento, si deve tornare al più ampio Wvs e disaggregare i coefficienti di correlazione a seconda del paese nel quale è stata fatta la rilevazione (nel caso dei paesi che hanno partecipato a più di una ondata, è stata utilizzata solo l’ultima rilevazione). I risultati sono assolutamente espliciti: la minima correlazione tra grado di felicità dichiarata e soddisfazione per la vita è stata registrata in Tanzania nel 2001 (-0,074); altri 33 paesi registrano correlazioni al di sotto del valore di .40 e tra questi c’è solo un paese europeo, ma appartenente all’area dell’ex Urss (Moldavia, 2006). Dall’altro lato della lista dei 97 paesi, ordinati secondo il valore crescente del coefficiente, si collocano 29 paesi con una correlazione superiore a 0,50, fino ad un massimo di 0,67 registrato in Olanda nel 2012. Tra questi paesi, nei quali la correlazione è relativamente elevata, solo pochi sono quelli extraeuropei: l’Iraq, che nel 2012 registra il valore di 0,64 e, con valori di poco superiori a 0,50, India (2006), Etiopia (2007), Sud Africa (2006) e Argentina (2006)452. 372 Dunque, se si è felici, ci sarà un motivo, e il motivo più generale che viene è in mente è: si è felici perché si è soddisfatti per la propria vita. Ammesso che chi ha in qualche misura duplicato la domanda abbia ipotizzato una relazione di causa-effetto, siamo ben lontani da un qualsiasi tipo di spiegazione con questa (in)soddisfazione per la vita che provoca (in)felicità. Si può intanto cercare di verificare quanto sia fondato il sospetto che, forse per ragioni di controllo, si sia in pratica riproposta la stessa domanda in due forme diverse. Se così fosse, la correlazione tra le due variabili dovrebbe essere molto elevata, ma i dati mostrano che la correlazione, calcolata usando i dati del Wvs, è pari solo a 0,4741 per l’intero campione, costituito da oltre 320.000 intervistati, con variazioni non molto elevate se il dato generale si scorpora a seconda del periodo in cui è stata effettuata la rilevazione. La correlazione è invece molto più elevata (0,71) se calcolata con i dati dell’Ess, anche se va considerato che ciò può dipendere dal semplice fatto tecnico che nell’Ess la chiusura delle due domande è la stessa (entrambe sono scale a 11 posizioni) e, invece, nel caso del Wvs, le risposte alla domanda sulla felicità sono in forma di scala 373 Tab. 1. Coefficienti di correlazione tra diverse misure di soddisfazione soggettiva Felicità Sentimento di felicità Stato di salute (soggettivo) - Salute 0,373 Vita -0,473 Finanze -0,343 0,373 - -0,303 -0,254 Soddisfazione per la pro-0,473 -0,303 0,565 pria vita Soddisfazione per la situa-0,343 -0,254 0,565 zione finanziaria Per tutti i coefficienti la correlazione è significativa al livello 0,001 (2-code). 1 Alcuni coefficienti sono negativi perché nella codifica delle risposte, in genere, valori più elevati indicano crescente soddisfazione ma, nel caso della domanda sulla felicità, la risposta molto è codificata con il valore 1. 2 Un coefficiente di correlazione elevato testimonia della forza della relazione tra le variabili e non dice nulla, invece, quanto ai livelli di felicità e di soddisfazione (la correlazione Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita) Giovanni Delli Zotti In ogni caso, in generale, le correlazioni sono forse meno elevate di quanto fosse lecito attendersi e, dunque, si può ritenere che le due domande non rilevino la stessa caratteristica: si può essere più o meno soddisfatti della propria vita, ma non necessariamente felici in uguale misura. Si può provare a controllare questa affermazione calcolando i punteggi medi nelle due scale e, ripromettendoci di approfondire nel seguito questo aspetto (§ 5), lo facciamo utilizzando i dati dell’Ess. Dai dati si vede che, sulla scala da 0 a 11, mediamente gli europei sono un po’ più felici (7,11) che soddisfatti (6,76) e anche la deviazione standard delle risposte è un po’ più elevata per la soddisfazione (2,41) che per la felicità (2,10). Considerando le altre correlazioni esposte nella Tab. 1, secondo Deaton (2008), le ricerche condotte in paesi di tutto il mondo indicano correlazioni significative tra la scala di Cantril e il reddito e in ciò, la scala si differenzia da altre misure di valutazione delle proprie condizioni di vita che sembrano essere più strettamente correlate con variabili come il tempo sociale (Harter, Arora, 2008). Anche i dati del Wvs confermano l’esistenza della correlazione tra benessere economico (dichiarato) e felicità, ma la relazione è alquanto più bassa (0,34), rispetto a quella con la soddisfazione per la propria vita (0,57): dunque, i soldi non fanno (necessariamente) la felicità, ma certamente rendono la vita maggiormente apprezzabile. Per completare il commento alla Tab. 1, osserviamo che il giudizio soggettivo sulle proprie condizioni di salute ha ovviamente una debole relazione con quello sulla situazione finanziaria, ma mostra una discreta correlazione con la felicità e il benessere percepito (la buona salute forse da sola non basta, ma certamente aiuta ad apprezzare la vita). oltre 320.000 interviste effettuate nel corso di più di trent’anni, suddivise in periodi di rilevazione che corrispondono a sei ondate di durata variabile tra i cinque e i sei anni (con l’interruzione del periodo 1985-1988). Il numero di interviste e i paesi coinvolti sono sintetizzati nella Tab. 2, dalla quale si evince che i primi due cicli di indagini hanno interessato un numero di paesi molto meno elevato rispetto ai cicli successivi. Inoltre, in particolare nella prima ondata, sono stati interessati alle rilevazione esclusivamente paesi sviluppati o in via di sviluppo, con conseguenze significative sui risultati che non sono del tutto confrontabili con quelli delle rilevazioni successive. I singoli paesi interessati sono nel complesso 97; 34 sono stati coinvolti una sola volta, mentre Messico e Corea del Sud hanno partecipato a tutte le rilevazioni. 374 3. Quanto si è felici? Nel presente lavoro, essendo disponibile la matrice dei dati originali, è possibile relazionare le risposte alle caratteristiche socio-demografiche dei rispondenti a livello individuale e non solo a livello aggregato per paese (usando parametri statistici sintetici). Inoltre, a differenza dell’Ess, il Wvs comprende paesi di tutte le parti del mondo per un complesso di risulta elevata anche nel caso di valori coerentemente bassi per entrambe le variabili). 375 Tab. 2. Cicli di rilevazione del World Values Survey, numero di paesi coinvolti e interviste realizzate Ondate 1981-1984 1989-1993 1994-1998 1999-2004 2005-2009 2010-2014 Totale N. Paesi 10 18 51 41 58 52 97 Interviste 13.586 23.617 74.148 59.066 83.975 74.043 328.435 Quanto ai risultati della rilevazione che ci interessano maggiormente in questa sede, nella Fig. 1 sono riportate le percentuali di risposta alla domanda sulla felicità e si nota che, prescindendo dalla prima rilevazione, il valore medio sulla scala da 1 per nulla a 4 molto463 cresce debolmente ma in modo costante e, nell’ultima ondata di rilevazioni, arriva a superare il valore che corrisponde alla risposta abbastanza. Abbiamo riportato il valore medio, pur nella consapevolezza della dubbia (ad essere eufemistici) applicabilità ad una scala ordinale di un parametro statistico utilizzabile, a rigore, solo con variabili cardinali, ma lo abbiamo fatto al fine di 3 Ai fini di rendere più intuitiva la comprensione dei risultati, i valori della codifica originale sono stati invertiti in modo che valori crescenti indichino un aumento della felicità dichiarata. In tal modo diventano più intuitivi anche i grafici a dispersione utilizzati nel seguito. Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita) Giovanni Delli Zotti acquisire un dato sintetico che potrà essere poi utilizzato per effettuare confronti, peraltro approssimativi, con gli andamenti di altre domande per le quali l’utilizzo della media è certamente più corretto, essendo state utilizzate scale auto-ancoranti (come quella di Cantril). Il grafico però riporta anche la suddivisione percentuale delle risposte e ciò risolve il problema dell’astrattezza della descrizione dei risultati in termini di variazione della media; infatti, a nostro avviso, è molto più evocativo dire, sommando le risposte molto e abbastanza, che la percentuale di intervistati che si è dichiarata felice passa dal complessivo 72,6% della fine degli anni ‘80 (inizio ‘90) all’84,3% dell’inizio del decennio in corso (escludendo il dato dell’inizio degli anni ‘80, che si può considerare non confrontabile a causa dell’esiguità e della specifica composizione del campione). Il grafico mostra anche che, nello stesso periodo, passa da poco più di un quinto a quasi un terzo la percentuale di intervistati che si sono dichiarati molto felici, anche se va precisato che i valori vanno considerati una stima un po’ approssimativa poiché i casi andrebbero pesati tenendo conto della diversa consistenza numerica delle popolazione dei paesi nei quali è stata fatta la rilevazione474. Fig. 1. Risposta alla domanda «quanto si direbbe felice» per ondata di rilevazione (% e media su scala da 1 a 4) 376 4 Una qualche compensazione è peraltro attiva, in quanto le dimensioni dei campioni nazionali tengono conto parzialmente della numerosità della popolazione: si passa dalle “anomale” 82 interviste in Montenegro nel 2001 (240 nel 1996) alle 3.401 interviste effettuate in Turchia nel 2001, ma la maggioranza dei campioni nazionali varia tra 1.000 e 3.000 interviste. Inoltre, i paesi di piccole dimensioni sono più numerosi di quelli con una popolazione di 100 milioni di abitanti o più. 377 4. Chi è felice? Illustrato il dato più generale, può essere interessante cercare di individuare le categorie di intervistati che hanno una visione più positiva della loro condizione in termini di felicità e a cui si può perciò principalmente attribuire il miglioramento generale che abbiamo appena constatato. Avendo preliminarmente osservato che, somman¬do le risposte molto e abbastanza le differenze si attenuano, per restringere l’analisi alla modalità di risposta più selettiva nella Fig. 2 sono riportati gli incrementi percentuali, considerando solo gli intervistati che si sono dichiarati molto felici, ed è innanzitutto appariscente il fatto che tutte le categorie di intervistati registrano incrementi, più o meno accentuati, tra la prima rilevazione considerata in questa analisi (1994-1998) e l’ultima (20102014). Iniziando dal genere, la percentuale di femmine molto felici è leggermente più elevata di quella dei maschi e la piccola differenza persiste nell’arco del ventennio considerato. Molto chiara e molto più accentuata è la relazione con l’età e, anche in questo caso, in un quadro di miglioramento per tutte e tre le fasce di età, rimane immutata la differenza nella percentuale di giovani che si dichiarano molto felici (attualmente oltre un terzo) rispetto agli ultra cinquantenni (poco più di un quarto). 378 Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita) Giovanni Delli Zotti Fig. 2. Percentuale di intervistati molto felici per categorie socio-demografiche (1994-1998 e 2010-2014) tennio considerato, non a caso assieme a coloro che godono dei redditi più elevati. L’effetto classe sociale è accentuato dal fatto che anche la categoria degli appartenenti alla classe medio-alta segna un notevole distacco dalle altre e si può anche notare che il reddito, dopo la classe sociale, è la caratteristica che maggiormente discrimina quanto a percentuale di intervistati molto felici, confrontando le categorie che si collocano ai lati opposti della scala. Infine, visto che il Wvs è un sistema di rilevazione degli atteggiamenti promosso da Inglehart e basato sulla scala materialismo/post-materialismo (1977 e 1998), abbiamo usato anche questa categorizzazione la quale mostra che le differenze vanno in una direzione univoca che rimane sostanzialmente immutata nel tempo. I materialisti si collocano in posizione arretrata rispetto ai post-materialisti quanto a percentuale di individui molto felici e ciò appare un po’ contradditorio, rispetto a quanto visto finora, perché nella categorizzazione di Inglehart i materialisti sono proprio coloro che maggiormente apprezzano, ad esempio, ricompense sociali quali un reddito elevato e l’appartenenza ad un’elevata classe sociale, con gli effetti alquanto materiali che ne derivano. La relazione tra felicità dichiarata e livello educativo è invece controversa e si può dire con qualche certezza solo che attualmente non fa molta differenza avere conseguito un livello di educazione formale molto elevato; anzi, sembra essere leggermente penalizzante, in quanto questa categoria di intervistati ha perso il vantaggio che aveva inizialmente sugli altri, segno forse, almeno per alcuni paesi, di frustrazione derivante dalla constatazione che studiare molto non consente con ragionevole certezza di raggiungere una buona posizione professionale o almeno reddituale. Che questo sia un aspetto strettamente correlato alla felicità lo mostrano anche le due variabili che rilevano l’auto-collocazione di classe sociale e la fascia di reddito (rilevata su una scala a dieci posizioni, poi accorpate isolando le due modalità estreme e suddividendo in parti uguali le sei posizioni centrali). Come si vede dal grafico, si dichiarano molto felici oltre il 50% di coloro che si sono classificati come appartenenti alla classe sociale alta e, per quanto si tratti di un gruppo alquanto ristretto (circa il 2% dell’intero campione), il dato è alquanto rilevante, anche perché si tratta della categoria che ha registrato il più notevole incremento nel ven- 379 5. Perché si è felici? Già quanto visto finora consente di delineare, assieme all’identikit di chi ha maggiori probabilità di dichiararsi molto felice, un abbozzo di spiegazione dei motivi di tanto entusiasmo. La felicità può essere infatti una conseguenza della giovane età, della maggiore disponibilità di reddito, dell’appartenenza alla classe sociale degli happy few, ancorché appaia contradditorio, dell’avere una visione della vita che apprezza, e anzi privilegia (come è insito nella definizione del tipo post-materialista), le relazioni sociali, la partecipazione, la tutela dell’ambiente, il rispetto per le diversità, ecc. Comunque, siccome nel questionario utilizzato nelle rilevazioni si chiedeva agli intervistati di esprimere altre valutazioni sulla propria condizione di vita, relazionare a queste le risposte sulla felicità, con maggiore dettaglio di quanto fatto in precedenza utilizzando le correlazioni, può contribuire a dare maggiore spessore a questa sorta di ricerca della cause della felicità. Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita) Giovanni Delli Zotti Come in parte abbiamo già visto dalle correlazioni, viene clamorosamente smentita dai dati l’asserzione un po’ sbrigativa, e forse autoconsolatoria, che i soldi non si accompagnano necessariamente alla felicità ma, visto che con una domanda specifica si chiedeva all’intervistato di indicare quanto fosse soddisfatto della situazione finanziaria della propria famiglia, vediamo più analiticamente quale sia la relazione tra le due variabili usando nuovamente lo strumento, semplice e di diretta comprensione, della differenza percentuale. Come si vede dalla Fig. 3, la relazione tra le due variabili mostra un andamento assolutamente lineare, particolarmente se si guarda alla distinzione dicotomica tra chi si dichiara molto o abbastanza felice e chi lo è invece poco o per nulla; infatti, la percentuale di individui molto o abbastanza felici passa da poco più del 50% a oltre il 90%, procedendo da chi si dichiara del tutto insoddisfatto della situazione economica della famiglia a chi è completamente soddisfatto. Dunque, precisando quanto visto in precedenza, si potrebbe affermare che non è tanto l’ammontare complessivo delle risorse economiche, e la conseguente sicurezza materiale, ciò che porta alla felicità; piuttosto, a fare davvero la differenza è il fatto che le risorse si possano considerare sufficienti, e pertanto soddisfacenti, per la gestione della propria vita e della propria famiglia. Alla ricerca di una conferma di questa ipotesi abbiamo incrociato gli scaglioni di reddito per verificare se anche questa relazione mostri qualche sbavatura, e i dati, qui non riportati, mostrano in effetti che, in apparente contraddizione, un quarto di coloro che si sono dichiarati appartenenti alle classi di reddito più elevate sono più o meno insoddisfatti (punteggi da 1 a 5) delle finanze familiari; al contrario, e altrettanto contraddittoriamente, quasi un terzo di coloro che si collocano nelle più basse fasce di reddito si definiscono più o meno soddisfatti (punteggi da 6 a 10). Fig. 3. Livello di soddisfazione per la propria vita per valutazione della propria felicità 380 381 Un’altra convinzione, rafforzata dalla saggezza popolare, porta a ritenere che godere di buona salute sia una componente essenziale, forse imprescindibile, della felicità e anche questo è un aspetto che i dati disponibili consentono di testare. La situazione è quella rappresentata nella Fig. 4 che mostra una netta relazione tra le due variabili. Chi dichiara di essere in condizioni di salute molto cattive, o anche solo cattive, solo nel 10% dei casi si dichiara molto felice; al contrario, chi gode di buona salute, si dichiara molto felice in circa un quarto dei casi (abbastanza in oltre il 50%) e chi gode di una salute molto buona è molto felice in oltre la metà dei casi e abbastanza felice in un altro 40%. I dati esposti analiticamente nel grafico consentono però una lettura alternativa, e forse un po’ provocatoria, se solo si pone l’accento sulle situazioni di apparente incongruenza e su un’interessante asim¬metria: si potrebbe infatti sottolineare il fatto che, nonostante le dichiarate cattive o molto cattive condizioni di salute, circa il 10% di questi intervistati si ritiene molto felice e oltre un terzo e quasi un quarto abbastanza felice. Al lato opposto, solo frazioni marginali di intervistati che godono di una salute buona o molto buona si dichiarano poco o per nulla felici. 382 Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita) Giovanni Delli Zotti Fig. 4. Valutazione del proprio stato di salute per valutazione della propria felicità un reddito elevato in assoluto. Quanto alla relazione con la soddisfazione per la propria vita, anche ai livelli massimo non tutti sono molto felici ma, se si aggiungono coloro che hanno risposto che lo sono abbastanza (cfr. Fig. 3), si può dire che, quando la situazione finanziaria e personale è pienamente soddisfacente (e il reddito elevato), la felicità è una condizione esistenziale quasi garantita. 383 Fig. 5. Percentuale di intervistati molto felici secondo lo scaglione di reddito, il grado di soddisfazione per la propria vita e per la situazione finanziaria Nel grafico seguente (Fig. 5) sono riportate le percentuali di intervistati molto felici secondo lo scaglione di reddito, il livello di soddisfazione per la situazione finanziaria (vedi anche Fig. 3) e la soddisfazione per la propria vita. Il grafico non intende solo mostrare l’aspetto tutto sommato scontato della crescita pressoché lineare della percentuale di intervistati che si dichiarano felici all’aumentare della soddisfazione per questi aspetti specifici, quanto il fatto che la felicità può albergare nei cuori di diversi intervistati anche in presenza di valutazioni poco o per nulla soddisfacenti. Visto secondo questa prospettiva, il grafico mostra che il 13% e il 17% del campione si dichiara molto felice anche quando la situazione finanziaria viene valutata del tutto insoddisfacente o lo è la valutazione della propria situazione esistenziale, e sono molto felici anche il 24% degli intervistati che dichiara lo scaglione di reddito più basso. Si vede dunque chiaramente che il livello di reddito non è determinante quanto il fatto che ne conseguano problemi finanziari e, peraltro, al crescere dei livelli di soddisfazione, la percentuale di intervistati molto felici tende a convergere, fino a divaricarsi nuovamente, ma in direzioni opposte: ai livelli alti di soddisfazione la percentuale di persone molto felici aumenta come conseguenza della situazione finanziaria soddisfacente più che per 6. Cosa è importante nella vita? Proseguendo nella ricerca delle determinanti, o almeno degli aspetti che si possono ragionevolmente associare al sentimento di felicità, nel questionario del Wvs ci imbattiamo in una serie di domande (sono quelle poste per prime) che chiedevano di esprimersi su quanto, nella vita degli intervistati, siano importanti una serie di ambiti: famiglia, amici, tempo libero, politica, lavoro e religione485. Il quadro delineato dalle indagini, riQuesti ambiti sono considerati importanti anche all’interno del Better Life Index costruito dall’Ocse, sulla base di 25 indicatori che si riferiscono a 11 dimensioni definite essenziali alla definizione del benessere e della qualità della vita (Durand, Smith, 2013: 3; Zago, in questo volume). 5 Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita) Giovanni Delli Zotti prendendo la prospettiva temporale, è rappresentato nella Fig. 6 dalla quale si nota una gerarchia che non si scalfisce con l’andare del tempo e che vede inequivocabilmente al primo posto la famiglia, seguita dal lavoro a oltre venti punti di distanza. Va sottolineato che nel grafico sono rappresentate le sole risposte molto importante che, per quanto riguarda la famiglia, a parte il primo periodo di rilevazione, non scendono mai sotto il 90%. La differenza tra famiglia a lavoro si accentua nel tempo, fino a raggiungere quasi trenta punti percentuali nell’ultimo ciclo di rilevazioni a causa di una perdita di importanza annessa al lavoro. Per quanto le domande siano reciprocamente autonome (l’intervistato era libero di attribuire poca importanza a tutti i sei ambiti o, al contrario, poteva definirli tutti molto importanti), gli andamenti di amicizia e tempo libero suggeriscono che siano questi i settori che hanno sottratto suffragi all’importanza annessa al lavoro, visto la loro pressoché costante crescita, che comunque li colloca ad un livello inferiore rispetto a famiglia e lavoro. La religione si colloca un po’ a metà strada ed è quasi sorprendente che sia così, vista dalla prospettiva di una società alquanto secolarizzata come quella italiana, ma si deve tenere conto che nella composizione del campione sono presenti diverse nazioni, si pensi ad esempio a quelle dell’America Latina, nelle quali il sentimento religioso è alquanto radicato. Per quanto riguarda la politica, invece, i livelli sono piuttosto bassi: solo circa il 15% gli intervistati ritengono che si tratti di un ambito di vita molto importante e grosso modo senza importanti oscillazioni. L’importanza annessa a questi ambiti non si può direttamente relazionare ai livelli di soddisfazione per la propria vita personale e familiare o al grado di felicità soggettivamente intesa, ma si può ragionevolmente presumere, vista la notevole importanza attribuita dagli intervistati ad essi, che elevati livelli di feliticà o di soddisfazione per la propria vita possano essere raggiunti solo in presenza di una buona situazione familiare e lavorativa, senza trascurare la possibilità di poter coltivare intense relazioni sociali e di praticare liberamente la propria religione. Fig. 6. Percentuale di intervistati che definiscono molto importanti gli ambiti, per periodo di rilevazione 384 385 7. Geografia della felicità Nella presente trattazione si sono finora analizzate valutazioni soggettive della felicità, del benessere, della salute, delle condizioni finanziarie familiari; volendo ora abbozzare una mappa geopolitica del benessere e della felicità, dobbiamo trasformare le risposte individuali in un dato sintetico, aggregato a livello di paese e, per le ragioni esposte in precedenza, si è deciso di rinunciare all’utilizzo della strumento statistico più scontato, il valore medio calcolato su una delle misure di benessere. Abbiamo infatti privilegiato le assai più evocative percentuali e, nel caso della Fig. 7, la percentuale di intervistati classificati da Gallup nella categoria dei fiorenti, così come descritta nel secondo paragrafo. Nella trattazione precedente abbiamo potuto constatare che, a livello individuale, il benessere soggettivo o la felicità sono correlati, ad esempio, con la valutazione della condizione finanziaria della famiglia o il reddito, ma non in maniera banalmente automatica. Pertanto, in questa conclusiva analisi della distribuzione mondiale del benessere, useremo i grafici a dispersione, che rendono un po’ difficile la lettura precisa dei dati relativi ai singoli paesi, ma hanno il vantaggio decisivo di mostrare plasticamente la natura e la forza della relazione tra le variabili e, al contempo, consentono di individuare e identificare singoli paesi la cui situazione è deviante rispetto al pattern complessivo. 386 Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita) Come variabile da relazionare al benessere soggettivo aggregato a livello di singolo paese, si è deciso di utilizzare il Pnl pro capite, in modo da differenziare l’analisi rispetto a quella precedente nella quale benessere e situazione economica sono entrambe misurate soggettivamente. In questo modo, tra l’altro, creiamo un ponte tra gli indicatori soggettivi di benessere qui analizzati e gli indicatori oggettivi, analizzati da Zago, in questo volume. I grafici a dispersione sono stati realizzati nella forma del pannello con riquadri, corrispondenti ai quattro continenti, che utilizzano le stesse coordinate minime e massime; in tal modo, anche a prima vista, si può notare in quale settore si collocano prevalentemente i paesi appartenenti ai diversi continenti. Per agevolare l’interpretazione dei dati, lo spazio dei singoli grafici è suddiviso in quadranti, utilizzando linee verticali e orizzontali posizionate in corrispondenza dei valori mediani delle distribuzioni delle due variabili. In tal modo, ad esempio, si vede chiaramente che la gran parte dei paesi europei si colloca nel quadrante in alto a destra, nel quale la percentuale di intervistati definiti fiorenti e il Pnl si collocano entrambi sopra le rispettive mediane. Al contrario, guardando all’Africa, è del tutto evidente la situazione di disagio di questi paesi perché quasi tutti si collocano al di sotto delle due mediane: dunque, paesi relativamente poveri nei quali gli intervistati che godono di un certo benessere soggettivamente inteso (i fiorenti) sono meno numerosi che in altri paesi e comunque sotto la mediana. Ovviamente, i paesi che si collocano nei quadranti disposti secondo la diagonale opposta indeboliscono la relazione tra il benessere soggettivo e quello oggettivo, misurato dal Pnl: quelli in alto a sinistra sono paesi a basso reddito ma con popolazioni relativamente più felici di quanto il dato economico possa far sospettare; quelli in basso a destra sono invece paesi nei quali il reddito è elevato, ma a ciò non corrisponde la spettante quota di individui fiorenti. Lasciando al lettore l’apprezzamento analitico dei dati relativi ai singoli paesi, visto che il presente lavoro nasce alla luce del concetto di buen vivir, notiamo semplicemente che diversi paesi dell’America Latina, ivi compresi Ecuador e Bolivia, si collocano in quello, in alto a sinistra, che potremmo definire il quadrante dei “poveri ma felici”. Felici, forse, perché si accontentano e apprezzano ciò che hanno. Giovanni Delli Zotti 387 Fig. 7. Quota di fiorenti per ammontare del Pnl pro capite e continente Bibliografia Abdallah S. et al. (2012), The Happy Planet Index: 2012 Report. A global index of sustainable well-being, New Economic Foundation, in http://www.happyplanetindex.org. Cantril H. (1965), The pattern of human concerns, Rutgers Univ. Press. Deaton A. (2008), Income, aging, health and wellbeing around the world: evidence from the Gallup World Poll, in Journal of Economic Perspectives, 22. 388 Felicità, benessere (soggettivo) e soddisfazione (per la vita) Diener E. et al. 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POSTFAZIONE Diritto, diritto comparato, altre scienzenello studio del nuevo constitucionalismo e del buen vivir andino di Lucio Pegoraro49* «… Il diritto di cui si occupa il comparatista, non solo è quello prodotto da tutti gli operatori che in qualche modo si misurano con le parole del legislatore, e dunque producono le norme giuridiche. È anche l’insieme delle norme sociali, norme non giuridiche da un punto di vista interno, ma comunque da includere nell’elencazione dei precetti condizionanti il comportamento dell’individuo e la sua collocazione nelle molteplici comunità di cui è parte: precetti che, da un punto di vista esterno sul diritto, sono pienamente giuridici. Probabilmente le norme sociali non giuridiche dal punto di vista interno avranno una rilevanza tanto più contenuta, quanto più la ricerca comparatistica si muoverà entro i confini del diritto occidentale. Se invece se ne allontanerà, le norme sociali non giuridiche assumeranno un ruolo crescente, per il cui apprezzamento è proficuo ricorrere agli insegnamenti della sociologia …, o a quelli dell’antropologia» (Somma, 2014: 73). SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La vita del diritto comparato. – 3. Una o più Grundnormen? – 4. Visioni moniste. – 5. Le scienze diverse. – 6. Conclusioni. 1. Premessa Questo volume si occupa della sfida che il buen vivir accolto nei paesi andini lancia agli altri ordinamenti in tema di sostenibilità. Ambisce ad arricchire un filone di ricerca che finalmente anche alcuni giuristi sensibili, oltre che i sociologi, hanno cominciato a percorrere, nel convincimento che il costituzionalismo tradizionale, e neppure il neocostituzionalismo, non riescono a dare tutte le risposte ai problemi del XXI secolo, e che * Professore ordinario di Diritto pubblico comparato nell’Università di Bologna. Postfazione Lucio Pegoraro queste vanno ricercate anche in filosofie, tradizioni, culture (e sistemi giuridici) diversi se non antitetici a quelli che alimentano il diritto occidentale, contrastando il neoliberismo e le politiche che accentuano la povertà e sfruttano indebitamente le risorse naturali. Ciò che, sinteticamente, si riassume nel concetto di controegemonia. Nel suo alveo, il diritto costituzionale ha sviluppato l’importante dottrina del nuevo constitucionalismo. Essa, come spiega Bagni richiamandosi alle tesi di Viciano Pastor e di Martínez Dalmau (2012), di regola fa «riferimento all’ondata di costituzioni adottate in America Latina dall’inizio degli anni ‘90 … fino ad arrivare alle recenti esperienze ecuadoriana e boliviana del 2008 e 2009». Se – continua questa A. – «le caratteristiche teoriche del neocostituzionalismo possono essere certamente ritrovate nel “nuevo constitucionalismo” … i due concetti non sono completamente coincidenti, poiché le riflessioni della dottrina latinoamericana degli ultimi anni hanno messo in risalto elementi specifici del fenomeno in America del Sud», che «possono essere identificati nella partecipazione popolare all’esercizio del potere, in primis nello stesso processo costituente, nell’interculturalità e in una nuova visione dei rapporti fra l’uomo e la natura, che sta a fondamento, in alcuni casi ma non in tutti, del (tentativo di) adesione a nuovi modelli economici» (Bagni, 2014). A mio avviso, la divergenza tra le concezioni del neocostituzionalismo e quelle del nuevo constitucionalismo fa aggio alla sovrapposizione di elementi comuni, quali «l’affermazione, più volte ribadita anche dalla giurisprudenza costituzionale di diverse corti, della totale equiordinazione dei diritti costituzionali, quindi non gerarchizzabili in via definitiva, ma solo ponderabili caso per caso» (ibid.) (per non dire di altri). Dietro il nuevo constitucionalismo, infatti, ci sono concezioni culturali e filosofiche lontanissime da quelle che ispirano il neocostituzionalismo (e in generale il costituzionalismo), delle quali esso rappresenta soprattutto l’epifania formale e procedimentale. 2007: 133 ss.; Reimann, 1996: 49 ss.): il rischio paventato è che la globalizzazione annulli le differenze e che, per questo motivo, la scienza comparatistica sia destinata a morire, come più d’uno immagina, preconizzando una sua presunta irrilevanza di fronte a fenomeni come la globalizzazione, la connessa convergenza transnazionale, la cosiddetta armonizzazione e la progressiva condivisione di un solo diritto comune (Muir Watt, 2006: 579 ss.). In particolare, la globalizzazione corrode l’idea stessa di diritto: cadono le barriere tra pubblico e privato, e quest’ultimo si sottrae agli imperativi “westfaliani” e alle regole di un diritto internazionale che vale, là dove vale, se mai solo per il pubblico; la soft law lascia discrezione e apre interstizi; né le fonti private né quelle pubbliche riescono a disciplinare l’attività degli attori privati nell’economia globale (Muir Watt, 2012: 270 ss.). Ma il timore è probabilmente infondato se solo si consideri la refrattarietà al cambiamento generata dalle resistenze frapposte dalle culture giuridiche (e dalle culture), e – con riflessi importanti in campo costituzionalistico – la rivendicazione di modelli di organizzazione costituzionale alternativi a quello occidentale (Samuel, 2004: 35 ss., sostiene che la common law è più attrezzata a raccogliere le sfide della complessità rispetto alle più sistematiche scienze del diritto civile, in quanto prodotto di una cultura a-scientifica. Per un’approfondita analisi critica del tema, v. Somma, 2014). Questo libro è un’efficace testimonianza che la diversità persiste, e quindi la comparazione è viva, e tale resterà se solo si dimostrerà capace di attrezzarsi per raccogliere le nuove sfide. La prima frase pronunciata a Westminster dal neo-deputato liberale Winston Churchill, interrompendo chi sosteneva, in tema di parità fra i sessi, che fra uomo e donna c’è solo una piccola differenza, fu «Hurrah with the little difference!». Comparare significa capire quali differenze siano grandi e quali piccole (insomma, individuare gli elementi determinanti); vuol dire poi soffermarsi sulle differenze piccole, nell’ambito di famiglie e sistemi accomunati da somiglianze grandi, ma anche e soprattutto, oggi, riconoscere le grandi differenze che giustappongono un pensiero giuridico solo all’apparenza unico – quello della liberaldemocrazia – a visioni del diritto, della società, della cultura che radicalmente se ne distaccano. Il sogno totalizzante della liberaldemocrazia non sembra fare i conti innanzi tutto con se stesso. La globalizzazione comporta 390 2. La vita del diritto comparato Quello della morte del diritto comparato nel mondo globalizzato, presupposto dalle visioni di Fukuyama (1989), è un refrain comune (Siems, 391 Postfazione Lucio Pegoraro per prima cosa lasciare gli schemi giuridici tradizionali, anche in campo costituzionale. Sovranità, gerarchia, cittadinanza, competenza, principio di legalità, riserva di legge, fonti del diritto, ecc. sono concetti che, se pur non ancora relegati nel ripostiglio del superfluo, pagano lo scotto di una reinterpretazione che ne distacca il senso rispetto a quello a essi ascritto ancora pochi anni fa. Lo Stato liberaldemocratico combatte la sua battaglia con strumenti da esso stesso in parte abbandonati, a vantaggio di altri che ne sono una derivazione solo assai lontana, se non l’antitesi: mercato, sicurezza, soft law e altro ancora; la mise à jour è un neocostituzionalismo nel quale, come ricorda Carducci in questo volume richiamando León Pesántez, tutto viene «osservato dall’Occidente euro-nordamericano come unico vocabolario e parametro universale di comprensione e valutazione del mondo». Non fa i conti poi, la liberaldemocrazia nella sua elaborazione dottrinaria, con l’accettazione della diversità sostanziale; nel lessico comparatistico, con la frattura tra i formanti visibili – la costituzione, la legge, la giurisprudenza – e quelli soggiacenti: la cultura, la cultura “giuridica”, i crittotipi. Assolta nel culto della forma, si crogiola nella esportazione di strutture formali (quali le costituzioni) e di concetti che ne vertebrano l’accezione sostanziale, tutti di genuino imprinting occidentale: divisione dei poteri, riconoscimento dei diritti. La missione universalistica è adempiuta, dato che tutti gli Stati hanno ormai una costituzione formale e la stragrande maggioranza ne accetta, formalmente, i contenuti imprescindibili. Tanto meno, la dottrina costituzionalistica è (per lo più) disposta a mettere in discussione la nozione di “diritto”, quando si confronta con sistemi che lo concepiscono in maniera diversa. Ciò che non corrisponde alla nozione occidentale e moderna di diritto, non è tale. Sul piano scientifico, come per le traduzioni, si dovrebbe usare la parola “diritto” secondo le istanze del ricevente (il lettore “occidentale”): ossia, dando a questa espressione il senso forgiato dall’uso durante i secoli – sopra tutto da quando il diritto si è liberato dai lacci dell’etica, della morale, della filosofia, della religione – nel nostro sistema di riferimento, come il lettore lo intende ora (e cioè secondo il senso che vi dà la cultura liberaldemocratica). “Diritto” (comparato) dovrebbe essere perciò solo quella branca della conoscenza che si occupa di diritto (comparato) in senso nostrano, lasciando a margine ciò che da tempo abbiamo espulso (etica, morale, filosofia, religione). Questa è però una soluzione eurocentrica, gravemente limitativa della conoscenza. Ci impedisce di studiare e comparare concezioni dei rapporti tra persone ed enti diverse da quelle pietrificate nel nostro mondo (concezioni che ancora involucrano nell’indagine comparativa altre cose, solo in Occidente estromesse dal diritto). Gli storici del diritto ci ammoniscono sulle profonde mutazioni del contenuto di questa parola; i comparatisti dovrebbero usare la stessa sensibilità “orizzontalmente”, nell’esaminare (e comparare) sistemi e istituti estranei alle concezioni in voga presso la cultura occidentale (Blagojevic, 1953: 652). Diritto va dunque inteso in senso latissimo, come minimo comune denominatore di ciò che – pur partendo dal significato moderno e occidentale dell’espressione – possa comprendere anche le sue manifestazioni storiche, oppure quelle eccentriche che, qui, verrebbero verosimilmente comprese in altre scienze, o discipline, o fenomenologie non giuridiche. Come ci ricorda Glenn (1999: 841), «L’histoire de la notion de droit comparé est très liée à l’histoire du droit occidental. Dans les autres traditions juridiques du monde, la notion de droit comparé n’existe pas. Cela n’exclut ni le raisonnement juridique comparatif, ce qui serait difficile, ni la comparaison avec le droit des autres, ce qui est inévitable, mais une notion formelle et institutionnalisée de droit comparé n’a jamais été développée à l’intérieur de ces autres traditions». (Salvo, preciserei, in autori che, se pur non occidentali, e se pur sensibili alle tradizioni delle loro culture, lavorano e scrivono con le categorie del diritto occidentale). 392 393 3. Una o più Grundnormen? Quanto detto sinora potrebbe indurre una conseguenza metodologica: per studiare il diritto costituzionale comparato, ci si dovrebbe allontanare dal canto delle sirene del positivismo, e abbracciare una visione istituzionalista del diritto (e/o eventualmente una prospettiva idealistica o storicistica). È l’istituzionalismo infatti che esalta il pluralismo, che stempera il rilievo della legge e del suo linguaggio nella produzione giuridica, che enfatizza il ruolo della società e delle culture, che non disdegna abbracci e connivenze con scienze e metodi diversi da quello giuridico (Nuñez Torres, 2011: 101 ss.). Postfazione Lucio Pegoraro Ciò è dovuto alle semplicistiche equazioni “positivismo=legge (codificata)”, e “positivismo=monismo”, che non a caso furono oggetto della polemica strutturalista, dell’attacco all’idea di univocità della regola (Somma, 2006: 58 ss.; Sacco, 1992: 43 ss.) della censura a una «légalité univoque et autosuffisante» e a un «fétichisme de la loi écrite et codifiée», che coincidono con visioni superate e limitative di questa filosofia (Miur Watt, 2000: 509 s.; Sánchez Lorenzo, 2008: 1099 ss.). Viceversa, il positivismo – proprio perché analizza il diritto per quello che è, dovunque sia (o fosse) – accetta e addirittura presuppone per sua indole la pluralità (nonostante abbia prodotto importanti teorie monistiche della Grundnorm), e nella sua versione analitica riconosce l’importanza del linguaggio non solo nelle formule codicistiche, ma in qualsiasi altra sua manifestazione segnica (Bobbio, 2013; Scarpelli, 1965; Bulygin, 2006). Ricorda Somma (2014: 25), richiamandosi a Bobbio, che «la mera efficacia non rende valido un precetto, che pertanto assume rilievo dal solo punto di vista storico o sociologico. Ma proprio questo è il punto di vista indispensabile all’analisi comparatistica, che mira a descrivere il funzionamento delle comunità, piuttosto che a prendere parte al momento della prescrizione circa le modalità del suo funzionamento». E osserva che «Il pluralismo giuridico costituisce un elemento importante nell’analisi degli ordinamenti in cui il giuspositivismo ha una lunga tradizione, in quanto mette in luce il carattere meramente programmatico del monismo giuridico. La valorizzazione del pluralismo appare invece indispensabile nello studio degli ordinamenti in cui la tradizione giuspositivista non ha attecchito, o quantomeno ha avuto un ruolo non paragonabile a quello rivestito negli ordinamenti a diritto codificato». A parte che il metodo della comparazione è un metodo giuridico e finalizzato a creare modelli dotati di prescrittitività, non solo meramente descrittivi, su ciò si può concordare non necessariamente accogliendo i postulati dell’istituzionalimo: si può fare comparazione nel diritto costituzionale, e allo stesso tempo una meta-indagine sul diritto costituzionale comparato, muovendo da una prospettiva positivistica e normativista, a patto di non ridurre il diritto positivo a legge (dello Stato), e ad accogliere l’aiuto di altre scienze per analizzare, fuori dallo Stato o dagli Stati, qual è il diritto vigente, che si impone in virtù di meccanismi sanciti da metanorme e che dalla forza deriva anche la sua validità. Non solo: la grande distinzione tra validità ed efficacia, dalla quale deriva anche l’ascrizione del diritto alle scienze del sein o a quelle del sollen, è totalmente estranea a culture giuridiche diverse da quella occidentale. Dietro il grande interrogativo della natura descrittiva o prescrittiva del diritto comparato, c’è quello della norma fondamentale. Accettare o non accettare la norma fondamentale (e quindi porsi da una prospettiva interna o esterna all’ordinamento) è problema di chi vive, forgia, interpreta, studia quell’ordinamento. Come ricorda Scarpelli (1972: 419 ss. e 1982), il problema dell’esistenza della norma fondamentale è diverso da quello della sua accettazione. Lo è però, diverso, solo per il giurista interno (compreso il teorico generale), mentre per chi maneggia più ordinamenti da una prospettiva comparatistica non può esserlo, a meno di ipotizzare a parametro un’unica norma base, trattandosi invece di mero accertamento empirico, e non «di scelta, di presa di posizione, di applicazione di norme e valori metagiuridici». Un diritto costituzionale comparato moderno, non eurocentrico, attrezzato per affrontare le sfide della contrapposizione e dell’integrazione, si edifica dunque su due pilastri. Il primo è la consapevolezza dei condizionamenti culturali e il posizionamento relativistico a livello di costruzione gnoseologica. Il secondo è l’attribuzione del rilievo adeguato ai formanti prevalenti – di volta in volta legislativo, giurisprudenziale, culturale –, secondo l’oggetto dell’indagine. Il rischio è sussumere quest’ultimo nella sfera del giuridico, senza avere previamente delimitato i limiti del medesimo. A prescindere dalla concezione del diritto come idea (Kelsen), o come fatto (Llewellyn, Frank, Olivecrona, Ross, Hägerström) o, infine, come linguaggio (Bobbio, Scarpelli), a un accostamento positivistico al diritto comparato non ripugna affatto enfatizzare, di volta in volta, quali elementi produttivi di norme, elementi differenti dal precetto legislativo o dalla decisione giurisprudenziale. In particolare, aderendo alla tesi che il diritto si traduce in comunicazioni linguistiche che esprimono significati precettivi, e che quindi sul piano gnoseologico la scienza giuridica è una scienza empirica, vertendo essa su fatti quali sono le entità linguistiche (Barberis, 1990: 53 ss.), uguale rilievo può essere dato, in relazione all’oggetto di analisi, alla legge, alla sentenza, alla fatwa, al proclama politico, ecc., oltre che, pur se ciò andrebbe spiegato in termini parzialmente di- 394 395 Postfazione Lucio Pegoraro versi, alla regola convenzionale o all’uso come tramandato: «anche nel caso della consuetudine fonte del diritto non bastano [infatti] comportamenti regolari, occorre che i comportamenti abbiano valore di segni, o siano accompagnati da segni esprimenti l’assunzione della regolarità a regola direttiva della condotta» (Scarpelli, 1972: 423 s.). Preliminare a un’analisi comparatistica è dunque accettare che le comunicazioni linguistiche produttive del diritto promanano non solo dai testi normativi tradizionalmente analizzati dalla dottrina nello Stato occidentale moderno (leggi, sentenze), ma anche dal formante culturale, comprensivo di serialità di elementi abitualmente trascurati nelle indagini tradizionali. La sussunzione di elementi eccentrici alla nostra cultura nella sfera del giuridico consente peraltro di operare indagini comparatistiche giuridiche solo a condizione di affinarne la tecnica di utilizzazione. la idea de constitución como norma jurídica suprema del Estado y fortalecer su presencia determinadora en el ordenamiento jurídico». Le tesi di Robert Alexy, Ronald Dworkin, Luigi Ferrajoli, Carlos Nino, Gustavo Zagrebelsky, Manuel Atienza, José Juan Moreso, Peter Häberle e altri mirano a raggiungere lo stesso risultato – la difesa e l’espansione dei diritti “occidentali” – cui si può pervenire battendo strade non valutative (e non preconcette). Il comparatista si confronta con la relatività della storia, dei luoghi, delle culture, dei valori espressi nelle (o ricavabili dalle) costituzioni. Ha le sue preferenze, dovute alla sua cultura, ma appunto sa che la sua è una cultura, non l’unica cultura, e si pone il problema della conciliabilità, dell’esportabilità, dell’importabilità di norme, principi, valori. Suggerisce la composizione tra diritti individuali e diritti dei gruppi, e anche per questo è utile per le funzioni sussidiarie della comparazione. In particolare Häberle opta decisamente per il modello costituzionale del “mondo libero”, al quale gli studiosi devono rivolgersi per mantenere ogni discorso «nella profondità e nello scorrere della storia». Se, come egli afferma, il diritto comparato rappresenta il quinto metodo di interpretazione (Häberle, 1998 e 2010: 379 ss.), in aggiunta a quelli classici indicati da Savigny, come non porsi però, per l’interpretazione della costituzione, due problemi fondamentali: quello dell’esistenza di concetti analoghi (es. eguaglianza, dignità) in altre culture (e il concetto di “cultura” è un argomento topico della sua argomentazione) e quello dei sensi, o significati, che ai concetti sono attribuiti fuori dalla cultura liberale o liberaldemocratica o dello Stato costituzionale? Di fatto, anche l’impostazione di Häberle è, oltre che eurocentrica, figlia della Pandettistica, in quanto trasfonde concetti propri di un solo mondo culturale (l’Occidente, e in particolare la Germania) all’universo, assegnando all’interpretazione costituzionale il compito di realizzarli, ovunque sia. Questi concetti non sono il risultato di una ricerca di mediazione tra più modi di intendere il diritto, ma sono storicizzati in una peculiare esperienza – quella delle democrazie occidentali – e in un particolare clima culturale (quello odierno), come attestano le sue indicazioni dei classici da studiare per rendere «le Costituzioni eredità culturale»: non v’è un solo autore indiano o cinese o islamico nella bibliografia häberliana, e neppure sudafricano o latinoamericano. Le scelte legate alla storia e alla 396 4. Visioni moniste La letteratura di diritto costituzionale di tutto il mondo si ferma spesso (per fortuna non sempre!) alla descrizione, all’analisi e alle classificazioni delle strutture formali, anche quando l’oggetto di indagine sia un istituto o persino un sistema giuridico radicato in culture/tradizioni diverse. Una via solo apparentemente differente è battuta da quegli studiosi che, se pur non percorrono sempre lo stesso cammino, taluni ascrivono unitariamente alla corrente del c.d. neocostituzionalismo (ma c’è chi dubita che esso abbia una radice e una struttura unitaria; cfr. Guastini, 2011, con replica di Barberis, 2011: 285 ss.). Come ci ricordano Viciano Pastor e Martínez Dalmau (2011: 6), richiamando Comanducci (2003: 83), «Como teoría del Derecho, el neoconstitucionalismo – en particular a partir de los principios – aspira a describir los logros de la constitucionalización, entendida como el proceso que ha comportado una modificación de los grandes sistemas jurídicos contemporáneos. Por esta razón, está caracterizado por una constitución invasora, por la positivización de un catálogo de derechos, por la omnipresencia en la constitución de principios y reglas, y por algunas peculiaridades de la interpretación y de la aplicación de las normas constitucionales respecto a la interpretación y aplicación de la ley. Se trata, en definitiva, de recuperar en sentido fuerte 397 398 Postfazione cultura, non relativizzate, ma con pretese universalistiche, mi sembrano così giustificare l’imposizione della “nostra” cultura per difendersi dagli “altri”, non diversamente da quanto Savigny aveva fatto a suo tempo, per contrastare l’universalismo illuminista dei codici napoleonici (però, Savigny, limitandosi alla difesa del diritto romano, senza velleità di imposizione su quanti ne stavano fuori). Un caso a parte è rappresentato dai costituzionalisti statunitensi: di solito, i problemi metodologici vengono affrontati semplicemente universalizzando le categorie del costituzionalismo nordamericano, che a priori sono reputate valide per tutto il mondo. Un esempio tra tanti è un saggio di Tushnet (2003: 2781 ss.) che, nel proporre nuove metodologie classificatorie della giurisprudenza costituzionale, estende le categorie elaborate dalla corte suprema anche ad altri ordinamenti, senza minimamente verificarne la applicabilità, e mistificando così i dati forniti dal diritto positivo. Non casualmente, nella bibliografia non appare alcun autore che non sia statunitense. In altro saggio, significativamente, il medesimo autore ascrive la nascita del diritto costituzionale comparato alla data di approvazione della costituzione statunitense, pur concedendo che, dagli anni ‘80 del secolo scorso, anche altre esperienze siano state significative per lo sviluppo della disciplina (Tushnet, 2006: 1226 s.). Ci sono eccezioni, come Ackerman (1997: 771 ss.) o Fletcher (1998: 683) o Winter (2001), del quale si segnalano le pagine su “law and mind” e sulle classificazioni; tuttavia il dibattito sul metodo, quando non è ignorato o disprezzato, prende spesso a metro di misura l’esperienza statunitense: lo riconosce persino una autrice sensibile come Jackson (2012: 55), quando, nel catalogare i diversi approcci al diritto costituzionale comparato – classificatorio, storico, normativo, funzionale e contestuale – afferma che essi si usano per affrontare temi di diritto straniero «on a matter of domestic interest», e che in buona parte la resistenza all’uso della comparazione è dovuta a un meccanismo di difesa derivante da un senso di insicurezza e ansietà dei giudici americani (Jackson, 1999: 583 ss.; per le note critiche v. Kreimer, 1999: 640 ss.). Lucio Pegoraro 399 5. Le scienze diverse Quando si studiano fenomeni che presupponiamo essere giuridici, quali quelli indagati in questo libro, occorre sempre chiedersi prima: «ma cosa è diritto?» (Crespi Reghizzi, 2012: 244). Infatti «le droit n’apporte sur le droit aucun éclairage» (Legendre, 2009: 488). «Le pluralisme et le relativisme: tels sont les premiers enseignements qu’un cours de droit comparé doit dispenser», ci ricorda Fauvarque-Cosson (2002: 308). Scientificità significa verificabilità (anche interna, ovvero della correttezza delle operazioni logiche), e quindi rifiuto di immettere nella ricerca e nell’analisi dei dati elementi preconcetti non neutrali, assumendo a parametro di valutazione fattori religiosi, politici, o estrinsecamente etici. Ogni atteggiamento aprioristico da una prospettiva assiologica induce infatti a mescolare giudizi di fatto e giudizi di valore, sollecita a pretermettere lo studio delle connotazioni di valore nell’uso dei termini utilizzati (“democrazia”, “costituzione”, “diritti”, “libertà”, “eguaglianza”, “guerra santa”, ecc.), e a non disvelarle; ostacola una sistematizzazione dei termini di ogni discorso giuridico. Insomma, tutto il contrario di ciò che esige l’analisi giuridica. L’a priori giusnaturalistico, la scelta di campo ideologica, l’opzione investigativa non suffragata da categorie scientificamente elaborate concorre allo scontro di civiltà, di cui ragiona Huntington, non attraverso l’analisi scientifica, ma attraverso la rinuncia consapevole o inconsapevole a percorrere le indagini con metodo. Con il risultato non solo di produrre ricerche costruite sulla sabbia, ma anche di dare fiato alle trombe di chi tali ricerche usa per avallare operazioni di esportazione di valori, quali sovrastrutture culturali per imporre nuovi ordini globali insensibili a ciascuna storia, a ciascuna cultura, a ciascuna società, a ciascuna civiltà. Mentre dunque, in Occidente, spesso si leggono i diritti (in senso oggettivo) “diversi” con il metro domestico; e mentre dentro il diritto nostrano (occidentale), un uso malaccorto di scienze diverse per spiegare il diritto costituzionale rappresenta (spesso) solo un’abile scorciatoia per giustificare il discostarsi dalle regole (e dai segni linguistici che le enunciano), nello studio di altri sistemi la loro utilizzazione appare una modalità indispensabile per descrivere e interpretare la fenomenologia giuridica, che non si attrezza, come nella forma di Stato liberaldemocra- Postfazione Lucio Pegoraro tica, previamente delimitando quale sia la sfera del diritto e quella di altre scienze attraverso istituti quali il rule of law, il concetto di divisione dei poteri, il riconoscimento dei diritti individuali, ecc. Dentro e fuori le liberaldemocrazie si impone pertanto la questione di come servirsi di tali scienze. La correttezza della loro utilizzazione può infatti concorrere all’affermazione di una scienza del diritto costituzionale comparato i cui risultati siano verificabili, autonoma (e quindi sganciata dalle costruzioni teoretiche interne ai singoli ordinamenti), e con caratteristiche proprie rispetto ad altre scienze giuridiche, e persino rispetto ad altri settori della comparazione giuridica. L’oggetto del diritto costituzionale comparato presenta invero sue specificità, che richiedono anche metodologicamente un accostamento peculiare a discipline diverse, e un’utilizzazione delle stesse propria solo della comparazione giuspubblicistica (amplius, Pegoraro, 2014: 111 ss.). Il diritto controegemonico, al cui alveo riconduco l’esperienza descritta in questo libro, è diritto, ma non è diritto come lo concepiamo noi. Si abbevera da e si conforma a coordinate incomprensibili ai giuristi dogmatici se non ricorrano all’aiuto di scienze che in Occidente sono relegate al prima o all’accanto della scienza giuridica. Il suo studio implica il rifiuto di ogni preconcetto unitario e uniformizzante di norma fondamentale, e l’abbandono di quella Grundnorm che accogliamo come guida interna facendo del discorso giuridico un discorso prescrittivo. (Ciò peraltro non implica necessariamente la negazione della prescrittività dei metadiscorsi sul diritto comparato). Due discipline che utilizzano una metodologia induttiva ed empirica – sociologia del diritto e antropologia giuridica – rivestono un particolare rilievo per i comparatisti costituzionalisti che ambiscano a non arrestare le loro ricerche alle frontiere del mondo omogeneizzato plasmato nella forma di Stato liberaldemocratica. A entrambe la scienza comparatistica deve riferirsi sopra tutto quando si proceda a classificazioni o a macrocomparazioni estese a regioni giuridiche disomogenee. La sociologia poi – meno l’antropologia – presenta notevoli connessioni con la comparazione anche a livello interno allo schema abituale di riferimento, ovvero il diritto c.d. evoluto (Carbonnier, 1969: 78; Izdebski, 1988: 563). Essa ha influenzato in modo particolarmente penetrante gli studi giuridici, addirittura orientandone importanti correnti e per ciò attirandosi gli strali dei custodi del metodo giuridico: rivolti, beninteso, non già alla scienza in sé, quanto all’utilizzazione di metodologie e obiettivi estranei all’analisi giuridica. La sociologia giuridica, «disciplina che, in linea di massima, ha per oggetto lo studio dei rapporti reciproci tra diritto e società» (Treves, 1974: 1 ss.; e v. l’ampia riflessione che vi dedica Scarpelli, 1982: 287 ss.), utile per gli studi di diritto interno, e indispensabile alimento della politica del diritto, in campo comparatistico permette verificazioni dell’aderenza degli schemi giuridici (specie costruiti sulla base dei formanti normativo e giurisprudenziale) a dati empiricamente verificabili. Funge pertanto per i comparatisti da elemento di riflessione per non ancorare le indagini giuridiche a preconcetti avulsi dalla realtà, e al contempo quale fattore di verificazione delle conoscenze. Induce a riflettere sull’applicabilità di interpretazioni del diritto accettate in determinati contesti, ma inapplicabili ad altri. Sollecita insomma un accostamento critico a ogni costruzione universale del diritto, enfatizzando il pluralismo espresso dalla e dalle società. A sua volta l’antropologia giuridica, come illustrato in uno stimolante libro di Sacco (2007), rappresenta la chiave di lettura essenziale per comprendere i fenomeni di società basate su concezioni non occidentali del diritto. Già Holmes (1899: 443) osservava d’altronde alla fine del XIX secolo che quando ci si occupa di diritto la strada conduce ineluttabilmente all’antropologia, e che il diritto si risolve in un grande documento antropologico. Il discorso da fare sull’antropologia è simile a quello che si fa di solito sulla scienza politica quando si evochino le problematiche riferite al rigore metodologico, e concorre alla critica di tendenze evasive dalla sfera della metodologia giuridica; è in parte diverso, quando sottolinea la difficoltà, se non l’impossibilità, di analizzare comparativamente i fenomeni giuridici senza tener conto dei dati sociali e culturali che nelle diverse società li ispirano. In altre parole: un’indagine giuridica comparatistica può essere proficuamente condotta nell’alveo della famiglia di common law o di civil law, come pure nell’ambito della forma di Stato liberaldemocratica (quanto meno con riferimento a ordinamenti stabilizzati e omogenei) senza attingere alla scienza politica, come pure spesso ignorando totalmente l’antropologia giuridica; ma ricerche che esulino dall’ambito ora indicato, o vogliano operare raffronti tra tali ambiti e ambiti esterni, difficilmente possono raggiungere risultati appaganti se non 400 401 Postfazione Lucio Pegoraro tengano in considerazione, oltre che la storia del diritto (e, magari, quella delle religioni), l’antropologia. L’antropologia per sua stessa natura non è scienza eurocentrica: sposta le frontiere della comparazione, rifiutando di collocarle ai confini dello Stato liberal-democratico o della visione occidentale del diritto. Utile ai civilisti come ai costituzionalisti, serve anche per indagare sul pluralismo interno a ciascun ordinamento, alimentato dalla presenza di gruppi minoritari non integrati (ed eclatantemente accentuato, in Europa, dai flussi migratori degli ultimi decenni). di intendere la società e il diritto stesso in una fusione armonica delle culture e degli interessi sottesi. 402 6. Conclusioni Lo studio del diritto praticato nelle comunità andine (e ora codificato nelle costituzioni di alcuni Stati) non può prescindere dalla sociologia (e dall’antropologia), come bene attesta questo libro. L’amalgama tra distinte discipline, lungi dall’inficiarne la metodologia, fa anzi emergere la continuità del discorso: da parte dei sociologi, con l’indagine su quali siano le regole percepite e attuate nelle comunità analizzate; da parte dei giuristi, con lo studio della formalizzazione di tali regole. La difficoltà per questi ultimi è spogliarsi degli stilemi della cultura di origine (giuridica, ma non solo), e accettare coordinate e lessici diversi. L’operazione è aiutata da ciò che gli ordinamenti analizzati impiantano le culture autoctone negli schemi formali del costituzionalismo occidentale, se pure con tutte le contraddizioni, gli adattamenti e gli ostacoli segnalati nei vari saggi che compongono il volume. I comparatisti che hanno affiancato i sociologi sono attrezzati per questa sfida, siano essi privatisti o costituzionalisti. Il loro percorso scientifico, oltre che i saggi proposti, ne attestano l’apertura mentale e la capacità di abbandonare gli stereotipi di chi non sa guardare oltre la periferia dell’impero (o peggio della città o della parrocchia), e purtuttavia ha l’ambizione di spiegare la globalizzazione e l’internazionalizzazione del diritto leggendola attraverso la propria lente. Solo l’accettazione del plurale, la messa in gioco delle certezze, l’accettazione degli apporti di varie discipline può contribuire a una lettura davvero profonda (e globale) del diritto; in particolare di quello costituzionale di quegli ordinamenti e sistemi dove, come questo libro ci spiega, si flettono le istanze di un modo 403 Bibliografia Ackerman B. (1997), The Rise of World Constitutionalism, in Virginia L.R., 83. Bagni S. (2014), Democratizzazione della giustizia costituzionale in America Latina: uno sguardo da fuori/Hitos de democratización constitucional de la justicia en América Latina: una mirada desde afuera, paper presentato al III Congreso internacional de derecho constitucional, Cajamarca, 13-14 de Junio. Barberis M. (1990), Il diritto come discorso e come comportamento, Giappichelli. Barberis M. (2011), Esiste il neocostituzionalismo?, in Analisi e diritto. Blagojevic B.T. (1953), Le droit comparé. Méthode ou science, in Rev. int. dr. comp., 4. Bobbio N. 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In order to comply with this goal, the interaction with and the support of other sciences, such as sociology and anthropology, is an essential aspect. Keywords: Methodology of comparative law, Interdisciplinarity, Nuevo constitucionalismo, Buen vivir. 405 LE COLLANE DI FILODIRITTO EDITORE Al momento dell’uscita di questo volume (ottobre 2014), il catalogo di Filodiritto Editore è composto dalle seguenti collane: PRONTUARI Opere dedicate all’approfondimento di tematiche giuridiche e/o economiche, con valenze spiccatamente operative, essendo dedicate prevalentemente al mondo imprenditoriale e professionale SERENA DE PALMA, Dizionario di inglese legale applicato, giugno 2012 (cartaceo) GIOVAMBATTISTA PALUMBO, La voluntary disclosure e il rimpatrio di capitali dall’estero, febbraio 2014 (.pdf) MARIO TOCCI (a cura di), Prontuario di atti e pareri scelti per l’esame d’avvocato, ottobre 2013 (.pdf) MAURIZIO VILLANI - PAOLA RIZZELLI, Il giudizio di ottemperanza nel processo tributario, settembre 2013 (.pdf) MARIO TOCCI - ILARIA PATTA, La mediazione nelle controversie da danno iatrogeno, maggio 2013 (.pdf) LUCIA RIPA, Nuova fatturazione IVA, marzo 2013 (.pdf) LUCIA RIPA, Ristorazione: guida all’emissione dei documenti fiscali, ottobre 2012 (.pdf) LUCIA RIPA, Guida alla fatturazione dei professionisti, settembre 2012 (.pdf - .mobi - .epub) MARIA ANTONIETTA FERRO, Asseverazioni in Italia, aprile 2012 (.pdf - .mobi - .epub) 408 Le collane di Filodiritto Editore Le collane di Filodiritto Editore 409 CARLO ALBERTO CALCAGNO, La mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, marzo 2011 (.pdf) ragionato di legislazione, giurisprudenza e prassi, ottobre 2013 (cartaceo) MARIO TOCCI, Illecito stradale: contenzioso da sanzione amministrativa, commento e formule, febbraio 2011 (.pdf) MARA CHILOSI (a cura di), 231 e ambiente. Spunti operativi e casistica, settembre 2013 (cartaceo) RICCARDO GIROTTO, Gestire il personale in tempo di crisi: quali ammortizzatori?, luglio 2010 (.pdf) ANTONELLO GUSTAPANE, SCIA edilizia e responsabilità penale dei funzionari comunali, maggio 2013 (.pdf) FRANCESCO RUBINO, Il trust nel passaggio generazionale nelle imprese di famiglia, gennaio 2010 (.pdf) ANTONELLA TRENTINI, Perequazione urbanistica, aprile 2013 (.pdf) MARIO PETRULLI - ANTONELLA MAFRICA, Accesso al credito, gennaio 2010 (.pdf) ATTI Opere destinate ad ospitare i materiali e gli atti relativi a convegni e seminari RANIERI RAZZANTE, Compro oro, finanza e legalità, febbraio 2013 (cartaceo) ANTONIO LO PRESTI - ANTONELLA TRENTINI, Competenze dei geometri e normativa antisismica, gennaio 2013 (.pdf) ANTONIO LEGGIERO, Pedofilia, novembre 2012 (.pdf) MAURIZIO ARENA - MARCELLO PRESILLA, Giochi, scommesse e normativa antiriciclaggio, luglio 2012 (cartaceo) LUCA MEZZETTI - CALOGERO PIZZOLO (a cura di), Diritto costituzionale transnazionale, febbraio 2013 (cartaceo) ALFREDO DE FRANCESCO, Il giusto processo criminale come teatro di verità e giustizia, febbraio 2011 (.pdf) CESARE GALLI, Guida alle garanzie sui diritti di proprietà industriale e intellettuale, ottobre 2011 (cartaceo) MAURIZIO ARENA, La prevenzione della corruzione nelle aziende farmaceutiche, aprile 2011 (cartaceo) MONOGRAFIE NICOLA MONFREDA - SERENA AVETA, Il contrasto dell’immigrazione clandestina, settembre 2010 (.pdf) Opere dedicate all’approfondimento di una singola tematica con implicazioni di carattere giuridico, rivolte prevalentemente al pubblico degli operatori del diritto GIUSEPPE FEBBO, La giustizia sportiva, gennaio 2011 (.pdf) SCINTILLE GIOVAMBATTISTA PALUMBO - RANIERI RAZZANTE, Le nuove frontiere della criminalità finanziaria. Evasione fiscale, frodi e riciclaggio, marzo 2014 (cartaceo) Opere di carattere divulgativo riguardanti temi di attualità e/o di interesse generale ANTONELLA TRENTINI, L’avvocato degli enti pubblici. Commentario ROCCO GIANLUCA MASSA, La dura regola di eBay, dicembre 2012 (.pdf) 410 Le collane di Filodiritto Editore Le collane di Filodiritto Editore 411 MAURIZIO ARENA, La corruzione tra privati, novembre 2012 (.pdf) LE GUIDE DI FILODIRITTO ESPORTARE INFORMATI Opere scaricabili gratuitamente, snelle e di agevole consultazione, in formato .pdf, di interesse generale o riguardanti discipline particolari del mondo del diritto Opere dedicate principalmente al mondo dell’imprenditoria incentrate su problematiche di natura legale attinenti all’esportazione, oppure dedicate integralmente allo studio di ordinamenti esteri CLARES DE CRUZ, Singapore, aprile 2013 (.pdf) COLLANA UNIVERSITARIA Opere di taglio manualistico, destinate prevalentemente al mondo dell’Università e dei concorsi SILVIA BAGNI - GIORGIA PAVANI (a cura di), Materiali essenziali per un corso di Diritto pubblico comparato, settembre 2013 (cartaceo) LUCIANO BUTTI, Diventare giurista, ottobre 2012 (II ed. cartacea, .pdf) SOTTO COLLANA “OLTRE FINISTERRAE” diretta dal Prof. Lucio Pegoraro e dal Prof. Angelo Rinella MAURO MAZZA, Aurora borealis. Diritto polare e comparazione giuridica, luglio 2014 (cartaceo) MARIO TOCCI, Il danno punitivo in prospettiva comparatistica, giugno 2014 (cartaceo) SILVIA BAGNI (a cura di), Dallo Stato del bienestar allo Stato del buen vivir, settembre 2013 (cartaceo) ANTONELLO GUSTAPANE, Il Pubblico Ministero nel regime fascista, luglio 2014 (.pdf) LUCIA RIPA, Guida alla tassazione degli atti giudiziari, giugno 2014 (.pdf) CORRADO MANDIROLA - CAMILLA SIESS, La cessione della clientela negli studi professionali, maggio 2014 (.pdf) MAURIZIO VILLANI - IOLANDA PANSARDi, Guida pratica alle novità sulle società di comodo, aprile 2014 (.pdf) MARIO ALBERTO CATAROZZO, Guida pratica al sito internet per lo studio professionale, febbraio 2014 (.pdf) MARIO ALBERTO CATAROZZO, Guida pratica al public speaking per professionisti dell’area legale, febbraio 2014 (.pdf) VITTORIO MIRRA, Equity Crowdfunding: la guida pratica, gennaio 2014 (.pdf) FUORI COLLANA LUCIO PEGORARO, Libere traduzioni in libero stato (.pdf) DI PROSSIMA USCITA (titoli provvisori) ANTONIO ZAMA (a cura di), Stampa in 3D: la rivoluzione che cambia il mondo, in uscita novembre 2014 412 Le collane di Filodiritto Editore ANTONIO ZAMA (a cura di), La disciplina del crowdfunding: aspetti pratici e potenzialità