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Finisher o personal best: libertà e agonismo nella doppia anima della maratona

Nuova puntata del 'lessico del runner consapevole': questa volta il filosofo/podista riflette su come la maratona possa rappresentare, per molte persone, una prova alla quale affidare significati e valori anche molto profondi. "Ciò non dovrebbe farci dimenticare, però, che è pur sempre 'solo' una gara"
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UDINE - Nel suo libro Lungo lento – dedicato alla corsa di resistenza e alla pratica del limite – Paolo Maccagno parla della maratona nei termini di un evento che può essere vissuto secondo due logiche alternative: come un evento agonistico o come una sorta di rito di passaggio. A seconda della prospettiva il significato e i valori di quell’esperienza cambiano parecchio. Da un lato troviamo la rigida necessità del tempo cronometrico, individui che si sfidano e classifiche che stabiliscono gerarchie e differenze; dall’altro la libertà che scaturisce dall’esser parte di una comunità che non discrimina in base allo status cronometrico, che non fissa l’identità di ciascuno in base alla sua posizione in classifica.

Pur riconoscendo l’inevitabilità di entrambi questi atteggiamenti, la simpatia dell’autore sembra andare, in modo abbastanza chiaro, ad una interpretazione della maratona quale esperienza trasformativa, più che agone sportivo; un viaggio interiore che si appaga di arrivare alla meta e che prosegue anche oltre la linea d’arrivo. A differenza di colui che chiede d’essere riconosciuto sulla base del proprio personal best, spiega Maccagno, il finisher affronta la sfida come una sorta di avventura esistenziale. Maratona, dunque, come modo d’essere e forma di vita, più che competizione e risultato. Lettura suggestiva, quest’ultima, ma che lascia aperta una domanda: se è questo che si chiede alla corsa, perché attaccarsi un pettorale? Perché iscriversi a una competizione? Non sarebbe preferibile correre al di fuori di un dispositivo di potere che, creando differenze, ordina gli individui in base ai risultati che sono capaci di conseguire?
Sia chiaro: non ritengo ci sia nulla di male nel decidere di attaccarsi un pettorale solo per avere la garanzia di trovare un efficiente supporto logistico, rifornimenti assicurati e lo stimolo di correre in compagnia di tante persone. Nulla di male nel mettersi alla prova decidendo di fare una maratona. Solo che correrla, e correrla bene, è forse un’altra cosa.

A rafforzare questa mia convinzione viene in aiuto un lavoro che Gastone Breccia ha recentemente dato alle stampe. Nel suo La fatica più bella afferma che correre una maratona non significa, semplicemente, arrivare da un punto A ad un punto B comunque sia, ma arrivarci il più velocemente possibile in relazione alle proprie forze. Si tratta, in altre parole, di una gara di abilità nella quale le capacità di corsa e di resistenza alla fatica vengono portate al limite. Correre una maratona significa, per l’appunto, trovare l’equilibrio ideale (diverso per ciascun maratoneta) tra velocità e distanza. Il bello di questa gara è scoprire e custodire quell’equilibrio, per quanto ciò possa costare in termini di fatica (una fatica che, come scrive l’autore, bisogna saper abbracciare, trasformandola in fonte supplementare di energie). Quando l’equilibrio si spezza in modo irreparabile – perché si è stati troppo avventati o non ci si è preparati a sufficienza – non ha senso proseguire. In fondo si è già smesso di correre. Non c’è nulla da dimostrare: oltre un certo limite non vale la pena di soffrire ancora ed è più saggio ritirarsi rimandando la sfida. La maratona, conclude Breccia, chiede d’essere rispettata per ciò che è: una gara atletica esigente, nella quale si chiede a ciascuno di correre ai limiti delle proprie possibilità; non oltre ogni limite. Correre, appunto, e non trascinarsi dolorosamente fino al traguardo, quasi che la propria dignità fosse messa alla berlina dall’accettazione della sconfitta. Perdere, si sa, fa parte del gioco.

Trovo queste considerazioni molto interessanti nel loro fare da contrappunto alla lettura offertaci da Paolo Maccagno: indubbiamente la maratona può rappresentare, per molte persone, una prova alla quale affidare significati e valori anche molto profondi; ciò non dovrebbe farci dimenticare, però, che è pur sempre “solo” una gara. Personalmente mi ritrovo nelle parole di Breccia: correre una maratona è, propriamente, un fatto agonistico e non c’è nulla di eroico nell’arrivare al traguardo “costi quel che costi”. Ben altre sono le sfide della vita che richiedono tale determinazione.  
Ciò detto, resta il fatto che su una stessa linea di partenza partono, assieme, finisher e agonisti alla ricerca del proprio personal best; quanti intendono correre una maratona e quanti vogliono semplicemente fare una maratona portandosi a casa la soddisfazione di essere arrivati in fondo. Due modi diversi, e ugualmente legittimi, di partecipare ad un evento collettivo. Lo stesso atleta, del resto, può, in giornate diverse, disporsi alla gara con l’uno o l’altro di questi due atteggiamenti. E capita, talvolta, che nella stessa giornata, persa la sfida col cronometro, anche l’agonista più convinto si accontenti, “semplicemente”, di arrivare in fondo; essere un finisher, dunque, con buona pace del personal best.

Nel suo libro Breccia offre alcuni spunti di riflessione anche riguardo alla richiesta di riconoscimento che il runner affida alla pratica sportiva. Dalle sue pagine traspare infatti l’idea che nella maratona, intesa come evento agonistico, non si riceve dal di fuori un’identità sociale, quasi ci venisse appiccicata addosso contro voglia; piuttosto, mettendoci liberamente alla prova, abbiamo l’opportunità di riconoscerci per ciò che realmente siamo, al di là di ciò che crediamo, pensiamo o desideriamo. Il tempo del cronometro, in certa misura, certifica la capacità di autocoscienza di ciascun runner. Questo non toglie, tuttavia che anche il runner sia esposto alle sottile seduzione del narcisismo, grande malattia del nostro tempo. Ma questo sarà tema per un’altra puntata del nostro Lessico.

*Docente di Filosofia Morale all'Università degli Studi di Udine
 
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