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Corriere della Sera - 28 giugno 2019 - pagina 29
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L’ANALISI COMPETITIVITA’
«Piccolo (e medio) non è bello Le aziende devono diventare grandi»
di Roger Abravanel
La vendita di Castelli alla francese Lactalis e il salto che manca al «made in Italy»

La vendita di Castelli, leader italiano del parmigiano reggiano alla francese Lactalis (già proprietaria da noi di Parmalat, Galbani, Cademartori, Locatelli) è solo un’altra delle tante aziende del «made in Italy» vendute all’estero. Non sarebbe grave se a questo flusso di vendite all’estero corrispondesse un eguale flusso nell’altro senso: aziende italiane che acquistano aziende all’estero. Purtroppo non avviene e il gap è grande e crescente.

Perché è così grave ? Perché le aziende del «made in Italy» non riescono a fare il salto che le porta da «medie» (da 4-500 milioni di fatturato a 3-4 miliardi) a «grandi» (sopra i 15-20 miliardi) come quelle coperte dalla classifica Fortune 500. In questa classifica l’Italia perde terreno da 40 -50 anni. Oggi non abbiamo più davanti a noi i soliti Stati Uniti, Francia, Germania e Regno Unito ma anche Svizzera, Olanda, Canada. Ci ha superato anche la Corea del Sud. I nostri nostalgici del «piccolo è bello» e dei distretti industriali, non sono troppo preoccupati perché oggi si sono innamorati del «medio», aziende che operano in «nicchie» e diventano «multinazionali tascabili». Il problema è che, alla lunga, i colossi globali vincono contro le nostre «nicchie». Il signor Bernard Arnault di LVMH (terzo uomo più ricco del mondo) è il leader mondiale del settore del «lusso» (alberghiero, champagne, moda, cosmetici) e si compra le nostre belle «nicchie» nella gioielleria (Bulgari), cachemire (Loro Piana), alta moda (Fendi). La Nestlè, colosso dell’alimentare, ha incalzato le nostre «nicchie» del caffè anche se ormai multinazionali come Lavazza e Illy con l’innovazione delle capsule di Nespresso.

Questi colossi sono forti perché attraggono i migliori talenti del mondo, conoscono i mercati e i consumatori globali, hanno i muscoli finanziari per comprare chi vogliono e utilizzano il digitale in maniera efficace. Ma le grandi aziende globali non vincono solo nel settore industriale del made in Italy ma anche in quello dei servizi (turismo, servizi finanziari, costruzioni, utilities, telecom) che oggi rappresenta il 70% dell’economia. Le grandi catene alberghiere come Marriott, Hilton, Accor, Intercontinental stravincono contro le piccole catene di 7-8 alberghi (ovviamente contro gli alberghi padronali) perché non pagano le commissioni a booking.com, garantiscono con il loro brand qualità ai turisti, fidelizzano i clienti con le carte fedeltà e altre mille innovazioni nel marketing.

Perché per un paese sono importanti le «vere» grandi aziende? Perché sono quelle che creano i mestieri ad alto valore aggiunto e produttività, che sono poi quelli che pagano gli stipendi più alti. Le grandi aziende hanno bisogno di manager (risorse umane, marketing, innovazione/digitale, finanza), investono in ricerca e sviluppo, creano lavori di qualità. E hanno bisogno di laureati. Il fatto che la Corea del Sud abbia oggi 16 aziende tra le Fortune 500 spiega perché è diventata il record mondiale in quanto a numero di laureati. Invece, proprio perché il mix di mestieri italiani è più «povero» di mestieri ad alte competenze, il Paese crea meno opportunità per laureati e i nostri salari sono bassi e stagnanti.

Perché non ci sono da noi le grandi aziende ? Il problema è il nostro capitalismo famigliare che, paragonato a quello di altri paesi è spesso più familista che famigliare e raramente accetta la meritocrazia e la competizione. Non fa crescere il «made in Italy» perché non ha aspirazioni di leadership globale. Non fa acquisizioni per non andare sotto il fatidico 51% e continuare a offrire protezione alle nuove generazioni nelle aziende. Si trova più a suo agio nei «salotti buoni» di Torino, Milano, Bergamo, Roma, Bologna che a Londra, Parigi e New York. Il top management è rappresentato dalla famiglia o da un dirigente che si preferisce più fedele che bravo, che fa da «chioccia» ai rampolli e i consigli di amministrazione sono pieni di famigliari, amici e professionisti pieni di conflitti di interesse.

Nel mondo dei servizi poi i limiti del familismo aziendale sono fatali. Le capacità organizzative, la gestione delle persone, il digitale, il marketing e le acquisizioni di concorrenti sono, se possibile, ancora più importanti nei servizi che nella produzione dove il «prodotto» è chiave. Le aziende italiane «piccole e belle» sono state incentivate a restare tali dall’articolo 18, dall’evasione fiscale e da inciuci con amministrazioni locali (esempio settore delle costruzioni). Sono state protette come in nessun altro Paese al mondo da super lobbisti come Confindustria e Confcommercio e da un sistema bancario che per anni ha ucciso la sana competizione del credito. E così nel Paese che dovrebbe fare del turismo una priorità di sviluppo non è nata una sola grande catena internazionale alberghiera, né un grande distributore di farmaci come la Alliance Boots Walgreen, per ironia creata da un italiano, Stefano Pessina che ora torna per investire in Italia. Non ci sono grandi studi legali, grandi studi di architettura, le grandi aziende di costruzione che si sono salvate sono quelle che lavorano all’estero e le altre sono quasi tutte fallite.

Per assurdo Fortune ci fa vedere che il capitalismo di Stato ed ex-di Stato batte quello famigliare 6 (Enel, Eni, Intesa, Unicredit, Poste, Unipol) a 2 (Telecom Italia e Generali). Purtroppo FCA è considerata da quasi tutti non più italiana. E le 2 «private» non sono modelli di performance. Nel 1990 le Generali avevano una capitalizzazione pari al 70% di Allianz ed erano la seconda d’Europa, oggi valgono un terzo di Allianz e sono la sesta d’Europa. Non sarà facile la rincorsa iniziata qualche anno fa dal Leone di Trieste. Al tempo delle loro privatizzazioni Telecom Italia era più grande di Telefonica e oggi è meno della metà e la sua capitalizzazione da tre volte di quella di Telefonica è oggi meno di un quarto.

La nostra economia ha così perso il passaggio da industriale a post-industriale dei servizi della seconda metà del secolo scorso e adesso sta perdendo quella digitale dove il gap è già enorme e la stessa Europa perde contro gli Stati Uniti e la Cina. C’è ancora una fievole speranza e cioè che le nuove generazioni delle aziende famigliari italiane decidano di scoprire i valori della meritocrazia e della concorrenza per sfruttare la sfida digitale ed evitare la definitiva marginalizzazione.

Le imprese familiari

«Non fanno crescere il made in Italy perché non hanno aspirazioni di leadership globale»

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