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Araba fenice: dagli Esperanza a Dead Heat

Se li avete visti dal vivo, sapete che si tratta di un piccolo miracolo di impatto, forza ed espressività nella dimensione live. Ma ultimamente li avete visti poco dal vivo: anche perché a parte Sergio Maggioni, sempre milanese, gli altri due elementi stabili della band (Matteo Lavagna, aka Refleksie, già bassista nei Disco Drive, e Carlo Alberto Dall’Amico, alias Cécile) ora abitano a Berlino, e in generale nell’ultimo periodo i nostri eroi si sono rinchiusi in una pausa sia di riflessione che di rinascita. Già: perché gli Esperanza – di loro stiamo parlando – in realtà non esistono più, ma da queste ceneri rinascono come Dead Heat. Rinascono anche con una label diversa: non più Gomma, ma la Life and Death che tanto onore si sta facendo in giro per i dancefloor e le chart più o meno Residenti ed Avvisate. Scelta strana per una band live con tutti i crismi come gli Esperanza / Dead Heat sono; scelta perfetta ed inevitabile per tutta una serie di vicinanze personali, lavorative ed attitudinali. Col “Bosco EP” ora in uscita, che segna l’esordio discografico assoluto di questa “nuova vita”, abbiamo voluto farci una bella chiacchierata con Matteo Lavagna.

La prima domanda è inevitabile: da cosa nasce Dead Heat, e fino a che punto Dead Heat ed Esperanza sono due realtà sovrapponibili?

Dead Heat è una conseguenza di cose che ci sono successe nell’ultimo anno. Esperanza e Dead Heat non sono sovrapponibili, bensì Dead Heat è la conseguenza di Esperanza. Siamo cambiati un po’. Ci siamo scontrati. Ci siamo confrontati. Ci siamo aperti a nuove possibilità senza rinnegare nulla. Siamo certi dell’onestà di ciò che abbiamo fatto con Esperanza come siamo convinti che esplorare altri umori con mezzi e canali differenti fosse la cosa giusta da fare in questo momento.

La seconda domanda è altrettanto inevitabile: che influenza ha avuto il processo di berlinizzazione logistica che ha colpito alcuni di voi?

Qualsiasi posto ha il potere di influenzarti. Berlino di certo ti mette di fronte a diversi scenari di cui si è parlato già moltissimo. Diciamo che pur non essendo tutti a Berlino ci siamo visti per lavorare sempre qui. Non abbiamo quasi mai messo il naso fuori di casa o dallo studio. Il fatto di essere in una città che pulsa continuamente musica è qualcosa che ci ha fatto vivere sensazioni contrastanti. Da una parte la voglia di farci sentire, di farci ascoltare. Dall’altra il bisogno di prenderci il nostro tempo e il nostro spazio per lavorare al meglio delle nostre possibilità, bisogno che infine ha preso il sopravvento. C’è tantissima musica qui. Tanta da sentirsi come naufraghi a volte. Altre invece ti senti a casa.

Da un lato il fatto di approdare su Life and Death pare una scelta logica, visto il rapporto che avete con Daze come agenzia di booking (sia in un caso che nell’altro la figura di Manfredi Romano, alias Dj Tennis, è quella del fondatore); dall’altro può essere sorprendente, visto che L&D è per certi versi una etichetta prettamente dancefloor oriented, per quanto con derive atipiche, mentre gli Esperanza per quanto assai danzabili hanno una identità sbilanciata più sul versante live, con strumenti suonati, che su quello tipico del dancefloor da dj set… Quale percorso e quali valutazioni vi hanno portato all’approdo su Life and Death?

Life and Death ha mostrato un entusiasmo nei nostri confronti che è stato un toccasana. Credo che proprio Manfredi, amante sì del dancefloor ma anche di certe cose che abbiamo ascoltato per molti anni (il post rock di Chicago, le derive kraut di alcune cose inglesi come Broadcast o Stereolab, le cose Warp, la musica pop…), sia stato il maggiore promotore di questa idea. L’esperienza live con Esperanza ci ha dimostrato che certi nostri slanci verso il dancefloor hanno funzionato. Con Dead Heat tentiamo di elevare questi slanci a fondamenta del live, che sarà quindi ancor più votato al ballo. Sarà sicuramente più dilatato, e farà affidamento sulle macchine più che sugli strumenti “suonati”. Questa scelta deriva in parte da ciò che il materiale stesso richiede per essere eseguito, e in parte dal nostro desiderio di avere maggiore flessibilità nel proporre il nostro spettacolo, almeno all’inizio. Questo non esclude che in situazioni opportune non considereremo di riproporci con batteria e/o set-up più elaborati.

Come è maturata la scelta di affidarsi a Lucy e The Field per i remix?

Lucy ha sentito il demo di “Bosco” a casa di Manfredi e gli ha chiesto di poterlo remixare, cosa che ci ha resi molto orgogliosi: amiamo le sue produzioni, la sua cura dei dettagli, il suo suono. The Field è un caro amico e uno dei nostri produttori preferiti: ci sembrava perfetto per remixare “The Dam”. Dentro di noi sapevamo che avrebbe preso spunto dall’intro “ambient” (se così vogliamo chiamarla) ed è effettivamente successo. Sono due remix antitetici ma paradossalmente molto vicini.

“Bosco” e “The Dam” sono nate e sono state realizzate velocemente, o c’è stato bisogno di rifinire con attenzione sia lo spunto iniziale che la realizzazione concreta?

La gestazione di “Bosco” e “The Dam” è stata lunga. Sono successe molte cose dal momento in cui sono state scritte al momento in cui sono state masterizzate. Non è facile parlarne e forse non è nemmeno il caso. Quando si è concretizzata l’idea dell’ep su Life and Death poi Matteo e Manfredi ci hanno dato dei consigli che si sono rivelati preziosi e ci hanno aiutato. Diciamo che questa volta doveva davvero andare così, dovevamo seguire un iter più lungo del solito per poter confutare noi stessi, mettere in discussione tutto quello che stavamo facendo.

Quale strumentazione avete utilizzato, per i due brani?

Chitarra, Moog, un piano a muro, le stanze di una casa in collina, basso, Bosco (il mio cane), molti dischi, una voce.

State già lavorando a un album, o è ancora prematuro?

Stiamo producendo molte cose. Abbiamo già diverse tracce che riconosciamo come parte di un discorso più ad ampio respiro. L’album è sempre una sfida affascinante ma bisogna essere pronti. Vorremmo già poter dire di essere pronti, ma non è così. Stiamo scrivendo. Questo vuol dire che da qualche parte queste cose andranno a finire.

Fino a che punto siete un progetto artistico italiano, e fino a che punto invece la cosa è del tutto irrilevante?

Questo è un progetto italiano. E’ irrilevante il volerlo giudicare a livello creativo in base alla nazionalità dei suoi componenti. Ci siamo accorti che la nostra provenienza viene percepita nelle nostre produzioni da persone di altra nazionalità. Questo lo viviamo come una caratteristica, una peculiarità di cui prendersi cura e di cui andare fieri.