L'arrivo a Roma del presidente Xi Jinping (foto LaPresse)

Così siamo arrivati a stare con i cinesi senza avere niente in cambio

Giulia Pompili

Benvenuto mister Ping. L’uomo più potente del mondo a Roma firmerà un accordo con l’uomo meno potente di Roma, Luigi Di Maio

Roma. “Anche stavolta viaggio in seconda classe, vi taglieremo tutti i privilegi”. Quando è partito, nel novembre scorso, Luigi Di Maio ha usato le stories di Instagram per mostrare alla sua base elettorale che si stava recando a Shanghai, certo, ma rigorosamente in aereo di linea e per giunta in economy. Poco importa se il resto della delegazione del suo ministero, invece, era seduta comodamente in prima classe, e poco importa se poi – dopo un viaggio intercontinentale poco confortevole – era atterrato stanco, emaciato, con l’aria di chi al massimo può fare un giro turistico a Shanghai, ma di certo non trattare con la seconda economia del mondo.

 

 

Ma bisogna tornare a quelle immagini, e in generale a quella missione di quattro mesi fa, per capire come siamo arrivati a oggi, con la mastodontica delegazione arrivata da Pechino guidata dall’uomo più potente del mondo, il presidente cinese Xi Jinping. A novembre il sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci, “il cinese”, com’è affettuosamente chiamato nei corridoi del Palazzo, aveva convinto il suo ministro a recarsi al China International Import Expo, una fiera strettamente legata al progetto della Via della Seta. Volevano rendere l’Italia “protagonista” a Shanghai, mostrarsi ai funzionari cinesi come interlocutori credibili, ma poi tutto era finito con il video di Di Maio che parla in una stanzetta scarna, a margine del Forum, e risponde (in italiano) a una domanda chiamando l’uomo più potente della terra “presidente Ping”. Nel frattempo, al di là delle faccende più mediatiche, degli sgarbi diplomatici – per un paese come la Cina, dove l’apparenza è anche sostanza, presentarsi in economy class è come arrivare con i pantaloni abbassati – da Pechino avevano capito benissimo come usare questa superficialità.

  

È in quell’occasione che deve essersi consumato il dramma: Di Maio credeva di aver risolto ogni problema, forse voleva spiegare ai cinesi il reddito di cittadinanza e farselo finanziare, e invece si è ritrovato a dover dare garanzie ai suoi interlocutori, a promettere che l’Italia, primo paese del G7, era pronta a entrare politicamente all’interno del progetto della Via della Seta. In cambio, la Cina e le sue propalazioni finanziarie avrebbero aiutato l’economia italiana, con investimenti e infrastrutture e acquisizioni. Tornato a Roma, qualcuno deve avergli spiegato che no, che la firma di un memorandum simile avrebbe provocato un disastro diplomatico, con l’America e con l’Europa, ma a quel punto era troppo tardi, la Cina ormai avrebbe annullato la visita e tutti gli altri accordi.

 

Nel memorandum sulla Via della Seta non c’è niente di commerciale: è invece un cambiamento epocale della politica estera italiana. E anche così si spiega l’assenza pressoché totale della Farnesina da questa partita, come a voler prendere le distanze. In tutti i paesi che hanno fatto il loro ingresso nella Via della Seta, compresi i tredici europei, l’intesa è stata firmata dal ministro degli Esteri. L’Italia sarà l’unico paese che farà firmare quel documento al vicepremier e ministro dello Sviluppo economico. L’altro vicepremier, Matteo Salvini, che comunque ha dato il suo contributo attraverso un sottosegretario messo lì dalla Lega, ha detto che non parteciperà alla cena di stato in programma questa sera al Quirinale. Un altro sgarbo, che sarà interpretato come una spaccatura all’interno del governo. Ma che contribuirà a trasformare sempre di più Salvini nel campione dell’Atlantismo, dopo anni in cui l’America associava direttamente la Lega alla Russia. La reazione al pasticcio combinato da Di Maio con la Cina è visibile anche nel programma della sua visita in America il 26-27 e 28 marzo prossimi: incontri con la “collettività italiana” a New York, incontro con “i rappresentanti delle imprese italiane negli Stati Uniti” a Washington, ma nessuna personalità ad accoglierlo – neanche, a quanto pare, l’ambasciatore italiano Armando Varricchio.

  

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, come il buon padre di famiglia, in queste ore sta cercando la mediazione, per mantenere unità e credibilità laddove è sempre più difficile. In un’intervista all’agenzia di stampa cinese Xinhua ha detto ieri che la collaborazione dovrà essere “il più aperta e trasparente possibile”. Un auspicio, visto che secondo il memorandum che domani firmerà Di Maio è scritto che ogni controversia verrà “risolta tra le parti”, e non più da istituzioni internazionali, insomma come tra bulli: ce la vediamo io e te, fuori dal bar. A perdere però è sempre lui, Di Maio. Il successo mediatico, per la Cina, assicurato.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.