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Dossier Nei prossimi 5 anni cambieranno 6 lavori su 10. Ecco come

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    Dossier | N. 40 articoli I lavori del futuro

    Nei prossimi 5 anni cambieranno 6 lavori su 10. Ecco come

    La tecnologia cambia il volto al mercato del lavoro. Lo fa talmente velocemente che i lavoratori vedranno modificare il 50-60% delle attività che svolgono oggi nel giro di 5 anni. Un dato emerso nel corso del «Forum sul lavoro del futuro e le nuove competenze», organizzato dal Sole 24 Ore in collaborazione con EY, che ha visto la partecipazione di Donato Iacovone (ad di EY in Italia e Managing Partner dell’area Med), Domenico Parisi (presidente Anpal), Gianmario Verona (rettore università Bocconi), Elisabetta Ripa (Ad di Open Fiber), Barbara Cominelli (direttore marketing e operations Microsoft Italia) ed Eugenio Sidoli (presidente e Ad di Philip Morris Italia).

    «Il mercato del lavoro sta attraversando una fase di profondo cambiamento legato alle nuove tecnologie – ha sottolineato Iacovone - e l’automazione ne rappresenta una delle conseguenze principali. In molti si sono interrogati sul rischio effettivo, in termini di sostituzione del lavoro umano con le macchine. In realtà non esiste alcuna prova che il lavoro umano sparirà se non nel 5-10% dei casi e per le attività più ripetitive, ma è senza dubbio evidente un cambiamento delle abilità richieste ai lavoratori».

    Tutto questo - secondo le previsioni EY su dati Ocse e World Economic Forum - sta determinando la polarizzazione e segmentazione delle opportunità tra coloro che hanno le skills per competere in un mercato digitale e globalizzato, sempre più richiesti e bene retribuiti, e chi invece si trova costretto a competere per posti a bassa qualificazione (sempre meno richiesti e poco retribuiti).

    «L’Italia ha ottimi fisici, ingegneri, matematici - ha detto Iacovone -, ma in quanti sono in grado di usare le nuove tecnologie? Oggi è forte l’esigenza di “riformare” le competenze, da aggiornare almeno ogni sei mesi». Non basteranno hard skill e soft skill, ma serviranno competenze nuove, al confine tra le attuali abilità tecniche, manageriali ed empatiche per consentire ai lavoratori di reinventarsi di fronte alle innovazioni tecnologiche.

    Però il nostro Paese, secondo Iacovone, «è imbrigliato in una trappola di bassa crescita e bassa competitività, dove le condizioni del mercato del lavoro, seppure in graduale miglioramento, dimostrano che una quota importante del capitale umano è inutilizzata». I principali freni ? Un tessuto imprenditoriale dove spiccano le Pmi, la carenza di investimenti in innovazione e ricerca e la scarsa specializzazione nei settori high-tech. Tutto questo all’interno di un quadro globale in cui i guadagni di produttività provengono soprattutto dall’automazione.

    EY, che è promotrice dell’Alleanza per il futuro (coinvolte aziende leader di mercato, università e scuole superiori), ha presentato ieri un nuovo «Patto per l’educazione, la formazione e l’orientamento al lavoro» che si basa su tre pilastri: un approccio settoriale con investimenti pluriennali, supportati dalla leva fiscale e dai fondi interprofessionali; l’innovazione dei servizi per l’impiego con nuove soluzioni tecnologiche e il rafforzamento delle competenze degli operatori; una didattica flessibile grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie digitali.

    Per far fronte a quello che non è un cambiamento lineare ma una vera e propria disruption, ha sottolineato Gianmario Verona rettore dell’università Bocconi di Milano, occorre fare innovazione di processo perché la tecnologia digitale cambia le modalità con cui si trasferiscono i contenuti e diventa sempre più importante utilizzarla. «Questo è un tema fondamentale della politica della ricerca e della scuola: se non dotiamo le nostre scuole di un supporto tecnologico adeguato e continuiamo a insegnare il 2+2 con il gessetto alla lavagna, non facciamo un servizio ai nostri ragazzi che devono invece sfruttare gli strumenti di simulazione e le opportunità che si possono rendere disponibili in un contesto digitale». La scuola italiana eccelle per esempio dal punto di vista culturale e a livello metodologico, ma negli anni si sono affiancati tanti altri pilastri, a partire dal più banale che è l’inglese ma è spesso ancora uno sconosciuto.

    E poi c’è il tema della commistione delle discipline. «Il coding si porta a fianco la matematica che è diventata un vero e proprio linguaggio e non posso più immaginare la matematica separata dai saperi umanistici e quindi devo investire in questa direzione. Fare innovazione è straordinariamente complesso e la parola flessibilità, che è cruciale, non solo è legata agli outcome auspicati dal mercato del lavoro, ma anche all’offerta formativa. Se noi ragioniamo in un contesto per cui un ragazzo a 18 anni sa già che deve fare l’avvocato passando da 5 anni di giurisprudenza e poi dalla specializzazione, quindi con un approccio prettamente verticale, rispetto al mondo che è orizzontale e legato al creative e al critical thinking, commettiamo un errore importante».

    In questo contesto il sistema universitario anglosassone è più adatto in quanto caratterizzato da major e minor, con la possibilità magari di conseguire una specializzazione in data science con un minor in filosofia. Peraltro non c’è la necessità di avere una formazione per forza universitaria. Occorre considerare «in modo aperto, anche a livello di status, che nel mondo del futuro i “makers” potranno trarre grande vantaggio da una specializzazione conseguita prima, invece di seguire un percorso accademico».

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