Academia.eduAcademia.edu
NINO CAMPANOZZI, L’AMICO SOCIALISTA DI PIRANDELLO, ed altri autori omonimi del teatro dialettale siciliano A Bruno Lucchini, in memoria Così, ex-uomo, negli ultimi tempi parlando di sé si definiva Antonino Campanozzi. Le ragioni di questa definizione si chiariranno via via nel corso del nostro discorso, che comincia da quando, nel 1926, assumendo la direzione del giornale socialdemocratico <<La Giustizia>>, egli si trovò a dover affrontare la più difficile svolta della sua vita con la consapevolezza delle persecuzioni cui si esponeva. Il lettore dovrà aver la pazienza di rifarsi a un mio precedente lavoro, Pirandello impolitico, dove si parla diffusamente di questo sconosciuto amico di Pirandello1, cui lo scrittore aveva donato nei primi anni del secolo in pegno d’amicizia il manoscritto del Fu Mattia Pascal, ora alla Houghton Library della Harvard University, Cambridge (Mass., U.S.) 2. Nel Pirandello impolitico avevo ricostruito le origini e le ragioni della loro amicizia, anzitutto per i comuni interessi letterari e teatrali, ma anche per una tal quale simpatia di Pirandello verso il nascente socialismo, alla cui affermazione e alle cui lotte Campanozzi partecipò sin dalla giovinezza. Proprio nel momento dell’adesione di Pirandello al fascismo il rapporto tra i due si interromperà; e da qui io ora riprendo la storia di Campanozzi. Di tali avvenimenti, che si collegano alla storia assai complessa della sconfitta del socialismo in Italia, tratterò qui soltanto per quella parte che servirà a meglio inquadrare il coinvolgimento del nostro Campanozzi nella vicenda. Il 4 ottobre 1922, a ventiquattro giorni dal fatidico 28, s’era costituito il partito socialista unitario italiano (P.S.U.I.) dividendosi dalla maggioranza massimalistica del P.S.I, con Matteotti segretario generale, Turati, Treves, Modigliani, Beghi, lo stesso Campanozzi ed altri. <<La Giustizia>>, il foglio creato da Camillo Prampolini nel 1886, che trasferiva la sua sede da Reggio Emilia a Milano, diventava l’organo ufficiale del P.S.U.I. sotto la direzione di Claudio Treves, con l’intento di emulare l’<<Avanti!>>, rimasto ai massimalisti. Si consumava così l’ennesima scissione che finiva di ridurre a ben poca cosa quel partito socialista che nelle elezioni del 16 novembre 1919, neppure tre anni prima, s’era affermato come il più forte raggruppamento politico italiano, attestandosi al 32,3% con 1.834.792 votanti e 156 deputati. Il P.S.I. aveva distanziato di ben 11,8 punti percentuali anche un altro partito, quello popolare (P.P.I.), che si presentava per la prima volta e che si affermava al secondo posto con il 20,5%, 1.167.354 votanti e 100 eletti. Questo nuovo partito, sorto subito dopo i rivolgimenti della guerra, era entrato nell’agone politico con un programma di moderna democrazia cristiana nella consapevolezza d’una ripresa neoguelfa nella storia italiana, confermando, da un lato, la propria distinta identità dal laicismo risorgimentale e, dall’altro, tracciando ben precisi confini anche verso l’ateismo positivistico e socialista. Entrambi i partiti, il socialista e il popolare, sommati assieme rappresentavano dunque da soli il 52,8%, la maggioranza del parlamento. Ma l’altro aspetto rilevante era la loro completa estraneità ai tradizionali schieramenti nati dal risorgimento che raccoglievano il restante 47,2% e costituivano tuttavia l’asse portante della vita politica nazionale. La novità di questi due partiti, a pieno titolo definibili “di massa” e fortemente strutturati nelle loro componenti operative, consisteva nella discontinuità rispetto agli equilibri politici preesistenti. L’introduzione del suffragio universale maschile nelle elezioni generali del 1913 fu l’ultimo atto di grande rilievo del decennio giolittiano. Con tale riforma elettorale quelle forze che al risor1 Salerno, Roma, 2000, p. 41-46, 48-54, e pass. Cfr. Nino BORSELLINO, Ritratto e immagini di Pirandello, Laterza, Roma-Bari, 1991, p.167-83; e, dello stesso, Il dio di Pirandello, Sellerio, Palermo, 2004, p. 40-71. 2 2 gimento erano state o estranee o ostili, venivano spinte a rimettersi in gioco. Giolitti aveva intuito che la possibilità di infrangere il non expedit passava attraverso l’ampliamento del corpo elettorale, spingendo i cattolici più moderati a collaborare, a determinate condizioni (patto Gentiloni), con l’indebolito ceto dirigente liberale. Parimenti, il suffragio universale, finora solo auspicato ma neppure sperato dai socialisti, era la nuova occasione offerta loro per uscire dallo stallo d’una lunga opposizione perseguita per un ventennio. Ciò che lo statista di Dronero non avrebbe potuto neppure immaginare era che da lì a un anno sarebbe scoppiata la guerra in Europa. Corse, è vero, ai ripari concordando con Salandra, presidente del consiglio, e col marchese di San Giuliano, ministro degli esteri, la linea della neutralità per l’assenza del casus foederis nell’alleanza con gli imperi centrali; ma nulla poté poi contro la congiura della monarchia decisa a precipitare l’Italia nella fornace del conflitto. Accadde così che la XXIV legislatura, uscita dalle prime elezioni a suffragio universale del 26 ottobre 1913, si prolungasse oltre ogni limite prevedibile, per oltre sei anni, fino al dopoguerra. Dopo il conflitto mondiale nulla era più come prima. Da qui, quindi, nel 1919, la decisione del governo Nitti, nel timore fondato della sconfitta liberale, di introdurre il sistema elettorale proporzionale come estremo rimedio per il salvataggio dello stato risorgimentale. Sulla base di tali imponenti risultati elettorali, a entrambi i partiti socialista e popolare si prospettavano quindi interrogativi e attese di grande peso. Erano essi nella condizione di uscire dall’opposizione, tradizionale per il P.S.I., e delineare programmi di governo di cui sapessero assumere in pieno le responsabilità, o, quanto meno, impostare sia pur limitate intese di collaborazione governativa con le forze politiche tradizionali? Se dalla nascita del partito dei lavoratori (Genova, 14 agosto 1892) attraverso la lunga e ormai quasi trentennale esperienza di lotte parlamentari e di conquiste sociali i socialisti avevano potuto acquisire, soprattutto per merito del gruppo dirigente riformista, un cospicuo bagaglio politico, dall’altro canto il partito popolare, costituitosi nel congresso nazionale di Bologna del 14-16 giugno 1919, aveva cinque mesi appena di vita. Ed ecco il primo paradosso. Proprio il partito popolare, radicato nelle autonomie tradizionali del suo elettorato e desideroso di vendicare l’emarginazione subita nel processo unitario, diventava l’ago della bilancia della politica nazionale per l’impossibilità dei socialisti di accettare qualsiasi responsabilità governativa a causa delle lacerazioni da cui erano profondamente divisi. Delle correnti del P.S.I. alla fine della guerra, la prima era quella riformistica, l’antica e storica corrente, unita intorno al suo gruppo dirigente ma minoritaria nel partito anche se forte ancora nel parlamento, nel sindacato e nel cooperativismo. Quegli uomini continuavano a non discostarsi dal gradualismo d’anteguerra e, pur riconoscendo l’esigenza di ormai indifferibili trasformazioni sociali, escludevano la prospettiva d’una imminente rivoluzione proletaria in Italia. Diversa l’impostazione della corrente massimalistica, la maggioranza del partito, alla quale andava il merito d’aver mantenuto saldo il principio della neutralità negli anni della guerra e realizzato, alla fine del conflitto, la grande raccolta di consensi che aveva portato il P.S.I. ad essere il maggior organismo politico italiano. Ora Giacinto Menotti Serrati, il principale esponente della corrente, e con lui Costantino Lazzari, Fabrizio Maffi e gli altri massimalisti, cogliendo le suggestioni degli avvenimenti del 1917, consideravano vicina e possibile un’azione rivoluzionaria anche in Italia. Al partito, che aveva aderito alla terza internazionale (cioè all’organo di collegamento tra i partiti socialisti e comunisti costituito a Mosca agli inizî del 1919), si ponevano perciò come irrinunciabili gli obiettivi di una costituente repubblicana e della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio. Ma all’interno della stessa maggioranza massimalistica (che tra l’altro, proprio per le elezioni generali del ’19, s’era ulteriormente divisa in “astensionisti” ed “elezionisti”, con prevalenza alla fine di questi ultimi), s’era formata una nuova corrente che puntava direttamente alla presa del potere secondo l’esperienza del comunismo russo. L’economia in pezzi, l’inflazione in crescita esponenziale, la disoccupazione, gli scioperi, i tumulti e i saccheggi per il carovita, tutto prefigurava uno scenario interno e internazionale completamente nuovo. In due città, una del nord, Torino, e 3 una del mezzogiorno, Napoli, antiche capitali dei due più importanti stati preunitari, s’erano raccolti intorno a due riviste, L’Ordine nuovo di Antonio Gramsci, e Il Soviet di Amadeo Bordiga, i due gruppi che convergevano verso quello stesso obiettivo. Il punto fu posto rigidamente dalla terza internazionale nel suo secondo congresso svoltosi a Mosca dal 23 luglio al 6 agosto 1920, quando venne chiesta al partito socialista la rottura con i riformisti e la loro espulsione. La valutazione fatta dal Comintern (come la terza internazionale d’allora cominciò a chiamarsi) era che in Italia ci fossero le condizioni per un’azione rivoluzionaria e che occorresse un rapido adeguamento del partito alle nuove esigenze. In quella stessa primavera infatti le richieste di miglioramenti salariali nelle industrie metallurgiche e meccaniche avevano portato a uno stato di tensione sfociato in scioperi e in ostruzionismo, cui il padronato aveva risposto con la serrata degli stabilimenti (30 agosto). A quel punto, dinnanzi a tale atto estremo, gli operai, circa 500 mila del triangolo industriale Torino-Milano-Genova, procedettero (31 agosto) alla occupazione delle fabbriche. Fu il momento decisivo; ma ancora una volta il governo presieduto da Giolitti, sdrammatizzando gli eventi con la consueta tattica temporeggiatrice, riuscì a porre le premesse per una soluzione non insurrezionale. La tensione progressivamente salita nel mese di settembre, si allentò all’ultimo e portò alla firma di un accordo (1° ottobre) secondo il vecchio schema riformista, che lasciò negli industriali il sollievo della passata paura ma soprattutto una voglia di rivincita che il fascismo già si apprestava ad offrire. Naturalmente, raffrontato all’obiettivo rivoluzionario, il successo sindacale apparve subito nelle sue più reali dimensioni: una vittoria di Pirro. E quindi la posizione di Serrati fu di rinviare al prossimo congresso del P.S.I. ogni decisione sulle richieste del Comintern, dubitando dell’esattezza delle analisi e preoccupato che l’espulsione dei riformisti potesse avere per il partito un costo ben più alto del previsto. Posizione inaccettabile per l’estremismo utopico di Bordiga, che si muoveva con l’appoggio anche del gruppo torinese. Nel XVII congresso di Livorno (15-21 gennaio 1921) si assistette così a un altro paradosso: quel che doveva essere l’espulsione a destra dei riformisti, fu invece la scissione a sinistra, con l’uscita di coloro che andarono a formare il partito comunista (P. C. d’Italia): Bordiga, Gramsci, Grieco, Terracini e gli altri. Lo sconquasso in seno al congresso fu tale che vennero annullate – sia detto per inciso – le relazioni già previste, affidate al riformista Nino Campanozzi, ad Angelo Filippetti, sindaco di Milano, e ad Ottavio Pastore sull’azione del partito nelle pubbliche amministrazioni, nei comuni, nelle provincie e nella lega dei comuni3. Il P.S.I. subiva il suo primo salasso, che ebbe immediato riflesso nelle elezioni generali da lì a poco di nuovo convocate da Giolitti con la dichiarata necessità di disporre del voto dei territori di nuova annessione e di mettere un argine, con un nuovo esecutivo legittimato dal voto popolare, alla crescente violenza che turbava la convivenza sociale. Nelle elezioni del 15 maggio ’21 il partito socialista perse il 7,6%, che andò solamente per il 4,6% alla nuova formazione comunista, attestatasi infatti su tale risultato. Iniziò da lì quella irreversibile parabola discendente del P.S.I. che costituì una delle cause del fallimento della democrazia italiana nel dopoguerra. Ebbero invece incremento ulteriore i popolari, che passarono a 1.347.305 voti di lista e a 108 seggi al parlamento; ma si presentò soprattutto minaccioso il movimento fascista che, attraverso i blocchi nazionali, nei quali s’era inserito aggregandosi ai nazionalisti, ai liberali di destra e agli agrari, riuscì ad assicurarsi 35 seggi in parlamento, confermando il vistoso spostamento a destra in atto. Anche nel XVIII congresso socialista di Milano del 10-15 ottobre 1921 la sempre più preoccupante situazione politica fece di nuovo accantonare la questione dell’espulsione dei riformisti; e questi ultimi anzi se ne avvantaggiarono per proporre la prospettiva ormai matura della collaborazione governativa. Alla fine prevarrà la linea della maggioranza massimalistica di Serrati che, sottovalutando la pericolosità della situazione, decise per il mantenimento d’una posizione d’attesa, riducendo alla sterilità il P.S.I. in quell’anno in cui lo squadrismo aveva cominciato a colpire implacabilmente nelle città e nelle campagne. 3 Così risulta nel Resoconto stenografico del XVII Congresso Nazionale del Partito socialista italiano. Livorno 15-20 gennaio 1921. Edizioni Avanti!, Milano, 1962, p. 7 e 411. 4 Fu così che (come ricordavamo all’inizio) nel XIX congresso di Roma del 1°-4 ottobre ‘22, il partito socialista andò incontro a una nuova scissione, questa volta a destra, e nelle condizioni peggiori. La spaccatura fu a metà. Sui poco più di settantamila voti delegati, 32.106 andarono alla mozione massimalista e 29.119 ai riformisti, gli altri si astennero. Non solo si consumò la rottura con la corrente di Turati, Treves e Matteotti, ma fu lo stesso P.S.I. a uscirne decimato: quello che era stato il più grande partito politico italiano, le cui radici affondavano nella storia stessa del processo di sviluppo del paese, stava disperdendo i frutti e il patrimonio di una lunghissima stagione di lotte operaie e democratiche. E, per un altro strano paradosso, la bandiera della lotta al fascismo passava nelle mani di un riformista, Matteotti, che sarebbe diventato con il sacrificio della sua vita il simbolo della libertà sconfitta e insieme la nemesi da allora sempre incombente sul destino della dittatura. Il processo di dissoluzione del troncone massimalistico del P.S.I. continuerà nel corso del 1923 con il XX congresso del 15-17 aprile, quando si delineò un’ennesima contrapposizione tra Serrati e la maggioranza antifusionista (5.361 voti congressuali contro 3.968, indice del calo vertiginoso degli iscritti). Era accaduto che il Comintern, con un improvviso cambiamento di rotta, aveva ravvisato nella travolgente affermazione fascista la più grave sconfitta subita in Europa e di nuovo cambiato strategia proponendo la fusione in un fronte unico dei partiti operai. La decisione aveva incontrato, da una parte, la resistenza di Bordiga, a capo del P.C.d’I., che temeva il pericolo di un ritorno all’indietro con il ripudio della stessa scissione dalla quale il suo partito era nato, e, dall’altra, l’opposizione anche dei massimalisti, contrari alla linea del fronte unico per analoghe e opposte ragioni identitarie. D’altronde il P.S.U.I., che con Matteotti lavorava semmai a un recupero degli iscritti del P.S.I., era del pari totalmente avverso a ogni ipotesi fusionista. Solo Serrati con un’esigua minoranza di terzini (cioè di “terzinternazionalisti”), dinnanzi al pericolo sempre più grave del fascismo s’era determinato a perseguire quella linea. Accadde così una nuova lacerazione tra Serrati e i vincitori del XX congresso, Pietro Nenni (che aveva preso con un colpo di mano il controllo dell’<<Avanti!>>), Arturo Vella e Costantino Lazzari, i quali lo espulsero dal partito insieme agli altri terzini accusandolo di frazionismo per aver iniziato la pubblicazione del quindicinale <<Pagine rosse>> con cui sosteneva e motivava la sua battaglia. Serrati, che aveva ormai posto al centro della sua lotta politica la resistenza alla dittatura, finirà per aderire nell’agosto 1924 al partito comunista, riavvicinandosi a quei giovani che nella Torino degli anni della guerra aveva raccolto attorno a sé aprendo loro le pagine dell’<<Avanti!>> e portandoli alla maturazione politica. Con loro si ritrovava ora per la sua ultima battaglia antifascista. Morirà per un infarto l’11 maggio 1926 a 54 anni. Gramsci lo ricorderà così sulle pagine de <<L’Unità>> (14 maggio ’26), il giornale che lo stesso Serrati aveva contribuito a creare nel 1924: << È nel periodo della guerra che le masse popolari italiane hanno conosciuto e amato Serrati. Egli riscattava con la sua volontà rettilinea la funzione del capo rivoluzionario, che era stata degradata da uomini come Enrico Ferri, Arturo Labriola, Benito Mussolini, espressioni massime di quel bonapartismo di partito al quale abbiamo accennato4. La popolarità di Serrati non si formò nelle facili arene dei grandiosi comizi dei tempi normali, quando era facile con le smaglianti orazioni, o con la bassa demagogia, sommuovere il sangue delle folle e farsi coreograficamente portare in trionfo, quando le grandi fame si costituivano in quindici giorni per diventare infamie nei quindici giorni successivi. 4 A. GRAMSCI, La costruzione del partito comunista 1923-1926, Einaudi, Torino, 1974, p.111-12. Il testo dell’edizione Einaudi presenta alcune singolari lacune. Laddove sono fatti i nomi di Arturo Labriola e di Benito Mussolini c’è la seguente soppressione: <<…Enrico Ferri ed altri, i cui nomi sono nella memoria di tutti>>. Alcune righe precedenti dello stesso articolo (p.110) subiscono un analogo intervento censorio; il passo integrale suona così: <<Per esprimersi con un termine politico approssimativo, può dirsi che nel movimento socialista rivoluzionario italiano sia sempre esistita una situazione di bonapartismo in cui era possibile, a degli uomini più o meno convinti, di conquistare il posto della più alta dirigenza con dei colpi di mano improvvisi, attraverso effimeri personali successi ottenuti in un congresso o nel corso di un'agitazione operaia. Non esisteva altra forma di selezione, appunto perché non esistevano raggruppamenti stabili strettamente collegati col proletariato urbano, cioè con la frazione più rivoluzionaria della massa lavoratrice>>. Il testo dell’edizione Einaudi, che evidentemente riporta quello amputato dalla censura fascista su <<L’Unità>>, si arresta alla frase il posto della più alta dirigenza, mentre l’aggettivo convinti è sostituito con sinceri. 5 Essa si formò lentamente, a mano a mano che fin nei più profondi strati della vita popolare, nella trincea del Carso o nel villaggio siciliano, nonostante “l'Avanti!” fosse ridotto a pochissime decine di migliaia di copie, arrivava la notizia che un giornale diretto da un uomo che si chiamava Serrati non piegava né alle blandizie, né alle minacce della classe dominante e che esso testardamente e intrepidamente rispondeva "no" in nome dei lavoratori a chiunque volesse in un modo o nell'altro conquistare alla guerra la coscienza delle grandi folle. È certo che Serrati fu allora amato come mai nessun capo di partito è stato mai amato nel nostro paese >>5. Il rifiuto di Vittorio Emanuele nella mattina del 28 ottobre 1922 di firmare lo stato d’assedio fu l’abile mossa della monarchia per riportare la nomina di Mussolini in un ambito di normale avvicendamento ministeriale, svuotando l’aspetto eversivo della marcia su Roma a una folcloristica manifestazione patriottica: tutto, dunque, nella prassi costituzionale. Ma non queste erano le intenzioni di Mussolini e tanto meno dei fascisti. Chiesta al parlamento la delega dei pieni poteri col pretesto di un riordino della pubblica amministrazione, Mussolini procedette tra il novembre e il dicembre 1922 alla creazione di due nuovi organismi, il gran consiglio del fascismo e la milizia volontaria: i primi atti demolitori del preesistente ordinamento statutario. Con la creazione del gran consiglio del fascismo fu introdotto al vertice dell’esecutivo un elemento di grave squilibrio, una sorta di supergabinetto che periodicamente si riuniva per tracciare le grandi linee della politica del regime destinate poi a venir elaborate, per la concreta applicazione, dal consiglio dei ministri e dalle amministrazioni dello Stato6. Ancor più grave la creazione della milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che aprì la strada a un rivolgimento senza precedenti: l’immissione nel corpo dello Stato di una nuova forza armata dichiaratamente di parte, pronta agli “inevitabili e inesorabili sviluppi della rivoluzione d’ottobre”7. L’intenzione di assorbire in essa lo squadrismo legalizzandolo e controllandolo, come molti anche in ambito antifascista si sforzarono di credere, fu un ulteriore inganno, perché lo squadrismo non finì se non quando, dopo la stabilizzazione della dittatura (1926), esso non servì più a Mussolini, il quale solo allora utilizzò le stesse leggi per la difesa dello Stato contro le frange squadristiche più riottose a piegarsi alla sua volontà. L’avvio, infine, della riforma della pubblica amministrazione, mostrò subito quali ne fossero gli scopi: rimetter mano alle mai sopite tentazioni autoritarie anche di precedenti governi con drastici sfoltimenti delle categorie più combattive e meglio organizzate sindacalmente (46.566 ferrovieri, 8.621 dipendenti postali, ecc.) 8, con un riflesso immediatamente intimidatorio su tutto il pubblico impiego. Nell’opera sistematica di conquista dello Stato una cura particolare il fascismo dedicherà a colpire la libertà d’espressione, dapprima con gli assalti ai giornali, la distruzione delle tipografie, l’aggressione ai redattori, e poi con un decreto-legge (15 luglio 1923) sulla vigilanza dei giornali e delle pubblicazioni periodiche. Le ragioni di tale accanimento erano evidenti: togliere alle voci del dissenso e dell’opposizione la possibilità di farsi ascoltare, costringendole progressivamente al silenzio. Le persecuzioni subite da <<La Giustizia>>, il foglio del P.S.U.I., non furono diverse né minori di quelle subite dagli altri quotidiani di qualsivoglia indirizzo essi fossero, sol che mostrassero indipendenza di giudizio o non si sottomettessero. Da una presentazione di Gaetano Salvemini alla mostra fatta a Parigi nel 1928 sulle condizioni della stampa italiana negli anni dell’avvento del fascismo, estraiamo quanto concerne le persecuzioni subite da quel giornale: …I locali dell’organo del partito socialista riformista di Milano, <<La Giustizia>>, furono saccheggiati nel dicembre del 1923 e nell’aprile e nel settembre del 1924 […]. 5 In argomento v. il recente postumo lavoro di Alessandro NATTA, Serrati. Vita e lettere di un rivoluzionario, Editori Riuniti, Roma, 2001. 6 A. AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino,19952 con introduz. di G. Lombardi, p.16. 7 Così nella dichiarazione del gran consiglio del fascismo, seduta del 12 genn. 1923; in P.N.F., Il Gran Consiglio nei primi dieci anni dell’era fascista, Roma, 1933, p. 24; cfr. A. Aquarone, cit., p.19. 8 La tabella riassuntiva fornita da R. DE FELICE, Mussolini il fascista, I, La conquista del potere 1921-1925, Einaudi, Torino, 1966, p. 397, fa assommare a 65.274 unità il personale eliminato dall’amministrazione statale a tutto il 30 aprile 1924. 6 …Nel 1925 <<La Giustizia>>, dopo esser stato sequestrato quotidianamente per quindici giorni, uscì un giorno con il solo titolo e le rubriche: Cronaca di Milano, Teatri, Ultime notizie, ecc. Le altre colonne erano tutte bianche. Il giornale fu sequestrato perché le autorità temevano che “turbasse l’ordine costituito”. Il 10 giugno 1925, primo anniversario della morte di Matteotti, il giornale riprodusse in prima pagina il ritratto di Matteotti, senza una parola di commento. Fu sequestrato per gli stessi motivi […]. …<<La Giustizia>> del 25 dicembre 1925 accusò il deputato fascista Bigliardi d’aver organizzato un falso attentato contro se stesso, e dare così ai fascisti di Reggio Emilia un pretesto per esercitare delle rappresaglie, durante le quali fu ucciso un operaio, molti altri furono feriti e circa trenta cooperative socialiste furono incendiate e saccheggiate. Quell’edizione de <<La Giustizia>> fu sequestrata dal prefetto di Milano: metteva in pericolo la quiete pubblica. Un anno dopo, il direttorio del partito fascista riconobbe che le accuse rivolte a Bigliardi erano perfettamente fondate e lo espulse dal partito 9. Ed Emilio Lussu ne La catena, altro raro testo dell’antifascismo militante, ricordava che, dopo l’attentato dell’irlandese Violet Gibson (7 aprile 1926), il più pericoloso dei quattro subiti da Mussolini perché ne ebbe una ferita al naso, ancora una volta si scatenò la violenza fascista con devastazioni delle sedi dei giornali dell’opposizione, e naturalmente anche de <<La Giustizia>>10. Quando poi, poco tempo dopo, si verificò un altro singolare attentato, quello di Bologna del 31 ottobre 1926 che coinvolse un sedicenne, Anteo Zamboni, cui mancava ogni movente antifascista e che fu selvaggiamente linciato e ucciso11, ripresero in grande stile le bastonature degli avversari, l’assalto e il saccheggio delle loro abitazioni, le devastazioni delle sedi dei partiti e dei giornali dell’opposizione. E fu in quell’occasione che tra le abitazioni prese d’assalto a Roma, insieme a quelle dei giornalisti Cianca, Giannini ed altri, ci fu anche quella di Campanozzi12. Il primo attentato, soltanto progettato e per di più controllato dalla polizia attraverso un suo emissario, aveva provocato un’ondata repressiva che aveva travolto insieme il P.S.U.I. e le organizzazioni massoniche. Il 4 novembre 1925, infatti, erano stati tratti in arresto Tito Zaniboni, ex deputato del P.S.U.I. e aderente alla massoneria, il gen. Luigi Capello, anch’egli massone, e lo stesso gran maestro della massoneria di palazzo Giustiniani, Domizio Torrigiani. Le conseguenze per il P.S.U.I. e per la massoneria furono lo scioglimento delle loro organizzazioni, la sospensione del giornale di partito <<La Giustizia>> e la persecuzione dei loro aderenti. Fu allora che il gruppo parlamentare socialista unitario, per scongiurare la dissoluzione politica del P.S.U.I., escogitò di ricostituirlo sotto la nuova denominazione di partito socialista dei lavoratori italiani (P.S.L.I.), del cui comitato centrale andarono a far parte Emilio Caldara, Oddino Morgari, Antonio Priolo, Emilio Zennerini e lo stesso Campanozzi13, sperando che la presenza di esponenti non di primo piano valesse ad attenuare o ad allontanare le persecuzioni fasciste. Ma sin dal 3 gennaio 1925 il discorso di Mussolini alla camera dei deputati aveva segnato il punto di non ritorno nella conquista del potere. Assumendo su di sé le responsabilità del delitto Matteotti, Mussolini aveva sfidato l’opposizione e sancito l’inizio della dittatura in Italia. Per passi successivi le tappe di questo processo si riassumono in una serie di provvedimenti tutti concentrati 9 G. SALVEMINI, Opere VI, Scritti sul fascismo, II, a c. di N. Valeri e A. Merola, Feltrinelli, Milano, 1966, p. 379-80, pass. 10 E. LUSSU, La catena, a c. di Mimmo Franzinelli, Baldini e Castoldi, Milano, 1997, p.13. Il libro, pubblicato a Parigi nel 1930, ebbe la prima edizione italiana a Roma nel 1945. Di recente Franzinelli lo ha ripubblicato e opportunamente commentato e annotato. 11 B. DALLA CASA, Attentato al duce. Le molte storie del caso Zamboni, Il Mulino, Bologna, 2000. 12 E. LUSSU, La catena, cit. p. 18; G. SALVEMINI, Opere VI, Scritti sul fascismo, I, a c. di R. Vivarelli, Feltrinelli, Milano, 1963, p.126. 13 R. DE FELICE, Mussolini il fascista, II, L’organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, Einaudi, Torino, 1968, p. 142 in nota. Emilio Caldara (1868-1942) era stato il primo sindaco socialista di Milano dal 1914 al 1920. Oddino Morgari (1865-1944) era stato a capo di quella corrente “integralista” che negli anni 1906-1908 mediò tra il riformismo di L. Bissolati e il rivoluzionarismo di E. Ferri. Della militanza assidua del Campanozzi nel partito v’è traccia anche nel vol.VI del Carteggio tra Filippo TURATI e Anna KULISCIOFF, Einaudi, Torino, 1959, p.429, in cui Turati descrive una riunione del gruppo parlamentare allargata a Luigi Basso e ad Antonino Campanozzi, per discutere l’atteggiamento da tenere nella ricorrenza del 10 giugno, primo anniversario dell’assassinio di Matteotti. La pur attenta e scrupolosa cura dedicata da Alessandro Schiavi al Carteggio incorre qui in errore leggendo Camponasso in luogo del corretto Campanozzi. 7 tra la fine del 1925 e il 1926. Si partì con la legge sulla soppressione delle associazioni e per la nomina dei podestà nei comuni in luogo dei sindaci (26 novembre 1925); seguirono le leggi sulle prerogative del capo del governo (24 dicembre 1925) e sulla facoltà del governo di emanare norme giuridiche (31 gennaio 1926); nuovi provvedimenti repressivi della stampa (31 dicembre 1925); la legge sulla perdita della cittadinanza per gli esuli politici all’estero (31 gennaio 1926) e, in crescendo, il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza che dava facoltà ai prefetti di sciogliere le organizzazioni politiche e sottoporre ad ammonizione o al confino le persone pericolose per l’ordine pubblico (6 novembre 1926), la dichiarazione di decadenza dal mandato parlamentare di 120 deputati dell’opposizione (9 novembre 1926), infine le leggi per la difesa dello Stato e per l’istituzione del tribunale speciale (25 novembre 1926). Le libertà conquistate mano a mano e faticosamente dal popolo italiano in un settantennio di sviluppo democratico, vennero così spazzate via nel giro di poco più di un anno. E fu così che Campanozzi si trovò ad affrontare la nuova svolta del suo destino. Il 2 dicembre 1926 veniva tratto in arresto su ordinanza della commissione provinciale per l’assegnazione del confino di polizia. Il dispositivo, con cui gli venivano comminati cinque anni, recitava: “per i suoi precedenti, per l’attività sovversiva diretta a sovvertire violentemente gli ordinamenti nazionali, sociali ed economici dello Stato, a menomarne la sicurezza e a contrastare e ostacolare l’azione dei poteri”. Nulla di più falso: la commissione presieduta dal prefetto Paolo D’Ancora applicava un formulario prestampato14 che veniva completato col nome di colui che, per una ragione o per l’altra, figurasse implicato in attività o in organizzazioni politiche non gradite al regime e per ciò stesso sottoposto a persecuzioni. Un mese prima, il 7 novembre 1926 (come leggiamo in un’altra sgrammaticata prosa burocratico-poliziesca), Campanozzi aveva ricevuto la notifica della soppressione del giornale che dirigeva: Avanti a noi Moscariello Salvatore, Maresciallo di I classe degli Agenti di P. S., avuta la presenza del dottor Antonio Campanozzi abitante in via 24 Maggio 51, p. 4°, presso Brügner, abbiamo al medesimo notificato il decreto del Signor Prefetto di Roma n° 20471 in data 1° novembre 1926 relativo alla soppressione del periodico <<Giustizia>>, del quale il medesimo ne è il Direttore, rilasciandone copia 15. Nello stesso momento gli era arrivato l’invito dell’Associazione Stampa periodica italiana “ad aderire e ad accettare il programma e la disciplina della Federazione fascista giornalisti italiani e della Corporazione nazionale della Stampa, secondo gli statuti della Confederazione delle Corporazioni sindacali fasciste”, cui, il 21 novembre 1926, Campanozzi rispondeva con le dimissioni dall’Associazione, <<essendo stato soppresso il giornale che dirigevo e non potendo più esercitare la professione di giornalista>>, e restituendo la tessera di socio16. Ecco l’itinerario di un uomo che si accingeva a diventare un ex-uomo: l’arresto e la partenza per il confino, l’abbandono di ogni precedente attività, il destino segnato per lui e per chi, come lui, non accettava di sottostare al giogo fascista. All’infondatezza dell’accusa di essere un “sovversivo”, il nostro Campanozzi cercò di opporsi, ricorrendo alla commissione centrale per l’assegnazione del confino. L’esposto, scritto dal carcere di Regina Coeli il 9 dicembre 1926, rimase lettera morta. Abbiamo ritrovato l’esposto tra gli atti del suo fascicolo di sorvegliato speciale17 in cui egli rivendica il proprio operato, sforzandosi di dimostrare l’inconsistenza degli addebiti, non applicabili al suo caso: 14 Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’interno, Dir. gen. pubblica sicurezza, Uff. confino politico, busta 183 (d’ora in avanti: ACS, conf. pol.): Ordinanza di confino di Antonino Campanozzi. Il testo, stereotipo, è lo stesso usato per tanti altri, ad es. per Antonio Gramsci, anche lui sottoposto a confino per lo stesso numero di anni e arrestato già la sera dell’8 novembre ’26. 15 Archivio storico della CGIL di Roma e del Lazio, fondo Paolo Basevi, carte Campanozzi, 09.02 (d’ora in avanti: A.st.CGIL Roma e Lazio): Notifica di sospensione del periodico <<La Giustizia>>. 16 A.st.CGIL Roma e Lazio, 09.02: Lettera di dimissioni di A. Campanozzi dall’Associazione stampa periodica italiana. 17 ACS, conf. pol., b. 183: Esposto all’on. commissione centrale per l’assegnazione al confino di polizia [manoscritto]. 8 Studioso di scienze naturali, in cui mi addottorai nel 1896, e seguace del positivismo filosofico, inteso più propriamente come metodo, io portai nella politica, nell’ambito della mia modesta attività, le stesse idee che avevo reputato vere cioè desunte dall’esperimento, nel campo scientifico […]. Partendo da tali premesse, io concepii il marxismo, cioè il socialismo, secondo la legge dell’evoluzione, intesa dialetticamente. In sostanza, il socialismo vuol essere un superamento dell’economia capitalistica, come questa fu un superamento di quella feudale; non nel senso demagogico e banale della violenta sostituzione d’una classe all’altra nel possesso dei mezzi di produzione. Secondo la mia interpretazione, a cui si uniformò costantemente la mia attività, al socialismo si perviene per gradi, man mano che l’economia capitalistica con lo sviluppo delle forze produttive si rivela insufficiente e dannosa per gli interessi della collettività. Le statizzazioni, le municipalizzazioni, la cooperazione, gli interessi diretti degli enti pubblici, non sono già sintomi rivelatori del disagio che è determinato dal sistema individualistico vigente? La lotta delle classi, sia pur larvata in forma di collaborazione, non è effetto dell’appropriazione dei mezzi di produzione da parte di una classe soltanto? […] Per le mie origini culturali e un po’ pel mio temperamento artistico, appena entrai nel movimento politico mi proposi di elevare la spiritualità delle masse, sia prospettando l’imperativo del dovere, inscindibile da quello del diritto, sia diffondendo l’amore per la cultura. Nelle organizzazioni degli impiegati particolarmente, a cui dedicai i miei anni migliori, fui io, proprio io, a gettare i primi germi della coscienza del pubblico servizio. Anche allora mi si fece passare per sovversivo e mi si privò dell’impiego; ma finchè io fui a capo del movimento, alludo specialmente all’organizzazione postelegrafonica e alla sua enorme influenza su tutte le altre organizzazioni cioè dal 1903 al 1918, i servizi pubblici statizzati non furono né perturbati né interrotti per un minuto. E quando, nell’immediato dopoguerra, per gli spiriti di violenza scatenati dalla guerra e le ebbrezze suscitate dalla rivoluzione russa, pareva che il movimento operaio dovesse precipitare nel disordine, e moltissimi ne erano stati travolti, abbandonai ogni occupazione e mi dedicai interamente a un’intensa opera culturale ed educativa attirando le masse nelle università popolari e nei teatri del popolo, dove l’odio di classe era temperato e smorzato dalla influenza serenatrice della scienza e dell’arte. E così, dopo queste premesse, poteva a buon diritto rivendicare la sua estraneità all’accusa di sovversivismo contenuta nell’ordinanza di confino: Circa i miei precedenti, richiamati a titolo di aggravante nell’ordinanza della commissione provinciale, potrei trincerarmi dietro un’obiezione che non ammette replica: dal 1902 al 1926 non ebbi mai a che fare con la polizia. Né un arresto, né un fermo, né una perquisizione, né una qualsiasi diffida, mai. Ora se si consideri che ho spiegato a Roma, e soltanto a Roma, tutta la mia attività, da organizzatore, da uomo di parte, da consigliere comunale, da deputato al parlamento e da pubblicista combattuto dal governo liberale più che da quello fascista, è evidentissimo che la mia azione uniformandosi al mio spirito si è sempre svolta nell’orbita della più stretta legalità. È superfluo aggiungere che non ebbi a che fare neanche con l’autorità giudiziaria. Ricostruendo il suo passato ne rivendicava la coerenza e dignitosamente affermava di non avere nulla di cui pentirsi: Dopo il ‘900 col risveglio sindacale operaio, gli impiegati pubblici schiacciati tra l’incudine e il martello sentirono il bisogno di organizzarsi e primi fra tutti i postelegrafonici. Avvalendomi delle libertà che allora le leggi consentivano, io fui tra i pionieri e, modestia a parte, il teorico del movimento, che volli e seppi coordinare ai superiori interessi dello Stato e della nazione […]. Si usò e qualche volta si abusò, è vero, della libertà di critica, ma, ripeto, finchè potei esercitare un’influenza nel movimento e cioè sino alla fine della guerra, combattendo e debellando le tendenze sindacaliste rivoluzionarie, riuscii ad evitare qualsiasi agitazione extralegale. Nel partito politico per le mie idee intransigentemente riformiste non occupai mai cariche direttive. Durante la guerra mi si volle affidare il segretariato della lega dei comuni e mi adoperai con tutte le mie forze, coadiuvato dai sindaci di Milano e di Bologna, per le soluzioni tecniche dei problemi concernenti l’assistenza delle famiglie dei richiamati e di tutta la popolazione non belligerante: specialmente nella politica dei comuni collaborammo col governo del tempo non senza utili risultati. Nella mia corrispondenza privata conservo una lettera di Leonida Bissolati, allora ministro per l’assistenza militare, nella quale definiva “onesta e patriottica” l’opera mia. Nel dopoguerra, come ho accennato, diressi due istituzioni culturali: il Comitato centrale per la cultura dei lavoratori e la Società artistica cooperativa per il teatro del popolo, alle quali aderivano i massimi organizzatori politici ed economici del proletariato. Diedi vita a molte università proletarie, riorganizzai alcune università popolari, creai molti gruppi di amici 9 dell’arte, organizzai e diressi due compagnie drammatiche che fecero il giro dei principali teatri con successo di pubblico e di critica di tutti i partiti […]. Descriveva così gli obiettivi perseguiti nella sua opera di sindacalizzazione del movimento degli impiegati: Tanto il metodo seguito nell’organizzazione degli impiegati quanto quello seguito nel movimento operaio erano, come si vede, coordinati alla mia concezione sul divenire socialista. Da una parte le statizzazioni, man mano che il personale acquisiva la coscienza del pubblico servizio, si sarebbero ordinate in sistemi autonomi sotto l’alta vigilanza dello Stato il quale avrebbe accentrato solo le funzioni a tipo politico; dall’altra, con l’evolvere dell’economia capitalistica, accentuandosi il contrasto tra i bisogni della nazione e il sistema individualistico di produzione, le maestranze industriali (operai, impiegati e tecnici) avrebbero già acquistato la capacità professionale e spirituale per gestire le aziende in forma cooperativa e socializzata e sempre sotto la vigilanza dello Stato, divenuto padrone dei mezzi di produzione. Richiamato ancora una volta il proprio distacco dalla politica attiva nel dopoguerra, proseguiva: Dopo la “marcia su Roma”18 le mie istituzioni culturali, che erano state scosse dagli avvenimenti, si dovettero sciogliere e successivamente, l’uno dopo l’altro, tutti gli organismi locali, sicchè veniva ad infrangersi l’ultimo legame che mi teneva unito al movimento politico. Facevo parte, è vero, del partito socialista unitario, ma come semplice gregario. Quale fu la mia attività durante i primi anni dell’attuale regime? Confesso: nulla… Né il partito, né la sua stampa, né la sua azione parlamentare e sindacale ebbero da me nessuna cooperazione, neanche dopo il tremendo episodio che sconvolse e disorientò l’azione di tutti i partiti, compreso quello fascista19. Io rimasi spiritualmente all’opposizione del regime, anche perché erasi imposto con forme di violenza, ma d’altra parte l’abito della meditazione m’induceva a considerare la razionalità del fatto. Nel settembre del ’22 la federazione postelegrafonica italiana mi offrì il posto di direttore del suo ufficio di consulenza tecnica e di redattore del suo organo <<L’Unione postelegrafonica>>. Accettai, e quella fu la mia unica attività fino all’ottobre del 1925, epoca in cui la federazione, dopo 5 lustri di esistenza, dovette sciogliersi. Per cui - si badi - dal settembre 1922 all’ottobre 1925 io non mi occupai che delle questioni postelegrafoniche, sia nell’organo suddetto sia nei memoriali diretti all’amministrazione sia nelle riunioni coi dirigenti. Esercitai come sempre la mia libertà di esame e di critica, ma l’ex segretario della federazione, che è ancora in servizio, e gli on. ministri delle poste, Di Cesarò e Ciano, nonché i loro direttori generali possono attestare con quanta moderazione furono trattati i rapporti tra amministrazione e personale (gli esoneri di carattere politico furono una quantità trascurabilissima) e quale contributo si apportò alle varie e importanti riforme, specialmente quella sull’autonomia, adottate dall’attuale governo in quel triennio. Ma, argomentava Campanozzi, l’episodio per il quale era scattato il provvedimento di polizia non poteva che essere un altro: Evidentemente, dovendosi scartare tutte le ipotesi, la motivazione vera, anziché quella trascritta nell’ordinanza, che non mi riguarda affatto, deve ricercarsi nella mia breve riapparizione nella politica dal marzo all’ottobre 1926, con la direzione del giornale <<La Giustizia>>. Anche su questo episodio darò esaurienti spiegazioni. Sciolto il partito socialista unitario, <<La Giustizia>> quotidiana fu costretta a sospendere le pubblicazioni costringendo la società editrice oberata di debiti a mettersi in liquidazione. Dopo qualche mese, nel gennaio 1926, sorse dalle macerie il partito socialista dei lavoratori italiani con sede provvisoria a Roma, e si avvertì perciò il bisogno d’un organo settimanale. I promotori per non essere fraintesi circa l’indirizzo del partito e del giornale, vollero che la direzione intanto fosse assunta da chi, in Roma, aveva costantemente rappresentato la frazione di destra del socialismo. Io potevo accampare dei pretesti e tirarmi in disparte, è vero; ma mi sembrava di venir meno al mio dovere. Per pubblicare il giornale occorreva l’autorizzazione prefettizia. Se l’autorità me ne dava il permesso, potevo io rifiutare al mio partito un servizio che non era in contrasto con le leggi dello Stato? Accettai a condizione che il giornale, trasferendosi a Milano, fosse diretto da altro pubblicista, non potendo e non volendo allontanarmi da Roma. Si trattava del sacrificio di pochi mesi. Per la concessione della gerenza non mi si fece nessuna obiezione. Il giornale, dopo due mesi, da settimanale fu trasformato in quindicinale per mia iniziativa e sin dal 28 maggio, in una 18 19 Così virgolettato da Campanozzi. Allude al rapimento e all’assassinio di Giacomo Matteotti. 10 riunione della direzione, se ne decideva il trasferimento a Milano, che dovette poi prorogarsi e che fu in seguito irrevocabilmente fissato pei primi di novembre. Se ne stamparono in tutto 20 numeri. Il modo in cui venivano esercitati continui controlli censorî sulla stampa e di come si dovesse operare per non incorrere in sequestri sempre più frequenti, è descritto esemplarmente in questi pochi accenni sulla fine della libertà di stampa in quell’autunno del 1926: L’ufficio di censura sa bene con quanta diligenza mi attenessi ai suoi tagli tanto che una volta sola, e per un incidente che ancora ignoro, capitò che il giornale fosse sequestrato in seconda edizione. Era, in fondo, un bollettino di partito: trattava con obiettività qualche questione di politica generale, ma più particolarmente questioni teoriche, sindacali e politiche in polemica coi partiti affini. Non aveva nessuna influenza sul grande pubblico; era soltanto un mezzo per tenere affidate le poche migliaia di superstiti del partito unitario. Si noti: non mandai mai alle edicole della città, come ne avevo il diritto, la prima edizione; ma aspettavo i tagli della censura su una bozza di stampa per preparare la seconda edizione che veniva portata in vendita e diramata. I militi che venivano in tipografia non trovavano da sequestrare che pochi numeri in bozza. Quindi nessuna intenzione da parte mia di eludere la legge. Si aggiunga che la stessa prima edizione era già da me censurata: nessuna acredine mai nell’esame delle questioni, nessun incitamento alla lotta violenta, anzi incessante campagna contro il bolscevismo, nessun attacco personale, mai. In fondo continuavo a esercitare con <<La Giustizia>>, come prima, per questioni tecniche, con <<L’unione postelegrafonica>>, la libertà di critica che mi era consentita con quegli intenti di opposizione che praticati in buona fede, si risolvono in collaborazione. E nella conclusione dell’esposto era sollevato un quesito d’ordine giuridico sostanziale: come fosse mai possibile con una nuova legge appena introdotta condannare retroattivamente i comportamenti in precedenza non considerati penalmente perseguibili? Or perché dovrebbe colpirmi la nuova legge per una attività che la vecchia autorizzava? E colpirmi sotto un’imputazione che è confutata da 25 anni di attività del tutto antitetica? Sciolto il partito e soppresso il giornale, io avevo ripreso la mia vita di studio ed allacciato rapporti commerciali per sbarcare il lunario, chiudendo definitivamente la mia esistenza politica. Avendo sempre rispettato le leggi del mio paese non potevo che prendere atto della legalità oggi vigente, anche perché il prenderne atto era un vivo bisogno del mio animo assetato di pace e del mio corpo depresso da molti malanni. La salute assai malandata, l’estrema povertà, il boicottaggio artistico e professionale, sono i soli frutti che ho ricavato dall’adempimento dei doveri politici. Ho pagato tutti i miei tributi alla vita. Non mi si domandi altro. L’invocazione rimase inascoltata e dopo 20 giorni di carcere, da Regina Coeli Campanozzi venne trasferito a Orune in provincia di Nuoro, la località di confino assegnatagli. Fu il suo Natale più crudele perché la traversata Civitavecchia-Golfo Aranci per le condizioni di detenzione in cui avvenne ma soprattutto per la bufera che ostacolò la navigazione, lo lasciò duramente provato. Ne scriveva così l’8 gennaio 1927 al podestà di Orune: …ciò che mi produsse un male enorme fu l’orribile traversata Civitavecchia-Golfo Aranci, durante la quale fui colpito da tale convulsione epilettica da lasciarmi quasi privo di sensi e con paresi alle gambe per parecchie ore, come può attestare il signor maresciallo dei carabinieri che mi accompagnava, mentre mi si è sensibilmente aggravata, a causa dello sforzo del vomito, l’ernia inguinale destra. Il medico delle carceri di Nuoro e la S. V. Ill. ma che era presente al mio arrivo in Orune poterono constatare in quali condizioni mi fossi ridotto e come mi perdurasse lo chock nervoso dopo tre giorni dalla traversata20. La ragione della lettera al podestà era però un’altra: l’ordine appena giunto al prefetto di Nuoro dalla direzione generale della polizia di trasferirlo all’isola di Favignana, nuova destinazione del confinato; il quale così proseguiva: …pur riconoscendo che la residenza di Favignana sarebbe stata più adatta alla mia salute, mi trovo nell’assoluta impossibilità di affrontare un nuovo viaggio, col pericolo d’una traversata che potrebbe colpirmi mortalmente. Prego perciò vivamente la S. V. Ill.ma di rendersi interprete di quanto sopra presso le superiori autorità affinchè l’ordine di traduzione a Favignana sia revocato. 20 ACS, conf. pol., b. 183: Lettera del confinato Campanozzi al podestà di Orune. 11 Favignana nelle isole Egadi, oggi uno dei luoghi privilegiati del turismo, associava allora alla bellezza della natura e al clima dolcissimo un isolamento dal consorzio civile che ne faceva la residenza più atta alla soveglianza e alla repressione dei tentativi di fuga dei confinati. E, del resto, che cosa inumana fossero queste traduzioni di carcerati ce ne ha lasciato una descrizione eloquente Gramsci: …non è molto confortevole, anche per un uomo robusto, percorrere ore e ore di treno accelerato e di piroscafo coi ferri ai polsi ed essendo legato a una catenella che ti impegna ai polsi dei vicini di viaggio… Il pezzo più difficile è stata la traversata da Palermo a Ustica: abbiamo tentato quattro volte il passaggio e tre volte siamo dovuti rientrare nel porto di Palermo, perché il vaporetto non resisteva alla tempesta…21. La preghiera questa volta venne accolta, e Campanozzi riuscì a trascorrere il resto del suo confino nel freddo e ventoso paesello di Orune, non lontano dal sito nuragico di Nunnale, ai piedi della cima barbaricina di Cúccuru su Pirastru. Vi rimase due anni, perché un provvedimento d’ordine generale adottato il 14 dicembre 1927 in occasione delle feste natalizie, ridusse l’entità delle pene. Il provvedimento di condono gli verrà applicato un anno dopo, il 1° dicembre 1928, quando sarà “liberato per fine periodo”22. Ma, nel contesto di oppressione e di delazioni tipico del regime liberticida, dagli atti degli organi di polizia viene alla luce un altro particolare: una lettera anonima firmata “un fascista”, con timbro d’arrivo alla direzione generale di pubblica sicurezza del 22 ottobre 1927, per denunciare “due fidi amici” del confinato, Tito e Ada Salvadori23. Durante la scorsa estate, asseriva l’anonimo, essi sono stati in Sardegna a trovarlo, e insinuava che nella casa della coppia “esiste parecchia roba che può fornire chiarezza per la pubblicazione che si tenta in Germania di opuscoli e opere antifasciste”, concludendo che “occorre mettere questi due, che sono legati al Campanozzi in maniera indissolubile, in punti di grande sorveglianza”. Questa la denuncia. E che l’apparato di repressione fosse ormai in piena efficienza e ben collaudato grazie all’opera di Arturo Bocchini (capo della polizia dal 13 settembre 1926), è provato dall’attenta valutazione e dal seguito che viene dato alla delazione. La lettera trasmessa al questore di Roma per le indagini del caso, dà esito il 3 novembre, ma smontando il castello delle accuse: i due sono marito e moglie, e quest’ultima, Castelluzzo Ada in Salvadori, nata a Catania il 16 giugno 1900, è nipote del confinato, presso il quale “ha effettivamente, durante la stagione estiva, trascorso un mese di villeggiatura”. Sono quegli stessi nipoti, abitanti in viale della Regina Margherita 93, piano 3° int. 9, dai quali Campanozzi andrà inizialmente ad abitare al rientro a Roma dopo il confino. C’è da aggiungere che essendo egli celibe, gli unici in grado di dargli un minimo di affetto e di assistenza erano loro, Tito Salvadori, segretario di I classe al ministero delle ferrovie (villa Patrizi), e soprattutto Ada, la nipote, pittrice e scultrice la cui fama si consoliderà nel secondo dopoguerra, e che ritrasse lo zio in un busto in gesso. Quanto alle più gravi accuse di trame sovversive, il questore informava che “nella perquisizione operata nel domicilio dei coniugi Salvadori dagli agenti di questa squadra sono state soltanto rinvenute e sequestrate alcune lettere politiche del Campanozzi nelle quali non vi sono oblazioni politiche”. Così il testo, e che cosa diavolo volesse significare cercò di chiarirlo il funzionario ministeriale cui giunse il rapporto, correggendo a matita oblazioni in allusioni. Oblazioni o allusioni, rimase comunque il doppio infortunio del questore di Roma (Ermanno Angelucci24, per la storia), 21 A. GRAMSCI, Lettere dal carcere, a c. di Sergio Caprioglio e E. Fubini, Einaudi, Torino, 1965, p.9. ACS, conf. pol., b. 183: Fonogramma del questore di Roma (2.12.1928, h.14,15) a Min. Interno, Div. aa.gg. e ris.: “Proveniente da Nuoro è qui giunto Antonio Campanozzi fu Giuseppe, che ha terminato di scontare il provvedimento adottato a suo carico. Ha preso domicilio in viale regina Margherita 93. Ho disposto nei suoi confronti attenta vigilanza. F.to Questore Angelucci”. 23 ACS, conf. pol., b. 183: lettera anonima pervenuta al Min. Interno in data 22 ott.‘ 27, e risposta della R. Questura di Roma alla Direz. Gen. P.S., in data 3 nov.‘ 27. 24 Ricavo gli elementi identificativi del questore da La prefettura di Roma (1871-1946), a c. di Marco DE NICOLÒ, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 623. 22 12 perché quel solerte funzionario che leggeva si dovette anche chiedere che sorta di lettere fossero quelle lettere politiche in cui non v’erano oblazioni politiche! Quale lo stato d’animo di Antonino Campanozzi al ritorno dal confino? A un amico che volle raccogliere notizie biografiche su di lui25 così confidava quando, com’era da prevedersi, trovò chiuse tutte le porte: Non feci nessun tentativo per aprirne qualcuna, perché da tutte esalava il tanfo del nuovo regime. Che fare? Dove trovare un angoletto che accogliesse questo ex-uomo e gli permettesse di lavorare e di vivere? […] Ne parlai ad un mio vecchio amico e compagno d’idee che gestiva un’azienda all’ingrosso di materiale elettrico26 che m’invitò ad assumere la rappresentanza di codesta sua azienda per la città di Roma. Accettai. Così il leader del movimento dei pubblici impiegati, il propagandista del movimento socialista, il dottore in scienze naturali, il poeta, l’autore drammatico, l’ex consigliere comunale di Roma, l’ex deputato della congregazione di carità, l’ex deputato del primo collegio di Roma, messa la maschera, prende la borsetta con i campioni ed i listini, e comincia a bussare alle botteghe degli elettricisti per tentare di vendere qualche portalampade, qualche interruttore, qualche spina… E così, pur di mantenere senza macchia e senza paura la mia coscienza, mi assoggettai ad esercitare per circa quindici anni il più umile dei mestieri, che mi rendeva tanto da farmi vivere poveramente, come avevo sempre vissuto. Questa del commercio del materiale elettrico, era un’antica tradizione socialista, se è vero che già Enrico Bignami, agli inizi del secolo, gestiva da Lugano una ditta per la vendita di apparati e di applicazioni elettriche27. Campanozzi riuscì così pian piano a crearsi un ufficio di rappresentanza per forniture elettriche con sede in viale della Regina Margherita 14528. Dal ritorno dal confino non rallentarono comunque mai le attenzioni della polizia, che secondo le disposizioni in uso erano nei suoi confronti di “continua e discreta sorveglianza”, mentre l’iscrizione nella “rubrica di frontiera” (cioè la privazione del passaporto) rimaneva permanente. Così ancora nella primavera del 1940 dovette subire un umiliante interrogatorio, per il quale, il 7 giugno 1940, si decise a indirizzare a Mussolini una lettera di protesta29: […] Da alcuni giorni, non so per quali motivi, la polizia si occupa di me, attingendo informazioni sul mio conto e sottoponendomi ad un interrogatorio, cortesissimo nelle forme oltraggioso nella sostanza, dal quale ho potuto dedurre che un grosso equivoco, creato non si sa come, sia venuto a turbare i miei rapporti con l’autorità. Sicchè, incredibile ma vero, non avendo nulla, assolutamente nulla, da obiettare sulla mia condotta, pare che rivolga l’indagine sul mio sistema di vita e sulla natura dei mezzi di sussistenza. Da dodici anni, tornato dal confino, mi occupo della vendita di materiale elettrico in rappresentanza di alcune ditte di Milano, tra cui la Fabbrica milanese conduttori (via B. Cellini 16), la Fabbrica Select apparecchi termoelettrici (via F. Soave 24), la ditta Ottolenghi grossista in elettroisolanti (via Felice Poggi 13) etc. etc. Ditte italiane, di capitale e personale italiano, che mi rendono quel tanto che basta per la mia modestissima esistenza. […] Ora io mi domando: è giusto che un cittadino italiano, che seppe sempre conciliare la devozione alle idee col severo culto della patria, e che, dopo aver tenuto le maggiori cariche pubbliche (consigliere del comune di Roma, deputato del 1° collegio di Roma, dirigente di sindacati e organizzazioni nazionali, dirigente del movimento culturale dei lavoratori etc.) e dopo aver esercitato per tanti anni 25 Italo TOSCANI, Antonino Campanozzi, Editrice Federazione socialista laziale, Roma, s. d. [autunno 1944 o 1945?]. È un opuscolo di p. 24, esistente nel fondo Paolo Basevi, Opuscoli, dell’A.st.CGIL Roma e Lazio, 09.06. 26 Ibid. p. 12-14. “Giorgio Ottolenghi, vittima anch’egli della reazione burocratica che aveva originato il caso Campanozzi, ebreo, socialista e antifascista senza riserve”. Nota di I. Toscani. 27 Ce ne informa A. Cavaglion in Coenobium 1906-1919. Un’antologia, Ediz. Alice, Lugano 1992, p. 23-24. 28 La notizia si ricava da A.BARBINA, Amici della cordata siciliana: Antonio Campanozzi, in <<Ariel>>, quadrimestrale dell’Istituto di studi pirandelliani, XVII, 1, genn.-apr. 2002, p.145, che riproduce la lettera su carta intestata Ufficio di rappresentanza per forniture elettriche inviata a Pirandello per il conferimento del premio Nobel. Così scriveva Campanozzi in data 14 nov.1934: <<Ho tardato a mandarti i miei rallegramenti per non essere confuso fra gli ammiratori del “tempo felice”. Spero che ti giungeranno graditi, anche perché ti ricordano i venti anni della nostra fraterna amicizia, che furono quelli della tua migliore creazione>>. Il tono, come si vede, è amichevole ma non servile e delinea un preciso giudizio critico sull’amico del “tempo felice”. 29 ACS, Min. dell’Interno, Direz. Gen. P. S., Casellario politico Centrale, b. 982. 13 professioni intellettuali (dottore in scienze, pubblicista, autore drammatico) è oggi costretto a ramingare per le vie di Roma, nella tarda età di 70 anni, per guadagnarsi il pane, è giusto, mi domando, che sia chiamato a giustificare, in questo periodo, i propri mezzi di sussistenza? 30 Ritratto di Antonino Campanozzi eseguito da Ada Salvadori (gesso patinato) 30 Anche questo esposto al capo del governo è su carta intestata: Ufficio di rappresentanza per forniture elettriche – dott. A. Campanozzi – Via Pigorini, Palazzo Gentile, Telefono 853 444. 14 La sua posizione sarà fino all’ultimo quella di “sorvegliato”, mentre si consumava la “brutale amicizia” tra l’Italia fascista e la Germania hitleriana e s’apriva l’abisso vorticoso della guerra, che in breve avrebbe cambiato e distrutto tutto. Campanozzi riuscì a far in tempo a vedere la caduta del fascismo, l’armistizio, i nove mesi dell’occupazione nazista e infine la liberazione di Roma. Morì, per strano segno del destino, il 28 ottobre 1944; il decesso avvenne al Policlinico, e da lì fu accompagnato al Verano da una delegazione di compagni socialisti capeggiata da Giuseppe Romita. Nell’elogio funebre quest’ultimo ricordò il periodo di umile lavoro svolto in quei lunghi anni di oppressione “perché ci incontravamo sovente nella stessa corvé di vendita dei pochi e piccoli materiali elettrici, vendita che insieme facevamo di porta in porta”31. Dopo il ritorno dal confino, alla fine del 1928 e per un breve momento, Campanozzi si illuse di poter riprendere le sue attività intellettuali con una nuova opera teatrale, L’Imperatrice, tragicommedia in quattro atti, che pubblicò nel 1931 presso la Casa del libro con sede in via Fabio Massimo 88, in Roma. La copertina, sebbene non firmata, è attribuibile per lo stile secco e geometrico a Giuseppe Scalarini32, che ivi raffigurò la Morte incoronata e vestita d’ermellino impugnante la falce su una città fumante di rovine. Anche Giuseppe Scalarini era reduce dal confino e s’arrangiava ora a disegnare copertine o a fare illustrazioni su libri per l’infanzia, sempre sotto un rigoroso anonimato. La commedia, come per legge, venne depositata alla procura del re per ottenere l’autorizzazione alla rappresentazione. Fu quindi inviata al vaglio della censura teatrale, che proprio in quell’anno subiva una radicale trasformazione. L’originario decentramento presso le varie prefetture fin’allora titolari dell’ordine pubblico e quindi anche delle attività di spettacolo, veniva soppresso dalla nuova legge che stabiliva: Le opere, i drammi, le rappresentazioni coreografiche e le altre produzioni teatrali non possono darsi o declamarsi in pubblico senza essere state approvate, sotto il riflesso della morale e dell’ordine pubblico, dal ministero dell’interno, al quale saranno comunicate (l. 6 genn. 1931, n.599, art.1). Al ministero, dunque, avrebbe operato una speciale commissione presieduta dal capo della polizia per decidere l’ammissibilità alle rappresentazioni entro un termine non superiore ai 15 giorni. In realtà tale commissione non divenne mai operante per il fondato timore di Bocchini che la sua eterogeneità (un rappresentante del ministero dell’educazione nazionale, l’avvocato generale presso la corte d’appello di Roma, un rappresentante del P.N.F, il capo divisione della polizia amministrativa del ministero dell’interno, un rappresentante del sindacato fascista autori ed editori), non riuscisse ad mantenere il dinamismo richiesto dalla perentorietà del termine stabilito per l’approvazione. E fu così che Bocchini si orientò ad affidare a un solo funzionario da lui prescelto, il comm. Leopoldo Zurlo, il carico e la responsabilità dell’intera gestione, avocando a sé la decisione finale per tutte quelle questioni che potessero avere un riflesso anche solo lontanamente politico33. L’Imperatrice inviata all’ufficio di censura34 era accompagnata da due brevi appunti non firmati e datati 19 settembre 1931. Difficile attribuire una paternità a quegli appunti: non a Zurlo, certamente, per la semplice ragione che erano troppo squilibrati a favore dell’autore; potevano presumibilmente esser stati fatti pervenire dall’editore, forse in accordo con l’autore stesso. L’opera – vi 31 Discorso dell’on. Giuseppe Romita a nome dei socialisti romani ai funerali di Antonino Campanozzi il 29 ottobre 1944, Editrice Federazione socialista laziale, Roma, s. d. [1944?], in A.st.CGIL Roma e Lazio, 09.06. Il ritratto di Antonino Campanozzi è ricavato dal corredo illustrativo allegato all’opuscolo. 32 Giuseppe Scalarini (1873-1948) fu con Gabriele Galantara uno dei due più celebri disegnatori dell’<<Avanti!>>. Tra il 1923 e il 1926 subì tre aggressioni fasciste, cui seguì il confino a Lampedusa e poi a Ustica tra il dicembre 1926 e il novembre 1928. Nel 1929 diffidato dal firmare lavori di qualsiasi genere, si dedicherà al disegno per bambini. Nel 1933 nuovamente arrestato e inviato in un campo di concentramento in Abruzzo, solo nel 1940 sarà rimesso in libertà sotto sorveglianza speciale. 33 Archivio Centrale dello Stato, Censura teatrale e fascismo (1931-1944). La storia, l’archivio, l’inventario, voll. I-II, a c. di Patrizia FERRARA, Ministero per i beni e le attività culturali – Direz. gen. per gli Archivi, Roma, 2004, I, p. 2023 e p. 98-100. Ma sull’importante lavoro della Ferrara v. oltre nel testo a p. 17. 34 ACS, MinCulPop, Censura teatrale, b. 263, fasc. 4793. Nella busta è custodita una copia de L’Imperatrice. 15 era detto – non ha per oggetto il fascismo; trattasi d’una tragicommedia a sfondo umanitario che s’ispira alla politica estera che il regime sta svolgendo per la pace universale. E proseguiva: ...mi consta che il Campanozzi è in perfetto accordo di vedute sulla politica estera del fascismo e ha voluto pubblicare questo suo libro, che è certamente notevole come concezione artistica e letteraria, dalla quale esula ogni speculazione politica. Copertina della tragicommedia in quattro atti “L’Imperatrice” 16 L’ambiguità di tali affermazioni non poteva che suonare sospetta a Bocchini, al quale non sfuggivano certo i trascorsi dell’ex confinato; e fu così che egli inserì la questione tra quelle da portare alla valutazione del capo del governo. Uscendo dunque dall’udienza del 28 settembre ’31, Bocchini annotava sulla pratica le seguenti disposizioni per il comm. Zurlo: 1) Consentirne la vendita; 2) NON consentirne la rappresentazione35. Ma qual’era dunque il contenuto dell’Imperatrice? Gli avvenimenti della pièce s’immaginano svolgersi nella città di Tanàtos, capitale dell’impero di Tanataide, all’arrivo di Elianthos, l’imperatore, che viene a rivendicare il trono usurpato e che si presenta ai maggiorenti alla guida di un carro funebre, mentre la folla inneggia unanime alla repubblica. È un esordio grottesco di grande effetto; ma presto i giuochi di potere prevalgono, e tra la vecchia classe dirigente e i nuovi arrivati (Elianthos e il suo scudiere Silvano), si stabilisce un perfetto accordo per fronteggiare le minacce del vicino stato dell’Argolia. Il primo atto si conclude con Elianthos che dichiara guerra all’Argolia tra gli osanna di tutti e soprattutto di quelli che fino a un attimo prima l’avevano osteggiato. Chi ispira esotericamente Elianthos è l’imperatrice, la donna da tempo scomparsa e da lui sempre amata, il cui fantasma, evocato già nel primo atto, ha un effetto nefasto su di lui, suggerendogli tutte le scelte più azzardate e disumane. All’imperatrice si contrappone Elena, la moglie del gran cerimoniere, che cerca di riportare Elianthos, che s’è invaghito di lei, all’amore del prossimo. L’azione si frammenta nel secondo e nel terzo atto tra vittorie, sconfitte e intrighi. Alla fine tutto volge al peggio e la sconfitta è per tutti, vincitori e vinti; e quando Elianthos, di fronte al suo totale fallimento politico e alle immani distruzioni, rifiuta di abdicare, Elena, utilizzando un gas asfissiante che custodisce in un’ampolla, uccide l’usurpatore, se stessa e tutta la corte. L’opera, pur nella sua farraginosità, non c’è dubbio che offrisse riferimenti sgraditi al regime; come, al termine del primo atto, il richiamo alla dichiarazione di guerra che, nella sospettosa ombrosità del dittatore, poteva ben suonare allusiva alla crisi diplomatica con la Grecia e al bombardamento e all’occupazione di Corfù di non lontana memoria (1923). Oppure, nel finale dell’ultimo atto, la morte del tiranno, richiamo fin troppo chiaro agli attentati del 1925-26 a Mussolini. Da ultimo l’ispirazione sottesa a tutto il dramma, il pacifismo universale e socialisteggiante, antitetico alla propaganda fascista. Inimmaginabile quindi, in quelle condizioni, la possibilità d’una messa in scena del lavoro, che rimase il sogno infranto del povero Campanozzi d’una riabilitazione alla vita intellettuale e civile, senza un’esplicita abiura di tutto il suo passato. Quante copie riuscisse a vendere dell’Imperatrice non ci è dato sapere; ma certo l’amarezza e la delusione sono ben evidenti nella raccolta successiva che egli volle pubblicare quasi per lasciare una testimonianza di sé ai posteri. L’ex-uomo dava alla sua raccolta il titolo di Maschere del Novecento36 aggiungendo sul frontespizio: Opere postume di Antonio Campanozzi. Nessuna illustrazione questa volta in copertina, ma soltanto, in apertura, alcune righe a firma L’EDITORE, che si capisce rappresentino una sorta di testamento artistico e di lascito spirituale: Antonio Campanozzi, presentendo prossima la sua fine, volle affidarci i manoscritti delle sue opere teatrali, che stimava degne di sopravvivergli. Dopo averle attentamente esaminate, siamo venuti nella deteminazione di iniziarne la pubblicazione, sia perché queste opere, scritte in altri tempi, oltre che un valore d’arte – in un genere di teatro, cioè quello satirico, che, a onor del vero, non era stato finora sperimentato con successo – rivelano un valore documentario, che riesce a lumeggiare l’ambiente spirituale che fu causa non secondaria del mutamento avvenuto, in questi ultimi anni, nel regime politico di alcuni Stati; e sia perché la satira, pur basata su figure reali e fatti contingenti, non è posta a servizio di un interesse qualsiasi, o di parte o di scuola, ma vuol mettere a nudo, a fini artistici ed etici, la maschera politico-sociale. Dato il genere prediletto dall’Autore, e gli avvenimenti succedutisi nell’ultimo quindicennio, soltanto qualcuna di queste opere ebbe il battesimo della rappresentazione ottenendo un assai notevole successo. Non osiamo sperare che generose iniziative renderanno possibile l’esperimento scenico delle altre; ma siamo sicuri che i lettori, particolarmente i critici, nel 35 36 Ibid. Le disposizioni sono di pugno di Arturo Bocchini e ne recano la firma. Antonio CAMPANOZZI, Maschere del Novecento, Casa del libro, Roma, 1934. 17 giudicarle, non saranno animati da spirito fazioso, considerando che l’Autore, che pure ebbe una fede politica, dimostrò, fino all’ultimo respiro, un’assoluta sincerità, così nell’arte come nella vita. “Opere postume”, dunque, e prima tra tutte quel Racanaca che il 10 maggio 1918 ebbe il suo battesimo e un bel successo al teatro Alfieri di Torino, presente Pirandello che nell’occasione tutelava gli interessi dell’amico nascosto dallo pseudonimo di Carlo Villauri perché, in tempo di guerra e di censure, non aveva ottenuto il visto alla rappresentazione sotto il proprio nome37. L’on. Racanaca (tale il titolo originale, neppur esso ammesso senza la decurtazione dell’on.) era un fin troppo scontato triangolo: impegnato nei grandi giuochi politici ma del tutto privo di acume, il protagonista è sostenuto nelle scelte e nelle decisioni più impegnative da un giovane e geniale segretario-consigliere che lo assiste e lo guida nell’ascesa al potere. Ma c’è un ma: quest’ultimo decide a un tratto di abbandonarlo per esser stato respinto dalla moglie di lui. Sembra tutto perduto, se non che l’ostinata signora, dinnanzi al paventato fallimento della carriera politica del marito, alla fine cede. E così, mentre l’onorevole si presenta in aula ad illustrare il suo rivoluzionario disegno di legge, il segretario coglierà finalmente i frutti di tanta dedizione. Nella cronaca teatrale dell’<<Avanti!>> del 12 maggio 1918 Gramsci commentava: La commedia è piaciuta, indubbiamente; la presentazione obiettiva, senza intenti partigiani, dell’ambiente politico, con le sue ipocrisie, con la sua imbecillità costituzionale, ha strappato spesso risate cordiali. Situazioni farsesche? Ma la vita politica è purtroppo farsa il più delle volte, e tutta Roma non è, da cinquant’anni, che il teatro d’una farsa sinistra ai danni della nazione italiana. Una commedia, per rappresentare la vita politica, dovrebbe ambientarsi in Cina o in Persia, secondo la tradizione letteraria delle Lettere di Montesquieu. La vita politica italiana è composta di cuoiai e salsicciai gabbamondo come nel mondo comico d’Aristofane, e rappresentarla porta necessariamente alla farsa38. Dopo il successo di Racanaca testimoniato non soltanto dai giudizi di Gramsci39, Campanozzi riuscì a portare sul palcoscenico soltanto un altro suo lavoro, peraltro a noi sconosciuto, testimoniatoci dalle locandine della raccolta teatrale della Biblioteca del Burcardo di Roma, dal titolo Il Missionario, rappresentato al Teatro Argentina di Roma dal 22 al 24 luglio 1921 dalla Compagnia di Calisto Bertramo. Che siano queste le sole due opere rappresentate lo deduciamo dalla nota editoriale sopra riportata (“soltanto qualcuna di queste opere ebbe il battesimo della rappresentazione”), mentre va ribadito un altro punto essenziale, le opere teatrali che Campanozzi volle tramandarci sono esclusivamente quelle da lui raccolte in volume, e cioè: Racanaca, commedia in tre atti, Il metodo Anfossi, commedia in tre atti, La strada nuova, commedia in tre atti, Romolo e Remo, commedia in tre atti, Rivoluzione in pantofole (titolo precedente Il prof. Segalin), commedia in tre atti. Ci rimangono poi i titoli de Il signor Sbardella, indicato come facente parte di un secondo volume di opere postume mai pubblicato40, de Le audaci imprese, ricordate in una lettera di Campanozzi del 1905 ad Edoardo Boutet41 e anche nell’articolo pirandelliano su Il Teatro stabile di Roma (a conti fatti e da fare) ne <<Il Marzocco>> del 10 giugno 190642. Un terzo titolo, La capolega, è presente infine in uno stelloncino del <<Messaggero della Domenica>> del 20 giugno 1918, che la indica come data a Virgilio Talli per la rappresentazione43. In totale, note e ignote, con L’Imperatrice, dieci. Quanto alla data di composizione delle cinque commedie delle Maschere, esse risalgono all’immediato dopoguerra, quando Campanozzi, sull’onda del successo del Racanaca, credette gli si schiudesse una nuova strada che provò a percorrere, finchè l’incalzare degli avvenimenti politici non lo travolse. 37 La didascalia in Maschere del Novecento, cit., p.7, reca: “rappresentata la prima volta al Teatro Alfieri di Torino, il 10 maggio 1918, dalla Compagnia Drammatica Betrone-Melato-Paoli, diretta da Virgilio Talli”. L’assenza di didascalie per le altre opere pubblicate nel vol., induce a ritenerle tutte non rappresentate. 38 A. GRAMSCI, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino, 1950, p. 328. 39 Oltre Gramsci, v. le cronache teatrali di Cardarelli e di Silvio D’Amico; cfr. Pirandello impolitico, cit., p.49 e pass. 40 Maschere del Novecento, cit., p. 420. 41 Pirandello impolitico, cit., p. 46. 42 L. PIRANDELLO, Saggi e interventi, a c. di F. Taviani e con una testimonianza di A. Pirandello, Mondadori, Milano 2006, p. 458. 43 Pirandello impolitico, cit., p. 51. 18 Le ragioni di tutte queste precisazioni? – Perché un altro lavoro, sotto il nome stesso di Campanozzi, andrà sulle scene del torinese teatro Alfieri circa un anno dopo, ‘U baruni di Carnalivari, anch’esso recensito da Gramsci, e che ha ingenerato un mio equivoco d’attribuzione44. Si tratta d’una farsa dialettale ispirata a una figura tipica della tradizione carnevalesca catanese: il protagonista, un nobile spiantato cui rimane ormai solo la supponenza e la ridicola alterigia della maschera popolare, è oberato dai debiti e vessato da un usuraio che gli insidia la figlia, la quale, pur di salvare il palazzo avito, sta per sacrificarsi. Come in tutte le belle favole, la storia si conclude però felicemente: il fratello del barone giungerà in tempo per ricondurlo alla ragione e ad offrirgli il mezzo per rimontare la china e a lasciare che la figlia vada in sposa non all’usuraio ma all’uomo che ama. Il lavoro, che piacque a Gramsci per la satirica rappresentazione delle arretratezze della società meridionale, è di un autore che risponde al nome di Francesco Campanozzi: Legati dal comune cognome, l’uno, Antonio, operante nell’ambito e nelle intenzioni d’un teatro alto e colto; l’altro, Francesco, prolifico autore di farse dialettali rappresentate dalle compagnie dei comici siciliani e prima tra tutte da quella di Angelo Musco45. Vediamo dunque di sgombrare il campo da futuri equivoci indicando qui quali titoli attribuire a quest’altro Campanozzi. E primo è appunto‘U baruni di Carnalivari46, cui seguono altri lavori dialettali, Siciliano puro sangue, Lu poeta e La finestra sul giardino, mentre altre due commedie Il compare del diavolo e La marcia dello spirito, dell’inizio degli anni ’40, sono ormai in lingua e di tono drammatico. In effetti, dopo la morte di Angelo Musco, le varie compagnie dialettali erano quasi tutte in dissoluzione con l’effetto del contemporaneo venir meno di nuovi testi dialettali47. Questi lavori di Francesco Campanozzi sono ora consultabili nella raccolta di circa tredicimila copioni resa disponibile e accessibile dal prezioso lavoro d’inventariazione compiuto di recente da Patrizia Ferrara sul fondo della Censura teatrale del Ministero dell’interno, un grande spaccato sulla realtà teatrale italiana dal 1931 al 1944. Trasferito nel 1935 dalla sede del Viminale a palazzo Balestra, in via Veneto, presso il nuovo Ministero della cultura popolare, Direzione gen. del Teatro, tale fondo continuò a incrementarsi fino al crollo della dittatura. Da lì poi, in coincidenza dell’istituzione del Ministero del turismo e dello spettacolo, quegli archivi, ormai divenuti di mero deposito, vennero nel 1959 trasferiti ancora una volta in via della Ferratella (nuova sede ministeriale) dove subirono un disastroso allagamento con la perdita di circa cinquemila degli iniziali diciottomila fascicoli. Da ultimo, per saggia decisione, invero non frequente nelle amministrazioni 44 Ibid., p. 48. Là io ebbi ad attribuire erroneamente la paternità del Baruni di Carnalivari, de L’onorevole Paracqua, de L’avvocato Spezzaferri e di Don Saru Raspa ad Antonio Campanozzi, ma il problema delle attribuzioni si è rivelato molto più complesso. Nel prosieguo di questo lavoro cercherò, per quanto mi è possibile, di chiarirlo. 45 Nel 1919 Adelaide Bernardini lamentandosi con Nino Martoglio delle scarse qualità artistiche del repertorio di Angelo Musco citava ‘U baruni di Carnalivari definendolo ”una farsa, ch’è tutta un plagio”; e altrove affermava sarcasticamente di illudersi di valere qualcosa di più “di un Campanozzi o di una signora Agnetta”. Cfr. S. ZAPPULLA MUSCARÀ, Luigi Capuana e le carte messaggiere, C.U.E.C.M., Catania, 1996, vol. II, p.727 e 707. Recentemente, nel curare l’epistolario 1919-36 di Luigi e Stefano Pirandello Nel tempo della lontananza, La Cantinella, Catania 2005, p.227, la Zappulla mi fa notare che <<Antonio Campanozzi non dev’essere confuso con il fratello Francesco Campanozzi (1858-1953), anch’egli commediografo, autore della commedia ‘U baruni di Carniluvari>>. Sempre di Francesco Campanozzi v. la lettera a Francesco De Felice, un altro degli autori teatrali di Angelo Musco, da Messina 27 ott. 1919, riprodotta in Sicilia: dialetto e teatro. Materiali per una storia del teatro dialettale siciliano, Catalogo a c. di S. ed E. ZAPPULLA, ed. del Centro naz. di studi pirandelliani, Agrigento 1982, p. 189 n.58. Infine, a proposito delle oscillazioni di carnalivari, carniluvari ecc., rinvio alla voce corrispondente del Vocabolario Siciliano di G. PICCITTO, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Palermo, 1977-2002, vol. I, ad vocem p. 593. 46 Il copione consultato è in A.C.S., MinCulPop., Censura teatrale, b.559/10598, presentato al visto dalla compagnia di Umberto Spadaro per il debutto al teatro Massimo di Palermo il 24 ottobre 1939. Nella richiesta Spadaro ricorda che la pièce “era stata rappresentata da Musco nel 1930”. 47 Un altro titolo dialettale di Francesco Campanozzi, L’avvucatu di causi persi, è indicato da S. e E. ZAPPULLA in Musco immagini di un attore, Catania, Maimone 1987, p. 39. In totale quindi possiamo indicare in sette le opere conosciute di questo autore. 19 pubbliche, ne fu deciso il versamento all’Archivio centrale dello Stato, avvenuto tra il 1972 e il 197348. Esaminiamo dunque le opere di Francesco Campanozzi. Siciliano puro sangue è una farsa dialettale ambientata a Taormina, ove un ricco e nobile inglese un po’ blasé e un po’ dissipatore salva in un gesto d’altruismo uno sconosciuto gettatosi in mare per fame e per disperazione. Il sopravvissuto, un facchino oberato da una famiglia numerosa, conquista subito con la sua schiettezza e rettitudine la benevolenza del milord, che lo assume alle proprie dipendenze con tutti i suoi. Quando però sua figlia viene sedotta e fugge con il milordino, l’onore offeso porta il siciliano puro sangue a rifiutare le profferte del padrone e a scegliere il ritorno alla povertà. Ma anche qui il lieto fine s’afferma con il ritorno dei due giovani fuggitivi e con il loro matrimonio riparatore. Lavoro congeniale all’arte di Angelo Musco, che del personaggio del facchino faceva una sua inimitabile creazione, il manoscritto superstite, presentato e depositato all’ufficio censura per il visto in data 10 ottobre 1931, reca ben evidente l’annotazione Proprietà del Grand’uff. A. Musco49. Lu poeta venne presentato al visto di censura dallo stesso Francesco Campanozzi l’11 agosto 1937, chiedendo “cortese sollecitudine” in quanto impegnato a farlo avere “prima della fine del mese all’illustre attore Comm. Angelo Musco”. Egli lasciava anche il suo indirizzo di residenza a Messina, via Ugo Bassi 200, e il recapito romano, via Bisagno 14 (int. 15) presso il dott. Calapso. Va da sé che Leopoldo Zurlo già il 28 agosto era in grado di apporvi il suo visto e il 30 di restituirlo all’autore50. Micu Taddarita (che in siciliano significa pipistrello) è il poeta, un cantastorie che arrangia a malapena il pranzo con la cena, ma che non esita ad accogliere presso di sé due nipoti in età da marito e che dunque gli creano molte preoccupazioni. Due giovani fanno loro la corte, e Micu a stento riesce a tenerli lontani. Avvengono inspiegabili apparizioni di fantasmi che si scoprirà poi essere il modo adottato dagli innamorati per potersi incontrare. Tutto naturalmente ha il consueto lieto fine e il cantastorie può finalmente intonare un canto di felicità. La finestra sul giardino nella trascrizione di Giggi Spaducci, noto attore popolare romanesco, venne presentata al visto della censura il 2 dicembre 193751 a prova di quanto questi testi si offrissero anche ai più svariati adattamenti linguistici52. Una finestra abusiva aperta su un giardino è all’origine dei dissidi tra i due personaggi principali; uno, il Sor Venanzio, un attempato avvocato proprietario del giardino, sta per sposare, e l’altro, Mastro Titta, un ciabattino che s’intende anch’egli di diritto come un avvocato e che, nascosto dietro le persiane, osserva la disperazione della sposa indotta al matrimonio solo per le basse mire dei suoi familiari sulle proprietà dell’avvocato. Lo spasimante, amico di Mastro Titta, profitta di quella finestra per parlare e incontrarsi con l’amata, assolutamente determinata a rifiutare al Sor Venanzio la consumazione delle nozze. In conclusione, la sposa, istigata dai nipoti del marito, ostili anch’essi per motivi d’interesse a quel matrimonio, ne chiede l’annullamento in quanto ratus sed non consummatus, e il Sor Venanzio, che infine accetta le ragioni della giovinezza, disereda i nipoti, caccia i genitori di lei dalla terra che volevano acquisirsi, e generosamente nomina la ex moglie sua erede mentre si rappacifica con Mastro Titta lasciandogli l’uso della finestra. Più breve il discorso sui due testi in lingua, presentati insieme al visto di censura il 25 settembre 1942, quando le sorti del secondo conflitto mondiale erano ormai alla svolta decisiva. I due drammi segnano probabilmente anche la fine della stessa attività teatrale di Francesco Campanozzi, 48 Censura teatrale e fascismo (1931-1944)…, cit., p. 109-139. A.C.S., MinCulPop., Censura teatrale, b.175/3214. E cfr. anche Censura teatrale e fascismo (1931-1944)…, cit., I, p. 263. 50 A.C.S., MinCulPop., Censura teatrale, b.106/1887. 51 A.C.S., MinCulPop., Censura teatrale, b.52/939. 52 Il caso più evidente in questo senso è quello delle pirandelliane Lumie di Sicilia (1910) che subiranno anzitutto l’adattamento in siciliano dello stesso autore per l’interpretazione di Angelo Musco (1915). Successivamente diverranno Agro de limone nell’adattamento ciociaro e verolano di Petrolini (1923), fino a quello napoletano de Ll’uva rosa di Peppino De Filippo (1936). 49 20 che ora abbandona i facili toni del teatro dialettale per cimentarsi in quelli a lui non congeniali del genere serio. Il compare del diavolo53 è un drammone storico ambientato nella Sicilia borbonica, e vede la contessa di Castelnuovo, amante del vicerè principe di Carini, alle prese con l’innamorato della sua cameriera, cui la capricciosa contessa, sol per non privarsi dei servizi di lei, oppone un netto rifiuto alle nozze. La fantesca muore di crepacuore e il giovane per vendetta si trasforma in un terribile brigante presto soprannominato il compare del diavolo che, come già aveva fatto suo padre, terrorizza la nobiltà e istiga il popolo oppresso alla ribellione. Dopo numerose peripezie e il sequestro della stessa nobildonna, la polizia borbonica alla fine ha il sopravvento, cattura il bandito e lo conduce alla forca. Ma nell’ultimo incontro con la contessa, il brigante, che si è sempre comportato cavallerescamente, consuma la sua sottilissima vendetta: le lascia credere d’esser stata da lui violata nel deliquio seguito al sequestro. La marcia dello spirito54 è una commedia borghese ambientata durante la prima guerra mondiale: una moglie fedele è insidiata nella sua onestà dall’antico spasimante. Il marito parte volontario per la guerra malgrado gli scongiuri della donna; fa però in tempo a ritornare dalle trincee per sorprendere i tentativi di seduzione del rivale, tra l’altro spregevolmente imboscato. Nell’ultimo atto assistiamo alla lenta guarigione dell’eroico marito che è stato ferito gravemente ed è assistito dalla moglie accorsa al suo capezzale nell’ospedale di guerra. La vicenda si chiude con un lungo e tetro confronto tra i due coniugi: l’onore offeso preclude al marito la riappacificazione. Egli parte infatti da solo per la convalescenza, ingiungendo alla moglie di rimanere ad espiare il suo fallo nel ruolo di crocerossina di guerra. Discorso a parte merita L’Onorevole Paracqua55, innanzitutto per l’autore, che non è né Francesco Campanozzi né Antonio Campanozzi, ma un altro ancora: Primiano, secondo le indicazioni fornite dalla stessa Ferrara che ha sciolto il nome puntato P. presente nel copione56. La richiesta di nulla osta per lo spettacolo, in data 20 gennaio 1933, non è peraltro firmata da Primiano Campanozzi ma da Giovanni Martoglio, con abitazione in Roma in via Augusto Valenziani 16, già residenza anche del fratello Nino finchè fu in vita. Giovanni Martoglio, pittore di notevole rinomanza57, in questa circostanza mostra d’impegnarsi forse con qualche personale pressione sul comm. Zurlo perché il lavoro possa ricevere il visto al più presto dovendo “andare in scena a Bardonecchia il 28 corr.” (non è precisato con quale compagnia). Il giorno 25 gennaio la censura concede in tempo il nulla osta e consegna “il copione al sig. Martoglio” (così dalle annotazioni sulla pratica). Scritta in un dialetto diverso dal facile siciliano gergale dei comici58, la commedia rappresenta un’Italia scomparsa, quella delle lotte elettorali cancellate dal fascismo; ed è davvero sorprendente che il censore, nell’anno XI dell’era fascista, abbia concesso tanto facilmente il visto. Una sola annotazione a matita rossa e in grande evidenza: “Aggiunta nella didascalia a p.1”, e la firma siglata Z. (Zurlo). Alla pagina corrispondente l’aggiunta alla descrizione della scena del primo atto dice: “Alla parete un calendario da cui risulti ben visibile una data dell’anteguerra”. Al censore era bastata dunque questa sottolineatura, peraltro scarsamente percepibile da una platea men che attenta, per nascondere una sostanza così lontana dall’ormai invasivo regime fascista. Il titolo stesso ha bisogno di una spiegazione perché paracqua in un’accezione figurata del dialetto catanese (ma anche siracusano ed ennese) indica il babbeo, il credulone, ovvero chi è 53 A.C.S., MinCulPop., Censura teatrale, b. 137/2481. A.C.S., MinCulPop., Censura teatrale, b. 137/2480. 55 A.C.S., MinCulPop., Censura teatrale, b.606/11533. 56 Ringrazio Patrizia Ferrara per i chiarimenti fornitimi sul nome, al cui scioglimento è arrivata servendosi dello schedario storico presente negli uffici della direzione generale della S.I.A.E. 57 Su di lui A.M. DAMIGELLA, L’opera grafica di Giovanni Martoglio, Sellerio, Palermo, 1991. 58 Qualche esempio delle forme dialettali usate: pruuli, polvere; scavazzari, schiacciare (p.2 del copione); stracanacchi, angherie; cani vastatu, idrofobo; piula, civetta (p.3); carcarazza, gazza, donna chiaccherona (p.12); bàstidi, provviste (p.17); paparina o paparrina, papavero (p.20); culumbrina, Colombina (maschera teatrale), ragazza poco seria (p.26), ecc. 54 21 troppo tollerante o paziente59, e quindi Onorevole Paracqua ha un preciso significato morale. Ed in effetti il protagonista è un personaggio inesistente fino alla metà del second’atto, quando finalmente appare in scena per subire l’azione drammatica già tutta avviata a suo danno. Il primo atto si apre sulla giornata conclusiva d’una campagna elettorale molto combattuta: don Saru Raspa, un astuto e interessato factotum del candidato don Pitrinu, è lì a deprecarne l’assenza giacchè il futuro deputato (socialista, come fa capire più d’un accenno) ha rifiutato di partecipare alla tenzone e se ne sta ritirato in campagna tra le sue vigne e gli animali come un Cincinnato, perché, dice, gli uomini gli fanno antipatia. In compenso la moglie, che è piena di ambizioni, finanzia generosamente la campagna elettorale gestita da don Saru e, all’insaputa del marito, contrae ingenti debiti con un usuraio, il cav. Tomaselli. Quest’ultimo, secondo le intenzioni di don Saru sarebbe destinato a diventare il sindaco della cittadina e poi, sposando Carminedda, la figlia dell’onorevole, a sanarne la difficile situazione finanziaria. Naturamente la giovane, invaghita del rampollo dell’avversario, non vuol saperne ed è colei che innesca lo scontato scioglimento della vicenda. La trama, priva di comicità grossolane, si dipana con una sottile analisi delle situazioni: la scena più riuscita del primo atto è quella del comizio che, in assenza di don Pitrinu, tengono sua moglie e don Saru affacciandosi l’un dopo l’altra al balcone di casa. Le promesse che entrambi snocciolano sono tante: <<parràtici di l’acqua, cummaruzza,… parràtici di la ferrovia>>, suggerisce ansiosamente il factotum sfruttando i temi classici del malcontento siciliano. Poi, quando tocca a don Saru di prendere la parola, è un crescendo: <<li pipi ( i peperoni) a deci un sordu… scalora e canigghia (crusca) pri li poviri scecchi (asini) quanti ni vuliti… medicini e dutturi pri li puvireddi, gratis… tassi nenti, l’hannu a paiari li cavaleri. Càduno tutti li cuccagni. Lassau scrittu Carlu Magnu: cu nun travagghia nun mangia>>, dove Carlo Magno è l’originale e molto siciliana trascrizione di un Carlo Marx mascherato da opera dei pupi, nel tentativo fors’anche di eludere e sbeffeggiare la censura. Il secondo atto inizia con la celebrazione del trionfo elettorale che galvanizza sia la moglie di don Pitrinu che don Saru. Nell’euforia quest’ultimo si lascia sfuggire d’essere al corrente d’un carteggio amoroso tra Carminedda e il figlio di don Ludovicu, l’avversario politico. Mentre si svolge lo scontro della madre con la figlia, appare l’onorevole Paracqua, cioè a dire don Pitrinu, al quale tocca fronteggiare le ire della moglie, i pianti della figlia, i rimproveri di don Saru per le sue assenze, l’assillo dei postulanti che gli chiedono continui favori. Buon’ultima, la notizia che il cav. Tomaselli, disilluso nelle sue mire su Carminedda, ha portato le cambiali all’incasso. In mezzo a tanti disastri, forse la scena più divertente è quella del postulante che si presenta madido di sudor freddo inveendo contro il matrimonio e contro la propria moglie. – Ma che volete da me? – si prova a chiedergli l’onorevole. – Voglio fare divorzio, ora, subito – risponde il marito esasperato. – Chi si occupa di queste questioni è l’avv. Spezzaferri, si rivolga a lui – replica l’onorevole. Ma il postulante insiste, vuole che sia l’onorevole a scrivere a Roma e a risolvere subito la cosa con una proposta di legge. Un timido tentativo di introdurre il divorzio in Italia risale al 1902, presidente del consiglio Giuseppe Zanardelli, ministro di grazia e giustizia Francesco Cocco-Ortu. Che Primiano Campanozzi abbia fatto riferimento a quell’occasione irripetibile? che la commedia possa risalire a quegli anni, o, meglio, possa esser stata scritta qualche anno dopo? – Nulla sembrerebbe escluderlo a priori. Lo stesso non infierire della censura fascista potrebbe spiegarsi con il carattere ormai “storico” della pièce, per la quale non l’autore (forse già a quel tempo non più in vita) ma un’altra persona, il ricordato Giovanni Martoglio, a nome d’una non meglio precisata compagnia operante in quel di Bardonecchia, veniva a richiedere il nulla osta. Il terzo atto nel suo scontato scioglimento riveste minore interesse. I due innamorati sono fuggiti assieme lasciando nell’angoscia i rispettivi genitori, che ora si incontrano non da avversari e s’intendono facilmente tra loro per un matrimonio riparatore. Don Pitrinu, scottato dalla scoperta delle ruberie di don Saru che ha raspato nel suo patrimonio, coglie l’occasione per rinunciare a una carriera politica fatta per gli imbroglioni e per i mestatori. Nella scena finale don Saru, che nel frat59 G. PICCITTO-G. TROPEA, Vocabolario siciliano, cit., vol. III, ad vocem p. 575. 22 tempo ha messo su un terzo partito con il cav. Tomaselli, si scontra con l’ex-onorevole, il quale gli getta ai piedi la medaglietta e con supremo disprezzo gli grida: - Cca c’è la medaglina. Pigghiativilla. Daticcilla a lu cavaleri Tomaselli, e nisciti! Un’ultima singolarità: si sarà notato che alcuni nomi, quelli di Don Saru Raspa e dell’avv. Spezzaferri, sono stati precedentemente indicati come titoli di altrettante opere teatrali60. Ma mentre don Saru Raspa è quanto meno il deuteragonista dell’Onorevole Paracqua, il nome dell’avv. Spezzaferri nel copione esaminato ricorre una volta sola e solo incidentalmente61. La domanda che ci si pone è se a questi nomi corrispondano davvero altrettante opere da attribuire a Primiano Campanozzi, o non si tratti invece di un equivoco nato dalla dispersione dei copioni e dalla scarsa conoscenza che abbiamo degli autori. Finora l’unica opera reperita di Primiano Campanozzi rimane L’Onorevole Paracqua, e a noi al momento mancano altre risposte. Torniamo infine al primo dei tre Campanozzi, ad Antonio Campanozzi dal quale abbiamo iniziato la nostra ricerca, per dedicargli ora l’ultima parte, che tratterà delle sue cinque commedie pervenuteci nel volume Maschere del Novecento, escludendo naturalmente sia Racanaca che L’Imperatrice, di cui abbiamo già parlato in precedenza. Il metodo Anfossi presenta un giovane medico, Leone Anfossi, che serve la scienza senza indulgenze e ne applica rigorosamente i risultati, al punto da diventare inviso ai colleghi ed esser respinto dagli ammalati per la spietata sicurezza delle sue diagnosi e la crudeltà intellettuale con cui le formula. Costretto da questa intransigente spigolosità all’emarginazione e poi alla disoccupazione, tenta il suicidio; ma quando si riprende e ritorna alla vita, matura un feroce desiderio di vendicarsi delle persecuzioni subite e cinicamente applica un metodo ciarlatanesco, da cui ottiene subito la credula fiducia degli ammalati, l’invidia dei colleghi e il più grande successo economico, arrivando financo al miracolo di guarire un paralitico. Quest’ultimo episodio suscita però il risentimento del parroco e delle autorità religiose per l’inaccettabile invasione di campo; se non che il supposto miracolo si rivela nient’altro che una simulazione dell’ammalato, scoperta dallo stesso medico che la tramuta in un suo nuovo trionfo. A questo punto però Leone Anfossi, insoddisfatto intimamente, tenta di recuperare la perduta dignità scientifica abbandonando le sue cure mirabolanti. Ma, dinnanzi alla minaccia di perdere la vasta clientela, la ricchezza e perfino l’amore della donna amata anch’essa invaghita dei suoi artifici, si convince, tra la soddisfazione dei familiari e dei collaboratori, a ritornare sulle sue decisioni e a continuare ad applicare il celebrato metodo Anfossi. La commedia richiama in qualche modo il ben altrimenti noto Knock, ou le triomphe de la médicine (1923), di Jules Romains, e, nell’episodio del paralitico, anche il Lazzaro pirandelliano (1929). L’episodio del miracolo con l’aspra contesa tra le due autorità, quella scientifica e quella religiosa, è il migliore della pièce: il gioco degli inganni e della simulazione si sviluppa in un crescendo che culmina in un’affermazione di consapevole e scettica laicità. La strada nuova è un’opera ricca di pathos, in stridente contrasto con l’atmosfera politica e con il conformismo dominante nel ventennio. La sfida alla dittatura è più che evidente e ci si domanda come Campanozzi abbia potuto includere quel suo lavoro nel volume, se non forse per la marginalità dell’opera postuma e la semiclandestinità della pubblicazione. Il dramma è ambientato nella Sicilia dello sfruttamento contadino e ripercorre un’esperienza evidentemente partecipata e personale dell’autore. Siamo a Francavilla di Sicilia, alla gole dell’Alcàntara, sulle pendici dell’Etna, in un paesello del messinese di qualche migliaio di anime, dove un contadino socialriformista, Angelo Spina, evolutosi nell’emigrazione in Sudamerica e nelle lotte 60 V. qui sopra p. 17, n. 42. La presenza di questi titoli in Teatro verista siciliano, a c. di A. BARBINA, Bologna, Cappelli, 1970, p. 28, nonché la scarsa documentazione in una materia così difficile da esplorare, ha generato molti di questi equivoci. In un altro elenco di S. ZAPPULLA MUSCARÀ in Pirandello e il teatro siciliano, Catania, Maimone, 1986, p. 20, c’è, ad es., un Cipriano Campanozzi che dev’essere sicuramente il nostro Primiano. 61 V. qui alla p. prec. 23 sindacali, si fa promotore di scuole per l’alfabetizzazione dei contadini, di leghe di mutua assistenza, e di cooperative. Tuttavia i suoi ideali riformistici vengono messi a dura prova dal proprietario della terra su cui lavora, che esige da lui il pagamento delle fittanze arretrate nonostante le cattive annate l’abbiano portato alla fame. Siamo nel 1915, alla vigilia dell’entrata in guerra: i due, grazie all’intervento dell’avvocato Spada, che prende le parti del contadino, tentano un accordo che si rivela impossibile. Il proprietario dichiara che “se si ammette che i fittavoli, quando c’è la mala annata, non debbano pagare, addio proprietà”, e il contadino: “…mi dica, don Francesco, lei, da parte sua, sarebbe disposto a pagarmi il prezzo della sementa, del concime, del lavoro e… dell’osso del collo?”62. Mentre Angelo per le sue inadempienze col proprietario è sotto la minaccia della vendita del maiale e dei pochi altri suoi beni, sopravviene la notizia di un ammanco nelle casse della mutua ad opera di un infido amministratore che gli mette contro tutti i contadini derubati e pronti ad accusarlo. Nell’insostenibile situazione la fierezza e il coraggio di Angelo non bastano più, ed allora egli, benchè pacifista, parte volontario per la guerra secondo l’idea con insistenza insinuatagli dall’avvocato Spada. Si tratta di un’astuzia da leguleio per toglierlo dai pasticci, ma in realtà per subentrargli in quell’ascendente popolare così duramente conquistato e, soprattutto, per aver mano libera sulla bella moglie sposata in Argentina e condotta a un difficile ambientamento in Sicilia. Il terzo atto si apre col ritorno dal fronte di Angelo invalido a una gamba, che scopre, con sorpresa, completamente mutate le condizioni della moglie e della figlioletta. Esse vivono ora in un appartamento di proprietà dell’avvocato Spada, intanto divenuto sindaco del paese, il quale cerca di convincerlo di aver agito esclusivamente allo scopo di restituirgli la dignità e la considerazione compromesse dalle sfortunate circostanze che lo avevano indotto a partire. Ma l’atmosfera nel paese è completamente mutata: la maggior parte dei contadini è ora sotto la guida del parroco che, con la creazione di una banca popolare e con altre iniziative, ne ha assunto il controllo spirituale e pratico, mentre i più attivi tra gli amici di Angelo sono o caduti in guerra o allontanati dall’avvocato Spada il quale, curando soprattutto i suoi personali interessi, ha lasciato in abbandono le scuole per l’alfabetizzazione, la lega, le cooperative. Chi apre gli occhi ad Angelo è un vecchio compagno, Eugenio Larosa, che gli spiega gli errori commessi: “…dopo venti anni di agitazione contro la guerra… opuscoli, comizi, conferenze, propaganda spicciola, lo Stato decide la guerra e Angelo Spina parte volontario… E quando torna sciancato, trova che don Francesco [il proprietario della terra] in un anno ha guadagnato centomila lire col solo grano, e il signor parroco, profittando del terrore che ha pervaso tutti, riconduce le pecore all’ovile. – Angelo! Quando c’è chi approfitta della tua debolezza per levarti il pane dalla bocca, o per insinuarti le sue superstizioni, tu non ti puoi difendere con la legge”. E lo mette al corrente di una società che i contadini tra loro hanno fondato, La strada nuova, col programma dell’espropriazione della terra da costituire in dominio della collettività, affidandone la gestione ai contadini stessi63. L’incontro tra Angelo e l’avvocato Spada è decisivo per entrambi. Incalzato da Angelo, quest’ultimo cerca di sottrarsi: “ANGELO – Ci siamo finora baloccati con l’erba trastulla delle riformuccie. La società capitalistica non s’abbatte con la scuola, con la lega, con la cooperativa, col comune, col parlamento… “SPADA (sorridendo amaro) – E come? “ANGELO (con severità) – Con la violenza! “SPADA – Acqua passata, caro Angelo… “ANGELO (interrompendolo) – Con la violenza! “SPADA – Altra illusione. “ANGELO – No! Un’altra strada. “SPADA – Si andrebbe incontro al sacrificio immancabile. “ANGELO – Al sacrificio, sì! Così si servono le idee. (Incalzando) E voi, voi dovete mettervi a capo dell’organizzazione. “SPADA (trepidante) – Io? Ma io… ho poca attitudine… 62 63 Maschere del Novecento, cit., p. 187. Maschere del Novecento, cit., p. 252-53. 24 “ANGELO – L’acquisterete. “SPADA – Potrei aiutarvi finanziariamente… “ANGELO – No! Abbiamo bisogno della vostra coscienza, sana ed integra. Vogliamo mettere alla prova la vostra fedeltà”. La situazione si chiarifica quando, dinnanzi alla folla dei contadini che esce dalla chiesa e dileggia Angelo col belato dei becchi, quest’ultimo all’improvviso ha palese il tradimento, ma è richiamato al rispetto di sé da Larosa che lo distoglie dalla vendetta rusticana che tutti si attendono. “LAROSA (con energia e con dolcezza, mentre lo trattiene) – Angelo! Angelo! Non ti far vincere dalla collera… Non ti far deviare dalla tua idea! Se qualcuno ha tradito, peggio per lui e per lei! Ricordati… Alla tua esistenza è legato il destino di milioni di uomini… Ricordati… Abbiamo un programma, un sogno da realizzare… Tu non sei un contadino qualunque… Sei Angelo Spina… “ANGELO (in orgasmo) – Tutto da ricostruire!... “LAROSA – La tua missione è di redimere i contadini… da tutte le soggezioni… da tutti i tradimenti… “ANGELO (svincolandosi e avvicinandosi verso l’uscio di sinistra, risoluto e fremente, mentre Larosa lo segue raggiante di gioia) – Andiamo!... Via di qui! Andiamo… Proseguiamo! (Escono)”64. È la parte conclusiva del terzo atto, che abbiamo voluto riprodurre per dare il senso di un dramma che esce dai consueti stereotipi e s’avvicina a un’idea di teatro alto e impegnato, apprezzato anche dall’amico Pirandello che aveva voluto organizzare la lettura de La strada nuova nella sua casa, come ricorda Campanozzi in una nota65, aggiungendo che nel settembre del 1920 Virgilio Talli, lo stesso capocomico che aveva messo in scena Racanaca, gliel’aveva lodata come opera teatrale “perfetta”, osservando tuttavia che “l’atmosfera arroventata di questo dopoguerra non sembra troppo propizia per la rappresentazione e per l’obiettiva valutazione dell’opera”, concludendo con un: “ma non si scoraggi, La strada nuova è lavoro che non può invecchiare. Verrà, ne son certo, l’ora sua e sarà d’immancabile successo”66. Romolo e Remo è opera di tutt’altra natura, ambientata nella Roma delle speculazioni del dopoguerra. Il protagonista, Romolo Evans, immaginando una serie di grandi opere per lo sviluppo di Roma marittima e di Roma industriale, cerca di coinvolgere nella sua società immobiliare la nobiltà romana, gli ambienti finanziari e quelli politici. La grandiosa impresa in effetti non ha alcun solido fondamento e si preannuncia come un turbinoso giro d’affari fraudolenti. Le vantate ricchezze e l’ostentata solvibilità del protagonista, che ha nel frattempo conquistato il cuore della giovane e romantica figlia del principe di Castelfusano, si rivelano del tutto inesistenti. Il temuto annuncio del ritiro del finanziamento ministeriale produce, alla fine del secondo atto, il crollo psicologico di Romolo. Ma ecco il colpo di scena: al levarsi del velario, mentre gli azionisti sono riuniti per organizzare una linea comune contro l’impostore, questi si presenta all’assemblea annunciando che il presidente del consiglio in persona lo ha ricevuto e gli ha concesso i finanziamenti prima negati. È il trionfo. Nel tripudio generale viene annunciato anche il fidanzamento ufficiale con la principessina. Segue un colloquio tra i due innamorati nel quale si appalesa però l’altra verità: si tratta dell’ennesima impostura architettata da Romolo Evans per aver il tempo di organizzare la sua fuga. Egli chiede alla giovinetta di rinunciare a lui, ma al rifiuto deciso della romantica fanciulla, entrambi partono verso un destino ignoto, aperto a una nuova avventura del rampante capitalista, il quale, come Anteo al toccar della terra, acquista nuovo vigore ogni qual volta venga in contatto con l’oro. Rivoluzione in pantofole è il nuovo titolo de Il prof. Segalin, ultima delle cinque commedie delle Maschere del Novecento. Campanozzi la offrì sul finire del 1919 a Ruggero Ruggeri ottenen64 Maschere del Novecento, cit., p. 255-59. Maschere del Novecento, cit., p. 421: “Il lavoro La strada nuova, letto ripetutamente, molti anni fa, in casa Pirandello, suscitò unanimi consensi da parte di autori e critici valorosissimi”. 66 Ibid. 65 25 done però un rifiuto, malgrado in suo favore intervenisse anche Pirandello67. La ragione del rifiuto può spiegarsi col contenuto del lavoro che, pur nella chiave comico-grottesca, manteneva intatti molti evidenti e graffianti riferimenti alla situazione politica contingente, di certo non tali da incoraggiare i capocomici a rappresentarlo. Il prof. Segalin è un illustre economista e cattedratico che, per uno sconforto improvviso, scavalca il parapetto del Tevere e si getta nel fiume. Ma il contatto con l’acqua lo fa ritornare in sé e a nuotare fino a salvarsi. Il medico che lo prende in cura individua il suo male nel disgusto verso l’umanità, sopravvenutogli allo scoppio della conflagrazione mondiale e gli propone l’unico rimedio possibile per uscire dalla sua neurastenia: - buttarsi nella lotta politica! “Abbiamo guarito dei paranoici – dichiara il medico – sostituendo alle idee deliranti le idee politiche. Ho visto dei veri pazzi calarsi nella politica come nel loro ambiente naturale: chi è passato con l’aureola del martirio, chi è assurto a duce di organizzazioni, chi ha potuto rimarginare la lesione nello sfogo della grande eloquenza”68. Stimolato da allievi, amici ed ammiratori Segalin si lascia trascinare nella nuova avventura. A un discepolo che gli ricorda la felice conclusione delle trattative per le otto ore tra industriali e sindacati, parla così dei capitalisti: In quattro anni di guerra, a via di spolette e di culatte, han travasato nelle loro vene il più puro sangue della nazione. Accumulano ricchezze, acquistano potenza, si armano fino ai denti, legiferano, sentenziano, corrompono la politica, la religione, la cultura, la filosofia, l’arte… per mantenersi in sella e ipotecare il dominio ai discendenti. Codesta falsa civiltà ha già compiuto la parabola. Preparatevi a seppellirla con l’onore delle armi, prima che la distruggano le fiamme della vendetta69. Alla domanda se ritiene di sostituire al presente regime l’ordinamento collettivista, Segalin risponde beffardo: Già! con le statizzazioni, municipalizzazioni, socializzazioni… E quindi nuovi governanti, nuovi amministratori, nuovi direttori… Il padrone che rientra dalla finestra… Il principio di autorità in blouse. La gestione sociale sotto l’egida della disciplina… Quindi i contravventori… Quindi il giudice, il gendarme, la caserma, leggi, decreti, ordinanze, codici…70. Ed infine la parte nuova, l’utopia di Segalin: Il bisogno di organizzazione nacque dall’ignoranza… dalla necessità di soggiogare gli egoismi e le bieche forze della natura. Ma la scienza, ormai, ha domato gli elementi – l’aria, l’acqua, il fuoco, la luce – centuplicando i mezzi di produzione. Oggi producono le macchine. L’individuo, oggi, può redimersi dei ceppi millenari. I beni della vita, materiali e spirituali, debbono godersi in comune… senza leggi, senza regole, senza coazioni… Da ciascuno secondo le sue facoltà, a ciascuno secondo i suoi bisogni. Liberi, totalmente liberi. Che ogni uomo produca quel che vuole, consumi quanto vuole, pensi e agisca come vuole71. Con questa ideologia anarcoide e liberista Segalin riesce a soggiogare sempre più vasti gruppi sociali ed a creare un forte movimento politico. Ma mentre il suo sogno trova sempre maggiori consensi, la giovane moglie, lasciata troppo a lungo in disparte, gli chiede a sua volta di “realizzarsi” entrando anche lei nel nuovo partito, nel quale milita anche un giovane allievo del professore che in passato aveva amoreggiato con lei. La rivoluzione in pantofole è in corso di svolgimento nel terzo atto. Segalin vi assiste da dietro la finestra di casa, privo delle scarpe sottrattegli dalla sorella timorosa che egli voglia scendere a mischiarsi agli insorti. È preoccupato per la violenza degli scontri, che hanno già prodotto 67 Nella lettera da Roma del 7 dic. 1919, Pirandello sollecitava Ruggeri a dare all’amico Campanozzi una risposta “favorevole”; v.la nel carteggio Pirandello-Ruggeri a c. di A. BARBINA, in <<Ariel >>, XIX, 2-3, maggio-dic. 2005, p.305. La risposta arrivò nello stesso mese al Campanozzi: “Ho letto la sua commedia – scriveva Ruggeri – e ne ho ammirato la profondità delle intenzioni e la sana comicità; ma, con mio dispiacere, non mi ritengo adatto ad incarnare il suo protagonista”, Maschere del Novecento, cit., p.420. 68 Maschere del Novecento, cit., p.355-56. 69 Maschere del Novecento, cit., p.360. 70 Maschere del Novecento, cit., p.362. 71 Maschere del Novecento, cit., p.363. 26 molti morti, e soprattutto per la salvezza della moglie dispersa nella piazza tumultuante. Quando finalmente rientra in casa, ella non vuol dire dove sia stata, e al commissario di polizia che viene a interrogarla nega di esser stata con l’allievo del professore, il maggior indiziato dei torbidi e delle violenze. Ma di fronte alle prove che l’accusano d’aver capeggiato col giovane la sommossa e di tradimento coniugale, interviene Segalin a scagionarla per evitare lo scandalo, accusandosi di tutti i capi d’imputazione e lasciandosi arrestare dalla polizia. ELIO PROVIDENTI