Disarmo, accoglienza, transizione ecologica: i tre pilastri di una pace duratura

Una volta Gino Strada ebbe a dire “io non sono pacifista, io sono contro la guerra”. Per lui non era sufficiente, cioè, dichiararsi genericamente a favore della pace, ma occorreva essere conseguenti nelle scelte e nelle azioni affinché quest’ultima si affermasse. Si tratta di una frase riecheggia in queste giornate drammatiche, in cui la quasi totalità dei leader delle principali potenze occidentali si dichiara a favore della pace, ma poi si prepara per la guerra.

Forse, oggi, abbiamo la necessità e la responsabilità di essere ancora più chiari su cosa significhi essere a favore della pace e contro la guerra. Il rifiuto di quest’ultima infatti non può passare che attraverso scelte politiche coerenti e concrete. Cosa pensino Vladimir Putin e la classe dirigente russa di tutto ciò è ormai chiaro. Siamo però sicuri, però, che le élites europee e statunitense stiano lavorando per disinnescare il dispositivo di guerra messo in moto dalla scellerata invasione dell’Ucraina? O invece stanno alimentando una pericolosa escalation che non sappiamo dove ci condurrà? Qual è il discrimine tra chi vuole davvero un futuro di pace e chi nasconde dietro generici slogan velleità egemoniche e di potenza? Quale prospettiva dovremmo promuovere noi, che ancora non siamo direttamente toccati da questa sporca guerra?

Disarmo

Il primo punto è semplice, lo capirebbe anche un bambino. La corsa agli armamenti non è esattamente il migliore dei modi per distendere il clima ed evitare che il conflitto degeneri. Eppure questa sembra essere ad oggi la sola strada presa in considerazione.

I paesi ostili alla Russia mostrano i muscoli e prendono parte al conflitto in maniera esplicita, decidendo di inviare armi all’Ucraina e continuando ad ammassare, sotto l’egida della Nato, truppe al confine polacco. La Germania dichiara apertamente un consistente aumento delle spese militari, dando un cattivo esempio che probabilmente verrà seguito dal resto d’Europa. Di fatto il terreno di scontro scelto da Putin viene accettato e, in questo scenario, la guerra sembra diventare l’unico orizzonte immaginabile.

Viene così il dubbio che tutte le dichiarazioni a sostegno della pace, fatte dai governi occidentali, rappresentino una foglia di fico utile, più che a promuovere politiche distensive, a mascherare la politica di potenza e il militarismo nostrani. Putin non è un pazzo qualunque, ma il capo autoritario di una grande potenza militare che rivendica la sua fetta di torta. Nel fare questo, gioca però secondo regole che noi stessi, al seguito dell’alleanza euroatlantica, abbiamo impostato negli ultimi tre decenni, percependoci come padroni del mondo, sganciando bombe travestite da democrazia e destabilizzando intere aree del globo. Oggi l’egemonia unilaterale della potenza guida è in crisi e, negli spazi che si aprono, altri cercano di inserirsi con la forza delle armi. Di cosa stupirsi allora? Abbiamo edificato un mondo governato dalla violenza e dalla prevaricazione e ora questa perversa costruzione ci crolla addosso portandoci sull’orlo di una guerra totale.

Consoliamoci. In tutto questo c’è infatti chi sorride. L’inizio dell’escalation fa volare le quotazioni dell’industria bellica e i produttori di armi già si leccano i baffi. Il semplice annuncio del riarmo da parte della Germania e del sostegno all’Ucraina ha fatto volare in borsa le “nostre” Fincantieri e Leonardo.

Oggi, più che mai, pace fa rima con disarmo. Riduzione delle spese militari, ridimensionamento della produzione e del commercio di armamenti, riduzione del peso economico e politico dell’industria della guerra e sua riconversione dovrebbero rappresentare i capisaldi di una politica della e per la pace. Rifiutare la guerra non può che significare rifiutarne la logica, i presupposti e l’economia. È più che mai urgente scendere in piazza contro la guerra di Putin, e contro tutte le guerre, anche le “nostre”.

Accoglienza degna

La guerra tende a rinsaldare i confini e ad alimentare le pulsioni xenofobe e razziste. Pace, solidarietà e accoglienza non possono allora che rappresentare facce diverse di una stessa medaglia. Accoglienza degna, per tutti/e, indipendentemente dal colore della pelle e dalla geografia di provenienza. Chi fugge da povertà, fame, guerra, persecuzioni dovrebbe poter trovare un porto sicuro in ogni caso. La mobilitazione in solidarietà della popolazione ucraina, la grande disponibilità ad accogliere i profughi del conflitto in corso sono segnali estremamente positivi, rappresentano il risveglio importante di un sentimento di solidarietà. La solidarietà d’altro canto, però, per essere tale fino in fondo, non può essere selettiva, altrimenti rappresenta solo una ipocrita dissimulazione del proprio egoismo. Ricordiamoci che, mentre l’idea di accogliere profughi dall’Ucraina sta diventando motivo di vanto, la rotta balcanica continua a pretendere la sua dose di sofferenza, la Libia continua a rappresentare un buco nero dei diritti e così via. Impossibile non notare poi che se, fino a ieri, l’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo in hotel era messa alla berlina in quanto vacanza a spese dei contribuenti, oggi assistiamo ad una corsa all’accoglienza di uomini e donne ucraini in strutture ricettive. Viene da pensare che il colore della pelle incida in questa diversità di trattamento. Si sa, è più facile accogliere profughi quando sono bianchi ed europei. Dovremmo invece, in questo momento così angosciante, tendere una mano a chiunque, su questa terra, porti sulla pelle i segni di un sistema globale violento e profondamente ingiusto. Quindi siano benvenuti/e gli e le ucraini/e! Ma la stessa cosa valga per gli afghani, i siriani e per chi fugge dall’Africa, rischiando la vita nella traversata del Mediterraneo.

Transizione ecologica

I venti di guerra mettono a rischio anche la necessaria ed improrogabile transizione energetica. In Italia, il Presidente del Consiglio Draghi non ha perso tempo ed ha già annunciato che, se le forniture di gas dovessero essere a rischio, verranno riaperte le inquinantissime centrali a carbone. Tutto è accettabile pur di produrre, produrre, produrre… anche il suicidio di massa. Perché è di questo che stiamo parlando.

L’economia di guerra passa anche da qui ed in questo frangente appare il senso profondo di avere un ministro per la transizione ecologica che proviene dall’industria degli armamenti.

Ovviamente l’aspetto più rilevante che la crisi ucraina fa emergere è la forte dipendenza delle nostre economie dagli idrocarburi. In questo quadro dovremmo pensare ad un piano di razionalizzazione dei consumi energetici e ad accelerare la transizione, non rallentarla.

Ma la questione ecologica è legata alla guerra anche in senso più ampia. Crisi climatica ed ecologica possono infatti esacerbare migrazioni e conflitti – che possono coinvolgere anche le grandi potenze – legati all’accesso alle risorse, alla terra, al cibo, all’acqua. Non stiamo parlando di un lontano futuro, ma di scenari che sono già in atto, qui ed ora. Un mondo energivoro e basato sulle fonti fossili, passivo di fronte agli scenari catastrofici che ha di fronte, non può perciò essere né pacifico, né giusto.

Un’economia ecologica rappresenta il perno fondamentale di una politica che assuma la solidarietà e la pace come proprio orizzonte.

Il conflitto sta prendendo una piega preoccupante e le voci a favore della pace, di quella vera, rischiano di rimanere schiacciate tra una Russia che non nasconde più la sua vocazione imperialista, un’Europa più aggressiva e armata fino ai denti e una Nato che approfitta della situazione per rafforzare la sua presenza sul vecchio continente. L’aggressività di ciascuno dei contendenti rischia così di alimentare quella degli altri in una spirale di tensione da cui non si intravede via d’uscita. Se queste sono le premesse, allora, parafrasando Theodor Adorno, la possibilità di un futuro di pace e libertà non sta nello scegliere tra la bandiera di una o dell’altra grande potenza, ma proprio nel sottrarsi a questa scelta prescritta.