2 Giu 2023

Debiti: ristrutturazione nel limbo

La rinegoziazione fa piccoli passi avanti. Il disaccordo tra creditori privati e sovrani, e il braccio di ferro tra Cina e Club di Parigi. Il caso Ghana.

L’accordo fra i creditori del Ghana ha finalmente sbloccato il piano di salvataggio da 3 miliardi di dollari del Fondo Monetario Internazionale (FMI),  nonché i fondi della Banca Mondiale (1,6 miliardi di dollari) destinati a sostenere la bilancia dei pagamenti e il tasso di cambio. Ciò è stato possibile solo grazie alle assicurazioni dei creditori bilaterali del Paese – in particolare la Cina (detentrice di 1,7 miliardi di dollari di debito, circa il 5% del totale), ma anche il Club di Parigi e un gruppo informale di altri Paesi occidentali. C’è poi un’ulteriore novità: l’accordo, che interesserà circa 20 miliardi di dollari su un totale di quasi 30, per la prima volta coinvolgerà anche i creditori commerciali e porterà  a un alleggerimento di circa 10 miliardi, aprendo nuovamente la porta ai dolorosi “haircuts” finanziari.

Ma i disaccordi sulla ristrutturazione dei debiti e dei pagamenti obbligazionari in sospeso hanno lasciato il Ghana nel limbo per mesi, inerme di fronte all’acuirsi della crisi economica e finanziaria scatenata dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina. A differenza dei fallimenti aziendali, dove le leggi nazionali stabiliscono regole relativamente precise per la liquidazione dei beni e il rimborso dei creditori, in caso di insolvenza sovrana non esiste una normativa internazionale rilevante. E mentre il debito detenuto da creditori interni può essere ristrutturato attraverso un provvedimento di normativa nazionale, quello estero necessita di un accordo per limitare il danno reputazionale e pregiudicare il meno possibile il futuro accesso del Paese ai mercati. E così, in assenza di regole predefinite, la gestione del fallimento si affida al mero accordo fra le parti interessate, i cui interessi sono però spesso contrastanti: da una parte c’è il governo del Paese, che deve risanare i conti pubblici attraverso impopolari politiche di austerity, dall’altra i creditori, che dovrebbero allentare la pressione sul bilancio minimizzando al contempo le perdite.

Alla vecchia maniera: le rinegoziazioni anni Novanta

In passato le rinegoziazioni dei debiti scorrevano in modo relativamente più fluido. Grazie al gruppo informale conosciuto come Club di Parigi, esistevano infatti dei frameworks di riferimento per le ristrutturazioni che venivano concordati ex-ante dai 22 membri del Club, al tempo i maggiori creditori mondiali. Ciò contribuì ad arginare la crisi del debito degli anni Novanta, con il Club di Parigi che si riunì in privato per concordare una riduzione del valore dei debiti esteri (garantendo in alcuni casi la loro intera cancellazione). Al contempo, però, gli haircuts resero i Paesi avanzati più riluttanti nel concedere nuovamente grandi finanziamenti, lasciando le economie a basso reddito affamate di capitali per il loro sviluppo.

Una porta aperta per le ambizioni di Pechino, che in breve tempo si trasformò da Paese beneficiario a creditore, e i cui finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo oggi superano quelli della Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Club di Parigi messi insieme. A subire un ridimensionamento non fu però soltanto il ruolo del Club di Parigi (che nel caso ghanese conta meno del 7% del debito totale), ma anche quello di Londra, consesso simile a quello di Parigi che riuniva le banche commerciali. Queste ultime vennero progressivamente spodestate dagli obbligazionisti privati alla ricerca di profitti fuori delle economie avanzate (in Ghana più di un terzo del debito estero consiste in eurobond, in Sri Lanka quasi la metà). 

Autorità super partes cercasi

Per cercare di ovviare al problema, e attenuare l’impatto della pandemia, ad aprile 2020 il G20 promosse una sospensione dei pagamenti del debito estero fino al 30 giugno 2021. L’iniziativa, nota come Debt Service Suspension Initiative, non riuscì però a includere i creditori privati (detentori del 40% del debito totale), fornendo una scappatoia ad alcuni creditori sovrani (leggasi Cina) che riclassificarono parte del loro debito ed evitarono la sospensione. Con lo scoppio della guerra in Ucraina, divenne poi chiaro che una mera dilazione dei pagamenti non sarebbe stata sufficiente a risolvere le difficoltà finanziarie: come negli anni Novanta era nuovamente necessario rinegoziare il valore dei debiti, ma il coordinamento di un gruppo così eterogeneo di finanziatori si stava rivelando un esercizio più complicato del previsto.

Per facilitare i negoziati, è intervenuto il G20 con la creazione di un nuovo quadro di riferimento – il “Common Framework” (CF). Ancora una volta, però, i disaccordi tra i creditori occidentali e Pechino impedirono per mesi di raggiungere un accordo. Il motivo è tanto economico quanto politico. Da una parte, la svalutazione dei debiti non è vista di buon occhio da Pechino, che detiene il 52% del debito ufficiale bilaterale di tutti i Paesi ammissibili al CF e che pertanto teme le perdite connesse a svalutazioni concomitanti. Al contempo, a bloccare i negoziati è lasuper seniority dei creditori istituzionali e la conseguente esclusione dei finanziamenti della Banca Mondiale – e delle altre banche di sviluppo multilaterali (MDB) – dalle ristrutturazioni del CF. Operando come prestatori di ultima istanza, i loro prestiti comportano un rischio di per sé già maggiore rispetto agli altri creditori, mentre le condizioni accomodanti (tassi di interesse ridotti e lunghi periodi di rimborso) minimizzano gli oneri per i Paesi in difficoltà. Si aggiunga che dopo gli haircuts degli anni Novanta i prestiti delle MDB sono stati effettuati più responsabilmente, mentre l’attuale sovraccarico del debito deriva da prestiti bilaterali da parte di nuovi creditori (principalmente la Cina) e commerciali (cinesi e del mercato obbligazionario).

Condizioni sufficienti, dice l’Occidente. Meno d’accordo Pechino, che punta ad allargare il tavolo dei negoziati, e considera la seniority una scusa per mantenere puliti i rating delle istituzioni occidentali. 

Prove di accordi in corso

Eppure nelle ultime settimane qualcosa ha iniziato a muoversi. Non solo perché la delegazione cinese ha partecipato ai colloqui con gli altri creditori, ma sono stati anche raggiunti accordi preliminari per le ristrutturazioni di Sri Lanka e Ghana. Segno che Pechino e il Club di Parigi hanno finalmente risolto il loro impasse? In parte: per ora la Cina sembrerebbe aver accettato di subire delle perdite in cambio di nuove sovvenzioni e prestiti della Banca Mondiale e del Fmi. Fondi che, in assenza di un accordo con i creditori, le istituzioni di Washington avevano bloccato nel timore venissero usati per pagare i debiti cinesi e che ora contribuiranno ad ossigenare le bilance dei Paesi debitori. Buone notizie dunque per il Ghana, che si appresta a finalizzare l’accordo per la ristrutturazione del suo debito estero, ma non necessariamente per gli altri Paesi in difficoltà che devono soldi a Pechino. 

A guardare bene il caso ghanese, per quanto sia un primo banco di prova, è anche un caso relativamente semplice: Accra deve alla Cina meno di 2 miliardi di dollari, nemmeno un terzo dei 6 miliardi dovuti dallo Zambia che ha fatto default più di due anni fa. Insomma, se da una parte Pechino sembra sempre più consapevole che, in assenza di un condono condiviso oggi, le perdite future rischiano di essere ben maggiori, dall’altra bisognerà attendere negoziati più “difficili” per verificare la solidità di questo nuovo tacito accordo fra la Cina e l’Occidente. Soprattutto, Pechino accetterà di collaborare anche dove le sue perdite saranno maggiori rispetto ai fondi rilasciati? 

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