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Da est a ovest i libici
scendono in piazza contro il carovita, i blackout elettrici e per chiedere
elezioni che rinnovino una classe dirigente corrotta e incapace.
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È una miscela esplosiva quella che nel fine settimana ha scatenato un’ondata
di proteste diffuse in tutta la Libia. Da un lato il carovita e i continui
blackout elettrici, in
un paese che ospita i maggiori giacimenti di greggio del continente, dall’altra
lo stallo politico e la corruzione della
classe dirigente. Folle di manifestanti sono scese in piazza a Tripoli,
Bengasi, Misurata e Zintane subito dopo la preghiera di venerdì, mentre a
Tobruk un gruppo di persone ha assaltato e vandalizzato gli uffici del
parlamento, successivamente dato alle fiamme. “Vogliamo la luce” è lo slogan scandito in dai manifestanti, che
chiedevano anche un abbassamento del prezzo del pane. Nelle immagini trasmesse
dalle televisioni satellitari erano chiaramente riconoscibili numerose bandiere verdi, simbolo del regime di Muammar Gheddafi.
Nelle ultime settimane in tutto il paese gli abitanti sono stati sottoposti a
continue interruzioni della corrente, durante
fino a 18 ore, in un contesto di crisi aggravato dal blocco di diversi
impianti petroliferi a causa delle rivalità tra gruppi politici. Le tensioni
hanno determinato una ripresa degli
scontri armati che fa temere per la precaria tenuta dell’ordine sociale nel
paese in cui sono tuttora operativi due governi. Se la scintilla della protesta è da imputare
infatti alle peggiorate condizioni di vita della popolazione, aggravate dalla
guerra in Ucraina, a peggiorare le cose è lo
scisma tra il governo di Fathi Bashaga
in Cirenaica e quello di Abdul Hamid Dbeibah a Tripoli. Due giorni fa i
rappresentanti dei due esecutivi, in colloqui mediati dall’Onu, hanno fallito
nel trovare un’intesa per convocare
nuove elezioni, dopo l’annullamento di quelle previste lo scorso
dicembre.
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Dimissioni collettive di tutte le istituzioni
politiche e subito al voto. È la proposta avanzata dal premier sostenuto dalla comunità
internazionale, Abdul Hamid Dbeibah, all'indomani delle violenze: “Aggiungo la mia voce a quella dei manifestanti in tutto il paese: tutti
gli organi politici devono dimettersi, compreso il governo, e non c'è modo per
farlo se non attraverso le elezioni” ha scritto Dbeibah su Twitter, mentre il Consiglio di presidenza annuncia una seduta permanente “per realizzare la volontà dei libici (che
vogliono) il cambiamento e l’insediamento di un’autorità eletta”. Una situazione di tensione, quella esplosa nelle ultime ore, che allarma anche l’Onu. “È
assolutamente fondamentale mantenere la calma, che la leadership libica si
dimostri responsabile, e che tutti esercitino moderazione”, ha sottolineato Stephanie Williams, consigliere speciale dell’Onu per la Libia, esortando i partiti
politici “a concretizzare il desiderio
di tre milioni di elettori”, e a realizzare senza ulteriori rinvii, “una
tabella di marcia verso il voto”. I movimenti di protesta hanno
annunciato nuove mobilitazioni e
chiarito che non smetteranno di manifestare fino a quando l’attuale classe politica resterà al potere, invocando l’organizzazione
di elezioni presidenziali e legislative
entro l'anno.
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Una polveriera pronta ad esplodere?
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La nuova ondata di proteste ha improvvisamente ricordato alla comunità
internazionale che la Libia è una
polveriera pronta a riesplodere. Una situazione che preoccupa soprattutto l’Italia, considerato che in pochi mesi
la produzione di greggio è scesa da un milione e 200.000 barili al giorno a
poco meno di 600.000. In Cirenaica i pozzi sono fermi e lo stesso potrebbe
avvenire in Tripolitania, dove ancora opera l’Eni. “Oggi nel Mediterraneo si
riverberano gli echi dell’aggressione
russa all’Ucraina, ma anche la fragilità dell’area medio-orientale, le
difficoltà di alcune regioni del Nord Africa e, soprattutto, del Sahel. Da
tutte queste situazioni si possono originare minacce dirette alla nostra
sicurezza” ha spiegato il ministro Lorenzo Guerini in
un’intervista a Repubblica. Il responsabile della Difesa cita
anche “i rischi originati dalla presenza di grandi organizzazioni criminali e
dalle emergenze alimentari come quella derivante dalla guerra, che possono
generare fenomeni migratori ben più
consistenti di come li abbiamo fino ad ora conosciuti. Tutto ciò ci obbliga
ad agire, innanzitutto come Europa, non solo attraverso interventi di natura
militare ma anche con gli strumenti della diplomazia e, soprattutto, del sostegno allo sviluppo. Perché
senza sviluppo non potrà mai esserci vera sicurezza.
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La presenza di mercenari stranieri da entrambe le parti in cui è diviso
il nord della Libia, pesa come un macigno sugli sforzi di riconciliazione, alimentando lo stallo e l’instabilità
politica. I libici restano in balia di uno scontro tra potenze straniere
che hanno tutto da guadagnare dal disordine. Mosca ad esempio, ben presente nel
paese attraverso i mercenari del gruppo Wagner, ha tutto l’interesse ad interrompere i flussi di petrolio verso
l’Europa. Il calo della produzione libica infatti, aggiunge pressione ad un mercato globale che ha già visto un balzo
del 50% del prezzo del greggio, schizzato nell’anno in corso fino a quasi 120 dollari al barile. E arriva anche
in un momento in cui l'Europa (e l’Italia) è alla ricerca di alternative alle
fonti di energia russe in Africa e nel Mediterraneo. Sul piano politico
interno, la ricaduta di questi blocchi alla produzione di petrolio sta privando
i libici della loro unica ricchezza in un momento in cui i prezzi dei generi
alimentari sui mercati internazionali – da cui il paese è fortemente dipendente
– sono ai massimi storici. Una
spirale che ha unito i libici, divisi tutto, almeno nel malcontento. E che ha innescato proteste legittime, ma
che – è il timore condiviso – se non troveranno una risposta valida da parte della politica,
potrebbero precipitare nuovamente il paese verso il caos.
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