Dobbiamo tutti stare a casa. Ma cosa deve fare chi vive una relazione abusiva?

Negli ultimi giorni molti hanno condiviso, tra chat WhatsApp e bacheche Facebook, il video di uno dei tanti flash mob organizzati durante la quarantena che mostra una donna che suona il flauto dolce affacciata dal balcone. Quello che presumibilmente è suo marito o comunque un membro del nucleo familiare reagisce con violenza lanciandole addosso una tanica, aggressione alla quale la donna risponde. Il video è stato condiviso migliaia di volte, scherzando sulla situazione di esasperazione che molti vivono durante il lockdown o per lamentarsi dell’inutilità di questi flash mob. Ma quello che potrebbe celare questo video è una situazione di disagio e violenza domestica, cosa che non fa per niente ridere. Anzi, dovrebbe farci riflettere sul fatto che migliaia di persone sono attualmente chiuse in casa in situazioni di pericolo e abuso, esposte ancora di più alla violenza a causa delle disposizioni di contrasto alla COVID-19.

L’isolamento, la convivenza forzata e l’impossibilità di uscire di casa stanno infatti aggravando in tutta Italia le situazioni di maltrattamenti in famiglia. Le donne vittime di violenza non solo sono chiuse in casa per le restrizioni, ma sono anche sottoposte a un continuo controllo da parte del partner, rendendo molto difficile chiedere aiuto, anche solo telefonico. Le denunce per maltrattamenti, come fatto notare all’Ansa dalla procuratrice aggiunta di Milano Maria Letizia Mannella, sono in calo negli ultimi giorni. Alla situazione già complessa si aggiungono due altri problemi: il primo è che molte persone pensano che i centri antiviolenza siano chiusi – ipotesi confermata dal fatto che le telefonate al numero 1522 sono drasticamente diminuite da quando è cominciato il lockdown, così come quelle al Telefono Rosa, dimezzate rispetto allo stesso periodo nello scorso anno – e il secondo è che molti centri sono stati lasciati soli a fronteggiare l’emergenza. Mancano presidi di sicurezza per operatrici e ospiti, così come strutture per la quarantena per le donne che presentano sintomi e che per questo non possono essere inserite direttamente nelle case rifugio.

I centri antiviolenza, associazioni come ActionAid e alcune personalità del mondo politico come Giuditta Pini, Beatrice Brignone e Valeria Fedeli e dello spettacolo, hanno invitato le donne in difficoltà a rivolgersi al numero 1522, e presto potrebbe essere attivata una campagna nazionale di sensibilizzazione. Mariangela Zanni, consigliera D.i.Re – Donne in rete contro la violenza per il Veneto, una delle prime Regioni a essere interessata da misure di quarantena per la COVID-19, ci ha confermato che le richieste di aiuto, dopo la diminuzione iniziale, sono in lenta ripresa, ma che comunque se ci sono poche chiamate non significa che gli episodi di violenza non si verifichino. “Sappiamo che la maggior parte delle donne non può contattarci perché subisce un controllo continuo del partner e in più in questi giorni c’è anche la presenza costante dei figli. È una situazione molto simile a quella che viviamo durante il fine settimana o durante le vacanze estive e le festività, quando i mariti sono a casa dal lavoro e i bambini da scuola”, spiega Zanni. Nessuno inoltre sa cosa succederà una volta che l’emergenza sarà rientrata: nella provincia di Hubei, focolaio iniziale del coronavirus in Cina, a seguito del lockdown le denunce per violenza domestica sono triplicate in un solo mese. La quarantena, infatti, esaspera le situazioni di disagio psicologico.

“La costrizione negli stessi spazi […] fa saltare le difese e molte situazioni rischiano di esplodere”, ha spiegato a La Stampa Fabio Sbattella, professore ordinario di Psicologia delle emergenze della Cattolica di Milano. E le cronache ne danno conferma: il 13 marzo un settantenne della provincia di Pesaro ha tentato di uccidere la moglie a martellate, mentre i Carabinieri di Albenga sono dovuti intervenire per porre fine a un litigio di una coppia in quarantena, che ha visto la donna finire all’ospedale. A Firenze un uomo ha accoltellato il cognato che aveva dato ospitalità alla moglie, fuggita di casa per non subire i maltrattamenti. A Roma un ventenne ha ucciso e decapitato la madre.

Le situazioni dunque si aggravano, mentre i centri antiviolenza devono cercare una soluzione che tuteli non solo le donne in fuga, ma anche la loro salute e quella delle operatrici. Nel Nord Italia da fine febbraio i colloqui in sede con le donne già prese in carico sono stati sospesi e sostituiti con consulenze via Skype o per telefono. Più complessa è la gestione delle nuove richieste, soprattutto di quelle che necessitano di una casa rifugio. Al momento i centri non dispongono di strutture per una quarantena pre-inserimento, e si stanno arrangiando come possono, anche ricorrendo di tasca propria a strutture alberghiere per poter garantire le due settimane di isolamento consigliate. Anche al Sud, dove l’emergenza al momento è più contenuta, i colloqui e le attività di gruppo sono temporaneamente bloccati, ma c’è grande preoccupazione nel caso in cui il virus dovesse diffondersi allo stesso ritmo della Lombardia. “Abbiamo grandi difficoltà a conciliare il rispetto del Dpcm e la tutela delle donne, perché non le possiamo lasciare sole in un momento di così grande pressione psicologica, ma l’andirivieni delle operatrici può essere una fonte di contagio”, spiega Lella Palladino di D.i.Re Caserta. La rete denuncia la mancanza di fornitura di presidi sanitari, come mascherine, guanti o anche semplici disinfettanti.

Lella Palladino

Al momento è il Piemonte l’unica Regione a essersi attivata per garantire il funzionamento dei centri antiviolenza, così come di altre realtà del terzo settore, fornendo indicazioni chiare sul comportamento da adottare. Il 10 marzo il consiglio ha infatti approvato le linee guida per gli enti gestori dei servizi socio-assistenziali durante l’emergenza coronavirus. La Regione ha predisposto il contingentamento degli ingressi, mentre gli sportelli presso ospedali e università restano chiusi e il servizio nelle case rifugio deve essere garantito con le opportune misure di sicurezza. “In Piemonte esiste un albo regionale dei centri antiviolenza e delle case rifugio, per cui il collegamento continuo con la Regione ci ha consentito un approccio più veloce, sin dall’inizio”, ci spiega Anna Maria Zucca, presidente del centro antiviolenza E.m.m.a., “La Regione ha ritenuto opportuno garantire il servizio perché si tratta di un servizio essenziale, e siamo contente che il valore del nostro lavoro sia stato riconosciuto”. La procura di Trento ha firmato un provvedimento antiviolenza per predisporre l’allontanamento del maltrattante dall’abitazione.

Serve però un coordinamento nazionale per fronteggiare l’emergenza e per questo la presidente di D.i.Re Antonella Veltri ha scritto una lettera alla ministra per le Pari opportunità Elena Bonetti per chiedere di adottare misure ad hoc, specialmente dal punto di vista economico: “Sappiamo bene che la violenza non si ferma”, si legge nella lettera. “Non basta sollecitare le donne a chiamare il 1522, occorre una sinergia nazionale”. Secondo La Stampa, la ministra e Luciana Lamorgese starebbero ora lavorando per l’ampliamento temporaneo delle case rifugio. A destare preoccupazione è però quello che succederà alla fine dell’emergenza, se dovesse verificarsi anche qui il boom di violenza domestica registrato in Cina. I fondi per i centri antiviolenza, che erano in grave ritardo, sono stati sbloccati il 5 dicembre scorso con la Conferenza Stato-Regioni, ma i bonifici non sono ancora arrivati, e si prevede resteranno bloccati ancora per molto a causa dell’impatto che il coronavirus sta avendo sull’economia italiana. Il Cadmi, la Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano, ha avviato in proposito la campagna #laviolenzanonsiferma, per sensibilizzare l’opinione pubblica di questa emergenza nell’emergenza. In tutto questo, le case rifugio devono continuare a garantire alle ospiti già presenti e ai loro figli i beni di prima necessità, mentre tutti i nuovi inserimenti e le dimissioni sono bloccati.

Anche il percorso verso l’autonomia che favorisce l’inserimento delle donne maltrattate nel mercato del lavoro è messo ancora più in difficoltà in questo momento. “Sono già arrivate lettere di licenziamento ad alcune donne che erano appena state inserite nei contesti lavorativi”, ci spiega Zucca. “Questo comporta un notevole ritardo nello svolgimento del percorso di fuoriuscita dalla violenza, che ha risvolti negativi anche da un punto di vista psicologico, specialmente per una donna che aveva ritrovato l’indipendenza economica da poche settimane”.

Come già fatto notare da molti, le conseguenze di questa emergenza non colpiscono tutti allo stesso modo. Le categorie già fragili sono esposte a maggiori rischi, non solo di contagio, ma anche di marginalità sociale e difficoltà economiche. Se c’è una cosa che ci insegnerà questa esperienza, è che il welfare deve essere la colonna portante di questo Paese e non la ruota di scorta che può essere continuamente sottoposta a tagli e privazioni. E i centri antiviolenza, gestiti con grande impegno da operatrici e volontarie, sono una delle risorse più preziose per un’epidemia che non finirà il 3 aprile e per la quale non sono previste misure di contenimento: la violenza di genere.

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