1 Lug 2021

Sud Sudan, dieci anni dopo

Dieci anni dall'indipendenza

Dieci anni fa, una folla di sud sudanesi in festa salutava l’indipendenza del suo nuovo stato: uno stato in cui non sarebbero mai più stati considerati cittadini di serie B, come sotto il governo di Khartoum, e avrebbero invece potuto prendere in mano le sorti del proprio destino politico ed economico.

Il Sud Sudan, il secondo stato africano a mettere in discussione i confini coloniali e a essere ufficialmente riconosciuto dalla comunità internazionale, è nato il 9 luglio 2011 dopo cinquant’anni di guerra e un referendum, tenutosi a gennaio dello stesso anno, in cui il 98,8% della popolazione aveva votato a favore della secessione. La realtà si è però dimostrata molto diversa dalle aspettative di quella folla giubilante: a neanche tre anni da quel giorno, una nuova guerra civile, questa volta tutta interna al sud, ha spazzato via le speranze di crescita economica, di sviluppo inclusivo e di riconciliazione a livello locale, su cui, pur in modo intermittente e a macchia di leopardo, si stava lavorando.

Nato da una disputa politica tra due big men (il presidente Salva Kiir e il suo vice Riek Machar) dell’ex movimento ribelle Sudan People’s Liberation Movement (SPLM) – oggi partito di governo –, il conflitto è rapidamente degenerato in una guerra civile senza quartiere che si è estesa a tutto il territorio nazionale, in parte seguendo linee di faglia etnico-politiche che si erano consolidate durante la guerra contro il governo di Khartoum, e in parte dinamiche locali di conflitto per l’accesso alle risorse. Queste dinamiche, sicuramente esacerbate da una gestione del potere dominata da interessi particolari e pratiche neopatrimoniali, affondano le proprie radici ancora nell’epoca coloniale, quando la territorializzazione di comunità etnicamente definite aveva portato a una sovrapposizione artificiale – e sempre imperfetta – tra proprietà della terra comunitaria e confini amministrativi, e sono state poi rafforzate dalle politiche di costruzione dello stato implementate con il sostegno della comunità internazionale dalla metà degli anni 2000.

Guerra etnica o, peggio, tribale: così è stato spesso raccontato il conflitto sud sudanese in questi anni. Ma l’etnicità in Sud Sudan ha una lunga storia di politicizzazione e militarizzazione, e viene utilizzata in modo molto sapiente da leader politici di schieramenti non così etnicamente omogenei come strumento di mobilitazione delle masse. Per questo, è stata determinante nei negoziati che hanno portato alla firma, nel 2018, del Revitalized Agreement on the Resolution of the Conflict in South Sudan (R-ARCSS) dopo una serie di altri accordi di pace e cessate-il-fuoco disattesi, nel lungo stallo che è seguito alla firma dell’accordo e nella sua attuale, seppur lenta, implementazione. Uno dei nodi fondamentali, oltre agli accordi di power-sharing a livello nazionale che vedono protagonisti Kiir e Machar, era la spartizione del controllo sulle unità di governo locale: gli stati in primis, che secondo l’attuale costituzione esercitano un controllo abbastanza stretto sull’estrazione di risorse nei propri territori (a partire da quelle petrolifere), ma anche le contee.

Nonostante gli indubbi progressi nell’implementazione dell’accordo di pace, che hanno portato alla creazione di un Governo Transitorio di Unità Nazionale a febbraio 2020 e alla riapertura del Parlamento a maggio 2021, l’equilibrio in Sud Sudan resta estremamente precario, caratterizzato da una sfiducia reciproca tra i leader di fazioni diverse e dalla difficoltà di procedere nell’implementazione di alcune parti dell’accordo, come ad esempio quelle relative ai protocolli di sicurezza. A livello nazionale, non tutti i gruppi ribelli, che hanno vissuto innumerevoli scissioni dal 2014 fino a oggi, hanno sottoscritto l’accordo del 2018. Per questa ragione, nel 2020 la Comunità di Sant’Egidio ha avviato un processo di pace parallelo a quello relativo all’R-ARCSS nel tentativo di portare al tavolo negoziale anche le parti escluse da quell’accordo, nel frattempo riunitesi nella South Sudan Opposition Movements Alliance (SSOMA). Al di là di alcuni successi, come ad esempio la firma della Dichiarazione e della Risoluzione di Roma da parte del governo, della SSOMA e degli altri ex-movimenti ribelli che partecipano al Governo Transitorio di Unità Nazionale (SPLM-In-Opposition e National Salvation Alliance), la SSOMA continua a esprimere scetticismo sulle politiche del governo e sulla reale buona fede dei leader politici di portare avanti un processo inclusivo.

Restano poi alcuni problemi strutturali: la grande diffusione di armi presso la popolazione civile rende ancora estremamente facili escalation di conflitti locali legati all’accesso alle risorse. Secondo la ONG sud sudanese Community Empowerment Progress Organization (CEPO), tra gennaio e maggio 2021 oltre 3000 persone sarebbero state uccise o ferite in scontri intercomunitari causati da dispute sulle risorse locali (soprattutto accesso all’acqua, alla terra, alle posizioni di potere che garantiscono un minimo accesso agli scarsi servizi di base), dalla frustrazione per la mancata implementazione dell’accordo di pace e dalla manipolazione politica delle situazioni di  malcontento localizzate. La mancata demarcazione dei confini interni relativi alle unità amministrative e di governo locale, insieme alle aspettative che tale demarcazione avverrà su base etnica, rappresenta una delle questioni che più facilmente provoca tensioni e scontri tra gruppi estenuati dalla guerra ma allo stesso tempo abituati alla violenza per sopperire alla sistematica assenza di giustizia. Le esortazioni a creare una Commissione per la Verità e la Riconciliazione e ad avviare processi di pace dal basso da parte della società civile non sembrano per il momento aver avuto esiti concreti. Se l’embargo sulle armi e le sanzioni contro il paese recentemente prolungate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite fino a maggio 2022 possono essere misure utili a mettere sotto pressione la classe dirigente, dall’altro lato testimoniano un raffreddamento dei rapporti con i donatori internazionali rispetto a un passato recente caratterizzato da flussi finanziari pressoché illimitati.

Nonostante la ripresa delle estrazioni petrolifere (crollate da 350.000 a 160.000 barili al giorno durante la guerra), da cui dipende il 98% del budget statale sudanese, e il lancio della prima asta per l’acquisizione di nuovi blocchi petroliferi esplorativi, l’economia del paese resta in condizioni catastrofiche senza che alle dichiarazioni sulla lotta alla corruzione e sull’aumento della trasparenza nella gestione della spesa pubblica facciano seguito atti concreti.

La persistente insicurezza, unita alla situazione di crisi economica ulteriormente peggiorata dalla pandemia da Covid-19 (che, a causa delle restrizioni alla mobilità, ha provocato un notevole aumento dei prezzi dei generi alimentari di base importati dai paesi limitrofi), contribuisce ad alimentare una situazione di profondo malcontento da parte della popolazione locale nei confronti dei governanti. Questo malcontento è emerso in modo molto visibile dal rapporto pubblicato a dicembre 2020 dal National Dialogue Steering Committee, un comitato previsto dall’accordo di pace del 2018 e fortemente voluto dal presidente Salva Kiir allo scopo di rendere più inclusivo il processo di pace. Il rapporto ha raccolto le opinioni della cittadinanza sul processo di pace attraverso una serie di sondaggi, rivelando posizioni estremamente critiche nei confronti dell’attuale élite politica, in particolare nei confronti di Kiir e Machar: il 75% della popolazione pensa che dovrebbero dimettersi immediatamente o almeno dichiarare che non si presenteranno alle elezioni che dovrebbero svolgersi alla fine del periodo di Transizione, nel dicembre 2022. Sebbene Salva Kiir, pur riconoscendo il valore di questo esercizio di partecipazione, l’abbia liquidato come un tentativo del Comitato di andare oltre il proprio mandato, la questione ha avuto una tale risonanza da spingere l’esercito a prendere posizione con una lettera al Presidente  in cui gli si suggerisce di farsi da parte e si dichiara che l’esercito rifiuterà di agire contro i manifestanti pacifici che nel corso degli ultimi mesi hanno chiesto un cambio di leadership; anzi, in caso di necessità, l’esercito interverrà per proteggerli.

La situazione del Sud Sudan resta quindi instabile e fluida: anche se per il momento non sembra probabile un ritorno a una guerra su larga scala nel paese (anche per mancanza delle risorse con cui sostenerla), il coinvolgimento nel processo di pace delle forze che fino a questo momento ne erano state escluse, così come la capacità di promuovere riforme politiche ed economiche di lungo periodo saranno determinanti per evitare un nuovo conflitto alla fine del periodo di transizione, nel dicembre 2022, anche qualora alcuni degli obiettivi più ambiziosi – come l’organizzazione di elezioni libere  e credibili in assenza di dati affidabili sulla popolazione dello stato – dovessero essere posticipati.

 

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