Muore Visegrád, ma è davvero una buona notizia per l’Europa?

C’era una volta Visegrád. Dentro il vaso di Pandora scoperchiato dall’aggressione russa all’Ucraina tra i tanti problemi creati dal neo-imperialismo moscovita e da vecchi e nuovi nazionalismi c’è anche questo: il gruppo che deve il suo nome alla cittadina sul Danubio in cui fu fondato nel 1991, sede della Sacra Corona di Santo Stefano sotto la quale nel XV secolo Mattia Corvino unificò i popoli della regione, politicamente non esiste più, pur se sopravvivono, per il momento, le istituzioni collettive che hanno sede a Bratislava e un fondo comune che a dire il vero non è mai stato molto ricco. Burocrazia, insomma, e qualche soldo

Del gruppo di Visegrád fanno (facevano) parte quattro paesi: Ungheria, Polonia, Cechia e Slovacchia. A voler essere precisi all’inizio non erano questi, giacché quando il gruppo fu istituito esisteva ancora la Cecoslovacchia e alla congrega avrebbe dovuto aggiungersi pure la Romania, ma i sanguinosi disordini che scoppiarono poco prima della firma a Târgu Mureș con la minoranza ungherese della Transilvania convinse i governanti di Bucarest che era meglio lasciar perdere. Un presagio delle traversìe che sarebbero venute con gli anni. Ragione politica dell’impresa era quella di affrontare insieme i problemi economici e politici che si ponevano, abbastanza simili, in tutte le realtà statuali che uscivano dalla pax sovietica che a partire dalla conclusione della seconda guerra mondiale era durata più di quattro decenni. Soprattutto uno: il rapporto da instaurare con le istituzioni comunitarie di Bruxelles. Come, insomma, partecipare da protagonisti alla riunificazione dell’Europa che la guerra fredda aveva diviso.

Sistema di convivenza

Si può dire che lo spirito di Visegrád fu, all’inizio, un generoso tentativo di ingabbiare in un comune sistema di convivenza gli spiriti nazionalistici che la dissoluzione dell’impero sovietico pareva destinata a liberare. Sarebbe sbagliato dimenticare questa funzione positiva, la quale venne esercitata in un’area che prima del predominio sovietico era stata attraversata da rivalità tra i popoli e ingovernabili tensioni tra gli stati, di cui per considerare solo un aspetto, i duri contrasti tra l’Ungheria e la Romania sulla minoranza magiara erano un esempio. Il problema è che da un certo momento in poi i nazionalismi mai davvero spenti vennero ideologizzati in una sorta di “nazionalismo collettivo”, se è consentito l’ossimoro, sul problema della sovranità. Il principio fondante dell’Unione europea, la cessione di sovranità da parte degli stati, venne sempre più rifiutato, prima nei fatti e poi anche nelle teorie del sovranismo. I teorici della rivalsa nazionale contro i “burocrati di Bruxelles”, Viktor Orbán in Ungheria, i fondatori del PiS (Prawo i Sprawiedliwość: diritto e giustizia) Lech e Jarosław Kaczyński in Polonia, Andrej Babiš in Cechia, Robert Fico in Slovacchia guidarono una vera e propria guerriglia contro tutte le decisioni politiche con cui le istituzioni dell’Unione cercavano di far valere i princìpi comunitari sulle istanze sovraniste nazionali.

È storia recente: il culmine della contesa è stato raggiunto qualche mese fa, quando la Corte costituzionale polacca (precedentemente “addomesticata” dal governo dominato dal PiS) ha emesso una sentenza secondo la quale il diritto nazionale sarebbe preordinato a quello comunitario: in pratica la distruzione del fondamento giuridico dell’esistenza stessa dell’Unione europea. Ma già prima tanto i governanti polacchi quanto gli ungheresi avevano messo mano a riforme della giustizia, del diritto in materia di libertà individuali, dell’informazione che contrastavano i princìpi dello stato di diritto su cui si fonda l’Unione.

Il contrasto tra Ungheria e Polonia

In che modo la guerra in Ucraina ha messo in crisi questo blocco politico fondato sul sovranismo? Fin dall’inizio l’unità del gruppo di Visegrád era insidiata da un contrasto tra i due paesi più importanti, la Polonia e l’Ungheria: l’atteggiamento da avere nei confronti della Russia. I polacchi sono profondamente ostili al Grande Vicino e chiunque conosca un po’ la storia d’Europa può immaginare benissimo le ragioni di tanta ostilità, che risalgono a ben prima dei tempi della dominazione sovietica: dai massacri di cattolici ed ebrei di Polonia da parte dei cosacchi dell’atamano Bohdan Chmel’nyc’kij, la cui rivolta pose fine alla potente Confederazione polacco-lituana e che ancor oggi è celebrato come eroe nazionale tanto dai russi quanto dagli ucraini, al cosiddetto “miracolo della Vistola” con cui il maresciallo Piłsudski salvò Varsavia dall’armata bolscevica nel 1920.  Un atteggiamento che talvolta assume forme quasi parossistiche come nella convinzione proclamata pubblicamente in varie occasioni da Jarosław Kaczyński che l’incidente aereo in cui nel 2010 morì il suo fratello gemello Lech, allora presidente della Repubblica, sia stato in realtà un sabotaggio dei russi.

Anche gli ungheresi hanno buoni motivi di risentimento nei confronti di Mosca, considerata la repressione sanguinosa della rivolta del ’56, ma la mancanza della percezione di una minaccia immanente, che esiste invece nella Polonia confinante con la Bielorussia e con l’exclave russa di Kaliningrad, ha reso l’attitudine degli ungheresi ben più rilassata. Soprattutto da quando Orbán e il suo guru ideologico Zoltán Kovács,

Zoltan Kovacs

il teorizzatore della “democrazia illiberale” che è un po’ il libretto rosso del sovranismo europeo, hanno trovato profonde consonanze con il patrimonio politico ideologico su cui fonda il proprio potere Vladimir Putin, il primo vero sovranista, in fondo, in ordine di tempo e anche d’importanza sul palcoscenico europeo.

Fino all’invasione dell’Ucraina questa frattura in seno a Visegrád non ha prodotto effetti politici rilevanti, se non qualche screzio, come quello di cui fu involontario protagonista Matteo Salvini, caro amico di Orbán, piuttosto maltrattato a Varsavia tre anni fa proprio in quanto amico anche di Putin, in un’anteprima della clamorosa scenata da parte del sindaco di Przemysl. Ma con lo scoppio della guerra era inevitabile che lo scontro diventasse evidente e, con esso, anche le possibili conseguenze.

Queste riguardano tanto i rapporti con l’Unione europea quanto i giochi politico-militari nell’area dell’Europa orientale.

Vediamo i primi. Il governo ungherese, com’è noto, nei giorni scorsi ha annunciato che non ha la minima intenzione di aderire a eventuali sanzioni contro la Russia che riguardino le forniture energetiche e ha detto esplicitamente che è pronto a porre il veto qualora il Consiglio UE dovesse decidere in tal senso. L’attuazione della minaccia sarebbe un bel problema per l’Unione, ma potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio. Da tempo, ormai, è aperta a Bruxelles e nelle capitali europee una discussione sulla necessità di modificare i Trattati per eliminare l’obbligo della unanimità nelle decisioni del Consiglio e introdurre l’istituto del voto a maggioranza. L’atteggiamento di Orbán potrebbe accelerare questo processo. Certo, la riforma non potrebbe essere immediata, ma il sovranista ungherese si troverebbe comunque nella scomoda posizione di favorire uno sviluppo dell’integrazione europea che va nella direzione esattamente opposta a quella desiderata da lui.

Lo stato di diritto

C’è un altro aspetto relativo alle conseguenze europee della rottura di Visegrád e riguarda la battaglia delle istituzioni di Bruxelles per imporre ai paesi “refrattari” il rispetto delle norme dello stato di diritto. Finora la minaccia dell’arma decisiva in questa battaglia, il ricorso all’articolo 7 del Trattato che prevede la sospensione di un paese nel caso che non ottemperi a tutti gli obblighi in fatto di rispetto dei princìpi fondanti dell’Unione, è stata del tutto teorica in quanto le procedure per l’attuazione di quell’articolo prevedono a un certo livello un voto unanime del Consiglio e finora era più che prevedibile che al dunque polacchi e ungheresi si sarebbe reciprocamente aiutati opponendo il veto alla condanna degli uni e degli altri. Ma il fatto che Varsavia e Budapest si trovino in un duro contrasto nel giudizio sull’operato della Russia renderebbe molto meno probabile il ricorso all’appoggio reciproco.

Per concludere il discorso sulle conseguenze “europee” della rottura va fatta un’ultima considerazione, particolarmente spiacevole per la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, per l’Alto Rappresentante per gli affari esteri e per la sicurezza Josep Borrell, per il Consiglio e per i governi. L’impegno di Varsavia a fianco dell’Ucraina, tanto in fatto di forniture di armi quanto nella meritoria accoglienza riservata ai profughi pare proprio che abbia fatto dimenticare ai rappresentanti delle istituzioni europee lo strappo, gravissimo, compiuto solo qualche settimana fa con la pretesa di anteporre il diritto nazionale a quello comunitario. Non una parola è stata spesa in merito durante le visite che i rappresentanti di Bruxelles hanno compiuto a Varsavia, ultima la presidente della Commissione in occasione di un’iniziativa di partenariato con la Polonia promossa dalla Svezia. E dire che l’argomento principe con cui la Commissione europea aveva espresso la preoccupazione per una eventuale vittoria di Marine Le Pen alle recenti presidenziali francesi era proprio l’intenzione di proclamare prioritario il diritto francese su quello europeo: esattamente quello che ha fatto il governo polacco.

Armi in un’area delicata

Meno ipocrisia e più coerenza aiuterebbero, in un momento tanto difficile. Tanto più che a Ursula von der Leyen e ancor meno a Borrell non può essere sfuggito il fatto che all’interno della NATO il governo di Varsavia si è ritagliato un ruolo di punta, particolarmente vicino agli americani e molto schierato sulla linea della guerra ad oltranza per sconfiggere o quanto meno “logorare” Putin. Una linea che, quale che sia il giudizio sull’opportunità o meno di continuare a rifornire di armi il governo Zalensky, sta comunque riempiendo di materiale bellico moderno ed efficiente una regione in cui, oltre alla tragedia provocata dalle mire neoimperialistiche del Cremlino, esistono diversi focolai di tensione e di possibili conflitti etnici e territoriali, che la dissoluzione della struttura comune di Visegrád rischia di rendere ancora più pericolosi.