La benedizione liturgica e le categorie della dottrina


Anche nell’ultimo, più recente e autorevole commento alla Dichiarazione “Fiducia supplicans”, firmato da Alberto Cozzi e pubblicato su “Avvenire” del 6 gennaio (si può leggere qui), una giusta valutazione del documento sul piano “pastorale” sembra lasciare nel non detto il ruolo che la benedizione svolge nella vita della Chiesa, proprio con la sua forma rituale. Negare la natura rituale della benedizione, in effetti, rimane un modo vecchio di pensare, che esige alcune puntualizzazioni. Forse proprio questa dichiarazione, che coglie con lucidità la sfida attuale, ma che la affronta con categorie un po’ forzate, mi pare possa essere la occasione per un chiarimento importante.

Da un lato, infatti, si è notato, fin dal primo apparire della Dichiarazione, che essa comportava un superamento esplicito e dichiarato del noto “Responsum” del 2021: qui vi è una discontinuità disciplinare importante, a cui non corrisponde però una altrettanto chiara esposizione teologica. I punti deboli sono tre:

a) la continua riaffermazione che la “dottrina resta immutata”, il che è vero solo in parte;

b) una nozione di “benedizione non rituale e non liturgica” che appare piuttosto paradossale;

c) una ridefinizione necessaria dei soggetti che chiedono la benedizione (che non sono semplicemente peccatori che occorre imparare ad accogliere)

Provo a fermarmi su ognuno di questi punti critici:

a) Dottrina immutabile?

L’orizzonte della “dottrina sul matrimonio”, che la Dichiarazione richiama fin dalla sua introduzione, fissa una nozione di benedizione che, nella storia del matrimonio cattolico, appare estremamente problematica. In effetti lo specifico sviluppo moderno della dottrina cattolica del matrimonio ha estromesso la benedizione dalla sostanza del sacramento. A partire dal Decreto “Tametsi” 1563 la benedizione non svolge più una funzione sostanziale nel darsi del sacramento, che si fonda semplicemente sul consenso dei coniugi, ricevuto dal ministro ordinato secondo la forma canonica. Questo, tuttavia, non riesce a far dimenticare alla Chiesa che per circa 1500 anni è stata proprio la benedizione a “congiungere” formalmente gli sposi, almeno sul piano sacramentale. Questa storia complessa ha introdotto nelle preoccupazioni dottrinali attuali, la esigenza di una continua distinzione tra “benedizione liturgica” e “benedizione informale”, che non ha di fatto precedenti storici. Si comprende bene la esigenza di “non abbandonare alla maledizione” tutte le unioni “senza regola”, ma la predisposizione di uno strumento “non rituale” sembra mettere al riparo la istituzione dalla responsaibilità profetica di un riconoscimento effettivo e non clandestino. In questo modo si riapre una dimensione “clandestina” delle unioni che Trento aveva cercato di superare. Se capisco e apprezzo il fatto che questa Dichiarazione costituisca una discontinuità rispetto al “divieto di benedizione” precedente, non capisco perché si possa pensarla soltanto “senza regole previe”, senza libri, senza rituali, forse anche senza spazio e senza tempo. Una dottrina della benedizione, come forma originaria del pregare cristiano e della benevolenza di Dio, chiede che anzitutto nel benedire ci sia spazio, tempo, uso del linguaggio verbale e non verbale. Qui, a mio avviso, la preoccupazione di “salvaguardare la dottrina” confonde le benedizioni con i sacramenti e per questo le ridimensiona fino all’inverosimile di una puntualità senza pubblicità. La benedizione è atto che investe non solo il vescovo o il presbitero o il diacono, ma la intera comunità, che lo si voglia o no.

b) Che cosa è una benedizione senza rito?

Proprio sulla “essenza della benedizione” mi pare che il magistero liturgico dell’ultimo secolo sia stato largamente ignorato o frainteso. Qui si trova ancora, nella Dichiarazione, la eredità del fraintendimento presente nel Responsum del 2021: ossia quello di equiparare benedizione e sacramento. La benedizione, storicamente, è stata compresa come “sacramentale”, non come “sacramento”: ciò significa che discende da una istituzione ecclesiale, non è istituita da Cristo; che è efficace “ex opere operantis”, non “ex opere operato”. In origine questa categoria è stata inventata all’inizio del XIII secolo, per dare dignità alla benedizione con cui veniva consacrato il Vescovo. Non essendo pensato come sacramento, l’episcopato era un sacramentale! Per questo oggi potremmo essere molto meno preoccupati di assicurare la natura “non liturgica” e “non ritualizzata” della benedizione. Questa esigenza rivela un disagio delle categorie fondamentali con cui pensiamo la tradizione. Proprio perché “profezia ecclesiale”, riconoscere le diverse forme della “comunione di vita e di amore”, senza negarne differenze e limiti, può e deve avere forme ritualizzate, anche se non sacramentali. Dire benedizione implica un regime formale, verbale e rituale che non si deve confondere con la “regolamentazione giuridica”. Su questo ha ragione la Dichiarazione, che identifica bene la discontinuità, ma la elabora con categorie vecchie. Resta in qualche modo imbrigliata nella pretesa moderna, tipica del Decreto Tametsi, di un regolamento ecclesiale totalizzante, che copre contemporaneamente le forme del consenso, della benedizione e della regolamentazione matrimoniale. Liturgico diventa da allora, soprattutto nel matrimonio, sinonimo di “ufficiale”. E allora un prete che si identifica troppo con un “pubblico ufficiale” faticherà ad essere profeta, non nascostamente o brevemente, ma apertamente e con tutto il tempo necessario. Mentre il Responsum glielo vietava, ora la Dichiarazione glielo consente, e quasi glielo raccomanda, ma come in segreto e con tempistiche accelerate. “As soon as possible” non può essere la regola di una svolta pastorale, ma solo quella di una soluzione diplomatica e provvisoria.

c) Il disordine e le forme di vita

Le famiglie irregolari sono “disordinate”. Secondo il Responsum questa è la ragione per cui non possono essere benedette, per la Dichiarazione questa è la ragione per cui possono essere benedette. Ma è questa difinizione di “disordine” a non essere più adeguata. Essa viene dalle tassonomie del peccato, che pensano le forme del male secondo grandi categorie. Essere “contro Dio” e “contro il prossimo” fa sì che non si possa benedire il bestemmiatore in quanto bestemmiatore, o il ladro in quanto ladro. Se il bene del matrimonio è la generazione, una unione che non può generare per natura, diventa “intrinsecamente malvagia”. Queste categorie classiche, che possono arrivare alla sequenza troppo rozza del Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, quando mette insieme masturbazione, stupro e omosessualità come vizi della castità, devono essere riviste, perché si possa benedire, nelle coppie cosiddette irregolari, una “comunione di vita e di amore” che merita il riconoscimento anche ecclesiale. La pastorale, qui, richiede una nuova lettura della dottrina, che usi categorie aggiornate che non abbiamo ancora elaborato pienamente: non perché siano imposte dalla moda, ma perché possiamo onorare i fenomeni reali, offrendo veri chiarimenti. Le coppie di divorziati risposati e le coppie omoaffettive non sono “intrinsecamente malvagie” perché non rispettano la legge oggettiva della “riserva della sessualità al matrimonio legittimo”. Le dimensioni di peccato, che il limite delle storie personali intreccia inevitabilmente (la ingiustizia verso la prima unione, la incapacità di generazione biologica) sono limiti che devono essere riconosciuti, ma che non impediscono la forma di vita e di amore che è la “seconda unione” o la “unione omoaffettiva”. Uscire dalla prospettiva che giudica queste forme di vita prima di tutto per ciò che negano e saper maturare una visione che sappia riconoscere ciò che in quelle comunioni di vita e di amore viene affermato, chiede alla Chiesa cattolica una dottrina aggiornata.

d) Lo scandalo dello scandalo

La tradizione è più ricca di quanto pensiamo a partire dal mondo moderno. La tradizione sa bene che la benedizione è il linguaggio più libero della Chiesa, che non deve essere previamente sottoposta al giudizio dogmatico, come se si trattasse sempre di “formule sacramentali”. La benedizione conserva la sua libertà se resta narrazione di vita, contestualizzazione spaziale e temporale, atto corporeo, profezia comunitaria, vera accoglienza. Per questo il criterio dello scandalo, che spesso viene utilizzato come norma normans delle benedizioni che hanno per oggetto “relazioni affettive e sessuali”, deve ricordare che era scandaloso, per il medioevo e per la età moderna, affermare che le nozze fossero “atto dei coniugi” e non “dei padri e delle famiglie”. La grande lotta che ha attraversato l’europa a partire dalle teorie dei canonisti medievali è stata un vero “scandalo”. La Chiesa ha saputo riconoscere che la volontà dei nubendi era superiore alla volontà delle famiglie di provenienza. Abbiamo saputo essere scandalosi e ne siamo stati orgogliosi e ancora potremmo e dovremmo esserlo. Non dovremmo essere troppo preoccupati di uscire dalla società dell’onore, che colpevolizza ogni comportamento “omoaffettivo”, temendo che quella “mancanza di generazione” sia una minaccia per la società. L’abominio contro natura e contro Dio è fondato su questa arcaica riduzione del matrimonio a “generazione”, cosa di cui Gesù non dice assolutamente nulla. Il “legame indissolubile” tra uomo e donna può emergere, forse inatteso, ma reale, nel legame tra uomo e uomo, tra donna e donna. Con il limite della assenza di generazione biologica, ma non senza fedeltà, non senza vincolo perenne, non senza fecondità sociale, contestuale e personale.

e) Paradossi e confusioni

Gli atti amministrativi possono essere puntuali, fuori dallo spazio e dal tempo. Le benedizioni sono narrazioni, che chiedono spazio e tempo. Per questo una assoluzione o una crismazione o un battesimo può durare 10 secondi, mentre una benedizione del crisma, dell’acqua o del pane e calice richiedono tempo e spazio, gesti e memorie, immagini e commozioni. La scissione tra amministrazione dei sacramenti e narrazioni benedicenti è uno dei nostri problemi più profondi. In realtà, ogni sacramento vive di benedizione: si benedice l’acqua, si benedice il crisma, si benedice il pane e il calice, si benedice l’olio degli infermi, si benedice il candidato al ministero e si benedicono gli sposi. Anche il penitente non è semplicemente assolto, ma entra nella benedizione del fare penitenza nel cuore, sulla bocca e nel corpo. Una rilettura dei sacramenti in relazione al benedire è assai istruttiva. Evita soprattutto di capovolgere le prospettive e di cadere nella trappola di giudicare le benedizioni con il metro di un “atto amministrativo sacramentale” e non invece il sacramento alla luce della narrazione delle benedizioni di Dio. La Dichiarazione “Fiducia supplicans” apre uno squarcio decisivo nella totalizzazione amministrativa della Chiesa: lascia uno spazio alla profezia. Che però non è e non può essere semplicemente uno “spazio aliturgico”, perché è proprio la “liturgia di benedizione” lo spazio originario di questa vocazione pastorale. La pastorale più profetica non è al di qua o al di là della liturgia, ma proprio nel suo cuore più antico.

f) Prudenza profetica

Questo implica, tuttavia, una relazione complessa tra dottrina e pastorale: la pastorale non è semplicemente una “umanizzazione” della dottrina, ma è anche “fonte” di una revisione dottrinale. In questo, rispetto alla analisi di A. Cozzi, mi pare che la provenienza della Dichiarazione dal Dicastero della fede sia un segno importante. Che possa esservi un cambiamento della dottrina sulla guerra o sulla pena, non sembra turbare nessuno. Sembra che invece nel regolamento delle relazioni sessuali, ci dobbiamo impegnare a stare di fronte a 2000 anni di uniforme fedeltà. Nessuno considera esagerata la condanna della guerra o della pena di morte, anche rispetto a culture belliciste o giustizialiste. Le differenze culturali hanno bisogno di coraggiosa e paziente pedagogia. Ma sul rispetto per la omoaffettività si pretenderebbe, da alcuni, una totale sintonia dei vescovi con le tradizioni più intolleranti. Come se fosse compreso nel Vangelo il pregiudizio contro la omosessualità. Come se le ataviche logiche dell’onore dovessero prevalere contro le logiche della dignità. La differenza di trattamento delle questioni dipende dal fatto che i peccati di superbia e di ira sembrano irrilevanti, mentre il peccato sessuale si è ingigantito a dismisura, diventando quasi il peccato per antonomasia. Qui c è una reale perdita di identità, presentata come resistenza e purezza. Qui, a me pare, dire “pastorale” implica un lavoro sulla dottrina che non può essere né sottaciuto né sottostimato. Lavoro sulla dottrina non significa “cambiare dottrina”, ma tradurre le forme dottrinali espresse nella “società dell’onore” nelle forme dottrinali “della società della dignità”. Una Chiesa che non si senta disonorata dai divorziati risposati che la frequentano e dalla coppie omosessuali che la abitano evita di assumere, anche ufficialmente, quelle forme del nascondimento e del riserbo imbarazzato che sono lo strascico di una concezione totalizzante e totalitaria della società e della Chiesa. Ci vuole prudenza, questo è certo: ma essere prudenti in qualche caso significa frenare, in altri casi significa schiacciare decisamente sull’acceleratore.

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