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Domanda di asilo per conversione religiosa? No al rifiuto automatico

Corte di Giustizia UE, Sentenza n.C-222/22 del 29/02/2024

Una domanda di asilo basata su una conversione religiosa avvenuta successivamente alla partenza dal paese di origine non può essere automaticamente considerata abusiva e rifiutata.

Lo ha stabilito la Corte di giustizia con la sentenza il 29 febbraio 2024 nella causa C-222/22.

Questa decisione deriva dal caso di un cittadino iraniano in Austria, il quale, dopo il rifiuto della sua prima richiesta di protezione internazionale, ha presentato una nuova domanda sostenendo di essersi convertito al cristianesimo. Le autorità austriache, riconoscendo la sincerità della sua conversione e il rischio di persecuzione in caso di ritorno in Iran, gli hanno concesso la protezione sussidiaria e un diritto di soggiorno temporaneo.

Tuttavia, lo status di rifugiato gli è stato negato in base al diritto austriaco, che richiede che nuove circostanze, quali una conversione, debbano essere l'espressione di convinzioni già manifestate nel paese di origine. Di fronte a questo dilemma, la Corte amministrativa austriaca ha sollecitato il parere della Corte di giustizia, la quale ha chiarito che la direttiva "qualifiche" (Direttiva 2011/95/UE) non supporta l'idea che una domanda reiterata possa essere automaticamente considerata abusiva se basata su circostanze intervenute dopo la partenza dal paese d'origine.

La sentenza stabilisce che ogni domanda di asilo deve essere valutata individualmente, senza presumere a priori un'intenzione abusiva da parte del richiedente. Se il richiedente dimostra in modo credibile di essersi convertito per convinzione personale e di praticare attivamente la sua nuova religione, questa sincerità esclude l'ipotesi di un abuso del processo di asilo. In tali circostanze, se il richiedente soddisfa i criteri per essere riconosciuto come rifugiato secondo la direttiva, gli deve essere concesso tale status.

La Corte aggiunge che, anche in presenza di un'accertata intenzione abusiva, il richiedente mantiene la qualità di rifugiato secondo la convenzione di Ginevra, beneficiando delle protezioni da essa garantite, inclusa la proibizione di espulsioni o respingimenti verso territori in cui la sua vita o libertà sarebbero minacciate.

Questa sentenza chiarisce dunque che la sincerità della conversione religiosa e la pratica attiva di tale religione sono elementi chiave per la valutazione delle domande di asilo basate su tali motivazioni, promuovendo un approccio individuale e dettagliato nella gestione di queste delicate questioni.

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Corte di Giustizia UE, Sentenza 29/02/2024 (C-222/22) 

SENTENZA DELLA CORTE (Terza Sezione)

29 febbraio 2024

«Rinvio pregiudiziale – Spazio di libertà, sicurezza e giustizia – Politica d’asilo – Direttiva 2011/95/UE – Condizioni per poter beneficiare di una protezione internazionale – Contenuto di tale protezione – Articolo 5 – Bisogno di protezione internazionale sorto fuori dal paese d’origine (“sur place”) – Domanda successiva di riconoscimento dello status di rifugiato – Articolo 5, paragrafo 3 – Nozione di “circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la partenza dal paese di origine” – Intenzione abusiva e strumentalizzazione della procedura applicabile – Attività nello Stato membro ospitante che non costituiscono espressione e continuazione di convinzioni od orientamenti già manifestati nel paese d’origine – Conversione religiosa»

Nella causa C-222/22,

avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Verwaltungsgerichtshof (Corte amministrativa, Austria), con decisione del 16 marzo 2022, pervenuta in cancelleria il 29 marzo 2022, nel procedimento

Bundesamt für Fremdenwesen und Asyl

contro

JF,

LA CORTE (Terza Sezione),

composta da K. Jürimäe, presidente di sezione, N. Piçarra (relatore) e N. Jääskinen, giudici,

avvocato generale: J. Richard de la Tour

cancelliere: A. Calot Escobar

vista la fase scritta del procedimento,

considerate le osservazioni presentate:

–        per JF, da C. Schmaus, Rechtsanwalt;

–        per il governo austriaco, da A. Posch, J. Schmoll e V.-S. Strasser, in qualità di agenti;

–        per il governo tedesco, da J. Möller e A. Hoesch, in qualità di agenti;

–        per la Commissione europea, da A. Azéma e L. Hohenecker, in qualità di agenti,

sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 15 giugno 2023,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2011, L 337, pag. 9).

2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il Bundesamt für Fremdenwesen und Asyl (Ufficio federale per il diritto degli stranieri e il diritto di asilo, Austria) (in prosieguo: il «BFA») e JF, cittadino di un paese terzo, in merito alla legittimità di una decisione di diniego del riconoscimento dello status di rifugiato a seguito di una domanda reiterata di protezione internazionale presentata da quest’ultimo.

 Contesto normativo

 Diritto internazionale

3        L’articolo 1, sezione A, della Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 [Recueil des traités des Nations unies, vol. 189, pag. 150, n. 2545 (1954)], entrata in vigore il 22 aprile 1954 e integrata dal Protocollo relativo allo status dei rifugiati, concluso a New York il 31 gennaio 1967, entrato in vigore il 4 ottobre 1967 (in prosieguo: la «convenzione di Ginevra»), prevede quanto segue:

«Ai fini della presente [C]onvenzione, il termine “rifugiato” si applica a chiunque:

(...)

(2)      nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dallo Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio (...), non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi.

(...)».

4        L’articolo 2 di tale convenzione, intitolato «Obblighi generali», così dispone:

«Ogni rifugiato ha, verso il paese in cui risiede, doveri che includono segnatamente l’obbligo di conformarsi alle leggi e ai regolamenti, come pure alle misure prese per il mantenimento dell’ordine pubblico».

5        L’articolo 33 di detta convenzione, intitolato «Divieto d’espulsione e di rinvio al confine», enuncia, al paragrafo 1, che «nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».

6        Ai sensi dell’articolo 42, paragrafo 1, della medesima convenzione, «[a]ll’atto della firma, della ratifica o dell’adesione, ciascuno Stato può fare riserve circa gli articoli della [presente convenzione], eccettuati gli articoli 1, 3, 4, 16 (1), 33, da 36 a 46 compreso».

 Diritto dellUnione

 Direttiva 2011/95

7        Ai sensi dei considerando 4, 12, 24 e 25 della direttiva 2011/95:

«(4)      La convenzione di Ginevra e il relativo protocollo costituiscono la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati.

(...)

(12)      Lo scopo principale della presente direttiva è quello, da una parte, di assicurare che gli Stati membri applichino criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale e, dall’altra, di assicurare che un livello minimo di prestazioni sia disponibile per tali persone in tutti gli Stati membri.

(...)

(24)      È necessario introdurre dei criteri comuni per l’attribuzione ai richiedenti asilo della qualifica di rifugiato ai sensi dell’articolo 1 della convenzione di Ginevra.

(25)      In particolare, è necessario introdurre definizioni comuni [della nozione di] bisogno di protezione internazionale intervenuto fuori dal paese d’origine (“sur place”), (...)».

8        L’articolo 2 di tale direttiva, intitolato «Definizioni», è del seguente tenore:

«Ai fini della presente direttiva, si intende per:

(...)

d)      “rifugiato”: cittadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese, oppure apolide che si trova fuori dal paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, e al quale non si applica l’articolo 12;

e)      “status di rifugiato”: il riconoscimento, da parte di uno Stato membro, di un cittadino di un paese terzo o di un apolide quale rifugiato;

(...)».

9        L’articolo 4 di detta direttiva, contenuto nel capo II di quest’ultima e intitolato «Esame dei fatti e delle circostanze», al paragrafo 3 così dispone:

«L’esame della domanda di protezione internazionale deve essere effettuato su base individuale e prevede la valutazione:

(...)

b)      delle dichiarazioni e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente che deve anche render noto se ha già subito o rischia di subire persecuzioni o danni gravi;

c)      della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare l’estrazione, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave;

d)      dell’eventualità che le attività svolte dal richiedente dopo aver lasciato il paese d’origine abbiano mirato esclusivamente o principalmente a creare le condizioni necessarie alla presentazione di una domanda di protezione internazionale, al fine di stabilire se dette attività espongano il richiedente a persecuzione o a danno grave in caso di rientro nel paese.

(...)».

10      L’articolo 5 della medesima direttiva, che figura parimenti nel capo II di quest’ultima ed è intitolato «Bisogno di protezione internazionale sorto fuori dal paese d’origine (“sur place”)», prevede quanto segue:

«1.      Il timore fondato di essere perseguitato o il rischio effettivo di subire un danno grave può essere basato su avvenimenti verificatisi dopo la partenza del richiedente dal suo paese di origine.

2.      Il timore fondato di essere perseguitato o il rischio effettivo di subire un danno grave può essere basato su attività svolte dal richiedente dopo la sua partenza dal paese d’origine, in particolare quando sia accertato che le attività addotte costituiscono l’espressione e la continuazione di convinzioni od orientamenti già manifestati nel paese d’origine.

3.      Fatta salva la convenzione di Ginevra, gli Stati membri possono stabilire di non riconoscere di norma lo status di rifugiato a un richiedente che abbia introdotto una domanda successiva se il rischio di persecuzioni è basato su circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la partenza dal paese di origine».

11      L’articolo 10 della direttiva 2011/95, che figura nel capo III di quest’ultima ed è intitolato «Motivi di persecuzione», al paragrafo 1 dispone quanto segue:

«Nel valutare i motivi di persecuzione, gli Stati membri tengono conto dei seguenti elementi:

(...)

b)      il termine “religione” include, in particolare, le convinzioni teiste, non teiste e ateiste, la partecipazione a, o l’astensione da, riti di culto celebrati in privato o in pubblico, sia singolarmente sia in comunità, altri atti religiosi o professioni di fede, nonché le forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esso prescritte;

(...)».

12      Ai sensi dell’articolo 13 della medesima direttiva, «[g]li Stati membri riconoscono lo status di rifugiato al cittadino di un paese terzo o all’apolide aventi titolo al riconoscimento dello status di rifugiato in conformità dei capi II e III».

 Direttiva 2013/32/UE

13      L’articolo 2, lettera q), della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (GU 2013, L 180, pag. 60), definisce una «domanda reiterata» come «un’ulteriore domanda di protezione internazionale presentata dopo che è stata adottata una decisione definitiva su una domanda precedente (...)».

 Diritto austriaco

14      L’articolo 3 del Bundesgesetz über die Gewährung von Asyl (Asylgesetz 2005) [legge federale in materia di concessione del diritto di asilo (legge sul diritto di asilo del 2005)], del 16 agosto 2005 (BGBl. I, 100/2005), nella versione applicabile al procedimento principale (in prosieguo: l’«Asylgesetz 2005»), intitolato «Status di beneficiario del diritto di asilo», prevede quanto segue:

«(1)      A un cittadino straniero che ha presentato una domanda di protezione internazionale in Austria viene riconosciuto lo status di beneficiario del diritto di asilo se la domanda non deve essere respinta a norma degli articoli 4, 4a o 5, se è probabile che egli sia minacciato di persecuzione nel suo paese d’origine, ai sensi dell’articolo 1, sezione A, paragrafo 2, della [convenzione di Ginevra].

(2)      La persecuzione può essere fondata anche su eventi che si sono verificati dopo che lo straniero ha lasciato il suo paese d’origine (...) o su attività che lo straniero ha intrapreso dopo la sua partenza dal paese d’origine, che siano, tra l’altro, l’espressione e la continuazione di una convinzione già manifestata nel paese d’origine (...). A uno straniero che presenti una domanda successiva (...) non è riconosciuto, di norma, lo status di beneficiario del diritto di asilo se il rischio di persecuzioni è basato su circostanze determinate dallo straniero stesso dopo la partenza dal paese d’origine, salvo sia accertato che si tratta di attività consentite in Austria che costituiscono l’espressione e la continuazione di convinzioni già manifestate nel paese d’origine.

(...)».

 Procedimento principale e questione pregiudiziale

15      Il 3 ottobre 2015 JF, cittadino iraniano, ha presentato dinanzi al BFA una domanda di protezione internazionale allegando, da un lato, di essere stato interrogato dai servizi segreti iraniani in qualità di istruttore di guida e, dall’altro, di essere stato sottoposto a procedimento penale, in quanto studente, per aver criticato un predicatore di religione musulmana.

16      Ritenendo che tali affermazioni fossero prive di credibilità, il BFA, con una decisione del 7 giugno 2017, ha respinto tale domanda e ha emanato una decisione di rimpatrio nei suoi confronti. Con una sentenza del 3 gennaio 2018, divenuta definitiva, il Bundesverwaltungsgericht (Tribunale amministrativo federale, Austria) ha respinto in quanto infondato il ricorso proposto da JF avverso tale decisione.

17      Il 26 giugno 2019, JF ha presentato una domanda reiterata ai sensi dell’articolo 2, lettera q), della direttiva 2013/32 facendo valere che, nel frattempo, si era convertito al cristianesimo e temeva, pertanto, di essere perseguitato nel suo paese d’origine. Con decisione del 24 giugno 2020, il BFA ha rifiutato di riconoscergli lo status di rifugiato sulla base dell’articolo 3, paragrafo 2, seconda frase, dell’Asylgesetz 2005, in quanto il rischio di persecuzioni invocato era sorto fuori dal paese di origine ed era stato determinato dal richiedente stesso. Per contro, il BFA ha constatato che JF aveva credibilmente dimostrato che la sua conversione al cristianesimo in Austria era avvenuta «per intima convinzione», che egli praticava attivamente tale religione e che, per tale ragione, correva il rischio di essere esposto, in caso di ritorno in Iran, a una persecuzione individuale. In tali circostanze, il BFA ha concesso a JF lo status di beneficiario della protezione sussidiaria e un diritto di soggiorno temporaneo.

18      Con sentenza del 29 settembre 2020, il Bundesverwaltungsgericht (Tribunale amministrativo federale) ha accolto il ricorso proposto da JF avverso tale decisione. Detto giudice ha dichiarato che, sebbene, in sede di esame di una domanda successiva, il rischio di persecuzioni fondato su circostanze determinate dal richiedente stesso escluda «di norma» il riconoscimento dello status di rifugiato, tale locuzione indica tuttavia che esistono casi in cui tale status ben può essere concesso, fatto salvo l’obbligo, imposto all’autorità competente dall’articolo 3, paragrafo 2, seconda frase, dell’Asylgesetz 2005, di verificare l’esistenza di un abuso da parte del richiedente. Secondo detto giudice, dalla decisione del BFA del 24 giugno 2020 non è emerso alcun indizio di comportamento abusivo di JF. Inoltre, la mancanza di elementi che provassero che la conversione di JF era l’espressione e la continuazione di una convinzione già manifestata nel suo paese d’origine non era sufficiente, secondo lo stesso giudice, per negare il riconoscimento dello status di rifugiato.

19      Il BFA ha proposto un ricorso per cassazione («Revision») avverso tale sentenza dinanzi al giudice del rinvio, vale a dire il Verwaltungsgerichtshof (Corte amministrativa, Austria), allegando che il testo dell’articolo 3, paragrafo 2, seconda frase, dell’Asylgesetz 2005 esclude un’interpretazione nel senso che, nel caso di una domanda successiva fondata su un rischio di persecuzioni derivante da circostanze determinate fuori dal paese di origine dal richiedente stesso, occorre unicamente stabilire se tali circostanze siano state invocate con un’intenzione abusiva. Secondo il BFA, tale disposizione introduce come regola generale il diniego dello status di rifugiato a richiedenti che abbiano essi stessi determinato, nello Stato membro ospitante, le circostanze che sono all’origine del rischio di persecuzioni invocato. L’unica deroga a tale regola generale riguarderebbe il caso in cui le attività di cui trattasi sono consentite in Austria e costituiscono l’espressione e la continuazione di una convinzione già manifestata dal richiedente nel paese d’origine.

20      Il giudice del rinvio osserva che, poiché l’articolo 3, paragrafo 2, seconda frase, dell’Asylgesetz 2005 traspone, nel diritto austriaco, l’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95, la soluzione della controversia principale dipende dall’interpretazione di quest’ultima disposizione.

21      Esso rileva, in proposito, da un lato, che, per quanto riguarda l’espressione «fatta salva la convenzione di Ginevra», che figura in detta disposizione, il significato del termine in lingua tedesca «unbeschadet» («fatto salvo») è ambiguo. Secondo la prima accezione di tale termine, la convenzione di Ginevra dovrebbe essere rispettata senza alcuna limitazione, anche nelle situazioni che rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95, mentre, conformemente alla seconda accezione, gli Stati membri potrebbero introdurre una presunzione di abuso in relazione a domande successive fondate su «circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la partenza dal paese di origine». Dall’altro lato, l’avverbio «di norma» esprimerebbe una nozione indeterminata il cui significato concreto non potrebbe essere dedotto né dal testo di tale direttiva né dai suoi considerando.

22      In tali circostanze, il Verwaltungsgerichtshof (Corte amministrativa) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:

«Se l’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva [2011/95] debba essere interpretato nel senso che esso osta a una disposizione di uno Stato membro in forza della quale lo status di beneficiario del diritto di asilo non è di norma riconosciuto allo straniero che introduce una domanda successiva se il rischio di persecuzioni è basato su circostanze determinate dallo straniero stesso dopo la partenza dal paese di origine, salvo sia accertato che si tratta di attività consentite nello Stato membro (l’Austria) che costituiscono l’espressione e la continuazione di convinzioni già manifestate nel paese d’origine».

 Sulla questione pregiudiziale

23      Con la sua questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 debba essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che subordina il riconoscimento dello status di rifugiato, a seguito di una domanda reiterata ai sensi dell’articolo 2, lettera q), della direttiva 2013/32, fondata su un rischio di persecuzioni derivante da circostanze che il richiedente stesso ha determinato dopo la partenza dal paese d’origine, alla duplice condizione che tali circostanze rientrino tra le attività consentite nello Stato membro interessato e costituiscano l’espressione e la continuazione di una convinzione del richiedente già manifestata nel paese d’origine.

24      Ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95, «[f]atta salva la convenzione di Ginevra, gli Stati membri possono stabilire di non riconoscere di norma lo status di rifugiato a un richiedente che abbia introdotto una domanda successiva se il rischio di persecuzioni è basato su circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la partenza dal paese di origine».

25      Dalla necessità di garantire tanto l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione quanto il principio di uguaglianza discende che i termini di una disposizione di diritto dell’Unione che non contenga alcun espresso rinvio al diritto degli Stati membri ai fini della determinazione del suo senso e della sua portata devono di norma essere oggetto, nell’intera Unione europea, di un’interpretazione autonoma e uniforme, da effettuare tenendo conto non solo del tenorei termini, ma anche del contesto di una tale disposizione e della finalità perseguita dalla normativa di cui trattasi nonché, se del caso, della sua genesi [v., in tal senso, sentenze del 18 gennaio 1984, Ekro, 327/82, EU:C:1984:11, punto 11; del 19 dicembre 2019, Nederlands Uitgeversverbond e Groep Algemene Uitgevers, C-263/18, EU:C:2019:1111, punto 38, nonché del 25 giugno 2020, Ministerio Fiscal (Autorità preposta a ricevere una domanda di protezione internazionale), C-36/20 PPU, EU:C:2020:495, punto 53].

26      Per quanto riguarda, anzitutto, i termini dell’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95, ne risulta, da un lato, che gli Stati membri non sono tenuti a recepire tale disposizione nel loro diritto interno, ma «possono» farlo, a titolo di mera facoltà. Dall’altro lato, è solo nel caso in cui il rischio di persecuzioni invocato dal richiedente a sostegno di una domanda successiva sia fondato «su circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la partenza dal paese di origine» che a tale richiedente non è «di norma» riconosciuto lo status di rifugiato. Tale avverbio non esclude quindi che, anche in siffatte circostanze, un richiedente possa, a determinate condizioni, ottenere il riconoscimento di detto status.

27      Per quanto riguarda, poi, il contesto dell’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95, occorre sottolineare, come enuncia in particolare il considerando 4 di tale direttiva, che la convenzione di Ginevra costituisce la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati. Ne consegue che le disposizioni di detta direttiva devono essere interpretate non solo alla luce dell’impianto sistematico di quest’ultima, ma anche nel rispetto di tale convenzione [v., in tal senso, sentenze del 13 gennaio 2021, Bundesrepublik Deutschland (Status di rifugiato di un apolide di origine palestinese), C-507/19, EU:C:2021:3, punti 38 e 39, nonché del 16 gennaio 2024, Intervyuirasht organ na DAB pri MS (Donne vittime di violenze domestiche), C-621/21, EU:C:2024:47, punti 36 e 37].

28      Occorre altresì ricordare che l’articolo 5 della direttiva 2011/95 verte, conformemente al suo titolo, sul «bisogno di protezione internazionale sorto fuori dal paese d’origine (“sur place”)». Tale nozione deve essere oggetto di una definizione comune, come enuncia il considerando 25 della medesima direttiva. Al riguardo, i paragrafi 1 e 2 di detto articolo 5, che, contrariamente al suo paragrafo 3, si applicano a qualsiasi domanda di protezione internazionale, precisano che un timore fondato di essere perseguitato può basarsi non solo su avvenimenti verificatisi dopo la partenza del richiedente dal paese di origine, ma anche su attività svolte da tale richiedente dopo la sua partenza da detto paese. L’utilizzo dell’espressione «in particolare», nello stesso articolo 5, paragrafo 2, per riferirsi all’ipotesi in cui sia accertato che tali attività costituiscono l’espressione e la continuazione di convinzioni od orientamenti manifestati nel paese di origine, implica che attività che non costituiscono un’espressione e una continuazione siffatte possano, in linea di principio, essere parimenti invocate, vuoi nell’ambito di una prima domanda di protezione internazionale vuoi nell’ambito di una domanda successiva.

29      Da quanto precede risulta che l’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 ha carattere derogatorio rispetto al principio stabilito ai paragrafi 1 e 2 di tale articolo, in quanto autorizza che un rischio di persecuzioni, invocato a sostegno di una domanda successiva, fondato su circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la partenza dal paese di origine, conduca «di norma» ad escludere il riconoscimento dello status di rifugiato. Alla luce di tale carattere derogatorio, come rilevato, in sostanza, dall’avvocato generale al paragrafo 54 delle sue conclusioni, la facoltà conferita agli Stati membri da tale articolo 5, paragrafo 3, deve essere interpretata restrittivamente.

30      Tale interpretazione è confermata dalla definizione della nozione di «rifugiato» di cui all’articolo 1, sezione A, punto 2, della convenzione di Ginevra e poi all’articolo 2, lettera d), della direttiva 2011/95, che non prevede alcuna restrizione a che il timore fondato di essere perseguitato a causa di almeno uno dei motivi di persecuzione ivi enunciati possa basarsi su attività svolte dal richiedente dopo la sua partenza dal paese di origine e non costituenti l’espressione e la continuazione di convinzioni o di orientamenti già manifestati in tale paese.

31      Detta interpretazione è altresì corroborata dalla genesi dell’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95. Infatti, dalla proposta di direttiva del Consiglio recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi ed apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta [COM(2001) 510 definitivo], presentata dalla Commissione europea il 30 ottobre 2001 e che ha condotto all’adozione della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2004, L 304, pag. 12), abrogata e sostituita dalla direttiva 2011/95, risulta che, con l’impiego del verbo «determinare» all’articolo corrispondente, nella direttiva 2004/83, all’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95, la Commissione intendeva disciplinare la situazione in cui il timore del richiedente di essere perseguitato fosse costruito da quest’ultimo.

32      Da quanto precede risulta, come sottolineato, in sostanza, dall’avvocato generale ai paragrafi 56 e 64 delle sue conclusioni, che il rifiuto di riconoscere lo status di rifugiato a seguito di una domanda successiva di protezione internazionale, sulla base dell’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95, è diretto, tenuto conto dell’elemento intenzionale inerente all’espressione «circostanze determinate dal richiedente stesso», a sanzionare un’intenzione abusiva del richiedente che ha «costruito» le circostanze sulle quali si basa il rischio di persecuzioni al quale sarebbe esposto in caso di ritorno nel suo paese d’origine e ha quindi strumentalizzato la procedura di riconoscimento della protezione internazionale applicabile.

33      Una siffatta interpretazione è infine corroborata dall’obiettivo principale di tale direttiva, che, come enunciato al suo considerando 12, consiste, da un lato, nell’assicurare che tutti gli Stati membri applichino criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di una protezione internazionale e, dall’altro, nell’assicurare che un livello minimo di prestazioni sia disponibile per tali persone in tutti gli Stati membri [v., in tal senso, sentenza del 6 luglio 2023, Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid (Reato di particolare gravità), C-402/22, EU:C:2023:543, punto 36].

34      La questione se le circostanze invocate in una domanda successiva al fine di dimostrare l’esistenza di un rischio di persecuzione fondato su un motivo di cui all’articolo 10, paragrafo 1, della direttiva 2011/95, idoneo a condurre al riconoscimento dello status di rifugiato, rientrino in un’intenzione abusiva e di strumentalizzazione della procedura applicabile richiede una valutazione su base individuale di tale domanda alla luce di tutte le circostanze di cui trattasi, tenendo conto di tutti gli elementi di fatto pertinenti, effettuata dalle autorità competenti degli Stati membri conformemente all’articolo 4, paragrafo 3, di tale direttiva [v., in tal senso, sentenze del 21 settembre 2023, Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie (Opinioni politiche nello Stato membro ospitante), C-151/22, EU:C:2023:688, punto 42, e del 16 gennaio 2024, Intervyuirasht organ na DAB pri MS (Donne vittime di violenze domestiche), C-621/21, EU:C:2024:47, punto 60].

35      A tal riguardo, occorre sottolineare che il fatto che, da quando ha lasciato il suo paese d’origine, il richiedente abbia o meno svolto attività al solo scopo o allo scopo principale di determinare le condizioni necessarie per presentare una domanda di protezione internazionale, di cui all’articolo 4, paragrafo 3, lettera d), di tale direttiva, costituisce solo un elemento di cui le autorità nazionali competenti devono tener conto ai fini di tale valutazione individuale. Queste ultime devono infatti procedere ad un esame completo di tutte le circostanze proprie del caso individuale del richiedente, prendendo in considerazione tutti gli elementi elencati alle lettere da a) a e) del paragrafo 3 di tale articolo 4.

36      Ne consegue che, contrariamente a quanto sostengono i governi austriaco e tedesco nelle loro osservazioni scritte, l’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 non può essere interpretato nel senso che la trasposizione facoltativa di tale disposizione dispensa gli Stati membri dal prevedere l’obbligo, per le autorità nazionali competenti, di procedere ad una valutazione su base individuale di ogni domanda successiva di protezione internazionale. Tale disposizione non può neppure essere interpretata nel senso che una siffatta trasposizione consente agli Stati membri di introdurre una presunzione secondo cui qualsiasi domanda successiva fondata su circostanze che il richiedente stesso ha determinato dopo la partenza dal paese di origine deriva a priori da un’intenzione abusiva e da strumentalizzazione della procedura di riconoscimento della protezione internazionale, presunzione che spetterebbe a tale richiedente confutare.

37      Infatti, interpretazioni del genere finirebbero per privare di effetto utile le disposizioni dell’articolo 4 della direttiva 2011/95, che sono applicabili a tutte le domande di protezione internazionale, indipendentemente dai motivi di persecuzione invocati a sostegno di tali domande [v., in tal senso, sentenze del 25 gennaio 2018, F, C-473/16, EU:C:2018:36, punto 36, e del 21 settembre 2023, Staatssecretaris van Veiligheid en Justitie (Opinioni politiche nello Stato membro ospitante), C-151/22, EU:C:2023:688, punto 41]. Più in particolare, il paragrafo 3 di tale articolo 4 impone all’autorità nazionale competente di procedere a un esame completo di tutte le circostanze proprie del caso individuale del richiedente, il che esclude qualsiasi forma di automaticità (v., per analogia, sentenze del 13 settembre 2018, Ahmed, C-369/17, EU:C:2018:713, punti 48 e 49, nonché del 22 settembre 2022, Országos Idegenrendészeti Foigazgatóság e a., C-159/21, EU:C:2022:708, punti 72 e 73).

38      Nel caso di specie, a seguito di una valutazione individuale della domanda successiva presentata da JF, conformemente all’articolo 4, paragrafo 3, della direttiva 2011/95, il BFA ha constatato che l’interessato aveva credibilmente dimostrato di essersi convertito «per intima convinzione» al cristianesimo in Austria e di praticare attivamente tale religione, ragion per cui correva il rischio di essere esposto, in caso di ritorno nel suo paese di origine, ad una persecuzione individuale. Orbene, una constatazione del genere, qualora si riveli esatta, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare, è tale da escludere l’esistenza di un’intenzione abusiva e di strumentalizzazione, da parte del richiedente, della procedura applicabile, idonea a condurre l’autorità nazionale competente a rifiutare di riconoscergli lo status di rifugiato sulla base dell’articolo 5, paragrafo 3, della stessa direttiva.

39      Se un siffatto richiedente soddisfa, peraltro, le condizioni, previste dalle disposizioni del capo III della direttiva 2011/95, per essere qualificato come «rifugiato», ai sensi dell’articolo 2, lettera d), di tale direttiva, l’articolo 13 di quest’ultima impone allo Stato membro interessato di riconoscergli lo status di rifugiato, ai sensi dell’articolo 2, lettera e), di detta direttiva [v., in tal senso, sentenze del 24 giugno 2015, T., C-373/13, EU:C:2015:413, punto 63, nonché del 16 gennaio 2024, Intervyuirasht organ na DAB pri MS (Donne vittime di violenze domestiche), C-621/21, EU:C:2024:47, punto 72].

40      Per contro, in tutti i casi in cui il rischio di persecuzione invocato a sostegno di una domanda successiva si basa sulle circostanze descritte all’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95, ma riguardo alle quali, a seguito di una valutazione individuale di tale domanda, effettuata ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 3, di tale direttiva, risulti che si riferiscono ad un’intenzione abusiva e di strumentalizzazione, da parte di tale richiedente, della procedura applicabile, detto articolo 5, paragrafo 3, autorizza lo Stato membro interessato a prevedere che tale richiedente non ottenga in linea di principio il riconoscimento dello status di rifugiato, ai sensi dell’articolo 2, lettera e), della direttiva 2011/95, anche se detto richiedente ha il fondato timore di essere perseguitato nel suo paese di origine in conseguenza di tali circostanze e dovrebbe, pertanto, essere qualificato come «rifugiato», ai sensi dell’articolo 1, sezione A, della convenzione di Ginevra e dell’articolo 2, lettera d), della direttiva 2011/95. Infatti, la qualità di rifugiato, ai sensi di queste disposizioni, non dipende dal riconoscimento formale di tale qualità mediante la concessione dello «status di rifugiato», ai sensi dell’articolo 2, lettera e), di detta direttiva [sentenza del 14 maggio 2019, M e a. (Revoca dello status di rifugiato), C-391/16, C-77/17 e C-78/17, EU:C:2019:403, punto 90].

41      È in tale contesto che occorre esaminare il senso e la portata dell’espressione «fatta salva la Convenzione di Ginevra», di cui all’articolo 5, paragrafo 3, di tale direttiva. A tal riguardo il giudice del rinvio osserva che, nella versione in lingua tedesca di tale disposizione, il termine «unbeschadet» può significare «in accordo con», ma anche, viceversa, «senza tener conto di». A suo avviso, quest’ultima accezione del termine «unbeschadet», se dovesse prevalere, lascerebbe intendere che l’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 consente agli Stati membri, nella fattispecie da esso prevista, di non tener conto delle disposizioni di tale convenzione.

42      Tuttavia, la formulazione utilizzata in una delle versioni linguistiche di una disposizione del diritto dell’Unione non può essere l’unico elemento a sostegno dell’interpretazione di questa disposizione né le si può attribuire un carattere prioritario rispetto alle altre versioni linguistiche. La necessità, ricordata al punto 25 della presente sentenza, di un’interpretazione e di un’applicazione uniformi di ciascuna disposizione del diritto dell’Unione esclude che essa sia considerata isolatamente in una delle sue versioni linguistiche e impone che sia interpretata in funzione dell’economia generale e della finalità della normativa di cui essa fa parte [v., in tal senso, sentenze del 12 novembre 1969, Stauder, 29/69, EU:C:1969:57, punti 2 e 3, nonché del 15 settembre 2022, Minister for Justice and Equality (Cittadino di un paese terzo cugino di un cittadino dell’Unione), C-22/21, EU:C:2022:683, punto 20].

43      Orbene, nelle versioni, segnatamente, in spagnolo, ceco, inglese, ungherese, portoghese, finlandese e svedese, l’espressione equivalente a «unbeschadet» in lingua tedesca, di cui all’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95, deve essere intesa nel senso che gli Stati membri devono tener conto delle disposizioni della convenzione di Ginevra quando esercitano la facoltà loro conferita da tale articolo 5, paragrafo 3, di non riconoscere «di norma» lo status di rifugiato a un richiedente nelle circostanze indicate al punto 32 della presente sentenza. Ne consegue che il termine «unbeschadet», che figura nella versione in lingua tedesca di tale disposizione, deve essere inteso in questo stesso senso, conformemente sia all’impianto sistematico sia alla finalità della direttiva 2011/95, quali rammentati, rispettivamente, ai punti 27 e 33 della presente sentenza.

44      Pertanto, in tutti i casi in cui sia accertato dall’autorità nazionale competente, investita di una domanda successiva, che le circostanze addotte dal richiedente concretizzano un’intenzione abusiva e di strumentalizzazione della procedura applicabile, cosicché lo status di rifugiato può essergli negato sulla base dell’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95, l’espressione «fatta salva la convenzione di Ginevra» impone, sempreché tale autorità constati, alla luce di tali circostanze, l’esistenza di un rischio verosimile di persecuzioni in caso di ritorno del richiedente nel suo paese d’origine, che tale richiedente possa nondimeno beneficiare, nello Stato membro interessato, dei diritti garantiti dalla convenzione di Ginevra che non possono essere oggetto di alcuna riserva, conformemente all’articolo 42, paragrafo 1, della convenzione stessa. Tra tali diritti figura quello garantito dall’articolo 33, paragrafo 1, di detta convenzione, ai sensi del quale nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in alcun modo, un rifugiato verso i confini dei territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa, in particolare, della sua religione.

45      Infine, per quanto riguarda i dubbi del giudice del rinvio in merito alla compatibilità, con la direttiva 2011/95, della condizione imposta dalla normativa nazionale che ha trasposto l’articolo 5, paragrafo 3, di tale direttiva, in forza della quale le attività all’origine del rischio di persecuzioni fatte valere dal richiedente devono essere attività consentite nello Stato membro ospitante, è sufficiente ricordare che, ai sensi dell’articolo 2 della convenzione di Ginevra, «ogni rifugiato ha, verso il paese in cui risiede, doveri che includono segnatamente l’obbligo di conformarsi alle leggi e ai regolamenti, come pure alle misure prese per il mantenimento dell’ordine pubblico». Ne consegue che l’espressione «fatta salva la convenzione di Ginevra», di cui a tale articolo 5, paragrafo 3, non può essere interpretata nel senso che essa osta a una siffatta condizione prevista dal diritto nazionale.

46      Alla luce dei motivi che precedono, occorre rispondere alla questione sollevata dichiarando che l’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che subordina il riconoscimento dello status di rifugiato, a seguito di una domanda reiterata, ai sensi dell’articolo 2, lettera q), della direttiva 2013/32, fondata su un rischio di persecuzioni derivante da circostanze che il richiedente stesso ha determinato dopo la partenza dal paese d’origine, alla condizione che tali circostanze costituiscano l’espressione e la continuazione di una convinzione del richiedente già manifestata in tale paese.

 Sulle spese

47      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice del rinvio, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:

L’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta,

deve essere interpretato nel senso che:

esso osta a una normativa nazionale che subordina il riconoscimento dello status di rifugiato, a seguito di una domanda reiterata, ai sensi dell’articolo 2, lettera q), della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, fondata su un rischio di persecuzioni derivante da circostanze che il richiedente stesso ha determinato dopo la partenza dal paese d’origine, alla condizione che tali circostanze costituiscano l’espressione e la continuazione di una convinzione del richiedente già manifestata in tale paese.

Firme


* Lingua processuale: il tedesco.

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