Sarebbero necessari quote per la distribuzione dei migranti e meccanismi efficienti di rimpatrio

Quando dieci anni fa 566 persone annegarono al largo di Lampedusa, l'Europa rimase inorridita, perché non poteva più distogliere lo sguardo. Perché fino a quell'ottobre 2013 l'Europa non aveva risposto alle richieste di aiuto dell'Italia.

L'accordo di Dublino aveva fornito alla maggior parte dei Paesi europei un modo conveniente per affrontare il problema dell'immigrazione: i rifugiati entrati attraverso un Paese terzo sicuro potevano essere rimandati nel Paese di prima accoglienza. In altre parole, la Grecia e l'Italia erano responsabili, mentre in Germania, circondata da Paesi terzi sicuri, i rifugiati dovevano letteralmente cadere dal cielo affinché Berlino fosse legalmente responsabile per queste persone.

Simone Fassora

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In seguito è arrivata la grande crisi dei rifugiati del 2015/16. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha aperto le frontiere con un grande gesto umanitario, ma non ha trovato una soluzione duratura. Le sue politiche hanno diviso l'UE in Est e Ovest e hanno incoraggiato i sostenitori della Brexit nel Regno Unito, portando alcuni osservatori a credere che la politica tedesca sui rifugiati abbia aiutato la Brexit a ottenere una maggioranza risicata. Merkel ha imposto quote agli Stati membri dell'UE, una chiave per la distribuzione dei migranti. L'idea era giusta, ma non ha mai preso piede nella pratica.

Alla fine, l'Europa ha accettato di utilizzare il presidente turco Erdogan come buttafuori. L'Europa paga miliardi di euro perché la Turchia accolga milioni di rifugiati. L'UE ha raggiunto un accordo simile con la Tunisia quest'estate, ma Tunisi continua a lasciar passare i migranti.

Anche l'Italia ha fatto troppo poco: il problema dell'immigrazione è servito finora soprattutto come tema elettorale. I centri di accoglienza sono ancora troppo pochi; le condizioni a Lampedusa sono un buon mezzo di pressione per Roma.

Poi sono arrivati Covid e la guerra in Ucraina, e il problema della migrazione è passato in secondo piano. Ma tutti gli esperti avevano già previsto lo scorso inverno quello che sta accadendo a Lampedusa.

Quando la Convenzione di Dublino fu firmato nel 1990, gli Stati coinvolti non erano consapevoli delle conseguenze. Dublino III è ormai in vigore, ma avrebbe bisogno di una riforma.

Non c'è però abbastanza riconoscimento della necessità di uno sforzo congiunto e internazionale. Gli Stati membri dell'UE dovrebbero definire la migrazione come un problema europeo. Chi attraversa il confine greco o italiano non entra in Grecia o in Italia, ma nell'UE. Di conseguenza, sarebbero necessarie delle quote in base alle quali distribuire i richiedenti asilo tra tutti i Paesi membri. Inoltre, sarebbe necessario disporre di meccanismi efficienti di rimpatrio. Attualmente, solo il cinque per cento dei rimpatri viene effettivamente eseguito.

Aumento dell'afflusso di rifugiati

Come funziona il sistema di asilo svizzero

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La Svizzera vanta una lunga tradizione umanitaria e di fatto tratta un numero relativamente alto di richieste di asilo rispetto ad altri Paesi europei, data la dimensione della popolazione.

Anche se pochi richiedenti asilo ricevono lo status ufficiale di rifugiato, molti ottengono diversi tipi di permessi temporanei che consentono loro di rimanere.

Con questo permesso possono ottenere un aiuto per le spese di soggiorno e per trovare un lavoro, ma la strada per l'integrazione è lunga.

Asilo in Svizzera

La maggior parte dei rifugiati non arriva in Svizzera

Buona parte delle persone che sbarcano a Lampedusa proviene dall'Africa occidentale. Finora non hanno presentato alcuna richiesta di asilo in Svizzera.

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La scorsa settimana a Lampedusa sono arrivati 5'000 profughi in 24 ore, un numero superiore a quello degli abitanti dell'isola. La maggior parte dei rifugiati viene portata sulla terraferma italiana, molti proseguono il viaggio verso nord. In Svizzera la situazione dell'asilo è tesa, ma per motivi diversi.

I rifugiati di Lampedusa probabilmente non hanno intenzione di recarsi in Svizzera in gran numero. Dall'inizio dell'anno, 25'000 persone provenienti dalla Guinea e dalla Costa d'Avorio hanno raggiunto Lampedusa. Nello stesso periodo, la Svizzera ha ricevuto circa 350 domande di asilo da cittadini di questi Paesi. La Segreteria di Stato per la migrazione (SEM) spiega che finora le persone provenienti dall'Africa occidentale non hanno necessariamente scelto la Svizzera come Paese di destinazione.

Tuttavia, il numero di richieste di asilo è attualmente in forte aumento. Ad agosto sono state registrate 3'001 domande di asilo, il 38% in più rispetto a luglio e il 47% in più rispetto all'agosto 2022. Le guardie di confine segnalano anche un aumento significativo degli attraversamenti irregolari al confine meridionale: il numero è passato da 1'486 (luglio) a 2'873 (agosto). Anche il numero di persone in attesa di asilo è aumentato di 740 unità in agosto.

I principali Paesi di provenienza dei richiedenti asilo in Svizzera sono la Turchia e l'Afghanistan. La maggior parte raggiunge la Svizzera attraverso la rotta balcanica. Poiché molti sono rimasti bloccati durante la pandemia, la SEM vede un "effetto di recupero". Secondo la SEM, la pressione per lasciare o proseguire il viaggio da Paesi come la Turchia è molto alta. La rotta balcanica con successivo ingresso dall'Italia rimane quindi più importante per la Svizzera rispetto alla rotta dalla Tunisia e dalla Libia attraverso il Mediterraneo centrale.

Nella prima fase, la Confederazione è responsabile dell'accoglienza dei richiedenti asilo. Secondo la SEM, i centri federali per l'asilo funzionano attualmente al 76% della capacità. C'è una riserva di 2'400 posti letto. I cantoni, che sono responsabili dell'accoglienza dei richiedenti asilo nella seconda fase, riportano poco meno di 7'600 posti liberi.

Poiché la Confederazione prevede un aumento del numero di rifugiati nelle prossime settimane, vuole trovare altri 1'800 posti nei cantoni. Al momento, tuttavia, sono stati confermati solo 590 posti aggiuntivi. La SEM afferma che sta ancora esaminando la questione.

Nello scenario più probabile, la SEM prevede un totale di 28'000 domande di asilo entro la fine dell'anno (escluso lo statuto S per le persone provenienti dall'Ucraina). Ciò corrisponde a una media di circa 2'660 domande al mese. "Al momento riteniamo di riuscire a far quadrare i conti", afferma il portavoce della SEM Reto Kormann a proposito della situazione degli alloggi. Secondo il SEM, uno scenario con un massimo di 40'000 domande è un po' meno probabile. L'anno scorso in Svizzera sono state presentate 24.'11 domande di asilo.

L'esempio di Lampedusa

Cosa pensa del sistema d'asilo svizzero?

Asilo in Svizzera elusivo per i rifugiati afghani

Nonostante il deterioramento della situazione dei diritti umani in Afghanistan sotto il regime talebano, le autorità svizzere continuano a respingere la maggioranza degli afghani in cerca di asilo - una politica in netto contrasto con l'accoglienza che il Paese ha riservato ai rifugiati ucraini.

Aresu Rabbani stima di aver aiutato più di mille afghani a richiedere un visto umanitario svizzero da quando i talebani hanno preso Kabul nell'agosto 2021. La maggior parte di loro è riuscita ad attraversare il confine con l'Iran o il Pakistan: con un visto umanitario, avrebbero la possibilità di arrivare in Svizzera in modo sicuro e legale e chiedere asilo.

Rabbani, fuggita dall'Afghanistan nel 2008 dopo che suo padre era stato imprigionato dai talebani, ha fatto tutto il possibile per aumentare le possibilità di ottenere una risposta positiva, arrivando persino a tradurre in farsi lo strumento per la richiesta del visto.

"Ho cercato di aiutarli giorno e notte", racconta la zurighese, "perché so cosa significa trovarsi in questa situazione". Nonostante i suoi sforzi, nessuno dei richiedenti che ha aiutato ha mai ottenuto un visto dalla Segreteria di Stato della migrazione (SEM). Tra questi c'è sua cugina, la cui casa a Herat è stata saccheggiata dai talebani. Sostenitrice dei diritti delle donne, è diventata un bersaglio del gruppo estremista.

"Abbiamo inviato tutti i documenti a sostegno della sua domanda, ma non abbiamo mai ricevuto risposta", racconta Rabbani, volontaria del servizio di assistenza per l'asilo AsyLex. Ha tentato più volte, senza successo, di contattare le autorità svizzere prima di rinunciare. Sua cugina rimane in Iran con i suoi due figli piccoli.

Il caso dell'Afghanistan mostra chiaramente una "mancanza di volontà politica in Svizzera" di offrire protezione internazionale, ha concluso la Croce Rossa svizzera in un rapporto del 2021. Mentre lo scoppio della guerra civile in Siria nel 2011 ha spinto il governo ad accogliere oltre 5'000 rifugiati, finora ha resistito alle richieste di facilitare l'ingresso degli afghani. Su 1'759 domande di visto umanitario presentate da afghani nel 2022, solo 98 sono state accolte dalla SEM - un tasso di accettazione del 5,5%. Nel frattempo, solo il 13% dei richiedenti asilo afghani in Svizzera ha ottenuto lo status di rifugiato, molto al di sotto della media europea del 46% (membri dell'Unione Europea più Norvegia e Svizzera).

Con i talebani che stanno sistematicamente riducendo i diritti di donne e ragazze e dando la caccia a chi ha lavorato per gli alleati occidentali o per il precedente regime, la richiesta di protezione da parte degli afghani è alta. Secondo l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), dall'agosto 2021 a marzo 2023 oltre 1,6 milioni di persone sono fuggite nei Paesi vicini, principalmente in Iran e Pakistan. Nel 2022 gli afghani sono stati il secondo gruppo di richiedenti asilo in Europa, con circa 129'000 domande.

Rabbani ha voluto lanciare un'ancora di salvezza agli afghani che sperano di raggiungere la salvezza, mostrando loro come richiedere un visto umanitario. Dal 2013, la Svizzera ha reso possibile ottenere un visto per motivi umanitari presso un'ambasciata o un consolato svizzero, un percorso di protezione che i Paesi dell'UE attualmente non offrono.

I richiedenti devono dimostrare "una minaccia immediata, specifica e grave alla vita e all'incolumità fisica". Per gli afghani, la minaccia deve essere "individuale e specifica", quindi l'appartenenza a un gruppo a rischio (come donne e ragazze) non è sufficiente. Devono inoltre avere un "legame stretto e attuale con la Svizzera", come parenti o una precedente residenza nel Paese. La SEM valuta se ogni caso soddisfa questi criteri secondo la legge, spiega il portavoce Samuel Wyss a SWI swissinfo.ch in un'e-mail. Ma i gruppi di aiuto ai rifugiati dicono che i requisiti sono troppo restrittivi.

"Vorremmo se si tenesse maggiormente conto [...] delle difficoltà che i richiedenti incontrano, ad esempio, nell'ottenere documenti validi dal loro Paese d'origine", afferma Martin Rechlin, portavoce dell'UNHCR Svizzera.

Non si tratta solo di prove di identità o passaporti, ma anche di prove di persecuzione. Per dimostrare che la sua vita era in pericolo, la cugina di Rabbani ha presentato una lettera di minacce ricevuta dai talebani. Ma secondo la Croce Rossa, tali lettere non sono più considerate una prova, in quanto facilmente falsificabili. Wyss scrive che "il valore delle prove [fornite] dipende da vari fattori, come la loro tempestività, l'inalterabilità e la possibilità di collegarle alla persona in questione".

Portare prove più concrete che una persona è stata presa direttamente di mira, come richiede la SEM, è semplicemente irrealistico, dice Rabbani: "Se hai foto o video di quello che ti è successo, allora probabilmente sei già morto".

Da quando la Svizzera ha chiuso la sua ambasciata di Kabul nell'agosto 2021, gli afghani devono lasciare il Paese per presentare la loro richiesta presso una rappresentanza svizzera all'estero - un'impresa che sembra andare a loro sfavore.

"L'esperienza ha dimostrato che spesso il fattore decisivo per il rifiuto [di un visto umanitario] è il fatto che gli afghani si trovino in un Paese terzo in cui non corrono un pericolo immediato al momento della richiesta", afferma Wyss.

Per molti rifugiati, tuttavia, la sicurezza in Paesi che devono fare fronte a un forte aumento degli arrivi non è scontata. Sebbene l'UNHCR elogi l'Iran per aver accolto gli afghani in fuga, il Paese ospita già una delle più grandi popolazioni di rifugiati al mondo. Negli ultimi mesi, il Pakistan, che non ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati, avrebbe espulso o detenuto afghani per ingresso illegale.

Con le possibilità di ottenere visti umanitari così esigue, Rabbani sta aiutando coloro che hanno raggiunto la Svizzera ma non hanno lo status di rifugiato. Poco più della metà dei 4'138 richiedenti asilo afghani registrati l'anno scorso ha ricevuto l'ammissione temporanea, uno status concesso a persone che non soddisfano i criteri per l'asilo ma non possono essere espulse, spesso a causa di un conflitto nel loro Paese d'origine. Mentre la SEM considera il "tasso di protezione" (status di rifugiato più ammissione temporanea) pari al 72% per gli afghani, il permesso F di un anno rinnovabile per le persone ammesse temporaneamente è stato a lungo criticato dai gruppi di difesa dei diritti umani

"L'ammissione temporanea è problematica agli occhi dell'Organizzazione svizzera d'aiuto ai rifugiati", afferma Lionel Walter, portavoce dell'OSAR. "Limita i diritti di persone che in realtà spesso finiscono per rimanere in Svizzera in modo permanente". La natura temporanea del permesso è un deterrente per i potenziali datori di lavoro. Inoltre, a differenza dei rifugiati riconosciuti, le persone con un permesso F sono soggette a restrizioni per quanto riguarda i viaggi fuori dalla Svizzera, l'assistenza sociale e il ricongiungimento familiare.

Rabbani sta aiutando questi afghani a ottenere un permesso B (che possono richiedere dopo cinque anni di permesso F) che dà loro gli stessi diritti dei rifugiati. Per Rabbani, che dopo anni di permessi temporanei ha ottenuto la cittadinanza svizzera nel 2016, questi sforzi la toccano da vicino: sua madre, Mahjan Rabbani, ha un permesso F dal suo arrivo nel 2008. Da allora la sua vita è rimasta in sospeso.

"Posso anche essere fisicamente al sicuro in Svizzera, ma mi sento come una prigioniera", dice, aggiungendo che il fatto di essere stata ammessa temporaneamente significa "non essere mai sicura di quando o se potrò rimanere qui in modo permanente". Questa incertezza, insieme all'impossibilità di trovare un lavoro, di mettere radici o persino di spostarsi di cantone per stare più vicina ai suoi figli, ha avuto ripercussioni su Rabbani, che ora soffre di ansia e depressione.

La situazione dei titolari di permessi F si è accentuata dopo l'invasione russa dell'Ucraina nel febbraio 2022. Finora oltre 76'000 persone in fuga dalla guerra hanno ottenuto lo status di protezione speciale (S), che consente loro di saltare la normale procedura di asilo e di accedere subito a posti di lavoro, alloggi e servizi di supporto. Un gruppo di esperti che ha valutato il permesso S per il Dipartimento federale di giustizia e polizia ha riconosciuto che c'è una disparità di trattamento legale tra gli ucraini e i richiedenti asilo di altre nazionalità, un fatto che Walter definisce "sorprendente".

"Molti rifugiati che arrivano in Svizzera da Paesi diversi dall'Ucraina sono pure in fuga da combattimenti e bombe", afferma. "Una disparità di diritti con i titolari dello status S non è quindi giustificata".

Una questione delicata in un anno elettorale

La politica della Svizzera è anche in contrasto con l'UE, con la quale ha armonizzato alcune parti del suo sistema di asilo. Le persone in fuga dai conflitti che non ottengono asilo nell'UE ricevono di solito una protezione sussidiaria, che comporta gli stessi diritti dello status di rifugiato. Attualmente il Parlamento svizzero sta discutendo una mozione per eliminare il permesso F a favore di uno status simile alla protezione sussidiaria, un'idea che l'UNHCR sostiene da tempo. Ma il Governo ha raccomandato di respingerli, sostenendo che sono in corso piani per eliminare alcune restrizioni del permesso F, tra cui quelle relative ai viaggi e al trasferimento dei cantoni.

Anche nell'UE stanno emergendo segnali di un cambiamento di politica che potrebbe vedere un maggior numero di afghani ricevere lo status di rifugiato. L''Agenzia dell'Unione europea per l'asilo (EUAA) ha scritto a gennaio che le donne e le ragazze afghane "sono in generale a rischio di persecuzione" e quindi ammissibili allo status di rifugiato. La conclusione dell'EUAA non è vincolante per gli Stati. Ma Danimarca e Svezia hanno iniziato a concedere l'asilo a tutte le donne e le ragazze richiedenti provenienti dall'Afghanistan.

In Svizzera, qualsiasi discorso su una politica più generosa in materia di rifugiati potrebbe dover attendere fino a dopo le elezioni federali. La migrazione sarà uno dei temi principali della campagna elettorale e i politici saranno probabilmente cauti nel proporre qualsiasi cambiamento che possa far aumentare il numero di rifugiati o richiedenti asilo. Ma Mahjan Rabbani rimane ottimista, anche se le sue precedenti richieste di permesso B sono state tutte respinte.

"Mi aggrappo alla speranza che un giorno le cose andranno meglio, che potrò tornare in patria senza paura", dice, "o che troverò un senso di appartenenza e sicurezza in Svizzera".

Asilo difficile per i rifugiati afghani

La consigliera federale Elisabeth Baume-Schneider si esprime sulla situazione legata al Centro federale per richiedenti l’asilo e propone soluzioni

“Ho grande comprensione per la popolazione. Talvolta è difficile vivere vicino a questi centri d'accoglienza, soprattutto quando - in alcuni periodi dell’anno - c'è un forte aumento degli ospiti e quando il profilo delle persone alloggiate è problematico”. A parlare ai microfoni della RSI  è la consigliera federale Elisabeth Baume-Schneider. La titolare del dossier asilo ha risposto a parte delle lettere ricevute, che sollevavano i problemi provocati da alcuni ospiti del centro. A proposito aggiunge: “Lo sappiamo che è solo una piccola parte di loro a creare problemi, problemi che però possono preoccupare ed esasperare la situazione”.

Baume-Schneider spiega aver parlato della questione col direttore del Dipartimento delle istituzioni ticinese Norman Gobbi. Nell’intervista cita alcune misure per migliorare la situazione: la possibilità di intervenire con provvedimenti amministrativi nei confronti degli ospiti problematici, ma anche uno spostamento dei migranti recalcitranti al centro preposto di Verrière nel Canton Neuchâtel. La ministra riconosce che “il Ticino sta facendo la sua parte. Il Cantone fa parte della stessa regione assieme alla Svizzera centrale e se ci saranno tanti arrivi allora occorrerà chiedersi se serve maggiore solidarietà all'interno di questa regione. Con questo non voglio dire che ci saranno per forza degli spostamenti”.

La situazione a Chiasso

I primi giovani richiedenti l'asilo arrivano a Windisch

Primi arrivi nel comune argoviese, dove c'erano state accese discussioni dopo la decisione di allontanare 49 inquilini per fare spazio a un centro di accoglienza temporaneo

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La polemica è stata grande alla fine di febbraio, quando il comune argoviese di Windisch ha annunciato che 49 persone avrebbero dovuto lasciare le loro case per lasciare spazio a richiedenti l'asilo. Il Cantone intendeva creare un centro di accoglienza con 100 posti in tre case. Il proprietario aveva dato la disdetta agli inquilini per la fine di giugno. La comunità di Windisch è rimasta scioccata. I partiti, da sinistra a destra, hanno criticato l'operato del Cantone.

Dopo qualche giorno, il consigliere di Stato responsabile, Jean-Pierre Gallati (UDC), si è scusato e ha ammesso gli errori. Sono state fatte ipotesi sbagliate e si è pensato troppo poco ai residenti. Gallati ha dichiarato: "Abbiamo causato dei problemi a Windisch, per i quali vorrei scusarmi con gli inquilini interessati". Tuttavia, il Cantone ha mantenuto la sua linea. Ha un disperato bisogno delle case per ospitare i richiedenti l'asilo minorenni.

Il locatore e il Cantone hanno tuttavia sottolineato che le disdette sono avvenute a causa della progettazione di una nuova costruzione. L'immobile verrà demolito. Il Cantone ha richiesto l'uso temporaneo come alloggio per richiedenti l'asilo solo dopo la partenza degli inquilini e fino a quando il progetto di costruzione non fosse stato pronto.

La maggior parte degli inquilini avrebbe già trovato un nuovo alloggio, secondo la responsabile del servizio sociale cantonale, Pia Maria Brugger. Attualmente quattro persone vivono ancora negli appartamenti di una delle case, ma dovrebbero trasferirsi presto.

Alcuni inquilini si erano opposti pubblicamente in primavera, criticando il Cantone e il proprietario. Dopo il trasloco, la situazione è tornata tranquilla, secondo la sindaca Heidi Ammon.

Lunedì i primi due giovani richiedenti l'asilo arrivano a Windisch. Ne seguiranno presto altri, ha detto la responsabile dei servizi sociali. La Confederazione informa il Cantone sulle assegnazioni con un preavviso breve. Molti dei minori ospitati nei centri di accoglienza di Argovia provengono dall'Afghanistan, altri dalla Siria o dall'Iran.

I giovani sono seguiti da una squadra di 15 persone. Tra questi figurano consulenti e assistenti sociali. Sono a disposizione anche la sera e nei fine settimana. Durante la notte, i dipendenti di una società esterna sono presenti sul posto.

I giovani sono alloggiati principalmente in monolocali. Di norma, vivono in gruppi di due o tre. L'alloggio dispone di una cucina e di una zona pranzo in comune. Inoltre, sono presenti, tra le altre cose, una sala ricreativa e una sala studio con computer per i compiti scolastici.

Nei primi mesi, l'apprendimento del tedesco è la cosa più importante, dice Pia Maria Brugger. Dopo tre-sei mesi, i giovani frequentano la scuola dell'obbligo. Per i maggiori di 16 anni sono disponibili altri corsi, compresi gli apprendistati professionali, a seconda dei casi.

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Il Municipio di Windisch si comporterebbe di nuovo alla stessa maniera, afferma la sindaca Heidi Ammon. Dopo le polemiche, anche la collaborazione con il Cantone sta andando bene. Ora sembra che stia gestendo la questione dell'asilo con maggiore attenzione con i comuni.

Anche il responsabile dei servizi sociali Brugger ha tratto insegnamenti dal caso: il Cantone avrebbe dovuto cercare prima un contatto con i comuni prima. Inoltre, le case abitate non vengono più prese in considerazione come possibili alloggi per l'asilo.

Centro di accoglienza a Windisch

Paragonatevi con il resto della Svizzera

Buon profugo, profugo fasullo: la percezione mutevole della Svizzera

Non tutti gli esuli sono accolti con lo stesso calore o hanno gli stessi diritti. L'attitudine della Svizzera dipende spesso dal loro valore geopolitico, come dimostra uno sguardo al passato.

A molti l'attuale generosità nei confronti dei profughi ucraini ricorda il 1956. Quando all'epoca i panzer sovietici invasero l'Ungheria, la Svizzera fu attraversata da una grande ondata di solidarietà. Le campane suonarono e le persone osservarono minuti di silenzio, commosse dall'"incomparabile lotta per la libertà dell'eroico popolo ungherese".

I profughi dall'Ungheria furono accolti senza condizioni. "Il loro desiderio di venire in Svizzera è sufficiente", affermò allora il Consiglio federale. Gli ungheresi furono considerati collettivamente combattenti per la libertà contro il comunismo e ritenuti degni d'asilo, ottenendo il permesso di lavorare e di stabilirsi in Svizzera.

Accoglienza da una parte, xenofobia dall'altra

Già all'epoca questa disponibilità non valeva però per tutti. Chi non si prestava a essere indicato come esempio nella lotta contro il comunismo non aveva le stesse possibilità.

Negli anni Cinquanta gli esuli dall'Algeria, che fuggivano da un paese in procinto di liberarsi dal colonialismo, furono accolti malvolentieri e non fu riconosciuto loro lo statuto di rifugiati politici. La polizia degli stranieri li sospettava di essere degli "estremisti".

Anche gli ebrei che alla fine del 1956 decisero di fuggire in Svizzera approfittarono ben poco dello spirito di accoglienza che allignava nel paese. Nel novembre del 1956 Israele, la Francia e la Gran Bretagna occuparono la penisola del Sinai. Per tutta risposta, l'Egitto dichiarò gli ebrei egiziani nemici dello Stato "sionisti". Nel paese nordafricano si diffuse un clima da pogrom. Gli ebrei erano esposti a minacce e violenze, le loro aziende e i loro capitali furono confiscati.

La Svizzera li pregò tuttavia di lasciare al più presto il paese. Il loro soggiorno e la loro partenza dovettero essere finanziati dalle organizzazioni ebraiche, una prassi che la comunità ebraica in Svizzera aveva già conosciuto durante la Seconda guerra mondiale. Nella corrispondenza relativa a una famiglia che chiedeva di restare, il consigliere federale Friedrich Trautgott Wahlen scrisse di avere forti "timori per l'inforestierimento".

La politica della piccola scialuppa di salvataggio

La politica dell'asilo era del resto sempre dipesa da considerazioni diverse dalla semplice generosità. Nel XIX secolo la concessione dell'asilo e il rifiuto delle richieste di estradizione erano gesti con cui la Svizzera poteva dimostrare la sua sovranità nazionale. L'elenco degli intelletuali perseguitati accolti dalla Svizzera è lungo: Büchner, Bakunin, Lenin, Mazzini, gli anarchici, i dadaisti. "La Svizzera, luogo di rifugio degli esuli, questa è la nostra nobile tradizione", recitava con orgoglio una scritta esibita all'Esposizione nazionale del 1939.

Tre anni dopo, nel 1942, il capo del Dipartimento federale di giustizia e polizia, Edmund von Steiger, ridimensionò ampiamente in discorso la retorica della "terra d'asilo", definendo la Svizzera una "piccola scialuppa di salvataggio" che "non può prendere tutti a bordo". Le frontiere per gli ebrei in fuga furono chiuse, per migliaia di persone la misura si tradusse nella deportazione nei campi di sterminio.

Dal punto di vista delle autorità elvetiche non si trattava di rifugiati politici e quindi non avevano diritto d'asilo in Svizzera. L'asilo era concesso a chi subiva personalmente una persecuzione politica. La figura ideale era la combattente nelle file della resistenza, l'intellettuale dell'opposizione. Gli ebrei non erano perseguitati per ciò che avevano fatto, ma per ciò che erano.

Solo verso la fine della Seconda guerra mondiale la politica d'asilo della Svizzera diventò più liberale, per timore delle critiche delle potenze che si profilavano come vincitrici. Sopravvissuti alla Shoah furono accolti in modo dimostrativo, anche se solo temporaneamente. Nel 1947 fu creata per la prima volta la possibilità di un asilo duraturo. Nel 1951 la Svizzera aderì alla convenzione ONU sui rifugiati.

A metà degli anni Cinquanta il parlamento commissionò per la prima volta unio studio sulla politica verso i profughi durante la guerra. Carl Ludwig, professore di diritto penale all'università di Basilea giunse alla conclusione che "senza alcun dubbio" una "politica di accoglienza meno restrittiva avrebbe salvato innumerevoli perseguitati dallo sterminio."

Il rapporto Ludwig fu pubblicato proprio quando la Svizzera stava accogliendo migliaia di ungheresi. La generosità verso i profughi magiari appariva come la prova che la Svizzera era cambiata. Nel 1957 il Consiglio federale lodò la "politica d'asilo magnanima" e dichiarò la concessione dell'asilo una "massima del diritto nazionale".

Gli esuli dai paesi del socialismo reale poterono contare su questa liberalità. Dopo i tentennamenti della Seconda guerra mondiale, la Svizzera voleva ancorarsi saldamente al blocco occidentale e cercava quindi di prendere posizione nel modo più chiaro possibile.

Anche i profughi tibetani provenienti dalla lontana Repubblica popolare cinese, considerati "adatti dal punto di vista caratteriale alla convivenza con noi svizzeri", furono accolti generosamente all'inizio degli anni Sessanta. Lo stesso avvenne per chi fuggiva dalla Cecoslovacchia nel 1968. Non c'erano esami individuali, si riteneva che le persone provenienti da Stati comunisti si trovassero in una "situazione senza vie d'uscita a causa del regime".

Nel 1967 Hans Mumenthaler, capo della Sezione degli stranieri e della previdenza, giustificò tale politica in questi termini: "Pretendere da un richiedente l'asilo di dimostrare in modo credibile una persecuzione o una minaccia equivale a chiedergli di consegnare un pelo della barba del profeta. Non a torto si è detto che una simile prova potrebbe essere esibita solo se il richiedente l'asilo si trovasse già nelle mani degli sgherri."

La situazione di minaccia non era tuttavia riconosciuta così facilmente per tutti i regimi. I profughi che avevano un valore geopolitico per la posizione della Svizzera nel contesto della Guerra fredda godevano di un chiaro vantaggio. La scelta divenne evidente nel 1973, quando la giunta militare diretta da Augusto Pinochet andò al potere in Cile. Il Consiglio federale inizialmente non voleva accogliere nessun rifugiato. Solo le proteste delle organizzazioni d'asilo lo indussero a cambiare parzialmente posizione.

Fino agli anni Settanta, il diritto d'asilo era considerato una specie di "privilegio" di cui disponeva il Consiglio federale. La Svizzera introdusse soltanto nel 1979 una norma di legge che chiariva i presupposti che davano diritto a chiedere asilo. In teoria, la norma avrebbe dovuto ridurre i margini di arbitrio basati su considerazioni di ordine geopolitico.

Dopo il 1980 tuttavia, il numero di richiedenti l'asilo cominciò ad aumentare. La situazione globale era cambiata, gli esuli arrivavamo spesso da paesi che apparivano alleati nella lotta al comunismo. Nel 1980 vi fu un colpo di Stato in Turchia, i perseguitati erano migliaia, in particolare appartenenti alla minoranza curda. Molti di loro fuggirono in Svizzera. Nessuno parlava più di una "situazione senza vie d'uscita a causa del regime".

Così nella motivazione della risposta a una richiesta d'asilo di un curdo all'inizio degli anni Ottanta si legge: "Secondo quanto ha raccontato, è stato arrestato nel corso di una razzia militare insieme a molte altre persone nel suo villaggio […] Non si tratta di una misura statale mirata contro il richiedente. Per questo, conformemente alla nostra prassi, non è rilevante dal punto di vista del diritto d'asilo."

Mentre nei decenni precedenti ai profughi provenienti dai paesi comunisti era stato riconosciuto collettivamente un atteggiamento di opposizione al regime che dava diritto all'asilo, le persecuzioni di massa ormai non erano più considerate un valido motivo d'asilo. I "nuovi" profughi erano trattati con grande diffidenza.

Ciò dipendeva senza dubbio anche dal loro aspetto. I profughi dallo Sri Lanka, dove nel 1983 era scoppiata una guerra civile, furono il primo grande gruppo di persone di colore arrivate nella Svizzera tedesca. Alcuni esponenti politici li consideravano più stranieri di altri esuli. Il consigliere nazionale liberale-radicale Hans-Georg Lüchinger chiese, nel 1984, una politica più restrittiva nei loro confronti: "È discutibile che con l'attuale prassi di asilo si continui a favorire l'ingresso di tamil in Svizzera. Queste persone di origini asiatiche difficilmente si ambienteranno in Svizzera."

L'aumento delle richieste d'asilo negli anni Ottanta contribuì inoltre a diffondere l'immagine di un'ondata ininterrotta di persone da cui era necessario difendersi. La consigliera federale Elisabeth Kopp nel 1985 affermò per esempio che non si poteva "aprire senza limite le porte a tutti coloro che vengono da noi per motivi diversi dall'asilo." Negli anni Ottanta l'idea che i profughi volessero abusare dell'ospitalità svizzera divenne dominante. Le prime revisioni della legge sull'asilo, nel 1984 e nel 1988, inasprirono i criteri di ammissione.

Mentre gli esperti di migrazione parlavano in modo neutrale di "nuovi" profughi, i politici li suddividevano in "falsi e veri profughi". Nella parola "profughi economici" era riassunta la paura che le persone arrivassero in Europa occidentale non più per sfuggire alla persecuzione, ma a causa della povertà. Lo stigma colpiva anche persone che fuggivano da una guerra civile.

All'inizio degli anni Novanta l'Unione democratica di centro (UDC), partito della destra conservatrice, si appropriò con successo di questi concetti, rendendo popolare la nuova immagine dei profughi. Nelle sue campagne i rifugiati non erano più in primo luogo persone in cerca di protezione, ma farabutti che tentavano di ottenere con l'inganno la possibilità di vivere in Svizzera. Se durante la Guerra fredda l'immagine dei profughi corrispondeva a quella dei perseguitati dai regimi comunisti, nel 1989 la figura dell'"asilante" prese il posto dello spettro comunista. Nello stereotipo, i profughi apparivano come spacciatori e criminali dal coltello facile.

Dopo gli attentati del 9 settembre 2001 negli Stati Uniti, sarebbe stato senza dubbio possibile considerare i profughi dall'Afghanistan e dalla Siria alleati nella "guerra contro il terrore". Dopo tutto fuggivano dai talebani o dell'ISIS. Ma una simile solidarietà con gli esuli siriani in Svizzera non c'è stata.

La percezione dei rifugiati in Svizzera

Le persone rifugiate sono talvolta dimenticate sul mercato del lavoro

Molte persone rifugiate non trovano lavoro in Svizzera. Eppure, le loro competenze potrebbero essere utili per far fronte alla carenza di manodopera. La scarsa conoscenza dei propri diritti e le idee preconcette non giocano a loro favore.

In Benin, Judith Houetohossou ha fatto di tutto: parrucchiera, segretaria in un giornale locale, una formazione nel campo dell'informatica. Ha persino aperto un ristorante con la sorella. Rifugiata in Svizzera dal 2019, da quasi un anno si occupa delle pulizie presso il Centro ospedaliero di Bienne (Cantone di Berna).

"Pulisco principalmente le stanze dei e delle pazienti che lasciano l'ospedale", spiega la 45enne. Diverse volte alla settimana, aiuta anche a distribuire i pasti. Il ritmo è serrato, il tempo per ogni compito è limitato e non è raro che le giornate siano lunghe, ma Judith Houetohossou ha un sorriso contagioso.

Il lavoro spesso significa molto per chi ha lo statuto di persona rifugiata. Significa indipendenza finanziaria, ma è anche un modo per integrarsi nella società svizzera e comprenderne il funzionamento. "Mio marito è morto l'anno scorso. Qui non conoscevo nessuno. Al lavoro ho conosciuto gente, a volte ci incontriamo anche durante il fine settimana", racconta la donna.

La sua responsabile, Melissa Silva Melo, è felice della sua motivazione e del suo entusiasmo e non risparmia gli elogi. "Ha imparato tutto in due giorni, si è adattata molto rapidamente ed è affidabile e flessibile", dice. Data la carenza di personale, Melo apprezza la flessibilità delle sue dipendenti. "A volte devo chiedere a una collaboratrice in congedo di venire a darci una mano. Judith Houetohoussou è stata spesso di grande aiuto", afferma.

La Svizzera sta affrontando una carenza di manodopera senza precedenti, che dovrebbe accentuarsi nei prossimi anni. Alla fine dello scorso anno, più di 120'000 posti di lavoro erano vacanti, secondo i dati dell'Ufficio federale di statistica. Le difficoltà di reclutamento riguardano tutti i settori, ma quello sanitario è particolarmente colpito, con 17'600 posizioni non coperte alla fine di dicembre.

In questo contesto, le persone rifugiate rappresentano un prezioso bacino di manodopera. Anche perché il numero di migranti che arrivano in Svizzera è in forte aumento: nel 2022, sono state presentate in Svizzera 24'511 domande di asilo, il 64% in più rispetto all'anno precedente. La Confederazione e i Cantoni stimano che circa il 70% di queste persone potrebbe essere integrato in modo permanente nel mercato del lavoro. Tuttavia, questo potenziale non è ancora stato sfruttato appieno, poiché meno della metà delle persone rifugiate esercita un'attività remunerata.

>> Questo grafico mostra l'evoluzione del trattamento delle domande di asilo in Svizzera:

Il tasso di occupazione varia a seconda del permesso di soggiorno, come mostrano le statistiche della Segreteria di Stato della migrazione (SEM). Il 41,4% delle persone a cui è stato concesso l'asilo, e che quindi hanno ottenuto un permesso B per rifugiati, esercitano un'attività lucrativa. Le persone che non hanno diritto all'asilo, ma per le quali la Svizzera riconosce un bisogno di protezione, sono ammesse a titolo provvisorio (permesso F) e il 47,3% di loro lavora.

Le persone rifugiate in fuga dalla guerra in Ucraina sono una categoria a parte. Hanno ottenuto lo statuto di protezione S dall'inizio del conflitto e poco più del 10% di loro è riuscito a integrarsi nel mercato del lavoro, secondo gli ultimi dati pubblicati dalla SEM.

Queste tre categorie hanno un accesso illimitato al mercato del lavoro. Nel 2019, il Consiglio federale ha persino eliminato alcuni ostacoli amministrativi: ad esempio, non è più necessario richiedere l'autorizzazione per assumere persone con un permesso B o F. Il datore di lavoro deve semplicemente annunciare l'assunzione sul portale online EasyGov.swiss. "Per gli ucraini e le ucraine con un permesso S, è ancora necessario richiedere l'autorizzazione alle autorità cantonali, affinché possano verificare il rispetto delle condizioni di lavoro", spiega Sophie Malka, coordinatrice dell'associazione Vivre ensemble.

Da parte loro, le persone la cui domanda di asilo è in corso di esame (permesso N) hanno solo un accesso limitato al mercato del lavoro. Durante i primi tre mesi dalla presentazione della domanda non hanno il diritto di lavorare (un divieto che può essere esteso di altri tre mesi) e il loro impiego può essere limitato a determinati settori. Solo il 3,1% di loro lavora. Le persone la cui richiesta è stata respinta, perché oggetto di una decisione di rimpatrio o di non entrata in materia, non hanno invece il diritto di lavorare.

Ammissione temporanea, un ostacolo all'occupazione

Assumere una persona con un permesso per rifugiati B o F è teoricamente semplice. In pratica, però, per molte persone la ricerca di un lavoro è estremamente complicata. È quello che ha vissuto Fikadu*, un eritreo di 38 anni che vive a Ginevra.

Arrivato in Svizzera alla fine del 2014, è stato ammesso in via temporanea e ha ricevuto un permesso F, come la maggior parte dei suoi connazionali. "Con il permesso provvisorio, nessuno voleva assumermi. Mi sono stati offerti stage non retribuiti di tre o quattro mesi", afferma Fikadu. Senza un lavoro, dipendeva dall'assistenza sociale per vivere ed era costretto a soggiornare in un ostello per migranti. "Nel mio Paese, se non lavori, non vivi. Qui si vive comunque, ma è deprimente", dice.

Dopo anni di sforzi, Fikadu ha finalmente trovato un lavoro fisso come fattorino. Pochi mesi dopo, però, è stato licenziato. Questo primo contratto a tempo determinato gli ha comunque permesso di trasformare la sua ammissione temporanea in un permesso B per persone rifugiate. "In seguito, sono riuscito a trovare più facilmente un lavoro, in un'impresa di pulizie. Ho anche potuto trasferirmi in un piccolo appartamento", racconta.

Sewit Abadi, educatrice sociale, è responsabile dell'integrazione professionale presso l'associazione delle mediatrici interculturali di Ginevra. Ha accompagnato Fikadu e altre persone rifugiate nella ricerca di un lavoro. "Le persone ammesse a titolo provvisorio hanno un tasso di occupazione più alto rispetto a coloro che hanno ottenuto l'asilo, ma spesso ottengono contratti più precari. I datori di lavoro sono riluttanti ad accettare un permesso F perché credono che la persona tornerà nel proprio Paese", spiega Abadi. Ma non è così, visto che l'84% delle persone titolari di un permesso F ottiene un permesso di lunga durata e rimane in Svizzera in modo permanente.

Sebbene il permesso B per rifugiati non sia temporaneo, chi lo possiede a volte non riesce a trovare lavoro. È il caso di Berihu*, un rifugiato eritreo di 24 anni.

Il giovane è arrivato in Svizzera quando era ancora minorenne e ha terminato la scuola dell'obbligo a Ginevra. Ha poi conseguito un attestato federale di formazione professionale nel settore della vendita, una forma di apprendistato rivolta a giovani con competenze prevalentemente pratiche. "Sono tre anni che cerco lavoro, ma non riesco a trovarlo. Eppure, ho imparato in fretta il francese e ho fatto un corso di formazione. Ci dicono che dobbiamo lavorare, ma non funziona", deplora.

Anche per Sewit Abadi è difficile individuare il problema. "Si ha l'impressione che i giovani come Berihu stiano facendo tutto nel modo giusto, ma non riescono a trovare un lavoro fisso. Moralmente è difficile", dice. A suo avviso, è necessario adattare alcuni requisiti per migliorare la loro integrazione nel mercato del lavoro. "Per esempio, non dovrebbe essere necessario parlare perfettamente il francese per lavorare nel settore delle pulizie. La lingua si impara anche lavorando", sottolinea l'educatrice sociale.

Sophie Malka ritiene che sia del tutto realistico integrare il 70% delle persone rifugiate nel mercato del lavoro, come previsto dalla Confederazione. Il problema, secondo lei, risiede nella scarsa conoscenza dei diritti legati ai diversi statuti del sistema di asilo svizzero. "Bisogna continuare a sensibilizzare i datori di lavoro. È particolarmente importante ricordare loro che queste persone resteranno in Svizzera, dove hanno ottenuto protezione", afferma la coordinatrice di Vivre Ensemble.

"Spesso dimentichiamo che queste persone arrivano da noi con delle competenze."

Si tratta anche di combattere gli stereotipi. "Spesso dimentichiamo che queste persone arrivano da noi con delle competenze. Dietro l'etichetta di migrante, tutto viene cancellato", osserva.

Sophie Malka insiste anche sulla necessità di attivare immediatamente questo potenziale, offrendo misure di integrazione ai nuovi arrivati e alle nuove arrivate. "Più aspettiamo a farlo, più sarà difficile per queste persone accedere al mercato del lavoro, a causa della perdita di competenze, di fiducia in sé stesse o di conoscenze acquisite", afferma. Malka si rammarica anche del fatto che alle persone la cui domanda di asilo è in fase di valutazione (permesso N) sia vietato lavorare per i primi mesi e che non beneficino di reali misure di integrazione.

Anche l'economia svizzera promuove l'integrazione delle persone rifugiate nel mercato del lavoro. "Di fronte alla storica carenza di manodopera che stiamo affrontando, non possiamo fare a meno di questa risorsa", afferma Marco Taddei, responsabile romando dell'Unione svizzera degli imprenditori. Tuttavia, Taddei individua diversi ostacoli da superare: la mancanza di competenze linguistiche, le sfide culturali e le capacità professionali devono corrispondere alle aspettative dei datori e delle datrici di lavoro svizzeri.

A suo avviso, sarà difficile aumentare il tasso di occupabilità di questa categoria della popolazione. "Ho l'impressione che possiamo già essere soddisfatti dei risultati ottenuti. Le aziende fanno la loro parte ogniqualvolta è possibile. Ne vale la pena, perché si tratta di persone con una forte volontà", afferma.

Rifugiati e lavoro

"Rotte migratorie sempre più pericolose"

La portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni dell’ONU alla RSI: serve una risposta coordinata e globale per far fronte a una situazione molto difficile

L'afflusso di migranti attraverso la rotta del Mediterraneo centrale mette sotto pressione l'Europa, Svizzera compresa. Più di 100'000 persone sono sbarcate in Italia dall’inizio del 2023 e, durante i giorni di Ferragosto, è stata superata la soglia più alta dal 2017. Sei anni fa approdarono sulle coste della penisola 119'370 stranieri nell’intero arco dell’anno. Abbiamo fatto il punto della situazione con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, principale organizzazione intergovernativa in ambito migratorio fondata nel 1951, fa parte del Sistema delle Nazioni Unite.

"La situazione è molto difficile, soprattutto nel Mediterraneo centrale". Spiega alla RSI Safa Msehli, portavoce OIM: "Anche noi abbiamo notato un aumento degli arrivi in Europa, in particolare in Italia attraverso la rotta del Mediterraneo centrale. Abbiamo anche registrato un forte aumento dei decessi su questa particolare rotta, per esempio. Finora quest'anno abbiamo registrato 1'800 morti, un numero già molto più alto rispetto al totale dei decessi registrati nell'anno precedente".

Secondo l’OIM oggi la mancanza di rotte sicure poi provoca sempre più rischi. "Sì la mancanza di percorsi migratori sicuri e regolari spinge le persone a ricorrere ai servizi dei contrabbandieri", spiega Safa Msehli. "E purtroppo, molti di loro finiscono nelle mani dei trafficanti. Per questo è necessario ampliare i percorsi di migrazione sicuri, ma soprattutto ampliare l'inclusione o la migliore inclusione nel mercato del lavoro per gli immigrati a tutti i livelli di competenza, contribuendo così ad alleviare la pressione di queste rotte migratorie irregolari."

Pochi giorni fa oltre 60 migranti sono morti a largo delle coste dell’Isola di Capo Verde, nell’Atlantico a seguiti di un naufragio. Forse erano diretti verso le Isole Canarie, per loro la terra promessa. "Beh, questo dimostra il livello di disperazione che le persone stanno affrontando". Ci dice ancora la portavoce dell’OIM. "I migranti e i richiedenti asilo con cui parliamo ci dicono che stanno fuggendo da situazioni di disperazione, sia che si tratti di conflitti, disastri dovuti al cambiamento climatico, guerre, sia che stiano fuggendo da persecuzioni o semplicemente cercando una vita migliore, cercando un lavoro migliore e una vita migliore per le loro famiglie.

"È difficile fare ipotesi, ma è chiaro che quest'anno abbiamo assistito a un aumento delle partenze, soprattutto verso l'Europa e il Mediterraneo centrale", conclude Msehli. "Per questo è molto importante lavorare insieme a livello regionale ma anche internazionale per affrontare i fattori che spingono alla migrazione e le cause alla radice della migrazione irregolare in patria, oltre ad ampliare i percorsi regolari e la protezione nel mercato del lavoro".

I pericoli delle rotte migratorie

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In pochi anni, il Paese ha inasprito notevolmente la sua politica di asilo: negli ultimi due anni sono state approvate 42 leggi volte a limitare le condizioni di ingresso, l'asilo e la naturalizzazione e a facilitare le espulsioni

La Danimarca sta facendo tutto il possibile per dissuadere l'arrivo di migranti e rifugiati. La polizia può ora confiscare i beni e gli oggetti di valore di un richiedente all'ingresso, il ricongiungimento familiare è diventato molto complicato e, soprattutto, il diritto all'asilo non è definitivo. Viene rivalutato ogni uno o due anni.

"Siamo passati da un modello di aiuto umanitario a un modello di politica di asilo più severo. È una reputazione di cui la Danimarca potrebbe fare a meno", afferma Charlotte Slente, segretario generale del Consiglio danese per i rifugiati. "Dovremmo essere conosciuti per qualcosa di diverso da una politica di asilo così rigida", continua.

L'inasprimento di queste leggi pesa molto sui richiedenti asilo. La cosa più difficile, secondo Fatima, una marocchina giunta in Danimarca per il ricongiungimento familiare, è la costante rivalutazione dello statuto di rifugiato e il numero crescente di condizioni di ingresso. Ha trascorso 13 anni in vari centri di accoglienza e partenza prima di ottenere l'ammissione provvisoria. Sua figlia è nata in uno di questi centri.

"Odio questo sistema, perché non dà alle persone la possibilità di vivere la propria vita o di terminare gli studi", afferma. Secondo lei, i bambini "sviluppano disturbi mentali nei centri di accoglienza" e "si chiedono ogni giorno se la polizia li deporterà". "Nel mio caso, ci sono voluti 13 anni per decidere se deportarmi o meno", conclude la donna.

Questa politica di dissuasione funziona. Nel 2015, al culmine della crisi migratoria, sono state presentate 21'000 domande di asilo, contro le 4'600 dello scorso anno. A titolo di confronto, l'anno scorso in Svizzera sono state presentate 24'000 domande di asilo. Queste cifre non comprendono i rifugiati ucraini, che godono di uno statuto speciale in entrambi i Paesi.

"L'immigrazione eccessiva è diventata una sfida al nostro modello di società danese", afferma Kasper Sand Kjaer, portavoce del Governo danese per le questioni di asilo e immigrazione. "Se arrivano troppe persone con tradizioni, culture e valori diversi, questo mina il nostro stato sociale per tutti", continua il deputato socialdemocratico.

Paradossalmente, questa politica è stata attuata dal centro-sinistra. Le elezioni danesi del 2015 hanno rappresentato un importante punto di svolta, con l'estrema destra che si è piazzata seconda. La sua retorica anti-immigrazione ha fatto presa prima sulla destra e poi sui socialdemocratici.

Per Kasper Sand Kjaer, il centro-sinistra ha trascurato le questioni legate all'immigrazione. "È proprio a causa di questo dibattito che ci sono pochissimi Paesi europei con un centro-sinistra in posizione di forza", afferma. "Se non si vede che la globalizzazione ha questo lato oscuro e che è la classe operaia a pagarne il prezzo, si perde la propria essenza socialdemocratica".

Il centro-sinistra danese è riuscito in qualche modo a smorzare i toni del dibattito nazionale, con un ampio consenso all'interno della classe politica. Ma nei circoli di difesa dei rifugiati si sentono voci molto più critiche. "C'è qualcosa che si chiama nazionalsocialismo e mi ricorda questo", dice Nynne Roberta Pedersen, direttrice di Trampolin Huset, un'associazione che offre consulenza legale e uno spazio di dialogo per i richiedenti asilo.

Sostiene che la Danimarca è "uno Stato sociale, ma per una sola categoria di persone". Denunciando la politica migratoria del governo di centro-sinistra, ritiene che "la destra liberale sia quasi più aperta ai rifugiati".

Slente sottolinea che "circa il 75% dei rifugiati nel mondo sono ospitati da Paesi vicini a quelli da cui fuggono, e si tratta di Paesi a basso e medio reddito". "Nella retorica politica attuale, in Danimarca e in tutta Europa, c'è la sensazione che abbiamo un problema di rifugiati. No, sono i rifugiati ad avere un problema perché devono fuggire da un Paese in conflitto", continua.

Alcuni leader europei di destra ed estrema destra cercano ora di ispirarsi al modello danese. Ma potrebbe essere difficile trasformarla in una politica a livello europeo, soprattutto perché "se tutti fanno lo stesso, l'effetto deterrente non funzionerà più".

Secondo Thomas Gammeltoft-Hansen, professore di diritto dei rifugiati e dei migranti all'Università di Copenaghen, "il modello funziona per la Danimarca, perché abbiamo sempre cercato di essere più restrittivi degli altri Paesi che ci circondano e di costruire un'immagine negativa del nostro Paese. Di conseguenza, i richiedenti asilo scelgono altri Paesi europei".

Tuttavia, la Danimarca vuole andare oltre nella sua politica di restrizione dell'immigrazione. Seguendo l'esempio del Regno Unito, si sta valutando di esternalizzare le richieste di asilo ad altri Paesi, come il Ruanda.

Per il momento, queste misure sono ostacolate dal diritto internazionale, ma per Thomas Gammeltoft Hansen è stato infranto un tabù. "Nel contesto europeo, abbiamo leggi e convenzioni sui diritti umani che stabiliscono standard elevati", spiega. "Dobbiamo chiederci se un Paese come il Ruanda sia in grado di rispettarli. Ma ciò che è cambiato è che non ci asteniamo più dal pensare a tali misure", continua.

Oggi il centro-sinistra sta adottando una linea più dura in materia di asilo e immigrazione, ma a lungo termine ciò potrebbe avere ripercussioni sull'economia danese che, come il resto d'Europa, soffre di una carenza di manodopera in alcuni settori.

La politica d'asilo in Danimarca

Il Paese vanta una tradizione umanitaria e tratta un numero relativamente alto di richieste rispetto ad altri Stati europei, ma non mancano le critiche

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