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Designers for Bergamo Un tributo alla città attraverso immagini e interviste ai grandi protagonisti di DimoreDesign

Puntata 30

ALESSANDRA BALDERESCHI INCONTRA PALAZZO AGLIARDI

ALESSANDRA BALDERESCHI

Mi piace sollecitare sensazioni e relazioni sorprendenti

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio

Giacinto Di Pietrantonio: Nel suo libro “Infanzia e storia” il filosofo Giorgio Agamben definisce l’infanzia come luogo dell’esperienza originaria, traccia del noi che ritroviamo nel nostro linguaggio. La tua lingua è quella del design. In che modo la tua infanzia ha lasciato traccia nel tuo progettare?

Alessandra Baldereschi: Nasco a Milano in una famiglia che si trasferisce nella campagna astigiana quando avevo 10 anni. Cresco in campagna, a Vinchio d’Asti, fino a 24 - 25 anni allorché decido di tornare a Milano per studiare alla Domus Academy.

G.D.P.: È da questa vita in campagna che nasce il tuo amore per la natura?

A.B.: Sì, per questo ringrazio i miei genitori! Perché è stato bellissimo crescere in campagna, all’aperto fino ai 24 anni, quando ho detto: “Basta questo luogo di clausura! Voglio andare a studiare alla Domus Academy...” [ride]

G.D.P.: Quando eri a Vinchio dove studiavi, ad Asti?

A.B.: Sì, all’Istituto d’Arte e poi a Torino, dove ho frequentato l’Accademia di Belle Arti, senza mai finirla, né tantomeno iscrivermi. Seguivo alcune lezioni come quelle di Storia dell’Arte di Guido Curto, e avevo tanti amici in Accademia.

G.D.P.: Oltre a frequentare un po’ l’Accademia facevi dei lavori d’arte?

A.B.: Mi piaceva molto la ceramica fin da piccola e già da allora avevo frequentato un corso. Mi piaceva modellare, usare le mani e per i 18 anni chiesi ai miei genitori che mi regalassero un forno grande per la cottura della ceramica. Così mi affrancavo dall’andare fino ad Asti a cuocere le ceramiche verso terzi, andando fino ad Asti. Facevo delle sculture di ceramica, ma con aspetti funzionali, sculture luminose che vendevo allo Studio Meta di Milano che teneva anche cose di Ayala Serfaty, e altri. Alcuni amici dell’Accademia mi dissero: “Ma se ti piace così tanto il mondo degli oggetti, perché non studi design? Conosci le aziende, perché non provi?” Era il 2000 e decisi di iscrivermi ad una scuola di design. Chiesi ai miei genitori di regalarmi l’iscrizione alla Domus Academy che tra tutte le mi sembrava la più interessante. Ricordo che anche tu vi tenevi dei seminari: ci portasti artisti come Sislej Xhafa, Margherita Manzelli e antropologi come Franco La Cecla, persone molto interessanti.

G.D.P: Mai investimento filiale fu così azzeccato?

A.B.: Sì, infatti gliel’ho detto più volte. Comunque la ceramica continuava ad essere il mio portafortuna, perché la Domus Academy aveva fatto un gemellaggio con la prefettura di Gifu in Giappone, molto nota per la ceramica. Dato questo mio interesse i professori mi proposero di andare a Gifu. Vi rimasi quattro mesi, senza capire niente, perché parlavano solo giapponese, comunicavo con loro a gesti. Lavorai con un paio di aziende. Con una ho sviluppato delle ciotole per il riso e con l’altra delle lampade che non mi hanno prodotto, perché erano lampade da muro e loro tendono a non attaccare cose alle pareti. Per cui mi porto il prototipo in Italia e la faccio vedere all’azienda italiana Fabbian Illuminazione, che la mette in produzione. È una sottile lastra di ceramica bianca che soltanto quando l’accendi vede formarsi un paralume di luce sulla sua superficie.

G.D.P.: Hai un approccio tautologico, la lampada a forma di lampada, il vaso acquario a forma di pesce che mangia il pesce, il portafrutta a forma di frutta, pera, mela, ...

A.B.: Mi piace lavorare con i simboli, perché l’identificazione è più forte. Sono sempre alla ricerca di icone che abbiamo nella memoria comune. Nel pesce che mangia il pesce non faccio nessun riferimento a Moby Dick, a Pinocchio, a Giona e la balena, però li racchiude tutti.

Sono convinta che quando ti identifichi con l’oggetto lo senti più tuo e quindi lo vuoi avere. Quindi, a volte, ricerco icone che fanno parte della memoria comune, per questo mi ispiro alle favole.

Tutti siamo stati bimbi. Ho infatti tanti testi di psicologia infantile tra cui alcuni di Jean Piaget. Ad esempio il lavoro di Centro Studi Alessi, fatto nel 1990, relativo all’oggetto feticcio è ancora valido oggi.

G.D.P.: Allora era anche uno dei temi privilegiati trattati alla Domus Academy?

A.B.: Infatti, lo lanciasti tu insieme a Dante Donegani, allora Direttore della Domus. Il tema dell’affettività degli oggetti fu perseguito da tante aziende tra cui Alessi che lavorò su questo argomento perché che ti rimanda a ciò che conosci. Ad esempio: per la mia collezione Fil de fer, una serie di sedute per esterno, ho lavorato con il filo di ferro intrecciato in modo da evocare la tecnica settecentesca del capitonné che tutti riconosciamo. Allora: un po' perché te lo ricordi, un po' perché ti appartiene, un po' perché racconta una storia, entri subito in contatto con un pezzo così.

G.D.P.: Perché è un oggetto narrativo, come la maggior parte delle cose che fai.

A.B.: Sì, l’oggetto narrante contiene tutto in sé, non ti deve essere spiegato, altrimenti non funziona. Sono immagini banali che abbiamo tutti in mente e spesso mi chiedo: “Ma qualcuno l’avrà già fatto?

G.D.P.: Ciò che fai è sempre molto legato al rapporto con il desiderio, non con la ragione, non al “Penso, dunque sono” cartesiano, ma al “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce” di Pascal?

A.B.: Esatto, appartiene al tempo che viviamo, perché se fossi nata negli anni sessanta sarei stata costretta ad affidarmi più ad un discorso funzionalista, anche se ci sono stati movimenti come i Radicali che contestavano il funzionalismo. Oggi siamo sopraffatti dagli oggetti. Non serve una nuova sedia a meno che non dica qualcosa di nuovo, o non sia veramente emozionante come dice Arturo Dell’Acqua Bellavitis.

G.D.P.: A questo punto non posso esimermi di chiederti che cosa significa e che ruolo ha la decorazione per te, visto che molto precocemente l’hai rimessa in circolo nel design?

A.B.: Per formazione e attitudine ho un punto di vista sugli oggetti più emotivo che razionale. Pertanto mi colpiscono gli oggetti capaci di entrare in contatto con la mia parte sensibile. Ogni volta che affronto un nuovo progetto, oltre alla funzione dell’oggetto, cerco di rendere visibile anche la parte emotiva.

La decorazione mi aiuta in questo senso, mi aiuta a creare empatia, potenzia l’identità. Inoltre quasi sempre la decorazione richiede l’intervento manuale che rende l’oggetto più vicino ad un manufatto artistico, ad una scultura perché unico. Un oggetto realizzato manualmente, anche se solo in parte, si connota subito di un’anima, si scalda e diviene più umano.

G.D.P.: Cosa hai presentato al Salone del Mobile o al Fuori Salone?

A.B.: Il tappeto Tiepolo è un tappeto su cui è riprodotto un affresco di un soffitto di Tiepolo.

Mi interessava rovesciare il mondo, portare il soffitto al pavimento, il cielo in terra. È un’idea semplice come quella di trasportare qualcosa che viene guardata dal basso verso l’alto all’essere guardato dall’alto verso il basso. C’è pure il gusto di poter calpestare un dipinto così importante.

Ho realizzato e presentato tre tappeti diversi prodotti da tre aziende diverse con tre tecniche differenti: stampa digitale ad alta risoluzione su lana, tecnica dell’annodatura a mano su telaio o taftato e annodatura meccanica, ampliando la mia esperienza della lavorazione dei tappeti.

Ho anche disegnato una collezione di nuovi sgabelli e il punto vendita per Le Bebé, che era già stato prodotto, ma hanno colto l’occasione del Salone per presentarlo meglio.

G.D.P.: Si tratta di...

A.B.: È un’azienda che fa prodotti per bambini per il quale ho disegnato lo showroom. Era la prima volta che mi cimentavo con la progettazione di un interno.

G.D.P.: Per questo ti sei ispirata a...

A.B.: Al mondo dei bambini, lampade a forma di palloncini, al mondo delle favole. Per cui ho fatto paraventi a forma di alberi, mobili che contengono personaggi, colori tenui. Alla fine è venuto un ambiente soave e funzionale che piace.

G.D.P.: Come si è evoluto il tuo lavoro? Progetti solo cose tue oppure hai qualche direzione artistica di aziende?

A.B.: Dal mese di settembre mi occupo della direzione artistica di una nota azienda italiana del regalo.

D.P.: Cosa fai per loro?

A.B.: È un marchio importante con molti punti vendita, per questo sto scoprendo molte cose nuove come quello dei grandi numeri di un’azienda e l’esperienza di grandi produzioni. Un ruolo diverso che richiede di seguire molti progetti contemporaneamente e coordinare un team numeroso. Ti rendi conto del lavoro che sta dietro ogni oggetto e dell’impegno di tante persone per realizzarlo.

G.D.P.: Avevi già lavorato con aziende dai grandi numeri come la Swatch.

A.B.: Si, per la Swatch bijoux, una delle prime aziende con cui ho lavorato tornata dal Giappone.

G.D.P.: Come e perché, giovanissima, sei stata o entrata in contatto con un’azienda come la Swatch?

A.B.: Perché in Giappone avevo fatto degli esperimenti con le plastiche e come queste reagiscono con il corpo. Ad esempio ci sono plastiche che a contatto con il corpo cambiano colore, altre sui cui compaiono disegni. Le avevo portate a vedere al direttore commerciale della Swatch che mi aveva dato appuntamento in casa madre a Basilea, dove andai a presentarle. Allora c’era Arlette-Elsa Emch che seguiva il dipartimento bijoux a cui piacque. Mi propose di sviluppare insieme una collezione di bijoux. Avevo disegnato degli accessori floreali con la gomma e degli elementi naturali. Da qui uscirono degli oggetti, gioielli ispirati a quello che avevo disegnato. A quel punto avevo attivato la collaborazione con la Fabbian per la lampada con cui partecipai al Salone Satellite che da lì mi chiese di disegnare altre lampade, come quella con i bicchieri che è ancora in catalogo, un bestseller dal 2005. Con loro ho fatto tante altre lampade, mentre ho lasciato il mondo dei bijoux con la Swatch, perché è un tema che mi interessa un po’ meno.

G.D.P.: Il Salone o i saloni in tutte le sue forme: del Mobile, Satellite, Fuori. Mondo di opportunità?

A.B.: Ti danno modo di presentare i tuoi progetti e di conoscere le aziende con cui poi, magari, lavorerai. È un luogo che all’inizio della carriera ti aiuta ad entrare nel sistema dove puoi incontrare alcuni dei protagonisti del design.

G.D.P.: Come vedete Ikea voi designer?

A.B.: Li guardo con ammirazione per certe soluzioni tecniche unite al prezzo che riescono a raggiungere, anche se a volte ti danno una qualità non accettabile. Comunque anche loro stanno cercando di prendere altre fasce di mercato con la collezione limitata PS.

G.D.P.: Ci lavoreresti?

A.B.: Perché no, sarebbe un’esperienza interessante da milioni di pezzi.

G.D.P.: Che priorità ha il costo per te, nel tuo modo di progettare?

A.B.: Al contrario del passato oggi per me il prezzo è prioritario. Una logica completamente rovesciata da cui oggi parto per dare sapore.

G.D.P.: E la tua collaborazione con Seletti, come avviene il contatto?

A.B.: Mi chiamò Stefano Seletti nel 2008 dopo aver visto alcune mie cose prodotte da Skitch come ad esempio il Giona e tante altre. Gli chiesi un po' la storia. Mi raccontò che l’azienda fu fondata dal padre all’inizio degli anni 60, vero pioniere dell’importazione con l’est del mondo. Negli anni successivi, con l’ingresso dei figli, in particolare Stefano, l’azienda prende un’altra direzione e inizia a creare su proprio disegno oggetti par la casa con un’identità forte e originale.

G.D.P.: E cosa hai sviluppato per loro?

A.B.: Diversi progetti, ad esempio Florigraphie, dei sottopentola, rielaborati a partire da loro vecchi cataloghi di cose importate al tempo di suo papà. Da lì ho scelto alcuni prodotti e li ho ridisegnati, tipo: dondolo, sottopentole, il paravento a forma di foglie Boschetto che ha venduto molto bene.

G.D.P.: Sapresti dare una definizione di design oggi?

A.B.: Difficilissimo definirlo. Se vai su Instagram vedi che tutti si definiscono designer, anche chi fa cose che non c’entrano nulla con il design. Oggi chiunque costruisce qualcosa sembra essere designer. Una cosa che è cambiata tanto da quando ho iniziato è il luogo di produzione. Una volta c’erano le aziende qui intorno in cui entravi, parlavi con il proprietario, con gli operai per proporre, sviluppare e realizzare un oggetto. Oggi per incontrare le produzione, spesso devi fare lunghi viaggi in giro per il mondo.

G.D.P.: Qual è la differenza tra lavorare con un’azienda italiana e una cinese?

A.B.: Noi ricerchiamo la qualità e il dettaglio. Se qui vado da un artigiano e gli chiedo delle lavorazioni particolari, ti segue e sposa anche l’idea, lo fanno come se lo facessi tu. In Cina, no, lì è tutto in divenire, stanno ancora imparando a fare bene e i dettagli non sono una priorità, devi chiudere un occhio e accettare molti più compromessi. Stanno migliorando, gli stiamo insegnando, anche se ci vorrà ancora tempo.

G.D.P.: Ci sono ancora aziende che producono qui?

A.B.: Qualcuna c’è, ad esempio MOGG, con cui ho realizzato diversi progetti tra i quali i tappeti presentati durante l’ultimo Salone del mobile, produce ancora tutto in Brianza, o al massimo in Europa.

La cosa che mi fa più felice è andare dal fornitore, perché lavorando con gli artigiani impari sempre molto.

G.D.P.: Tuttavia hai un forte amore per i materiali che nasce da?

A.B.: Una suggestione a cui cerco di rimanere fedele, nonostante si viene tirati da tutte le parti: fornitori, produttori, venditori, e anche se mi piace esplorare nuove tecniche non parto dai materiali, ma sempre dalle idee.

G.D.P.: Natura ed ecologia, oggi in voga, hanno sempre caratterizzato il tuo lavoro.

A.B.: Cerco di fare opere che indicano il preservare della natura come le poltrone muschio, i paraventi boschi. L’ecologia è anche connessa alla crisi, perché quando non c’era la crisi si utilizzavano gli stampi di plastica che costano tantissimo, centinaia di migliaia di euro. Con la crisi sostenere questi costi non era più possibile e quindi si sono dovute cercare altre soluzioni. Tuttavia, cerco di scegliere di non lavorare con acrilico o materiali plastici ove possibile.

G.D.P.: L’arte che posto occupa nel tuo lavoro?

A.B.: La guardo come ispirazione. Ad esempio l’opera di Tino Sehgal.

G.D.P.: In che senso, visto che le sue opere sono performance?

A.B.: Nel senso che i miei oggetti sono performativi, in quanto comunicano qualcosa. Vedendo le sue performance è come una seduta psicologica in tempo breve. In mezz’ora ho provato paura, tristezza, gioia.

G.D.P.: Passando a quanto presentasti a Bergamo a Palazzo Agliardi, ricordo molto bene il tappeto Noon per MOGG. Un tappeto nero su cui è stampata la proiezione di luce della finestra.

A.B.: L’ispirazione era simulare il passaggio della luce dalla finestra.

G.D.P.: Qui entriamo anche nel rapporto con il passato con cui viene chiesto di interagire nel caso di DimoreDesign.

A.B.: Ho un forte rapporto con il passato. Mi confronto molto con esso quando lavoro, progetto. Parto sempre dal guardare i tanti cataloghi di antiquariato che posseggo. Poi frequento molto i mercatini di antiquariato. Sono cresciuta in un ambiente in cui convivevano antico e moderno, dato che mia madre è un’appassionata di arredamenti contrastanti. Quindi, il rapporto con il passato c’è, anche se non è mai una semplice rivisitazione. È bello prendere alcune cose dal passato portarle nel contemporaneo e rivoluzionarle. Il passato è sempre fonte di insegnamento anche per come venivano fatte tecnicamente le cose.

Nel caso di Palazzo Agliardi mi è piaciuto molto, perché ho selezionato sei oggetti sia da interno che da esterno che allo stesso tempo si integrano con l’ambiente distinguendosi allo stesso tempo.

G.D.P.: In che modo?

A.B.: Il tappeto Noon era nella sala centrale di fronte ad una porta-finestra con cui dialogava, pur essendo tutto nero in un contesto di legno e dorature. Anche apparecchiare la tavola con tutte le mie tartarughe di vetro per ogni posto tavola era una cosa buffa, ma ci stava tra le posate d’argento, i piatti del settecento, i bicchieri di cristallo antichi. Ho cercato di amalgamare le cose per mimetismo.

Nella sala dello scrittoio avevo messo le sedie impagliate prodotte da Fermob, ispirate a Van Gogh. Come vedi il riferimento all’arte torna sempre.

BIO

ALESSANDRA BALDERESCHI (1975) nasce a Milano. Dopo una formazione artistica, nel 2000 consegue il master in Industrial Design alla Domus Academy di Milano. Nel 2001 ottiene una residenza-studio in Giappone dove sviluppa progetti per la tavola in ceramica con aziende del distretto di Gifu. Al rientro in Italia inizia a collaborare con aziende quali Swatch Bijoux, Fabbian Illuminazione, Moss NY, Dilmos, De Vecchi, Chimento, Coin Casa Design, Seletti, Skitsch e altri marchi, realizzando progetti di illuminazione e arredo.

La sua serie sperimentale “Bosco”, sedute e tappeti realizzati con foglie e muschi naturali, appartiene alla collezione Dilmos Edizioni. Tra le sue esposizioni: la Biennale di Saint Etienne, Inside Design Amsterdam, il Design Festival di Seoul e la galleria di Moss a New York. Nel 2007 la poltrona “Soufflè” è stata selezionata per "Milano Made in Design" a Pechino e Shangai e nel 2009 Li Edelkoort sceglie le sue collezioni per la mostra GLASS al museo DesignHuis di Eindhoven. Nel 2010 è nominata tra i dieci migliori designer della nuova generazione da AD Spagna. Attualmente lo Studio di Alessandra lavora per diversi marchi del settore design.

www.alessandrabaldereschi.com

PALAZZO AGLIARDI

Palazzo Agliardi racchiude 500 anni di storia della città e non solo di Bergamo: l’intreccio di vicende familiari, dinastiche, imprenditoriali, artistiche e militari che questo edificio racconta e testimonia è arricchito da grandi nomi ed eventi storici che vanno oltre le mura di Bergamo e segnano da un lato la storia d’Italia e dall’altro la storia dell’arte.

Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio | Testi a cura di Leone Belotti | Fotografie: Ph. dell'installazione a Palazzo Agliardi © Ezio Manciucca – Ph. Lampada Abat Jour, Tavoli e Sedie Fil de Fer (Seletti), Tappeto Tiepolo, Sgabelli e punto vendita (Le Bebè), Vaso Giona (Skitsch), Woodland (Seletti), Florigraphie (Seletti) © Antonio Di Canito | Editing di Roberta Facheris