«La montagna madre sarà un brand  per tutto l’Abruzzo» 

Il presidente del Parco nazionale della Maiella: «Essere patrimonio Unesco porterà ricchezza» 

PESCARA. La Maiella, montagna madre nell’immaginario degli abruzzesi, un modello di «difesa dinamica» del territorio, un libro aperto sulle ére più remote, un laboratorio per guardare in modo nuovo all’ecosistema mare – città – montagna. Nella profonda consapevolezza di questo da parte della popolazione e delle amministrazioni locali, trova fondamento il via libera al riconoscimento della Maiella quale patrimonio Unesco, dichiarazione che attende l’ufficialità per fine marzo 2021.
In corsa per lo stesso titolo è anche il Parco dell’Aspromonte, nell’Appennino calabro. Ma quello che fa (e farà) la differenza è che l’imponente massiccio calcareo della Maiella rappresenta un caso unico in tutta la catena appenninica: «Nel bacino mediterraneo è il sito dove la presenza dell’uomo è ininterrotta dalla profonda preistoria a oggi: la visita continua da parte di geologi e studiosi della commissione internazionale per i geoparchi è la conferma che il bene esiste ed è in buone mani». Lo racconta con entusiasmo in questa intervista il presidente del Parco nazionale della Maiella Lucio Zazzara, originario di Torre de’ Passeri, docente di urbanistica alla facoltà di architettura di Pescara.
Professor Zazzara, in parole semplici cosa significa geoparco Unesco e come ci si arriva?
La dichiarazione quale Patrimonio dell’Unesco è un riconoscimento molto prestigioso perché l’Onu ne certifica l’unicità e i pregi universali. Nel caso dei Geoparchi (attualmente 161 nella rete mondiale di cui 9 in Italia, ndr) si dichiara il particolare interesse della materia geologica che caratterizza il sito. Nelle viscere del massiccio sono custodite – e continuamente rivelate – infinite informazioni sull’evoluzione della natura, le condizioni di vita sulla Terra e l’evoluzione umana stessa. Non solo. Affinché venga fatta la dichiarazione da parte dell’Unesco l’organizzazione mondiale deve accertare che esista consapevolezza di tale interesse nella popolazione e nelle amministrazioni locali e che a tutti i livelli si concorra alla conservazione del bene e alla sua continua conoscenza con azioni adeguate.
Qual è la portata del brand Unesco? Quale sarà in concreto il ritorno per l’Abruzzo?
Il riconoscimento accende una luce ulteriore e molto forte sul bene, proponendone i pregi a livello mondiale e moltiplicando la sua capacità attrattiva in termini scientifici, culturali e turistici. I beni dichiarati patrimonio dell’umanità divengono inevitabilmente motori di sviluppo locale. L’Abruzzo tutto ne potrà beneficiare per il fatto di essere una regione davvero unica per la sua ricchezza naturale associata a quella storica e monumentale.
Oltre un terzo del territorio abruzzese è già stato dichiarato d’interesse ambientale straordinario e protetto da parchi e riserve. Cosa cambierà ora?
Il riconoscimento investe anche la costa e le valli. Dobbiamo imparare a ragionare in termini sistemici integrati e compatibili: natura, storia, cultura, sapori. Questa sarà sempre più la nostra ricchezza. Nell’immaginario degli abruzzesi, più che mai nell’emergenza pandemica, il parco è percepito come luogo della salute e della salvezza che si integra perfettamente con la realtà metropolitana, luoghi meravigliosi e incontaminati raggiungibili in mezz’ora di auto. I numeri dell’estate post lockdown appena trascorsa sono eloquenti: nella Valle dell’Orfento, principale accesso al Parco, da poco meno di 2mila turisti dell’anno precedente si sono registrati 11mila accessi, diventati 30mila ad agosto. Sono convinto che si tratti di una modificazione definitiva nella percezione collettiva, vuol dire anche che il territorio del Parco è parte dell’idea di città che si sta consolidando, che i territori di grande pregio ambientale e protetti non sono più visti come separati dal luogo dell’abitare ma ne fanno parte e li rendono migliori, più vivibili. Il parco può essere la parte di una grande città diffusa, in cui si elaborano e si sperimentano nuovi modelli insediativi caratterizzati dalla loro assoluta sostenibilità.
Occorrono più servizi e infrastrutture, potenziare la viabilità, colmare il digital divide. Dall’altra, salvaguardare il lupo, l’orso, il camoscio, il pino mugo, la stella alpina, le orchidee spontanee, gli eremi celestiniani. Come si affronta la sfida del green deal?
Ci troviamo in un momento di forte rinnovamento e di particolare attenzione da parte degli organi di governo, soprattutto a livello statale e regionale. Oggi si assume come asse dello sviluppo il cosiddetto new green deal e nei programmi dello Stato quella che viene definita la rivoluzione verde è considerata una priorità da sostenere con la fetta più consistente delle somme del recovery plan. Esattamente un anno fa il territorio dei parchi nazionali è stato interessato dall’istituzione delle Zea, zone economiche ambientali, e questo rimane una dichiarazione di privilegio, un veicolo di politiche di sostegno alle imprese e alle popolazioni».